Opera Omnia Luigi Einaudi

Della moneta «serbatoio di valori» e di altri problemi monetari

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/06/1939

Della moneta «serbatoio di valori» e di altri problemi monetari

«Rivista di storia economica», IV, n. 2, giugno 1939, pp. 133-166

 

 

 

Arthur W. Marget, The Theory of Prices. A Re – Examination of the Central Problems of Monetary Theory. Primo vol. New-York, Prentice Hall, Inc. 1938. Un vol. in ottavo di pp. XXV – 624. Prezzo 6 dollari.

 

 

John Maynard Keynes, The General Theory of Employment Interest and Prices. London, Macmillan and Co. 1936. Un vol. in ottavo di pp. XII-403. Prezzo 5 scellini net.

 

 

Charles Rist, Histoire des doctrines relatives au credit et à la monnaie depuis John Law jusqu’à nos jours. Paris, Librairie du Recueil Sirey 1938. Un vol. in ottavo di pp. 475. Prezzo franchi 90.

 

 

1. – Le maggiori riviste economiche hanno tributato all’autore dell’insigne volume su The Theory of Prices l’amplissima lode dovutagli per la dottrina e la penetrazione che in esso sono largamente profuse.

 

 

Nella forma, le 600 pagine di Marget sono tutte, da capo a fondo, una polemica contro un altro grande polemista, J. M. Keynes, partito in guerra, prima con la «Treatise on Money» e poi con la «The General Theory of Employment Interest and Money», contro le tradizioni ricevute delle teorie monetarie classiche.

 

 

L’assalto brillantissimo di Keynes aveva avuto eco incredibilmente vasta e rapida nel mondo degli studiosi; tanto vasta e rapida che nelle grandi riviste economiche l’ignoranza od il non uso delle particolari terminologie e premesse keynesiane era divenuto quasi marchio di inferiorità. Viene ora Marget e scaraventa 600 pagine contro Keynes; né la catapulta ha esaurito l’impeto suo, ché l’autore sta elaborando e presto pubblicherà un secondo volume, di uguale mole, nel quale saranno criticamente studiate le peculiari dottrine keynesiane intorno al risparmio ed all’investimento in relazione ai prezzi, al moltiplicatore, alla preferenza per la liquidità e al cosidetto metodo delle previsioni.

 

 

I recensenti, i quali affrontarono il compito di scrivere intorno ad un saggio così singolare di polemica hanno per lo più manifestato l’impressione che l’opera sarebbe riuscita più chiara, snella, ordinata e persuasiva se l’autore non si fosse servito di Keynes come di un attaccapanni ed avesse costruito teoria monetaria per conto suo, senza attardarsi oltre misura intorno a quel che altri disse. Rassegnatamente, io dico: non possederemmo oggi il libro capitale di Marget se questi non avesse potuto impostarlo polemicamente. I libri che restano, almeno in economia, non possono essere scritti a sangue freddo, allo scopo di dettare un trattato chiaro ed ordinato. Così si scrivono i libri scolastici ed i titoli concorsuali, nei quali si ha l’ambizione di “esaurire” il problema, di tener conto di “tutta la letteratura” in argomento, e, citando tutti, dare ad ognuno il dovuto luogo gerarchico, secondo l’ordine delle precedenze accademiche. Così si scrivono i soliti libri illeggibili. Gli altri libri, quelli che fanno pensare e suscitano discussioni, sono scritti per comando interno, perché l’autore, animato da fuoco sacro, ha bisogno di dir qualcosa. Ed allora, al diavolo la ricerca esauriente, la letteratura moderna, la scrittura redatta secondo i sacri canoni!

 

 

2. – Marget, si vede, scrisse il suo libro animato da sacro fuoco. Egli non è indignato contro le teorie monetarie di Keynes, delle quali anzi accuratamente mette in luce l’apporto nuovo alla conoscenza del vero.

 

 

L’animo gli ribolle dentro, invece, nel vedere come Keynes, nell’intento, consapevole o inavvertito, di mettere in luce la novità della propria dottrina, non si periti di ignorare o svisare o male riprodurre le dottrine altrui, creando fantocci, mai esistiti, di dottrine tradizionali allo scopo di abbatterli più facilmente.

 

 

Mac Culloch aveva scritto in The Literature of Political Economy e Marget riproduce, in epigrafe al suo volume:

 

 

«Lo scrittore od oratore il quale intraprenda a chiarire principii, ad esporli in luce nuova o più illuminante ovvero ad inculcarne l’applicazione, dovrebbe conoscere quel che prima è stato intrapreso, quel che è stato compiuto e quel che rimane da scoprire e chiarire. Esempi molteplici sono forniti nel mio volume degli inconvenienti, i quali nascono dalla mancanza di siffatta notizia. Si veggono uomini valorosi occupati nell’investigare principii e perfezionare canoni da tempo posti e chiariti ovvero nel proporre, quasi fossero originali, teorie da lunghi anni note» (pp. VI-VII).

 

 

Cairnes aveva soggiunto, nel saggio su Mr. Comte and Political Economy e Marget riporta del pari, a proposito dell’avanzamento della scienza economica:

 

 

«Oso affermare che difficilmente può riscontrarsi, persino nella storia delle scoperte fisiche, esempio più rimarchevole di continuità nelle dottrine, di progressivo sviluppo di idee feconde, di ampliamento, correzione ed, occorrendo, rifusione di ipotesi originali, di nuove scoperte integratrici e modificatrici delle vecchie; un esempio cioè di tutto ciò che prova l’esistenza di una scienza progressiva» (in Essays, p. 287).

 

 

Etienne Gilson in L’esprit de la philosophie medievale, rivendicando il modesto atteggiamento dei filosofi medievali, ansiosi di imparare prima di dettare, scriveva, e con questa citazione Marget chiude il gruppo delle sentenze da lui poste in epigrafe al libro:

«Essi credevano che la filosofia non potesse essere l’opera di un solo uomo, anche se altissimo fosse il suo genio; ma che, al par della scienza, essa progredisse lentamente, grazie alla paziente collaborazione di generazioni, ognuna delle quali doveva fondarsi su quelle che la precedettero per giungere a nuove conquiste. “Noi siamo simili a pigmei” scrisse Bernardino di Chartres, “seduti sulle spalle di giganti. Noi vediamo più cose degli antichi e vediamo più lungi; ma ciò non è dovuto né alla lucidità della nostra vista né alla grandezza della nostra statura. No; è dovuto esclusivamente alla vista ed alla statura che ereditammo dagli antichi”».

 

 

L’ammonimento è tempestivo. Il malvezzo di sputar sopra le dottrine tradizionali o classiche, di proclamarne la insufficienza o l’errore e la improntitudine nel presentare come nuove dottrine antiche in veste rifatta e nel dichiararle destinate o già riuscite a rinnovare ab imis il corpo ricevuto della scienza erano negli ultimi dieci anni divenuti troppo importuni. Morto Marshall e venuto meno l’esempio dello scrupolo con il quale egli assegnava ai maestri la giusta e talvolta più che giusta parte nella formulazione dei principii da lui perfezionati, trionfò in troppo gran parte della letteratura anglo-sassone l’abito mentale che si potrebbe, per contrapposizione a Marshall, dire di Jevons. Altrettanto Marshall era peritante nell’asseverare di aver scoperto qualcosa e scrupoloso nel dosare colla bilancia dell’orafo la parte spettante ad ognuno avesse prima in quel campo lavorato, altrettanto Jevons, giustamente convinto della grandezza dell’opera propria, era pronto ad esclamare: dove erano tenebre ed io ho fatto la luce! dove era il caos ed io ho creato l’ordine!

 

 

Se l’entusiasmo per l’opera compiuta è tollerabile nei Jevons ed anche nei Keynes è insopportabile e pernicioso nei minori sicofanti. La scienza, come solennemente affermarono Mc Culloch e Cairnes e Gilson nei brani sopra citati, progredisce esclusivamente per impercettibili graduali aggiunte e riesposizioni e perfezionamenti delle formulazioni accettate.

 

 

Il libro di Marget è stupenda protesta contro la mania imperversante delle immaginarie novità scientifiche rivoluzionarie; è lezione desideratissima di modestia per tutti.

 

 

Protesta e lezione non potevano venire se non da uno studioso dotato, come il Marget, di strabiliante conoscenza delle dottrine monetarie del passato.

 

 

Non adopero leggermente il grosso aggettivo. Lo strabiliante non sta nel numero degli autori letti, studiati e citati. Conosco libri, in cui le citazioni sono più numerose e forse l’erudizione più larga. Marget però conosce a fondo gli scrittori celebri e quelli più riposti, i quali abbiano detto qualcosa di essenziale e di singolare intorno al problema monetario; e cita e sfrutta e mette in luce appropriatamente solo questi. Non posso dire che egli conosca “tutti” gli scrittori di rilievo; perché a fare cosiffatta affermazione farebbe d’uopo possedere meglio di lui la scienza di quel che si è scritto intorno agli argomenti da lui discussi. V’ha oggi, al mondo taluno che possa essere collocato innanzi a Marget in questo campo?

 

 

3. – Perciò il suo libro è uno dei rarissimi esempi di quel tipo tecnico di storia della scienza economica, di cui è tanto facile dir male e che è tanto difficile tradurre in atto. Quanto sia difficile è manifesto, se si pensa che in fondo le 600 pagine di Marget sono la storia critica delle origini derivazioni deviazioni critiche correzioni e perfezionamenti della fondamentale equazione quantitativa di tipo fisheriano M V = P Q; dove, al solito, M è l’abbreviazione di quantità di moneta usata, V di velocità di essa, P di prezzo medio ponderato e Q di quantità complessiva dei beni e servizi scambiati, sempre nell’unità di tempo considerata. Marget dimostra che quella equazione non è un mero truismo, una uguaglianza verbale fra due espressioni sinonime, sibbene invece il risultato della fatica durata da parecchie generazioni di economisti per dare ad ognuna di quelle lettere dell’alfabeto un contenuto sempre più ricco e penetrante; sicché a poco a poco la equazione, adoprata dapprima da scrittori pigri per esprimere alla svelta un pensiero rudimentale, è venuta raffinandosi sì da esprimere un mondo di idee, da raffigurare una realtà varia, da quella che vive in un dato momento a quella che continuamente muta ed è oggi diversa da quella di ieri e sta già cambiandosi nella ancor più diversa realtà del domani. La equazione supera la prova del fuoco quando taluno, impaziente per non avere scorto esplicitamente nell’equazione un fattore da lui ritenuto rilevante nel meccanismo di determinazione dei prezzi, propone una nuova equazione che egli afferma più perfetta. Marget smonta pazientemente il novello meccanismo e dimostra che quel preteso nuovo è già contenuto nella vecchia formula e che nella nuova difettano elementi essenziali che nella vecchia erano contenuti.

 

 

4. – La critica di “truismo” o di “identità” rivolta alla equazione fisheriana o ad altre proposizioni consimili significa che, nel pensiero dei critici, certe proposizioni sono così ovvie da essere prive di contenuto sostanziale. Se la equazione M V = P Q volesse soltanto dire che la quantità di danaro (M) la quale viene spesa da un uomo o da una collettività di uomini durante un certo lasso di tempo, per es. un giorno (sicché, nel giorno, la V sia uguale all’unità), è necessariamente uguale al prezzo totale pagato per la massa dei beni e servizi acquistati da quell’uomo o da quegli uomini durante quel giorno (P Q), saremmo tutti d’accordo col riconoscere che essa enuncerebbe un concetto scipito. Se Tizio all’ora zero della prima giornata ha in tasca 20 lire e ne spende 2 per il caffè e latte, 6 per la colazione, 8 per il pranzo e 4 per la stanza, sicché alla mezzanotte della stessa prima giornata le 20 lire (M) abbiano chiuso il ciclo (V) dell’entrare e dell’uscire dalla tasca di Tizio; 20 lire sono necessariamente uguali al prezzo di un caffè latte, di una colazione, di un pranzo e di un letto, sono uguali cioè al prezzo pagato per i beni e servizi di cui s’è fatto acquisto (P Q). Bella scoperta! Sono uguali perché le abbiamo appunto spese per acquistare quei tali beni e servizi. Qual’è l’avanzamento scientifico così ottenuto? In qual modo, grazie all’equazione, noi conosciamo meglio le forze le quali hanno fatto sì che noi pagassimo quei tali prezzi e non altri?

 

 

Sì, risponde Marget, noi le conosciamo meglio; ché «le equazioni sono un riassunto del lento crescere, attraverso i secoli, delle nostre conoscenze rispetto alle forze le quali determinano i prezzi» (p. 90).

 

 

Più efficacemente:

 

 

«A mano a mano che le note equazioni quantitative gradualmente assumono carattere truistico, esse, nonché fornire occasione a critiche, danno prova di aver lentamente, lungo i secoli, toccato quelle mete che in ogni ramo scientifico segnalano l’avanzamento delle conoscenze umane. Una proposizione, la quale nel tempo in cui fu messa innanzi era considerata mero truismo, è chiarita, alla luce di indagini posteriori, vera solo quando si verifichino talune condizioni specifiche, alle quali dapprima non solo non era dato luogo esplicito nella formula, ma di cui neppure era conosciuta la vera sostanza. Si potrebbe, se vuolsi, definire il passaggio da proposizioni primitive e grezze a più larghe e quindi meglio accurate, come un passaggio da affermazioni non strettamente vere a “truismi” od “identità”. Con ugual giustizia e con apprezzamento più adeguato del metodo grazie al quale i limiti della conoscenza scientifica vengono spinti innanzi, potremmo definire il procedimento seguito come il passaggio da una proposizione la quale nel caso più favorevole era vera solo date certe ipotesi ben definite ed alla peggio era in generale letteralmente erronea, ad un’altra proposizione atta alle più ampie applicazioni possibili e capace di superare il più esigente scrutinio scientifico” (p. 98).

 

 

Pur nella formulazione semplice M V = P Q, l’equazione quantitativa è frutto di secolari successive conquiste. Sebbene ora paia incredibile, nella seconda metà del cinquecento non si pensava che le mutazioni nella quantità della moneta, avessero qualcosa a fare con le variazioni dei prezzi. Quando Bodin nel 1568 introdusse nell’equazione il fattore M, un gran passo fu compiuto nella conoscenza del modo con cui si formano i prezzi. Quando in seguito Petty e Locke aggiunsero il fattore “velocità” la teoria monetaria fece un altro passo innanzi. Ed un nuovo passo si fece nel diciottesimo secolo quando, seguendo un filone indicato da Petty, si cominciò a spezzare il fattore M nei componenti moneta metallica (M) e surrogati di essa (M1, M2 …. Mn); ed un grandissimo avanzamento ancora quando Hume segnalò che i diversi fattori M, V, P, Q non erano gli uni dagli altri indipendenti, ma l’uno reagiva sull’altro, sicché, a cagion d’esempio, variando la quantità della moneta, mutava perciò la quantità (Q) dei beni e servizi prodotti. L’equazione quantitativa M V = P Q non volle d’allora in poi dire soltanto che i prezzi variano in funzione del variare della massa monetaria, della velocità di circolazione di essa e della massa dei beni e servizi scambiati, ma significò anche che la variazione di ogni singolo fattore è in funzione della variazione contemporanea di ogni altro fattore e delle reazioni che a lor volta son perciò provocate in ognuno di essi. Altro che truismi insipidi! L’equazione M V = P Q può essere definita un attaccapanni; ma poiché ad esso possiamo appendere i più ricchi varii e significativi svolgimenti teorici, i fattori vicendevolmente collegati si moltiplicano per scissiparità e si legano tra di loro per relazioni complicatissime, e tuttavia atte ad essere riassunte e sistemate dentro alla equazione fondamentale.

 

 

5. – Il Marget si è industriato ad alleggerire la fatica del lettore, distribuendo la materia in tre parti: trattazione fondamentale in caratteri di stampa ordinari, discussioni particolari in caratteri più piccoli, citazioni e fonti nelle note. Ma, nonostante la architettura interna ordinatissima: – 1) che cosa sono le equazioni quantitative e quale ne è il significato; 2) che cosa sta dietro le equazioni quantitative: moneta propria o di pagamento ultimo; sostituti della moneta; velocità di circolazione; la teoria dei prezzi analizzata attraverso il concetto del reddito, o quello dei contanti in cassa; il volume delle transazioni e la pluralità dei livelli di prezzi – il libro è di ardua lettura. Né tenterò di fornirne un riassunto; ché certamente non riuscirei a farne gustare il pregio maggiore, che è l’arte somma nel perseguire una teoria dalle sue prime grezze espressioni, attraverso la ricca gamma dei pervertimenti, deviazioni, negazioni, difese e perfezionamenti, sino alla più perfetta e perfettibile formulazione moderna.

 

 

6. – Preferisco seguire altra via e dare un saggio, sia pure abbreviatissimo, di “qualcuna” delle discussioni particolari contenute nel libro. Prima fra tutte e preliminare a tutte è la analisi della netta differenza tra “teoria quantitativa della moneta” ed “equazioni quantitative” dei prezzi. Chi reputa di essere stato in tutta la sua vita mai sempre innocente del reato di confusione tra i due concetti, scagli la prima pietra. Forse, come nel vangelo, la piazza rimarrà deserta di accusatori: persino teorici attentissimi, come Fisher e Kemmerer e Pigou, occasionalmente caddero nell’equivoco verbale. Nessuno meglio di Marget, mise in luce la differenza tra i due concetti e le capitali illazioni che da essa si traggono (cfr. pp. 22 a 27):

 

 

  • 1) La “teoria quantitativa della moneta” è quella dottrina la quale, comunque sia formulata, contiene una o parecchie proposizioni intorno al “grado di importanza” della quantità di moneta quale fattore ritenuto capace di determinare i prezzi. Una formulazione grezza della teoria sarebbe M = kP, dove k è una costante e vorrebbe dire che raddoppiando la massa monetaria (2M invece di M), i prezzi del pari raddoppierebbero.

 

 

Le “equazioni quantitative” invece affermano semplicemente che la “quantità della moneta” è uno tra i fattori i quali influenzano i prezzi. Le equazioni non dicono cioè nulla, assolutamente nulla, riguardo all’importanza relativa dell’influenza delle variazioni nella “quantità della moneta” in confronto all’influenza delle variazioni degli altri fattori rilevanti nella determinazione dei prezzi. Scrivendo M V = P Q non si dice nulla riguardo all’importanza relativa di M, di V, di Q nel determinare P; non si dice nulla della importanza che alla sua volta una variazione di P può avere sulla variazione di M; o di M su Q e viceversa.

 

 

Le varie “teorie quantitative” partono dall’idea sbagliata che uno qualunque dei fattori sia un dato predeterminato, un punto di partenza in rapporto al quale si esaminano le possibili variazioni degli altri fattori; le “equazioni quantitative” negano l’esistenza di “dati” o “punti di partenza”; affermano invece il concetto che quei fattori, i cui valori debbono essere determinati, sono quantità legate a vicenda in modo che M V deve risultare uguale a P Q.

 

 

È chiaro che le facili critiche le quali tuttodì si leggono contro la “teoria” quantitativa della moneta si spuntano contro le “equazioni quantitative”, delle quali soltanto discutono gli economisti, anche se inavvertitamente adoperano la parola “teoria”; ed è chiaro che la sarabanda menata attorno alla bancarotta, proclamata anche per il territorio monetario, della scienza economica dopo e in conseguenza delle esperienze belliche e post-belliche, è condotta da stregoni, i quali immaginavano di aver trafitto la scienza perché sull’altare del sacrificio avevano trascinato una qualunque “teoria quantitativa della moneta”. Frattanto, i sacerdoti della scienza continuavano tranquillamente a discettare intorno ai perfezionamenti consigliati dalla esperienza ultima nella formulazione delle “equazioni quantitative”; e traevano conforto all’opera delicata dal raffronto della nuova esperienza con l’antica dei tempi napoleonici o post-napoleonici la quale tanto stimolo aveva dato all’avanzamento delle teorie monetarie.

 

 

  • 2) Della “teoria quantitativa della moneta” possono darsi tante definizioni differenti l’una dall’altra, da rendere sterile ogni disputa intorno alla verità o falsità di essa. Quale, perciò, il significato delle dispute intorno al primo scopritore della teoria, se non esiste e forse non esisterà mai una concorde opinione intorno al contenuto di essa? La disputa intorno ai formulatori delle “equazioni quantitative” è invece feconda, poiché essa intende precisare chi primo abbia richiamato l’attenzione su qualcuna delle variabili le quali a poco a poco entrarono direttamente o indirettamente nella equazione – chi disse doversi tener conto di M o di V o di Q? o di qualcuna delle sottospecie o dei componenti di M, di V o di Q? -; o su qualcuna delle relazioni fra le diverse variabili: chi disse che M influisce su Q, o la specie di M influisce su V, ecc. ecc.?
  • 3) Anche se i disputanti si accordano sul contenuto della “teoria quantitativa”, le discussioni intorno ad essa sono in gran parte infeconde a causa della varietà delle premesse che i teorici sono propensi a fare intorno alla costanza di qualcuno dei fattori inclusi nelle equazioni quantitative. I “teorici” quantitativi sono propensi a ritenere a volta a volta costanti V ovvero Q, allo scopo di chiarire le dimensioni dell’influenza di M su P. Se v’ha, invece, verità certa è questa: tutte le variabili delle equazioni sono vere variabili. Non esistono ragioni logiche di supporre che in qualsiasi situazione concreta esse appaiano costanti.
  • 4) Perciò la teoria dei prezzi non consiste in uno sterile dibattito, durante il quale da una parte si afferma che taluni risultati seguiranno se talune variabili sono supposte costanti, e dall’altra parte si replica che le statistiche dimostrano quelle variabili non essere di fatto costanti. Lo studioso dovrebbe invece tendere ad uno studio sistematico, dai punti di vista analitico, ossia raziocinativo, ed empirico – storico delle forze le quali agiscono sopra ciascuna delle variabili rilevanti sì da dare ad esse i valori che esse di fatto hanno. Ogni altra ricerca è in gran parte mero esercizio scolastico a vuoto. L’uso della teoria quantitativa può, al più, giovare come strumento di spiegazione di certi grandiosi fatti storici di aumenti o ribassi di prezzi. A spiegare l’aumento dei prezzi tra il 1550 ed il 1650, tra il 1790 ed il 1795, tra il 1860 ed il 1873, tra il 1898 ed il 1906, tra il 1914 ed il 1920 od i ribassi tra il 1815 ed il 1830, tra il 1873 ed il 1898, tra il 1920 ed il 1932 è utile richiamare l’attenzione sull’afflusso dei metalli preziosi dall’America o dall’Australia o sulla inondazione di carta moneta proveniente dalle officine carte-valori od ai fatti inversi di esaurimento delle miniere o di rottura dei torchi da biglietti. Dinnanzi a fatti così grandiosi, possiamo per un istante considerare come costanti gli altri fattori.

 

 

Per quell’istante di tempo che sia necessario per imprimere, a scopo di mero orientamento provvisorio, nella mente di chi legge l’idea che la prima spinta al moto dei prezzi possa essere stata data da quei fatti: scoperta di miniere od installazione di nuovi torchi a stampa nelle officine carte-valori. Subito, tuttavia, è necessario incastrare quell’idea in un quadro più generale. Aumenta M (massa d’oro monetario), ma perciò cresce Q, massa di beni e servizi prodotti. Perché M fa crescere Q? Crescono i prezzi P; ma il crescere dei prezzi vuol dire aumento dei costi per i produttori di M, i quali hanno minor convenienza a produrre. D’altro canto se, per l’esaurirsi degli strati fecondi delle miniere, M scema ed alla lunga i P scemano, ciò non significa una diminuzione di costi ed una spinta ai produttori di miniere d’oro a crescere M? Eccoci lanciati a navigare nel mare agitato dell’equilibrio economico complessivo, dove tutti i fattori si tengono e sono interdipendenti l’uno dall’altro ed il moto dell’uno condiziona ed è condizionato dal moto dell’altro, e nessuno di essi è un dato e tutti sono incognite, i cui valori sono determinabili solo quando si conosca l’insieme delle relazioni che legano l’una all’altra. Ma, come in tanti luoghi chiarisce il Marget, la teoria dell’equilibrio economico, magnifico quadro di un mondo in movimento, acquista sostanzioso sapore economico quando l’economista indaga che cosa sta dietro a tutti quei fattori i quali, come le stelle nel firmamento, in ogni momento sono quel che sono, stanno nel luogo dove si trovano ed hanno le dimensioni che hanno, perché ognuno di essi in quel momento è quel che è, sta nel luogo dove si trova ed ha le dimensioni che ha. Sapere che i prezzi che in un dato momento si fanno in un dato mercato sono quel che sono perché in quel momento altri infiniti prezzi di beni di consumo, di servigi, di beni strumentali, di beni capitali sono quel che sono, è certo una magnifica conquista della scienza economica walrasiana. Alla lunga però, se vogliamo andare innanzi ed approfondire, dobbiamo chiederci: che cosa sta dietro a quel tal prezzo che è quello che è perché non può essere diverso?

 

 

«Ognuna delle variabili – soggiunge il Marget – componenti le “equazioni quantitative” è un mero titolo di capitolo, una rubrica nella quale devono essere fatte rientrare le analisi particolareggiate intese a spiegare perché la variabile in discorso in circostanze mutate acquisterà una diversa grandezza ed a segnalare le circostanze nelle quali e la sequenza secondo le quali si può prevedere che le variazioni nella grandezza di una variabile saranno accompagnate da variazioni di altre variabili». (p. 81).

 

 

Perciò non basta manipolare i simboli contenuti nelle equazioni per conoscere come si producono le variazioni nei fattori variabili del meccanismo dei prezzi.

 

 

«I simboli sono semplicemente le ossa scheletriche di un corpo vivo di analisi (ragionamenti) connesso coi simboli nella stessa maniera nella quale la carne ed i vestiti sono collegati allo scheletro, il quale dà forma ed articolazione a quelle carni ed a quei vestiti» (p. 82).

 

 

  • 7. – Costruire sul fondamento del passato e riconoscere, come era uso di Marshall e di Pantaleoni, il gran debito verso chi venne prima, innanzi di accennare timidamente a qualche piccola aggiunta fatta ora, è insieme dovere e consiglio di prudenza. Gran rumore fece e sta facendo, tra i teorici monetari, quella che è detta dagli anglosassoni “incomeapproach” e da noi si potrebbe dire “punto di vista del reddito” nella teoria della formazione dei prezzi. Elemento rilevante di siffatto punto di vista è la distinzione della massa totale di moneta circolante in due parti, delle quali la prima sarebbe la “moneta dei produttori”, ossia da questi spesa e guadagnata nel produrre beni, di consumo e strumentali, e la seconda sarebbe la “moneta dei consumatori”; e cioè la moneta “spesa” dai consumatori allo scopo di acquistare beni di consumo attuali (consumo) o futuri (risparmio).

 

 

Quale sia il contenuto della distinzione e la sua portata; quale sia il rispettivo peso di ognuna delle due quote della totale massa monetaria nella formazione dei prezzi non è qui il luogo di discutere. Quel che qui importa trarre dalle pagine dense di dottrina rarissima del Marget, è una lezione di modestia. Ecco Keynes, il quale nell’accingersi ad esporre il punto di vista del “reddito” e della scomposizione della massa monetaria nelle due quote della moneta dei produttori e di quella dei consumatori, non sa trattenersi dal premettere, che i tipi di “teorie quantitative” “sui quali siamo stati tutti educati” sono “scarsamente adatti” a risolvere il “problema fondamentale della teoria monetaria…. che è di esporre il processo causale da cui è determinato il livello dei prezzi ed il modo di passaggio da un equilibrio ad un altro”. Egli dunque si propone “di dipartirsi dal metodo tradizionale” che è quello di prender le mosse dalla totale massa monetaria, indifferenziata rispetto all’uso al quale la moneta è adoperata, e di ragionare invece sulla base della distinzione della massa totale monetaria nelle due quote dei produttori e dei consumatori (“Treatise“, primo, 133-34). L’impressione del lettore è che la via additata da Keynes – ed additata, s’intende, in pagine affascinanti per la vigoria dell’argomentazione, la forza persuasiva e la bellezza della forma – sia nuova e contrastante alla dottrina tradizionale. Esiste invece una vera genealogia dottrinale del “punto di vista del reddito”.

 

 

Sul Cantillon il Marget quasi non si sofferma, perché l’accenno alla diversità di effetti che la moneta esercita su questo o quel prezzo ha in lui una veste alquanto generica: “cette consommation…. tombera plus ou moins sur certaines espèces de denrées ou de marchandises, suivant le génie de ceux qui acquirent l’argent. Les prix des marches enchériront plus pour certaines espèces que pour d’autres, quelque abondant que soit l’argent” (ed. orig. p. 236, ed. Higgs, p. 178).

 

 

Ma forse l’accenno più significativo, sebbene scritto a proposito di un solo prezzo, quello dell’uso del risparmio, si legge nel brano, non ricordato dal Marget:

 

 

Si l’abondance d’argent dans l’état vient par les mains de gens qui prêtent, elle diminuera sans doute l’intérêt courant en augmentant le nombre des préteurs: mais si elle vient par l’entremise de personnes qui dépensent, elle aura l’effet tout contraire, et elle haussera le prix de l’intérêt en augmentant le nombre des entrepreneurs qui auront à travailler au moyen de cette augmentation de dépense, et qui auront besoin d’emprunter pour fournir à leur entreprise, dans toutes les classes d’intérêts” (ed. orig. p. 284, ed. Higgs, p. 214).

 

 

Subito dopo, Cantillon nota, è vero, che le variazioni dei prezzi dei beni non hanno nessun vincolo necessario con le variazioni del saggio di interesse, di guisa che questo può essere alto dove vi è abbondanza di moneta e basso dove vi è scarsità, “haut ou tout est cher, et bas ou tout est à grand marché“; ma nella mente di Cantillon era chiara la distinzione fra due specie di monete: quella che “vient dans l’état par les mains de gens qui prêtent” e quella che “vient par l’entremise de personnes qui dépensent“. La distinzione è forse molto diversa da quella keynesiana fra moneta dei produttori e moneta dei consumatori? Forseché, inoltre, la moneta proveniente dai consumatori non è, nel pensiero del Cantillon, la sola atta a far alimentare il saggio d’interesse perché essa cresce la domanda che i consumatori fanno di merci ed, attraverso a queste, la domanda degli imprenditori fabbricanti di quelle merci? La distinzione fra i due tipi di moneta, esisteva dunque sin dal 1730-34 quando Cantillon scriveva; e pochissimo mancava ad applicar la distinzione ai prezzi, invece che al solo saggio d’interesse.

 

 

Passiamo pure, del resto, sopra ai precursori e guardiamo solo all’albero genealogico vero e proprio costruito da Marget.

 

 

Dottrina contraria alla tradizione, quella del “punto di vista del reddito” nella formazione dei prezzi? I primi incerti accenni di Adamo Smith prendono corpo nella cosidetta tredicesima proposizione di Tooke: “Arriviamo così al principio ultimo regolatore dei prezzi monetari.

 

 

Soltanto la quantità di moneta la quale va a formare il reddito dei differenti ceti dello stato, nelle varie specie di rendite profitti stipendi e salari destinati alla spesa corrente, unicamente essa è il principio limitatore del totale dei prezzi monetari, i soli i quali possano propriamente essere chiamati prezzi generali. Come il costo di produzione è il principio limitatore della offerta, così il totale dei redditi monetari consacrati alla spesa di consumo è il principio limitatore della domanda delle merci” (“History”, terzo, 276).

 

 

Da Tooke l’idea cammina ed, attraverso Wagner, giunge all’eretico autodidatta Johannsen (alias Lahn) e dall’eretico a Keynes. Sono da leggere le pagine nelle quali Marget istruisce il processo di derivazione attraverso Wagner e ovvero o Johannsen sino a Keynes; da leggere e da meditare da coloro i quali attribuiscono la paternità delle idee al primo che capita.

 

 

Avendola assunta da un eretico, il quale, al par di tutti gli eretici e gli autodidatti, anche quando aggiungeva, merito già grande, concetti notabilissimi a dottrine antiche, immaginava di aver distrutto tutto quanto era stato scritto prima di lui, si comprende come a Keynes la dottrina sia parsa contrastante con la tradizione. Frattanto la dottrina aveva spinto propaggini un po’ in ogni campo; ma forse i perfezionatori – e v’hanno gran nomi fra essi da Wicksell a Wieser, a Lindahl, a Schumpeter ecc. – avrebbero guadagnato tempo ed avrebbero ottenuto risultati più definitivi se avessero in tutti i casi conosciuto quel che sul problema era stato scritto prima e non avessero creduto di distruggere una tradizione classica che invece valorosamente continuavano e incrementavano.

 

 

8. – L’accusa di truismo rivolta a talune proposizioni e che si sostanzia nel dire: è vero che a è uguale a b, ma trattasi di proposizione priva di contenuto essendo a non solo uguale a b, ma la stessa cosa di b, anzi sinonimo di b; siffatta accusa è stretta parente dell’altra di ragionamento in circolo.

 

 

Sarebbe un ragionamento in circolo il seguente:

 

 

  • a) Il valore della moneta è dato dalla utilità della moneta;
  • b) la utilità della moneta è la utilità dei beni che sono acquistati con la moneta;
  • c) quindi: il valore della moneta è dato dalla utilità dei beni che sono acquistati con la moneta.

 

 

Come si definisce invero il valore della moneta se non con la quantità dei beni che possono essere acquistati dalla moneta? Dandosi l’aria di costruire il sillogismo a b c, non facciamo altro se non ripetere la definizione del valore della moneta; e non aggiungiamo nulla a ciò che si sapeva per definizione fin dall’inizio. Poiché il valore di una data quantità di un bene qualunque (marengo d’oro) è la quantità di qualche altro bene data in cambio del primo (una misura di frumento) c’è poco sugo a scoprire che il valore del marengo d’oro è misurato dalla utilità della misura di frumento che con esso si acquista. Altrettanto poco sugo come nello scrivere MV = PQ, quando ci si limiti a constatare, come si osservò sopra, che 100 lire spese nell’unità di tempo sono uguali a tante volte 10 lire quante sono le unità di un certo bene scambiate sul mercato nella stessa unità di tempo al prezzo 10. Come però la equazione MV = PQ diventa feconda di illazioni quando particolareggiatamente si studino le forze le quali fanno sì che ognuno dei fattori M, V, P, Q siano quello che sono e agiscano e reagiscano l’uno sull’altro; così la proposizione (b): “la utilità della moneta è la utilità dei beni che possono essere acquistati con la moneta” diventa pregna di contenuto non appena ci si sofferma col pensiero sui limiti entro cui la proposizione è vera.

 

 

Perché la proposizione (b) fosse sempre vera farebbe d’uopo, osserva Marget (p. 451) che in tutti i casi sia indifferente per l’uomo serbare la ricchezza sotto forma di moneta ovvero sotto forma di beni che possono essere acquistati con la moneta. Se la moneta da due lire, in un dato momento e luogo, si scambiò con un chilogrammo di pane, noi possiamo perciò scrivere 2 lire = 1 Kg. pane; ma ciò non vuol dire che sia sempre indifferente possedere l’uno o l’altro bene nella quantità detta. L’avvenuto scambio significa soltanto che, grazie all’interferenza di molteplici fattori, quello è, in quel momento, il rapporto fra i due beni.

 

 

L’indagine veramente importante è quella condotta allo scopo di precisare le varie forze le quali fanno preferire di conservare la ricchezza posseduta sotto forma di lire ovvero sotto forma di pane o di altri beni, di cui il pane sarebbe assunto come il tipo. Non basta dire che l’utilità della moneta è quella medesima dei beni che sono acquistati con la moneta; ma dobbiamo studiare quali sono le ragioni le quali a Tizio fanno, sino ad un certo rapporto di scambio, per esempio 2 lire = 1 Kg. di pane, preferire di tenere la ricchezza sotto forma di lire ed a Caio invece sotto forma di pane, laddove, a quel punto, v’ha, per amendue, convenienza allo scambio. Le ragioni possono essere numerose e non sono necessariamente economiche. Di quelle le quali consigliano agli uomini di tenere una data proporzione della Špropria ricchezza investita in “saldi in contanti”, (in moneta metallica, in biglietti, in depositi bancari a vista ecc. ecc.) il Marget offre una prima lista:

 

 

  • 1) la forma nel tempo del flusso del reddito individuale, attuale e previsto, in relazione
  • 2) alla forma nel tempo del flusso della spesa individuale, attuale e prevista, flusso determinato, a sua volta, sovratutto dalle previsioni relative all’andamento futuro dei prezzi;
  • 3) le dimensioni dei flussi individuali di reddito in relazione alle dimensioni dei corrispondenti flussi di spesa;
  • 4) le agevolazioni che nelle diverse situazioni di mercato sono offerte dalle istituzioni bancarie esistenti ai detentori individuali di saldi in contanti desiderosi di ottenere mutui in attesa delle entrate;
  • 5) le agevolezze similmente offerte all’investimento delle eccedenze dei “saldi in contanti”;
  • 6) le attrattive a così investire, offerte dalle medesime istituzioni alle condizioni esistenti di mercato, tenuto conto del saggio dell’interesse;
  • 7) le disposizioni le quali inducono a tenere “saldi in contanti” in ammontare diverso da quello che sarebbe determinato dai fattori precedenti; per esempio l’obbligo fatto ai banchieri di tenere certi minimi di riserva a garanzia dei depositi in conto corrente dei clienti o la introduzione di imposte speciali sui saldi monetari. (pp. 482-83).

 

 

L’elenco non è tassativo; e si può complicare tenendo conto delle diverse specie di moneta (moneta d’oro, biglietti, depositi in banca ecc.) ognuna delle quali è una specie di ricchezza della quale gli uomini desiderano possedere date quantità e non più in confronto alle altre specie. A poco a poco l’analisi sottile di Marget mette in luce singolare un ufficio della moneta notissimo da Aristotele in poi e troppo poco, sino a tempi recenti, analizzato: quello di essere un serbatoio di valori. Patterson, Newcomb, Robertson negano contenuto all’antica distinzione fra moneta circolante e moneta non circolante. Che cosa è, chiedeva Patterson, sin dal 1868, la moneta circolante?

 

 

“Tutti gli scrittori discorrono delle monete e dei biglietti in circolazione attiva come se esistessero in vacuo, in un limbo in cui essi non apparterrebbero a nessuno, come se, a somiglianza della bara di Maometto, della quale i fedeli credono stia sospesa fra cielo e terra, essi esistessero in uno stato di mezzo fra chi paga e chi riceve, e non spettassero a nessuno dei due. Il che, al pari di tante altre nozioni correnti nella scienza monetaria, è concetto affatto privo di senso. La moneta, che si dice “in circolazione attiva” è tutta in possesso di individui, i quali la adoperano, ciascuno nel modo a sé più conveniente. Ognuno tiene a portata di mano tante monete o biglietti quanti occorrono per i suoi bisogni correnti. Ognuno tiene in casa tale e tanta moneta per le piccole occorrenze di famiglia e ne mette un po’ in tasca per le corse in vettura, pranzi ed acquisti e pagamenti casuali…. Tutta la moneta…. è riserva di ricchezza spettante ad individui.” (p. 461).

 

 

Il “tesoro”, nonché essere fatto di eccezione, è il vero tratto caratteristico della moneta. A meno che esso sia destinato a non essere speso mai per tutta l’eternità, il tesoro è in circolazione precisamente come la moneta che sta per essere spesa nell’istante di cui si parla. La velocità ne è di 1 volta all’anno o di una volta ogni 10 o forse mille anni invece che di 12 o 24 o 52 o 365 volte all’anno; ma circola al pari delle monete che sono da tutti reputate in circolazione.

 

 

“Dire che la moneta è usata “come moneta” solo quando è adoperata come strumento di scambio e non quando è conservata come “serbatoio di valori” se dimenticare che il compito di “serbatoio di valori” è parte del suo compito di strumento di scambio. Il pubblico tiene denaro “in riserva” perché la moneta può fungere come “serbatoio di valori”, con sicurtà assai maggiore contro le perdite di valore quando giunga il tempo di scambiarla contro altre merci di quanto non accada con qualsiasi altra specie di ricchezza; o, come altri disse, perché la moneta è caratteristicamente “portatrice di opzioni” in misura che non si riscontra in nessun’altra merce” (p. 464, dove sono ricordate opinioni analoghe di Mises, Wicksell, Davenport e Anderson).

 

 

Da quando Walras parlò di encaisse desiree i teorici della moneta tendono a spostare la loro attenzione dal momento nel quale essa “sta passando” dal compratore al venditore (funzioni di misuratore e denominatore dei valori e di intermediario degli scambi) a quello nel quale i detentori preferiscono tenerla in cassa. Il momento o fattore o punto di vista “decisivo” nella formazione dei prezzi non è il “passare” che è mero risultato dell’atto di compravendita già deliberato, ma la scelta fra il “tenere” o “tesoreggiare” moneta ovvero “tenere” o “tesoreggiare” beni. Il livello dei prezzi dipende dalla decisione rispetto a questa scelta.

 

 

  • 9. – Val la pena di indugiare su codesti “saldi in contanti”. Esiste una gerarchia di essi la quale va dal deposito alla cassa di risparmio, rimborsabile entro il limite di 100 o 500 lire al giorno, dal saldo attivo del conto corrente (da deposito o da apertura di credito) sul quale si può trarre assegno a vista, e dal pacchetto di biglietti rimborsabili a vista – e fin qui si tratta sempre di surrogati monetari -, alla carta moneta a corso forzoso ed alle monete d’oro, che Marget direbbe monete di “ultimate redemption” perché, se i possessori di surrogati di moneta hanno ragione di farseli permutare da qualcheduno in carta – moneta o in moneta d’oro, chi ha un biglietto a corso forzoso da 100 lire non ha diritto di farselo cambiare da nessuno in una quantità determinata di qualcosa d’altro, ed il cambio delle monete d’oro in altre equivalenti monete d’oro non avrebbe normalmente senso economico.

 

 

Il pubblico tiene saldi monetari più o meno vistosi e li tiene sotto forma di depositi a risparmio o in conto corrente o di biglietti di banca o di carta moneta o di oro (monetato o in barre) a seconda di circostanze svariate. Nella storia delle dottrine monetarie è caratteristica l’avversione di taluni scrittori contro il tener saldi monetari in genere o contro il tenere taluna specie di saldi in particolare. L’avversione è in parte reminiscenza dell’antico dispregio verso gli avari, accusati di sordido amore verso l’oro come oro e reputati nemici del popolo, al quale essi torrebbero i vantaggi nascenti dal “denaro che gira”. In parte essa è, però, frutto di ragionamento. Ecco Keynes, del quale l’ultimo libro (“The general theory of Employment Interest and Money”) forse non sarà ricordato per la spiegazione generale da lui offerta dell’equilibrio economico, sì invece per lo scintillio inesausto delle idee particolari nuove o rinnovate offerte in copia a chi desideri gustare il divino piacere di leggere pagine eccitatrici sovratutto di dissenso. Leggendolo si ha l’impressione che, se potesse, egli sopprimerebbe volentieri la attitudine della moneta ad essere, oltrecché e perché unità di conto e strumento di scambi, altresì “serbatoio di ricchezza”. In sostanza, chi preferisce tenere un biglietto da 100 lire piuttostoché un’azione od obbligazione che oggi vale correntemente 100 lire, fa ciò perché reputa il biglietto da 100 lire investimento più “liquido”, capace di offrire, più dell’azione od obbligazione, copiose “opzioni d’acquisto” presenti e future in qualsiasi specie di merce. Le banche, le imprese d’assicurazione, gli investitori in genere, i quali hanno qualche motivo per desiderare di conservare intatte le proprie “opzioni”, non possono certamente investire tutte le proprie disponibilità in biglietti da 100 lire perché non ricaverebbero alcun frutto da esse e non pagherebbero nemmeno le spese di gestione. Si comprende però come banche ed investitori scelgano i proprii investimenti fra quelli che danno miglior affidamento di potersi riconvertire, senza perdita, nella merce universale per eccellenza, la moneta. Gli investimenti sono perciò classificati, secondo il grado di liquidità, da quelli “congelati” od inconvertibili in moneta a quelli perfettamente “liquidi” che possono essere, senza perdita, convertiti a vista o in brevissimo lasso di tempo in biglietti da 100 lire. Quanto più gli impegni passivi dell’investitore sono a breve scadenza, tanto più imperiosa è la necessità di attenersi a investimenti liquidi. Liquidissimo tra gli investimenti è il possesso di moneta, e particolarmente di carta moneta a corso forzoso o d’oro, le sole monete per le quali non occorra preoccuparsi affatto di ulteriori conversioni in qualche altra specie di moneta; conversioni le quali farebbero perlomeno perdere un po’ di tempo.

 

 

Per Keynes la corsa alla liquidità è un errore ed un danno: “Di tutte le massime della finanza ortodossa nessuna è per fermo più antisociale del feticcio della liquidità, della dottrina secondo la quale gli istituti investitori tengono condotta virtuosa quando si sforzano di concentrare le loro disponibilità nel possesso di titoli liquidi. Si dimentica che non esistono investimenti liquidi per la collettività nel complesso” (p. 155).

 

 

Invece di scegliere gli investimenti migliori a norma delle previsioni di reddito futuro, si investono risparmi coll’occhio rivolto esclusivamente alla possibilità di riconvertire il titolo acquistato in moneta, possibilmente con lucro e in ogni caso senza perdita. Nessuno essendo in caso di prevedere prezzi futuri a gran distanza di tempo, gli investitori sono indotti a considerare ottimo quell’investimento che si reputa liquido, ossia vendibile almeno a prezzo uguale a quello di acquisto, fra un mese, fra quindici giorni, fra ventiquattro ore. Poiché, ancora, la probabilità per Tizio di rivender allo stesso o cresciuto prezzo dipende dal giudizio che contemporaneamente danno, intorno alla stessa probabilità, i Caii i Sempronii i Mevii e gli altri operatori sullo stesso mercato, così la scelta tra i varii investimenti si fa non sulla base di ponderato giudizio intorno al futuro reddito di esso, ma su quello, ben diverso, dell’opinione che ognuno si fa dell’opinione altrui in argomento. L’intelletto degli investitori è così tutto rivolto a “prevedere quali previsioni l’opinione media degli uomini faccia intorno allo stato futuro della medesima opinione media” (p. 156).

 

 

Il feticcio della liquidità converte gli investimenti in un gioco d’azzardo. La struttura economica dei paesi nei quali la organizzazione bancaria è più perfezionata diventa così, grazie a quel feticcio, una gigantesca casa da giuoco.

 

 

V’ha di più. Laddove le altre merci hanno un certo costo di conservazione per consumo, magazzinaggio ecc. la moneta non è caricata di siffatti costi. Essa può essere conservata indefinitamente senza costo. Non esiste dunque, per la moneta, uno tra gli ostacoli che meglio contrastano il desiderio proprio degli uomini di far mucchio di derrate e merci. Se il costo di conservare un quintale di frumento per un anno è 6 chilogrammi di frumento; ed il desiderio di conservare la ricchezza sotto forma di frumento è apprezzato 4 per cento ad anno, il saggio di interesse del frumento in frumento è negativo (meno 2 per cento). Ma poiché il costo annuo di conservare la moneta è zero per cento, se il desiderio di conservare ricchezza sotto forma di moneta è apprezzato 4 per cento ad anno, il saggio di interesse della moneta in moneta è 4 per cento. Esso è più o meno alto, 4 o 6 o 2 per cento, a seconda dell’intensità della propensione a conservare, per il loro ufficio di serbatoi di liquidità, saldi monetari. E poiché il valore della propensione alla liquidità è una quantità positiva, il saggio di interesse non può discendere a zero. Poiché gli uomini attribuiscono un certo valore al conservare la ricchezza sotto forma liquida e poiché il solo modo certo conosciuto di conservare ricchezza liquida è di tenerla sotto forma monetaria, il saggio di interesse è positivo. Anche quando – e qui l’atto d’accusa Keynesiano giunge alle radici del sistema economico vigente – la produzione dei beni capitali diventasse o potesse teoricamente diventare così abbondante da ridurre a zero la produttività marginale del capitale, il saggio di interesse non potrebbe mai discendere a zero; né si potrebbero perciò mai eliminare le caratteristiche più spiacevoli del capitalismo.

 

 

“Basta breve riflessione per dimostrare quali profondi mutamenti sociali risulterebbero dalla graduale scomparsa del reddito della ricchezza accumulata. L’uomo potrebbe sempre accumulare il reddito da lui guadagnato allo scopo di spenderlo ad una data futura. Il cumulo però non crescerebbe. Egli sarebbe semplicemente nella posizione del padre di Pope, il quale, ritirandosi dagli affari, portò con sé una cassa di ghinee nella villa di Twickenham ed a mano a mano gli occorrevano, tirava fuori ad una ad una le ghinee occorrenti alle spese di casa” (Keynes, p. 221).

 

 

Se dunque il paradiso non è ancora ritornato in questo basso mondo, se non è possibile conciliare lo spirito di intrapresa, l’incentivo alle invenzioni ed al progresso tecnico, la tendenza ad aumentare la produzione che sono lodate caratteristiche della struttura economica capitalistica con la abolizione della sua non ugualmente lodevole caratteristica dell’attribuzione di un reddito al capitale, la colpa è dovuta alla maligna propensione che gli uomini hanno a cumular ricchezza sotto forma liquida.

 

 

L’uomo non cumula illimitatamente frumento olio vino per premunirsi dalle carestie, dalle guerre, dagli assedi, perché tutte le derrate calano di volume e di peso, si guastano, occupano locali e richieggono cure. A un certo punto, la propensione a cumulare incontra ostacoli troppo forti. Tenere, invece, moneta sotto forma liquida, ove si faccia astrazione dal lucrum cessans della perdita degli interessi, che è il punto del quale si discorre, non costa praticamente nulla qualunque sia la quantità cumulata.

 

 

Non esiste, a un certo punto, nessuna forza la quale dica: basta, val meglio spendere (in beni di consumo o in beni capitali) piuttostoché tenere.

 

 

Perciò gli uomini tengono moneta se non si offra loro un compenso (interesse) al dar via. Il capitale dà reddito perché a tenere la moneta in forma liquida non costa nulla.

 

 

  • 10. – Quale conseguenza tragga il Keynes dalla constatazione ora fatta si legge a carte 234 del suo ultimo volume: “Quei riformatori, i quali cercano il rimedio nello spediente di creare un costo artificiale di conservare nel tempo la moneta a corso legale (tassa di bollo da pagarsi periodicamente se si voglia conservare alla moneta la qualità monetaria) sono sulla via giusta” (p. 233).

 

 

Notorio tra i riformatori è Silvio Gesell, la cui proposta di moneta “bollata” ha ricevuto il plauso di Irving Fisher. I biglietti circolanti e le altre specie di surrogati della moneta, fra cui i conti correnti bancari disponibili a vista con assegni, conserverebbero il loro valore solo quando fossero ogni mese provveduti di una marca da bollo, da acquistarsi all’ufficio postale. Gesell suggerisce un 5,4 per cento all’anno. Keynes, che ama le imposte ragionate, la vorrebbe uguale all’ingrosso alla differenza fra il saggio corrente monetario di interesse e la produttività marginale del capitale che si avrebbe se il capitale nuovamente investito fosse sufficiente per assorbire l’intiera mano d’opera disponibile. Suppongasi che per assorbire tutti i lavoratori esistenti occorra investire tanto capitale nuovo che la sua produttività marginale scenda al 2 per cento e suppongasi che il saggio di interesse sia del 5 per cento. La tassa sarà del 3 per cento ad anno. Se, per assorbire tutti i lavoratori occorra impiegare ancor maggior copia di capitale e l’ultima dose di capitale così impiegato frutti solo l’1 od il zero per cento; la tassa, ove il saggio d’interesse sia ancora uguale al 5 per cento, salirà rispettivamente al 4 od al 5 per cento. La tassa di bollo deve cioè assorbire, dell’interesse, tutto quanto supera il reddito marginale fruttato dall’ultima dose di capitale che occorre investire per occupare tutti i lavoratori. Se, come è possibile, per assorbire tutti i lavoratori, occorresse impiegare capitale a reddito zero, la tassa di bollo annua dovrebbe essere uguale al saggio di interesse annuo.

 

 

Keynes vede subito le difficoltà di attuazione del rimedio, supposto che quello sia rimedio idoneo all’assunto malanno della maligna propensione degli uomini a serbare tesori monetari; se i biglietti di banca fossero spogliati del loro premio di liquidità coll’espediente della tassa periodica di bollo, gli uomini ricorrerebbero a surrogati: conti correnti bancari e crediti a vista, monete estere, gioielli, metalli preziosi e simili. Persino la terra è stata fornita, a parere di Keynes, in date circostanze storiche, di un alto grado di liquidità, al pari della moneta[i].

 

 

Conservare la terra anche se il reddito è scarso, a preferenza di investirne il ricavo in beni – capitali, può in passato aver contribuito a tenere alto il saggio dell’interesse.

 

 

Il mondo, dopo parecchi millennii di continui risparmi individuali, sarebbe dunque grandemente povero di beni – capitali accumulati, non a causa della scarsa previdenza degli uomini e neppure delle rovine delle guerre, ma dell’alto premio di liquidità attribuito prima alla terra ed ora alla moneta (Keynes p. 242).

 

 

Marshall, e Keynes ne ricorda le parole insolitamente affermative, aveva l’opinione contraria:

 

 

“Ognuno sa che l’accumulazione della ricchezza è limitata ed il saggio dell’interesse si serba alto a causa della preferenza che la grande maggioranza degli uomini dà alle soddisfazioni presenti in confronto alle future; in altre parole della loro ripugnanza ad “aspettare”” (“Principles“, p. 581).

 

 

Quale delle due tesi è storicamente vera o più vera? Ecco un magnifico argomento di studio per gli economisti – storici. “Verificare” teorie non vuol dire dimostrarne la verità o l’errore, ché le verità economiche sono astratte ed è praticamente impossibile riscontrare situazioni storiche nelle quali esistano “tutte” le premesse le quali sono state poste a fondamento del ragionamento economico, “Verificare” è tuttavia vantaggioso sia per mettere in chiaro quali fra le premesse poste dal ragionamento sono rilevanti perché rispondenti a qualche realtà storica e quali futili perché frutto di solitarie esercitazioni da gabinetto, sia per attirare, se si riscontri contrasto fra la realtà di fatto e la verità astratta, l’attenzione sulla possibilità che qualche falla si sia introdotta nel ragionamento o qualche premessa essenziale sia stata dimenticata.

 

 

  • 11. – Storicamente, dobbiamo porci la domanda: la inclinazione a serbar la ricchezza sotto forma liquida, la “propensity to liquidity” che inaspettatamente è apparsa nei libri di Keynes e negli articoli dei suoi seguitatori come un, anzi il, deux ex machina del sistema economico odierno, come un miracoloso congegno atto a spiegare i misteri dell’economia contemporanea, come la testa di turco su cui battere affibbiandole la responsabilità di tutto quel che di male accade: le crisi, i fallimenti, la disoccupazione, lo strozzamento del commercio internazionale, le rivalità degli stati e dunque il finimondo; questa inclinazione a tenere i denari a portata di mano, che cosa è dunque? è un fatto primo o un fatto derivato? Forseché gli uomini tesoreggiano – adoperiamo l’antica tradizionale parola per indicare il fatto vecchissimo, pure allargandone, ripetasi, il contenuto sino a comprendere tutte le possibili forme di tesoreggiamento dall’oro e dai gioielli ai biglietti, ai depositi in conto corrente, ai buoni del tesoro e ai crediti a breve scadenza, e, se così piace a Keynes, persino alla terra – perché la tendenza a tesoreggiare sia una qualità innata in essi? Se così fosse, la propensione tesoreggiatrice sarebbe una costante storica. È così? Qui il ragionamento non serve; e conviene rassegnarsi a verificare pazientemente come i fatti siano accaduti in passato ed accadano oggi.

 

 

A primo tratto, la tesi della costanza nel tempo e nello spazio pare contraria all’esperienza. Si tesoreggia nella medesima misura nelle diverse classi sociali? Tesoreggiano più i ricchi od i poveri? Chi arricchisce, mentre arricchisce, tesoreggia più o meno di colui il quale impoverisce, mentre dura il processo di impoverimento? Sovratutto, si tesoreggia ugualmente in tempi di pace o di guerra, di tranquillità sociale o di rivoluzione, di rispetto alle credenze od alle idee altrui o di persecuzioni religiose e politiche, di prosperità o di crisi, di leggi durature o di leggi cangianti, di sicurezza o di incertezza, di rispetto al diritto scritto o di arbitrio amministrativo, di moneta stabile o di moneta oscillante, di rivalutazioni o di svalutazioni, di sistema aureo internazionale o di controllo dei cambi ecc. ecc.?

 

 

Se – e scrivo se perché non intendo anticipare menomamente una conclusione valida solo se l’indagine sia condotta con rigore scrupoloso – la indagine storica dimostrasse che la tendenza a tesoreggiare non è una costante, ma varia in rapporto a tale o tal’altro fattore, non forse sarebbe dimostrato che la “propensity to liquidity” non è la premessa necessaria di ogni ragionare economico? Quella tale propensione a tenere la ricchezza in forma liquida, ossia a tesoreggiare sarebbe, tutt’al più, un comodo attaccapanni a cui appendere i numerosi fattori da cui dipenderebbero le variazioni di quella propensione. Chiusa l’analisi storica atta a mettere in chiaro l’importanza relativa dei varii fattori influenti sul tesoreggiamento, si dovrebbe analizzare il contenuto di ognuno di quei fattori. Spiegare, ad esempio, la disoccupazione col tesoreggiamento non avrebbe senso quando si sapesse che il tesoreggiamento è dovuto od è connesso con lo stato di guerra o col timore di guerra. Solo l’analisi che, sia pure attraverso un certo grado di tesoreggiamento, studiasse la relazione fra disoccupazione e stato di guerra, fra disoccupazione e stato di arbitrio amministrativo, fra disoccupazione e ri – o s – valutazione monetaria avrebbe significato teorico. Contano le forze prime od originali, più che gli anelli intermedi attraverso a cui essi esercitarono la loro azione.

 

 

La proposizione che Keynes ed i suoi fidi si siano attaccati ad un anello intermedio quando hanno dato fiato alle trombe ed hanno annunciato ai popoli di aver scoperto nella “propensity to liquidity” il segreto di tutti i problemi economici, è un mero sospetto. Spetta a qualche emulo di Marget sottoporlo a preciso concludente scrutinio.

 

 

  • 12. – Per ora, mi limito ad avvalorare il sospetto con un richiamo all’avversione antica che gli statalisti monetari hanno sempre dimostrata per la moneta concepita come “serbatoio di valori”, come mezzo per serbare, per l’appunto, liquida la ricchezza.

 

 

Nessuno ha negato alla moneta l’attributo di “serbatoio di valori” più vigorosamente di John Law. Fin dal primo saggio del 1705 “Money and Trade considered with a proposal for supplying the Nation with Money” egli scrisse:

 

 

“Money is not the value for which Goods are exchanged, but the Value by which they are exchanged”. La moneta non è il valore per (ottenere) il quale si danno in cambio merci, ma il valore mediante il quale le merci sono scambiate (p. 137 dell’edizione Harsin delle “Oeuvres”, primo vol.). Nella lapidaria contrapposizione fra il for ed il by, che il traduttore francese voltò in pour e par e noi potremmo tradurre con per e mediante, sta il contrasto tra i teorici i quali reputano essenziale connotato della moneta l’attitudine sua ad essere serbatoio di valori e quelli invece i quali, ignorando siffatto connotato, reputano requisiti sufficienti della moneta l’adempimento dei due uffici di unità di conto (misuratore e denominatore di valori) e di intermediario degli scambi. È necessario che la moneta sia composta di una materia desiderata per se medesima dagli uomini, ossia, per lo più, di quell’oro che gli uomini pregiano come ricchezza tipica, liquida, immediatamente convertibile in ogni altra specie di bene economico? No, risponde Law. La moneta è mero misuratore di valori e strumento degli scambi. L’ideale moneta è quella la quale “non abbia valore intrinseco od il cui valore intrinseco sia tale che non convenga esportarla all’estero e la cui quantità non sia mai inferiore alla domanda che se ne faccia nel paese. Si otterranno così ricchezza e potenza e queste saranno meno precarie…. La carta moneta da me proposta essendo sempre uguale in quantità alla domanda, gli abitanti saranno occupati, il paese migliorato, le manifatture promosse, il commercio nazionale e forestiero esteso, potenza e ricchezza conquistate” (loc. cit. p. 138). Se possiamo creare da noi la moneta di cui abbiamo bisogno, perché mendicarla dallo straniero? “Poiché è agevole fabbricare carta moneta, sarebbe contrario a ragione porre limiti all’industria della popolazione, facendola dipendere dal possesso di specie metalliche le quali non sono in nostro potere, bensì in quello dei nostri nemici” (loc. cit. p. 160).

 

 

Più tardi, il 18 maggio del 1720, nove giorni prima dell’editto del 27 che revocava talune tra le norme più famose del “sistema” e segnava la caduta del grande avventuriero, Law in un brano, che Rist ha già (p. 38) messo in luce, traeva le logiche conseguenze del principio teorico e della argomentazione sentimentale. Se la moneta non è qualcosa che si desideri per sé ed all’ufficio può soddisfare la moneta di carta, se l’ostinazione degli uomini a preferire la moneta aurea inutile ed ingombrante è atto di lesa patria, perché non “costringerli” ad inchinarsi alla verità? “Il principe ha potestà diretta su coloro i quali tesaurizzano e nascondono le monete d’oro e d’argento, perché le monete appartengono ai privati solo in quanto siano strumento di circolazione e ad essi è proibito appropriarsele ad altro scopo…. Tutte le monete metalliche del reame appartengono allo stato, rappresentato in Francia dal Re, ed esse gli appartengono nella stessa maniera delle strade pubbliche, non per chiuderle nel proprio tesoro (pour les enfermer dans ses domaines), ma per impedire che altri le chiuda nei proprii; e come è consentito al re e soltanto al re, nell’interesse pubblico, del quale egli solo è giudice, di mutare, per comando diretto o per mezzo dei suoi uffiziali, il corso delle vie pubbliche; così gli è consentito di mutare le monete d’oro e d’argento in altri segni di scambio più vantaggiosi per il pubblico, segni da lui al par di quelle accettati…. Frattanto, sino a che le specie d’oro e d’argento serbano l’effigie del principe o il conio pubblico e coloro i quali ne fanno tesoro le considerano strumenti di scambio, il principe ha piena facoltà di obbligarli a restituirle, non facendone essi l’uso al quale sono destinate.

 

 

Il principe ha in sostanza il diritto medesimo sui beni che vi appartengono in piena proprietà e può costringervi, sotto pena di espropriazione, a seminare le vostre terre ed a riparare le case che voi possedete in una città; i vostri beni infatti non sono vostri se non a condizione che ne facciate uso conveniente per la società. Tuttavia, essendo bene evitare le inquisizioni e le confische in fatto di monete, meglio è risalire alla sorgente del male e fornire agli uomini quel tipo di moneta soltanto che essi non siano tentati di tesoreggiare” (Troisième lettre….. où l’on explique l’usage des monnoyes en général….., in “Oeuvres” ed. Harsin, terzo, p. 152). Poco prima, all’inizio del 1720, Law aveva scritto l’apologia appassionata della moneta cartacea, il cui pregio deriva unicamente dalla volontà del principe. Le monete d’oro e d’argento pregiate in sé e disseminate nel pubblico, non sono infatti strumento adatto ad una politica mirante all’interesse comune. Esse sono il simbolo dell’egoismo e dell’interesse individuale. Invece, grazie al biglietto di banca, “il credito della nazione francese, concentrato nella persona del suo re, è infinitamente superiore a quello di tutti gli altri stati più deboli e governati dalla moltitudine. Se, in un reame esteso, fecondo, ben situato e bene popolato, vi è un solo interesse, un solo credito, una sola potenza, tutto cammina mosso da una sola forza, l’interesse comune è l’interesse particolare di ognuno, l’interesse del capo è inseparabile da quello dell’individuo e l’uno non può sussistere senza l’altro…. Tutte le ricchezze dell’intiero reame rispondono del valore della nuova moneta di carta. Tutto sarà dato in cambio di essa ed essa sarà data in cambio di tutto. Il re possiede in essa un mezzo sempre pronto per far circolare in ogni tempo e in ogni luogo tutto ciò che può essere comprato e venduto, qualunque cosa esso sia” (“Idée générale du nouveau système des finances”, in “Oeuvres”, ed. Harsin, terzo, p. 80).

 

 

Se gli uomini, tratti dal loro egoismo, riluttando ai comandamenti della legge e della ragione, si ostinano a preferire le monete d’oro e d’argento a quella di carta voluta dall’interesse pubblico, importa costringerli d’autorità “a collaborare alla propria felicità ed a comprendere che se le terre, le merci e le derrate spettano ad essi in maniera siffatta che i sovrani non potrebbero confiscarle senza ingiustizia e perciò senza rovina ultima della propria potenza, la moneta, la quale fa circolare beni reali e li trasmette successivamente a tutti i membri dello stato, appartiene al re e non certo ad alcun cittadino in particolare. Costui non ne ha che l’uso; e poiché l’uso si fa per mezzo della circolazione e questa è la vita del corpo politico chiunque l’arresta è parricida. Ogni uomo che tesaurizza le specie metalliche senza farne uso e distrugge così in germe il guadagno che deriverebbe dalla loro circolazione è cattivo cittadino ed il sovrano può obbligarlo a lasciar l’uso del suo tesoro allo stato. L’atto d’autorità il quale frena solo i male intenzionati è utile allo stato e non merita perciò affatto il nome di violenza” (“Idee….” loc. cit. pp. 91 – 92).

 

 

Caduto, Law riflette alle cause della rovina del “sistema”. Come tutti i progettisti, egli non ammette che la rovina sia dovuta alla grandiosità fantastica dei suoi schemi, alla esagerazione delle sue operazioni creditizie, alla violazione dei canoni prudenziali riguardanti il rapporto fra impegni e disponibilità liquide. No. La colpa della rovina è di coloro i quali, essendo creditori di depositi in banca, o portatori di biglietti, delittuosamente ne pretesero il rimborso in moneta metallica. “Il diritto ad avere monete d’argento e d’oro non deve essere considerato come un diritto di proprietà immarcescibile; esso è un diritto di godimento passeggero al quale non si può partecipare tutti contemporaneamente, sibbene a turno, perché, avendo ognuno consentito che l’argento fosse lo strumento comodo dello scambio di tutte le merci e derrate, è ingiusto sottrarlo al commercio, è necessario che esso si diffonda e circoli perpetuamente tra gli uomini. Gli uomini hanno tutti un diritto legittimo di pretendere che esso circoli e ragione di querelarsi quando esso non si fraziona e l’accaparramento degli uni impedisce agli altri di riceverne la giusta parte. Non è l’argento il mediatore scelto a procacciare i beni necessari agli uomini?” (“Histoire des finances pendant la régence”, scritta od inspirata da Law tra il 1723 ed il 1724, in “Oeuvres”, ed. Harsin, terzo, 366).

 

 

Nessuna pena è perciò bastevole per gli accaparratori di oro e di argento: “I magazzini che taluno fa di grano e di altre derrate necessarie sono condannati come monopoli e sono a ragione puniti. È ingiusto infatti che un piccolo numero di uomini avidi si renda padrone di trattenere e distribuire le cose necessarie altrui e, con accordi criminali, ne fissi a piacere il prezzo. L’accaparramento di moneta metallica che rende più rari e inaccessibili gli strumenti per acquistare grani, derrate e merci, che li fa rincarare, non deve forse essere considerato altresì monopolio più pericoloso dell’altro, in quanto si estende generalmente su tutte le cose?

 

 

Se l’accaparramento di una derrata sola, pur essendo un monopolio particolare, merita punizione, il monopolio della moneta merita punizione ancor più rigorosa, in ragione dei mali più grandi da esso cagionati” (“Histoire ecc.”, loc. cit. terzo, p. 365).

 

 

  • 13. – Ingenuamente, Law ha messo il dito sulla ragione profonda la quale consiglia agli uomini di aspirare alla liquidità, di andare alla ricerca di qualche cosa che possa per eccellenza essere “tesoreggiata”. Confusamente, gli uomini hanno sempre sentito che qualora avessero soltanto avuto bisogno di possedere una unità di conto (numerario) ed uno strumento di scambio, essi non avrebbero dovuto ricorrere a dischi composti di materia preziosa. Si sarebbe potuto far a meno persino di segni monetari cartacei; bastando l’uso di numeri astratti. Rosenstein – Rodan ha magnificamente spiegato che il bisogno di moneta nasce esclusivamente dall’incertezza rispetto agli avvenimenti futuri. In uno stato di equilibrio statico, nel quale cioè il futuro è perfettamente e sicuramente previsto da tutti, non ci sarebbe bisogno di moneta per soddisfare alla terza esigenza sua tradizionale di “serbatoio di valori”, ma solo, come voleva Law, per adempiere ai compiti di misuratore di valori (unità di conto) e strumento di cambio. In quel momento medesimo la moneta non avrebbe più ragion d’essere. Moneta e perfetta sicura previsione dell’avvenire sono due concetti incompatibili. La moneta nasce solo quando, a causa dell’incertezza ed insicurezza dell’avvenire, gli uomini sentono il bisogno di un “serbatoio di valori”. “In un’economia senza ‘attriti’, in cui ognuno preveda con perfetta certezza i proprii gusti, i proprii redditi, i prezzi futuri e perciò le date e le dimensioni dei proprii acquisti, nessuno terrebbe provvista di contanti.

 

 

Ognuno investirebbe tutto il proprio denaro esattamente per il periodo di tempo compatibile con i pagamenti futuri previsti, perché altrimenti si perderebbero gli interessi che si potrebbero guadagnare con l’investimento.

 

 

Ognuno terrebbe un conto in una banca centrale e tutti i pagamenti sarebbero compiuti per mezzo di opportuni giro conti nei libri della banca.

 

 

Investimenti brevi e lunghi avrebbero il medesimo pregio come mezzi di pagamento, perché, in questa situazione di universale previsione sicura, non si correrebbe alcun rischio e perciò non vi sarebbe alcuna differenza fra saggi brevi e lunghi di interesse. Nessun limite esisterebbe ugualmente alla creazione di credito da parte della banca centrale; il processo economico si svilupperebbe come se la velocità di circolazione della moneta tendesse all’infinito: e cioè i prezzi monetari diventerebbero indeterminati, nonostante i prezzi relativi [fra bene e bene] rimanessero perfettamente determinati. Siffatta reductio ad absurdum dimostra che non si può partire dalla premessa di previsione generale sicura e al tempo stesso supporre esistente la moneta; ché le due premesse non sono a vicenda compatibili. La moneta (e i saldi in contanti) esiste solo e in quanto gli uomini non siano generalmente in grado di fare previsioni sicure; essa è funzione del senso di incertezza rispetto all’avvenire ed è un mezzo per affrontarlo. La moneta è il bene il quale soddisfa il bisogno di certezza”. (P. N. Rosenstein-Rodan, “The Coordination of the General Theories of Money and Prices“, “Economica”, August, 1936, pp. 271-2).

 

 

E più sotto:

 

 

“Partire nel tempo stesso dalle premesse della moneta e dell’equilibrio statico è partire da premesse fra di loro incompatibili. Noi possiamo discutere di moneta solo in un’economia dinamica” (ivi, p. 279).

 

 

Il teorico vien così a suffragare, per altri fini, di conoscenza pura, le sensazioni indistinte dell’uomo ordinario, il quale apprezza la moneta non per le qualità di misuratore dei valori (unità di conto) e di strumento di scambio ma di serbatoio di valori. L’uomo ordinario, dell’oggi come di ieri, si serve della moneta per contrattare e fare scambi; ma apprezza la moneta secondo una graduatoria. In questa egli colloca le varie specie di monete a seconda che si avvicinano meglio a quella specie alla quale egli attribuisce pregio per se stessa, quella che egli, a torto od a ragione, considera “serbatoio di ricchezza liquida”. I biglietti, convertibili o inconvertibili, i conti in banca, i crediti, i titoli, la terra, tutti i beni in genere che in qualche tempo o in qualche paese o per talun rispetto sono stati considerati moneta, sono da lui apprezzati a seconda della loro maggiore o minore attitudine a convertirsi nella moneta “serbatoio”. Se oggi, come ieri, gli uomini attribuiscono all’oro la qualità di “ricchezza liquida” per antonomasia, le monete d’oro sono le sole che gli uomini considerano monete proprie.

 

 

Le pagine che Ricardo scrive partendo dalla premessa che la moneta abbia per ufficio di misurare i valori e di facilitare scambi, sia cioè un bene strumentale, sono meravigliose per rigore logico[ii]; ma ignorano il dato fondamentale: che Rosenstein enuncia dicendo la moneta non esistere in un mondo nel quale non esiste incertezza rispetto all’avvenire, Keynes esprime affermando essere la moneta un fatto rilevante essenzialmente perché essa è “un anello di congiunzione fra il presente e l’avvenire” (“The general Theory p. 293) e Marget ribadisce osservando che la proposizione secondo la quale la moneta è usata come moneta solo quando è adoperata come strumento di scambio e non quando è usata come serbatoio di valori, è fallace perché dimentica essere il compito di “serbatoio di valori”, immedesimato al compito di strumento di scambio (pagina 464).

 

 

Gli uomini, a torto od a ragione, essendo sinora stati soggetti sempre all’assillo della incertezza rispetto all’avvenire, apprezzano quel bene che dà ad essi una qualche certezza, maggiore di quella che è fornita da altri beni e quel bene chiamano moneta. Oggi quel bene è l’oro, non monta se coniato od in verghe, serbatoio per eccellenza di valori. Gli altri compiti, di strumento degli scambi e misuratore di valori, esistono perché e finché gli uomini sono persuasi che quella moneta in cui contrattano e per mezzo di cui effettuano scambi, è moneta d’oro o surrogato perfetto di moneta d’oro. A mano a mano che la qualità del surrogato diventa meno perfetta, scade il suo pregio, sino a diventare zero. Nel momento nel quale il surrogato cessa di essere “serbatoio di valori” cessa altresì di essere bene strumentale.

 

 

Quando il marco tedesco cadde nella estimazione dei tedeschi ad un milionesimo di un milionesimo del pregio attribuito all’antico marco d’oro, nessuno se ne servì più per l’ufficio di misuratore di valori e di strumento degli scambi.

 

 

  • 14. – Per altra via, attraverso Law ed i suoi imitatori nell’odio verso la moneta d’oro, si giunge alla stessa conclusione alla quale s’era arrivati discorrendo della “propensione alla liquidità” di Keynes. Il teorico modernissimo ed il grande progettista si accordano in un punto: nell’attribuire ad un fenomeno superficiale le conseguenze di fattori più profondi.

 

 

Keynes dice: la predilezione superstiziosa degli uomini verso gli impieghi liquidi e perciò verso l’impiego più liquido di tutti, ossia la moneta d’oro ed i surrogati più o meno perfetti di essa, spiega perché il saggio di interesse sia una quantità positiva; e poiché, se tot è il saggio di interesse corrispondente alla piena occupazione dei fattori produttivi esistenti, la necessità per gli imprenditori di dover pagare un saggio di interesse superiore a tot impedisce di occupare tutti i beni strumentali e tutti i lavoratori disponibili, è chiaro che la disoccupazione e le crisi sono dovute alla superstizione della liquidità, responsabile di quel saggio di interesse. Quindi puniamo con una multa mensile periodica ogni moneta dopo l’istante della emissione, sì da costringere il detentore di essa a sbarazzarsene ed a farla ritornare all’istituto da cui era uscita. Law aveva, anticipatamente, due secoli prima, aggiunto: la tassa di bollo mensile sulle monete di carta e sugli altri surrogati della moneta (tasse sui conti correnti a vista e ad interesse zero, come in parte si fa in Svizzera per allontanare i depositi esteri) non basta, finché gli uomini possono trovare un rifugio nelle monete d’oro e d’argento. Queste sono il vero nemico della prosperità e della grandezza delle nazioni. Bisogna togliere agli uomini la disponibilità dell’oro, dell’oro monetato come di quello non monetato. Il detentore d’oro è nemico del paese, è accaparratore peggiore degli affamatori del popolo.

 

 

In attesa del grido rivoluzionario “alla lanterna” si sente il monito: alla forca!

 

 

Se l’analisi condotta sopra è corretta, Keynes e Law errano, scambiando il sintomo esterno colla spiegazione vera della malattia. L’amore alla liquidità e l’amore all’oro sono meri sintomi esteriori della malattia dell’incertezza, dell’ansia dell’avvenire, che sempre ha travagliato l’uomo. Chi avrebbe dovuto salire al patibolo e piegare il collo sotto la ghigliottina? Law e Robespierre che fabbricavano carta moneta e la svilivano o i tremebondi francesi i quali, per scampare alla rovina, nascondevano monete d’oro? Nel tempo, i gradi della febbre monetaria salgono o scendono a seconda della paura dell’avvenire e con essi sale o scende la tendenza alla liquidità ed al tesoreggiamento. La febbre non scompare coll’uso di rimedi empirici, come sono le imposte di bollo sui biglietti o l’impiccagione degli accaparratori d’oro. Crescendo lo stato d’inquietudine, quei rimedi crescerebbero i gradi di febbre. Scrive Rist: “Un assegno in oro è una cosa precisa e chiara che ognuno comprende, come ognuno comprende che cosa è un’ipoteca su una terra od una casa che egli conosce. Una moneta di carta è una tratta sull’ignoto, su un paese o su un governo di cui nessuno può prevedere in anticipo le avventure politiche sociali a finanziarie e le deliberazioni arbitrarie. Alcuni teorici hanno il torto di descrivere gli uomini più ottusi di quanto non siano. Nessuno ignora, dopo l’esperienza dell’ultimo quarto di secolo, che colui il quale nel 1913 avesse trasformato tutta la sua fortuna in lingotti e l’avesse sotterrata per trarla fuori oggi dal nascondiglio, avrebbe compiuta la più bella operazione speculativa immaginabile. Si immagina forse che il più umile dei contadini non si sia accorto che nel corso degli ultimi venticinque anni l’oro è l’unica merce di cui il valore sia fuor d’ogni dubbio cresciuto? La stabilità di valore dell’oro dura a dispetto di tutte le carte – moneta. L’idea, pur nudrita da tanti uomini serii, che, demonetizzandolo, lo si farebbe scapitare in valore, mi pare del tutto sbagliata. Demonetizzare l’oro è nulla. Bisogna sapere con che cosa sostituirlo; e, finora, nessuno ha saputo dirlo” (“Histoire ecc.” pp. 452-3).

 

 

Vi sono stati momenti, purtroppo fuggevoli, nella storia degli ultimi secoli, nei quali il saggio di interesse per impieghi lunghi tendeva a scendere, al disotto del 3 e fin del 2 per cento: in Olanda, in Inghilterra e, in grado alquanto minore a Venezia ed a Torino verso la metà del secolo decimottavo; in Inghilterra, in Olanda ed in Francia nell’ultima quarto del secolo decimonono. Pareva prossima quell’euthanasia del rentier di cui favella (p. 376) il Keynes. Indagare le ragioni del fatto singolare sarebbe argomento degno dell’economista storico. Probabilmente, fra le altre, grandeggerebbe la ragione della sicurezza. Gli uomini erano o si ritenevano sicuri. L’ansia dell’avvenire era malattia scarsamente diffusa. Chi possedeva cento unità monetarie non pensava alla possibilità che le sue cento unità si volatilizzassero. Senza sapere il perché, egli istintivamente aveva fede che il possesso di quelle cento unità significasse qualcosa e che questo qualcosa fosse stabile. A pochi miseri avari veniva in mente di cercar rifugio contro l’incertezza nel possesso di dischi rotondi d’oro o di gioielli. Il premio di liquidità era bassissimo e contribuiva scarsamente a crescere il saggio di interesse corrente. I tenui residui di incertezza e del conseguente premio di liquidità parevano dover essere eliminati dall’avanzare di quella che dicevasi “civiltà”.

 

 

Economisti celebri, come Paolo Leroy Beaulieu, ponevano il problema della rivoluzione sociale pacifica che sarebbe accaduta quando il saggio dell’interesse fosse disceso all’1 e forse a meno dell’1 per cento. Si annunciavano, nel momento del trionfo massimo della società capitalistica, il tramonto del reddito del capitale puro e l’elevazione dei lavoratori.

 

 

Col voltar del secolo, un senso nuovo di ansia corse per il mondo, la lancetta del barometro economico segnò rialzi nel saggio dell’interesse ed inquietudini sociali crescenti. Che cosa era accaduto? Lo storico deve ammonire gli economisti a starsi modesti ed a non attribuire ai proprii gingilli detti tesoreggiamenti e tendenza alla liquidità meriti o colpe che sono di forze ben più potenti.

 

 

Non giova denigrare l’oro mentre, contraddicendosi apertamente, si tende a proscriverlo. Rist ha spiegato lucidamente le ragioni dell’attaccamento degli uomini all’oro:

 

 

“Un inventore di genio, il signor Edison, chiedeva nel 1907: non è assurdo adottare come unità di conto una materia di cui l’unica vera utilità è quella di dorare quadri e chiudere denti malati?… Francois Simiand aggiunse – e le sue parole parvero una scoperta: ‘L’oro è la prima delle monete fiduciarie’…. A guardar a fondo, tutti i valori hanno carattere fiduciario. Tutti si basano sulla persuasione che le condizioni le quali oggi danno valore ad un bene qualunque persisteranno nell’avvenire. Che cosa diventerebbe il valore della terra se domani la chimica scoprisse il modo di produrre in serra calda, su uno spazio venti volte più piccolo, raccolti doppi o tripli degli odierni? A che si ridurrebbe il valore di una ferrovia se l’automobile potesse rendere gli stessi suoi servizi, di una flotta marittima se l’aviazione potesse sostituirla, di una miniera di rame se l’alluminio surrogasse il rame in tutti gli usi? Nessuna ricchezza umana possiede pregio che sia sicuro contro scoperte capaci di renderla inutile. L’oro non fa eccezione alla regola. La fiducia del pubblico nell’oro non è, tuttavia, scossa dalle obiurgazioni lanciate contro di esso. Nonostante le critiche degli economisti, il pubblico evidentemente crede di essere dalla parte della ragione; la sua affezione per l’oro cresce quanto più si tenta di privarnelo. L’accumulazione del metallo giallo nelle banche centrali di emissione – la qual d’altra parte riesce unicamente a sostituire all’amore del pubblico per l’oro l’attaccamento appassionato dei governatori di queste banche per le loro riserve metalliche – ha persuaso ancor più il pubblico della convenienza di serbare tesori individuali. Ne è prova l’alta tesaurizzazione degli ultimi anni. Le radici dell’attaccamento del pubblico all’oro…. nascono dalla lunga esperienza della stabilità del valore dell’oro e dalla esperienza non meno lunga della instabilità delle monete create dai governi. Siffatto attaccamento è uno degli aspetti della lotta eterna fra l’individuo e lo stato, volendosi il primo assicurare da sé contro le alee dell’avvenire, e pretendendo il secondo far della moneta strumento del sua arbitrio e riservarsene il monopolio” (“Histoire”, pp. 83-84).

 

 

I risparmiatori francesi, ai quali Rist pensava nello scrivere la pagina qui riportata, agivano ragionevolmente quando, negli anni dopo la grande guerra, formavano tesori individuali aurei? La risposta non è agevole.

 

 

  • 15. – Basti qui aver posto in rilievo l’importanza, dottrinale e storica del terzo connotato della moneta. Il peso singolare che tanti teorici contemporanei danno al punto di vista dei saldi in contanti (cash – balances) nella teoria dei prezzi è frutto della impossibilità in cui i teorici si sono trovati di spiegare i prezzi e le loro variazioni e quindi il salario il profitto l’interesse ed i cicli economici, e cioè, in sostanza, l’intero moto economico assumendo una moneta dotata soltanto dei due connotati di metro dei valori e di strumento degli scambi. Taluno, come sopra si vide, giunge a dire che in un mondo economico in cui tutto è previsto, la moneta è inutile e perciò inesistente; ed in un mondo in cui il fattore incertezza esiste, moneta è esclusivamente quella merce la quale soddisfa al bisogno di certezza.

 

 

Quale è questa merce? Law e tutti i cartalisti prima e dopo di lui hanno offerto “carta moneta”. Gli uomini hanno risposto manifestando pertinace attaccamento all’oro. Perché? Trattasi veramente, come dice Rist, un episodio dell’antico persistente duello fra individuo e stato? Il contrasto non può essere esposto sotto altra forma? Quali premesse politiche e morali sono tacitamente supposte dagli economisti i quali, da Ricardo a Keynes, teorizzano una moneta cartacea governata dall’istituto di emissione allo scopo preciso ed esclusivo di raggiungere un certo effetto, ad esempio quello della parità dell’unità monetaria legale con un peso dato di oro fino, ovvero di costanza nel livello dei cambi esteri ovvero, ancora, nei prezzi dei beni di consumo o dei beni in generale? Quali diverse premesse politiche e morali sono invece, forse inconsapevolmente, supposte dall’uomo ordinario il quale persiste a dimostrarsi tenacemente attaccato alla moneta d’oro e, colla sua sfiducia nella moneta di carta, frustra i piani meglio consegnati? Il contrasto attuale fra Inghilterra e Francia è, a cagion d’esempio, eloquente. Laddove la Banca d’InghiIterra è, dopo l’abbandono del tipo aureo, riuscita a “maneggiar” la lira sterlina carta in guisa da evitare tollerabilmente bene sensibili e brusche variazioni di cambi e di prezzi, la Francia non è, dopo la parentesi Poincarè, riuscita affatto al medesimo intento rispetto al franco carta. In Inghilterra è, oggi, ignorato il contrasto fra individuo e stato che in Francia dà luogo al tesoreggiamento ricordato dai teorici e deprecato dai politici. In una recensione critica del libro di Rist, il signor R. S. Sayers ammette che “molti continentali riguardino l’oro come l’unico sicuro ‘serbatoio di ricchezze’, ma per conto suo è sicuro che l’inglese è perfettamente contento di far servire i biglietti – sterline allo stesso ufficio” (“Economic History”, febbraio 1939, p. 290). È ammirevole l’ingenuità degli anglosassoni quando candidamente suppongono normali i loro proprii usi e guardano a quelli stranieri come a mere stranezze curiose.

 

 

All’osservatore estraneo l’usanza inglese appare un unicum nella storia del mondo e le abitudini francesi sembrano riassumere di gran lunga meglio la storia dei tempi passati sino a ieri. Il teorico e lo storico partono imparzialmente da ambe le ipotesi e da ambe le constatazioni di fatto. Dire che gli inglesi sono diversi dai francesi non è infatti spiegazione bastevole; ché in altri tempi anche gli inglesi tesaurizzavano. Qui la storia può accorrere in aiuto della teoria. Compito dello storico è rispondere alla domanda: quando accade che la sensazione del bisogno di certezza si attutisca e quasi si ammortizzi nell’animo umano, sì che gli uomini non facciano domanda del bene – moneta atto a soddisfarlo ed il bene medesimo possa essere immagazzinato nelle sacrestie degli istituti di emissione ed usato vantaggiosamente, senza alcuna spesa, con meri gira – conti nei libri di una super banca centrale delle banche centrali nazionali, a pareggiare i saldi dei pagamenti internazionali e, nel comune commercio, possa essere surrogato, con tacito consenso di tutti, da una sua immagine cartacea; e quando accade invece che gli uomini, sentendo acutamente la mancanza di sicurezza, chieggano, con intensità crescente di desiderio, il bene – moneta atto a soddisfare qual bisogno e lo chieggono nella sola specie, a ragione od a torto, reputa vero “serbatoio di valori”?

 

 



[i] Ma l’estensione della qualità monetaria alla terra, è confortata (p. 241) da un ragionamento alquanto difficile da seguire. Pare che: 1) l’alto interesse ottenuto con i mutui ipotecari sottragga capitale agli investimenti in beni – strumentali atti a far crescere la ricchezza; 2) l’interesse ipotecario sia spesso superiore al reddito ricavabile dalla terra; 3) il capitalista investa preferibilmente il proprio denaro in mutui ipotecari quando egli speri di potersi impadronire della terra ipotecata se, alla scadenza del mutuo, il debitore non rimborsi; 4) il diritto che talvolta ha il debitore di sdebitarsi consegnando, invece della pattuita somma di denaro, la terra ipotecata, faccia rassomigliare il contratto di mutuo ad una specie di contratto di riporto in cui si vende la terra pronta per contanti e la si riacquista futura allo stesso prezzo più il riporto (interesse). Supponendo che le premesse siano esatte, come se ne deduce che la terra sia una ricchezza particolarmente liquida? Liquida è quella ricchezza che si tiene perché si suppone di potersene disfare senza perdita. Se la terra così fosse, non solo gli uomini sarebbero disposti ad acquistarla a basso saggio di frutto ed alto valor capitale; ma sarebbero disposti medesimamente a dare a mutuo con ipoteca su di essa a basso, e non alto, saggio di interesse quando sperassero alla scadenza del mutuo ricevere terra invece di denaro. Quindi la terra non farebbe concorrenza ad altre forme di investimento in punto ad interesse; né, a meno di supporre che i mutui ipotecari terrieri abbiano scopi consuntivi – ed il Keynes qui ed altrove, non accenna a mutui consuntivi – si vede in qual maniera il mutuo ipotecario sottragga capitali agli “altri” investimenti, ché il proprietario dovrà destinarlo a migliorie ossia investirlo in beni strumentali. Se il mutuo è consuntivo, il villain of the piece non è la terra, sibbene la “propensity to consume” ossia, noi si direbbe, la tendenza scialacquatrice dell’uomo.

[ii] Vedi, nel quaderno di giugno 1938 di questa rivista il saggio di Attilio Cabiati su “Quel che è vivo e vero nella teoria quantitativa della moneta di Davide Ricardo”.

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