Opera Omnia Luigi Einaudi

Delle origini economiche della grande guerra, della crisi e delle diverse specie di piani

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/09/1937

Delle origini economiche della grande guerra, della crisi e delle diverse specie di piani

«Rivista di storia economica», settembre 1937, pp. 277-289

In estratto: Torino, Einaudi, 1937, pp. 13

 

 

 

Lionel Robbins, Economic planning and international order. Macmillan and Co. Ltd. Martin’s street, London, 1937. Un vol. in 16 di pag. quindicesima – 330. Prezzo 8 scellini e 6 d.

 

 

Wilhelm Roepke, Crises and cycles. Adapted from the German and revised by Vera G. Smith. William Hodge and Co. London, 1936. Un vol. in ottavo di pag. undicesima – 224. Prezzo 10 scellini e 6 d.

 

 

1. Coll’allontanarsi del ricordo della «grande crisi», colla ripresa dell’attività economica, con la diminuzione della disoccupazione, col rialzo dei prezzi delle merci e dei valori, sono mutati i problemi offerti alla meditazione dell’economista. Il pubblico ansioso di applicare gli insegnamenti della teoria alla condotta pratica degli uomini, non chiede più: «quali i mezzi più opportuni per attenuare gli effetti della crisi?» bensì: «quali i mezzi migliori per impedire che la prosperità odierna si volga in frenesia e dia luogo nuovamente ad un tracollo»? Lo studioso inteso a fornire una spiegazione storica degli avvenimenti non assevera più apoditticamente: «La grande crisi segna l’agonia suprema del capitalismo e preannuncia il passaggio ad una forma superiore di organizzazione economica».

 

 

Poiché la «grande crisi» è passata, si dubita che essa abbia annunciato qualcosa di definitivo; e si preferisce porre il problema in altro modo: «è accertabile una relazione di causa ad effetto fra il sistema economico vigente e la gravità eccezionale della crisi passata»? Il problema, nonostante il mutato modo del porlo, non muta; ché, se un tipo di organizzazione economica fu la causa della crisi (ricerca storica), il mezzo più opportuno non più per porvi termine, ma per impedire il ritorno di essa, dovrebbe essere il passaggio ad un tipo diverso di organizzazione economica (ricerca pratica).

 

 

2. È noto che l’opinione corrente nella più parte dei paesi del mondo ha risoluto il problema storico affermando che la causa profonda delle variazioni continue dalla prosperità alla crisi e dalla crisi alla prosperità, che la spiegazione del paradosso della coesistenza dell’opulenza e della miseria, dei milioni di disoccupati in cerca di lavoro e dei magazzini ricolmi di merci invendibili, degli uomini morenti di fame e delle derrate che sono bruciate o buttate in mare si trova nell’anarchia dell’organizzazione economica, nella mancanza di un piano coordinato. Al tipo liberale di organizzazione della società economica, causa dei disordini ricorrenti che l’affliggono, importa perciò sostituire un tipo diverso, dominato in sostanza dall’idea del piano, del programma, dell’ordine che una autorità, di governo o di gruppi economici organizzati, dovrebbe attuare in maniera logica coordinata previdente.

 

 

3. Il Robbins, che sulla «grande crisi» aveva scritto un lucido battagliero libro[1], scrive ora un saggio altrettanto battagliero e lucido intorno al significato che i vari tipi di «piani» hanno rispettato ai rapporti tra i vari paesi del mondo. La tesi centrale del libro è che la continuità della coesistenza di diverse nazioni del mondo è incompatibile con qualunque piano diverso da quello economico liberale. La tesi è posta nettamente, senza mezzi termini. Non la discuterò, perché dovrei scrivere un saggio più lungo di quello del Robbins. Mi limiterò a dire di due affermazioni sue che sono, per quella tesi, fondamentali: il tipo liberale di organizzazione della società economica non equivale ad anarchia. Esso è invece un piano, il quale non fu applicato in passato se non in piccola parte e non può essere perciò ritenuto responsabile di fatti (crisi) accaduti quando il piano liberale non agiva; un piano, qualunque piano, è sovratutto un fatto politico, non economico.

 

 

È un capovolgere la storia cercare nell’economia la spiegazione degli avvenimenti politici, sociali, intellettuali. Bisogna invece cercare nella politica la spiegazione degli avvenimenti economici.

 

 

4. Ho ripetutamente sostenuto la verità della seconda affermazione, che, a ben guardare, è la più importante delle due. Il Robbins reca ad essa un notabile contributo di prove. Si diceva innanzi al 1914 e si continua ad asseverare oggi che la guerra mondiale sia stata dovuta all’antagonismo «economico» fra l’Inghilterra, paese vecchio e ricco, scarsamente popoloso nel proprio territorio imperiale, deliberato a difendere una posizione egemonica nei commerci, nella marina mercantile e nei possessi coloniali e la Germania, paese nuovo e crescente in ricchezza, a popolazione fittissima e straripante, bisognoso di conquistare mercati e colonie per trovare ai propri figli un po’ di posto al sole. Che un antagonismo esistesse, sembra potersi affermare con certezza; non così che quell’antagonismo fosse «economico».

 

 

Lo si sarebbe potuto chiamare tale quando:

 

 

1)    il crescere della industria e dei commerci germanici avesse potuto dirsi in se stesso dannoso alla industria ed ai commerci britannici. Il che era da escludersi del tutto, ché i tedeschi erano tra i migliori clienti degli inglesi e viceversa; ed in genere mai non si vide che il prosperare di una contrada non sia di vantaggio alle contrade vicine. Anche l’Inghilterra prosperava e progrediva; ed il sentimento d’invidia nel vedere crescere più velocemente la Germania non ha indole economica. Il sentimento fa nitidamente parte di quel gruppo di affetti i quali danno luogo all’azione politica. Non risponde a nulla di «razionale»; e non può quindi essere incluso nei moventi dell’azione economica; la quale non si concepisce se non nel campo della razionalità della scelta fra due o più azioni dissimili;

 

2)    il crescere dell’industria e dei commerci germanici avesse trovato una barriera infrangibile se alla Germania non fosse stato consentito di conquistare politicamente territori europei o nuove colonie, oltre quelle allora possedute ed a mala pena cominciate a sfruttare, per il collocamento dell’esubero della propria popolazione o delle proprie mercanzie. Era invece fatto sicuramente constatabile che l’incremento dell’industria germanica aveva avuto luogo tra il 1870 ed il 1914 con velocità superiore a quella dell’incremento di altri paesi, i quali avevano in quel frattempo annesso territori coloniali più estesi. Ed era egualmente certo che, da quando l’industria tedesca si era fatta gigante, i tedeschi avevano cessato di emigrare verso gli Stati Uniti ed il Brasile, territori dianzi favoriti di popolamento per essi; che mai essi avevano manifestato una qualunque preferenza per le colonie africane di diretto dominio, nelle quali si recavano soltanto soldati e funzionari; e che le importazioni di materie prime e le esportazioni di prodotti finiti da e per codeste colonie erano un minimissimo rivolo in confronto del traffico con i paesi cosidetti rivali, sovratutto europei.

 

 

5. L’antagonismo non derivava dunque da oggettive considerazioni economiche. Esso derivava esclusivamente da talune idee, estranee al ragionamento economico, le quali, assiduamente coltivate e propagandate dalla scuola storica tedesca, di storici politici e di economisti storici, avevano finito di diventare carne della carne del ceto politico dirigente tedesco e, dalla Germania trapassate in Inghilterra, sebbene qui non si fossero allora trasformate in azione, avevano, ad opera del fondatore della dinastia Chamberlain, posto un germe destinato a fruttificare vigorosamente a guerra finita.

 

 

Dicevamo quelle idee: che il commercio segue la bandiera; che un paese non è potente se non dispone di propri territori esclusivi di sbocco per la produzione interna; che la Germania trovava un limite infrangibile al proprio incremento nella ristrettezza dei territori di diretto dominio e delle colonie a mercato riservato alla madrepatria; che, lasciando da parte ai due estremi la Francia e la Russia, amputande ambe dei territori non strettamente ed originariamente francesi o russi, la Germania aveva ricevuto da Dio la missione di organizzare l’Europa centrale, dal Baltico al Mediterraneo e dal Reno al Dnieper, attraverso le Alpi ed i Balcani in una potente unità economica medio – europea. Alla quale concezione l’Inghilterra naturalmente doveva opporsi, come vi dovevano essere contrari gli Stati Uniti.

 

 

Non già perché l’unificazione dei mercati dell’Europa centrale anzi, se possibile, di tutta l’Europa non fosse un assai desiderabile ideale, per il meraviglioso incremento di commerci e di opere che ne sarebbe derivato; ma perché quell’unità, creata a scopo di potenza dalla Germania imperiale guglielmina sarebbe stato uno strumento formidabile di distruzione in primo luogo dell’unità politica detta comunità britannica delle nazioni o, poscia, dell’altra detta degli Stati Uniti.

 

 

Non l’idea economica – unificazione dei mercati europei mercé ribassi ed abolizione di dazi doganali, salva restando l’indipendenza politica degli stati contraenti ma l’idea politica – egemonia tedesca su stati vassalli per assicurare l’esclusività del mercato medio europeo alla

industria tedesca – fu la causa dell’antagonismo anglo – germanico e contribuì allo scoppio della guerra mondiale. Non l’idea economica della unificazione del mercato medio – europeo, ma l’idea politica che l’egemonia tedesca sul popolo italiano fu causa di guerra fra Germania ed Italia. Ad accentuare il contrasto fra le due idee, giova osservare che nulla di più repugnante al ragionamento economico classico ante – 1914 vi poteva essere di quella politica.

 

 

La conquista della esclusività di possesso di un mercato pareva invero a quegli economisti essere preordinata non solo alla rovina dell’economia degli altri paesi, ma alla decadenza dell’industria medesima tedesca. Il meraviglioso progresso che quell’industria aveva speri meritato dopo il 1870 era, secondo quei teorici, il frutto della lotta contro «l’empio rivale» britannico.

 

 

Se non fossero stati stimolati dalla necessità della lotta, gli inventori e gli organizzatori tedeschi non avrebbero compiuto i miracoli che nel ridurre i costi, nell’antivedere bisogni futuri, nell’adattarsi ai gusti forestieri avevano compiuto tra la stupefazione del mondo. Sia ad essi consentito di adagiarsi sul possesso monopolistico di territori coloniali più ampi di quelli già posseduti in Africa e in Oceania, sullo sfruttamento di mandre di negri e di gialli, sul dominio di un mercato chiuso medio – europeo ed anche gli inventori e gli organizzatori tedeschi decadranno, come, prima, erano decaduti spagnoli francesi olandesi e gli stessi inglesi del ‘700. Così ragionavano gli economisti classici, richiamandosi alle esperienze passate. Prevalsero i sentimenti politici e questi condussero alla guerra.

 

 

6. Il Robbins osserva, d’accordo con assai altri inglesi, che se una responsabilità della guerra futura può oggi attribuirsi all’Inghilterra, questa non può esser fatta risalire al possesso in se medesimo di colonie, ma a certi sentimenti politici innestati su quel possesso. S’intende che egli discorre delle colonie propriamente dette che sono una piccola parte dei territori colorati in rosa sulla mappa del mondo. Il Canadà, il Sud Africa, la Nuova Zelanda, l’Australia, l’Irlanda e prossimamente l’India sono, con le colonie rispettive, stati così indipendenti dalla Gran Bretagna, come questa è indipendente dagli Stati Uniti; né la responsabilità della politica economica di ognuno di quegli stati, per esempio di quella rigidamente protezionistica dell’India contro la Gran Bretagna, può essere fatta risalire allo stato che oramai solo moralmente porta il titolo di madrepatria.

 

 

Parlando dunque delle colonie (ad esempio territori africani, ad eccezione dell’Unione sud – africana), che direttamente dipendono dall’Inghilterra, il loro possesso non poteva essere causa «razionale» di guerra, finché era osservato il principio della porta aperta; ché razionalmente ossia economicamente nessuno stato si sarebbe mosso in guerra, ossia si sarebbe disposto a sopportare enormi costi in vite umane e in ricchezze, per conquistare un vantaggio (mercato coloniale), che gli era offerto gratuitamente, mercé il diritto di importare, esportare, commerciare, possedere terreni a parità assoluta di condizioni con i nativi, con i metropolitani britannici e con gli stranieri di qualunque altro paese. L’incentivo alla guerra è nato quando la convenzione di Ottawa abolì il principio della porta aperta e sancì privilegi – i quali possono in sull’inizio essere tenui, ma tendono a crescere – a favore dei metropolitani e degli appartenenti alla comunità britannica delle nazioni. Il principio di Ottawa – rafforzamento dell’unità imperiale britannica mercé privilegi economici a vantaggio dei paesi membri dell’impero – è un principio politico: e provoca ritorsioni politiche, le quali possono andare sino alla guerra.

 

 

7. Può darsi che, se anche Ottawa non fosse mai stata e fosse ancora osservato il principio della porta aperta nelle colonie britanniche, la Germania egualmente vorrebbe colla guerra impadronirsi di taluna colonia oggi britannica. Il Robbins non può negare la probabilità o possibilità del fatto. In tal caso la guerra non sarebbe però dovuta a cause economiche.

 

 

Se i cittadini di A, potenza provvista e quelli di B, potenza sprovvista di colonie, possono amendue acquistare materie prime nella colonia C alle medesime condizioni, compra chi paga dippiù: gomma elastica a 9 e un ottavo d. per libbra invece che a 9 d. Se i cittadini di B,

potenza sprovvista di colonie, sono più abili periti ed intraprendenti di quelli di A, essi saranno in grado di pagare 9 e un ottavo d. e di accaparrarsi perciò tutta la gomma elastica prodotta in C, colonia di A. Paga invero prezzi più alti per la materia prima l’industriale il quale sa utilizzarla meglio.

 

 

Non vi è dunque motivo razionale, ossia economico, perché B al costo 9 e un ottavo d. della gomma elastica aggiunga un supplemento di costo di 3 d. a titolo di interessi e di ammortamento di una guerra condotta per il conquisto di C. La guerra potrebbe diventare economicamente razionale se il paese B si proponesse, dopo la conquista, di organizzare la produzione della gomma elastica in modo da ridurne il costo a 6 d.; ché in tal caso il costo totale (6 d. prezzo proprio, più 3 d. costo del supplemento di guerra) sarebbe inferiore al prezzo attuale di concorrenza.

 

 

Notisi che, in regime di porta aperta, è consentito anche senza guerra ai cittadini di B di fondar piantagioni in C e di ridurre, se son capaci, i costi a 6 d.; e che perciò la riduzione conseguente alla guerra appartiene ad un tipo particolare impensabile in regime di porta aperta. Questo invero garantisce uguaglianza di trattamento ai metropolitani e stranieri ed insieme libertà di scelta all’indigeno; il quale può scegliere l’imprenditore che gli dia il massimo salario od anche produrre a proprio conto.

 

 

La riduzione del costo a 6 d. non può dunque essere sperata se non grazie all’adozione di metodi particolari produttivi, come ad esempio di lavoro forzato degli indigeni a salari inferiori a quelli che sarebbero altrimenti correnti; «sperata» dico, non «ottenuta», essendo quasi impossibile che con siffatti metodi si ottengano effettive riduzioni di costo. La razionalità economica della conquista di una colonia altrui, in regime di porta aperta, è dunque fondata sulla premessa di una condotta extraeconomica (riduzione artificiosa, per lo più illusionistica, dei costi) ed è perciò non economica ma politica.

 

 

8. Sia dunque che la guerra coloniale sia dovuta alla soppressione della porta aperta da parte della presente o all’intendimento di sopprimerla da parte dell’aspirante metropoli, sempre essa risale ad un sentimento od ideale politico, non mai ad un ragionamento economico. La quale conclusione non scema affatto l’importanza storica delle guerre in genere e delle guerre coloniali in ispecie; non preclude menomamente spiegazioni politiche e nazionali di esse; mette soltanto fuor del novero dei concetti razionali la cosidetta spiegazione economica della storia. L’ordine di successione storica dei fatti non è: prima movente economico razionale, poi azione politica; bensì: prima moventi politici, poi certi tipi di azione economica.

 

 

9. Constatato così che i ragionamenti economici non spiegano gli avvenimenti storici, siamo meglio preparati ad apprezzare l’altra affermazione implicita nel saggio del Robbins: non è storicamente esatto che il piano liberale sia stato applicato nel secolo anteriore alla grande crisi e questa non poté quindi da quella derivare. Siamo preparati, poiché essendo il piano economico liberale per definizione un piano che deriva da un ragionamento, e non potendosi noverare i ragionamenti tra le premesse importanti dell’operare umano siamo già ben disposti ad escluderne l’efficacia sulle azioni degli uomini.

 

 

Se poi la consideriamo in se stessa, vediamo che l’affermazione si compone di tre proposizioni:

 

 

1)    esiste un piano liberale;

 

2)    un piano liberale non fu mai attuato;

 

3)    la grande crisi, non potendo, specialmente perché grande, derivare da ciò che non ebbe esistenza, dovette aver per causa l’attuazione di altri piani, diversi da quello liberale.

 

 

La terza proposizione è un mero corollario delle due prime e sta o cade con esse.

 

 

10. La proposizione: «esiste un piano liberale» ha in sé a primo tratto qualcosa di assurdo. Innanzi tutto – e questa, sebbene puramente terminologica, è obbiezione sostanziale, perché ogni parola equivoca reca inevitabilmente ad interpretazioni contrastanti – in linguaggio economico non giova che un piano sia detto «liberale», aggettivo tradizionalmente atto a denotare una certa ampia concezione del modo generale di pensare ed operare degli uomini.

 

 

Poiché qui si parla solo dell’operare «economico» affermerei invece: «esiste un piano di concorrenza». Per «piano di concorrenza» intenderei quell’ordinamento nel quale da una parte i milioni o centinaia di milioni di uomini nella loro qualità di consumatori sono liberi di dedicare i mezzi disponibili posseduti al soddisfacimento dei desideri ritenuti da essi medesimi primi, rispetto agli altri, nell’ordine di importanza; e dall’altra gli stessi uomini, nella loro qualità di produttori, sono liberi di dedicare gli strumenti posseduti alla produzione dei beni atti a soddisfare quei desideri. I consumatori distribuiscono i mezzi disponibili fra i diversi beni presenti e futuri, in guisa che le ultime unità di beni acquistate con l’unità monetaria diano, ad essi la medesima soddisfazione; ed i produttori distribuiscono i fattori produttivi in guisa che le ultime unità acquistate con ogni unità monetaria diano il medesimo rendi mento; cosicché né i consumatori possano modificare il loro consumo né i produttori il loro impiego senza danno. Esiste un mercato nel quale si formano i prezzi dei beni di consumo e dei beni strumentali atti a produrli.

 

 

Fra i tanti uomini sono scelti, per auto elezione, gli imprenditori od organizzatori i quali, a loro rischio, applicano i fattori produttivi alla produzione dei beni di consumo, in guisa da ottenere da quella applicazione il massimo risultato, ossia, entro i limiti dei fattori produttivi esistenti, precisamente beni di consumo nella quantità e qualità opportuna a soddisfare i desideri che vengono relativamente primi nell’ordine di preferenza dei consumatori. Poiché i gusti dei consumatori sono variabili e talvolta capricciosi, poiché gli imprenditori sono uomini e perciò soggetti ad errare, accadono sbagli, che hanno nome di crisi; ma se i consumatori sono liberi di consumare quel che vogliono ed i produttori sono liberi di scegliere i beni da produrre ed i mezzi di produzione ritenuti da essi più opportuni, la coincidenza fra beni prodotti e beni consumati si avvera alla lunga in modo automatico.

 

 

11. «Quello ora descritto non è un ordinamento, non è un piano; è il risultato automatico, e che perciò tiene non del necessario ma del miracoloso, dell’azione spontanea, dicasi meglio disordinata ed anarchica degli uomini. Dall’anarchia non può nascere l’ordine, se non per accidente. Dobbiamo affidare al caso la felicità degli uomini?».

 

 

Così opina il teorico dei piani. Risponde il Robbins: No, anche quello di concorrenza è un piano. In primo luogo esso è creazione artificiale del legislatore, come ogni altro piano. Il sistema liberale o di concorrenza non consiste nella credenza ingenua che l’interesse individuale conduca necessariamente al vantaggio collettivo. Questo è un travestimento grottesco (a grotsque libel) delle teorie di Davide Hume, di Adamo Smith e di Geremia Bentham. Nessuno di costoro, nessuno dei fondatori della scienza economica classica reputò mai superfluo lo stato. Il legislatore stabilisce le leggi del mercato, crea l’ambiente giuridico entro il quale avvengono le contrattazioni e si discorre di tuo e di mio. Lo stato crea la sicurezza, senza la quale i consumatori non potrebbero far piani di consumo, distribuiti nel tempo e gli imprenditori non potrebbero concepire ed eseguire piani di produzione.

 

 

Non potrebbe nascere divisione del lavoro, non si risparmierebbe e non si creerebbe un fondo, perpetuamente rinnovato, di strumenti produttivi, non si organizzerebbero imprese a lunga durata se lo stato non stabilisse regole di sicurezza e di giustizia atte a frenare la violenza privata. Sistemi di proprietà e norme contrattuali non sono istituti spontanei.

 

 

Sono il frutto di esperienze secolari, continuamente rinnovantesi, che legislatori e giudici codificano in formule sapienti, ad ogni ora perfezionate e rinnovate. La proprietà si riferisce solo alle cose materiali od anche alle persone? Se queste sono escluse dal concetto di proprietà privata, vi si devono includere i risultati dell’applicazione dell’ingegno umano (proprietà letteraria ed industriale)? ed entro che limiti di oggetto e di tempo? L’uomo può disporre delle cose sue ad arbitrio o devono essere fissati limiti alla sua facoltà di disporre? Quali sono i limiti?

 

 

L’uomo può obbligarsi a non contrattare? Se no, quale contenuto ha il divieto? l’uomo può disporre illimitatamente della propria capacità di lavoro? Se no, se vincoli sono posti rispetto al diritto di disporre del proprio lavoro, rispetto alla durata di esso, alla sua intensità, ecc. quali i vincoli?

 

 

L’uomo può associarsi con altri uomini per intervenire sul mercato, come consumatore ed imprenditore, venditore e compratore, di beni materiali e di servizi personali? Se sì, quali sono i limiti e le regole dell’intervento associato? Dettare norme che regolino efficacemente per il massimo vantaggio collettivo il funzionamento di un mercato, nel quale gli uomini da un lato chiedono liberamente beni di loro scelta nella quantità desiderata e liberamente offrono i beni stessi, e dall’altro lato offrono e chiedono i fattori produttivi atti a produrre quei beni, è impresa che può essere assolta perfettamente solo da legislatori sapientissimi, capaci lungo i secoli a trarre dall’esperienza vissuta consiglio a perfezionare continuamente le norme ereditate dalle generazioni passate. L’ordinamento che così si crea non è l’anarchia, è un piano; anzi il più difficile, perché il più perfetto, dei piani.

 

 

12. Il piano economico classico, il liberalismo economico, dice Robbins, il sistema di concorrenza, direi piuttosto io, non si esaurisce nel regolamento del mercato, nel quale si formano i prezzi dei beni di consumo e dei servizi produttori. Esso riconosce che ci sono beni i quali non si possono ottenere attraverso il mercato. Vi sono bisogni che nessun imprenditore ha interesse a soddisfare. Tipici i bisogni detti pubblici. Il bisogno dell’indipendenza nazionale, della difesa contro le aggressioni, straniere, della sicurezza contro i delinquenti, della giustizia contro i violatori dei diritti altrui, non può essere soddisfatto da imprese private.

 

 

Se lo stato esiste, ed esistere deve, deve a priori difendere il territorio nazionale e mantenere in esso giustizia e sicurezza. Se lo stato aspettasse che i cittadini, allarmati, si recassero sul mercato per contrattare il prezzo della difesa contro lo straniero, contro il delinquente, contro il truffatore, lo stato non esisterebbe più. Lo straniero sarebbe già in armi nel paese, i delinquenti impuniti taglieggerebbero i laboriosi, gli onesti sarebbero alla mercé dei cattivi. Un altro stato esisterebbe, non quello che, assente, è venuto meno alla propria ragion d’essere.

 

 

Dunque lo stato perfetto deve impedire che tra i cittadini si crei lo stato di allarme, e deve anzi fare in modo che essi quasi ignorino, perché ognora perfettamente soddisfatti, i bisogni della indipendenza nazionale, della giustizia e della sicurezza. Ma gli uomini non si dispongono a chiudere al mercato, pagandone il prezzo, i beni che essi già godono.

 

 

Quindi non può esistere un «mercato» per i beni pubblici. Alla loro produzione e distribuzione deve provvedere d’autorità lo stato, costruendo una organizzazione che dicesi di finanza pubblica.

 

 

Quali e quanti sono i beni pubblici?

 

 

Nessuna risposta generale è possibile. La categoria dei beni pubblici è estensibile, cangiante. Ieri non vi si comprendevano o vi si comprendevano ristrettissimamente le categorie: difesa contro le malattie contagiose, difesa della sanità della razza, della maternità, istruzione pubblica, viabilità, comunicazioni, parchi pubblici, ecc.

 

 

Oggi le categorie vanno moltiplicandosi e raffinandosi. Non vi è limite razionale al novero degli uffici che possono essere solo o meglio attraverso l’organizzazione coercitiva statale, piuttosto ché attraverso al mercato. Né l’estensione degli uffici pubblici significa restringimento dei compiti del mercato. Col progredire della tecnica produttiva, col moltiplicarsi dei beni, prima impensati o irraggiungibili, ai quali una frazione crescente degli uomini può aspirare, crescono la complicazione e la delicatezza delle norme regolatrici del mercato e cresce il numero dei fini ai quali solo e meglio l’azione coercitiva collettiva può provvedere.

 

 

13. Gli uomini, spaventati per la crescente complicazione del problema, hanno immaginato ad un certo momento, solo perché la soluzione era ognora più difficile, che essa non fosse più possibile. Inebriati e travolti dai progressi della tecnica produttiva, hanno creduto che bisognasse mutare a fondo anche la tecnica giuridica che rendeva possibile il funzionamento dell’antica semplice tecnica produttiva; laddove era necessario che legislatori e giuristi tenessero testa, col perfezionamento delle norme regolatrici, al prodigioso progresso della tecnica produttiva. Come dubitare che ciò sia possibile, quando legislatori, giuristi ed economisti sono uomini che appartengono alla medesima società la quale fornisce inventori e tecnici?

 

 

14. Accadde però, lungo il secolo decimonono e nel primo terzo del secolo presente, ed ecco la seconda proposizione, che i chierici, – così si chiamino legislatori giuristi ed economisti, – furono assai da meno dei tecnici e troppo mancarono al proprio ufficio di perfezionare il piano di concorrenza.

 

 

Quel che di esso sopravvisse fu l’eredità dei secoli: poche norme fondamentali sulle obbligazioni, sulla proprietà sulla eredità. Ma quanto deformate, ristrette e spesso irriconoscibili! Il mondo odierno non è prevalentemente liberistico.

 

 

Esso è prevalentemente intervenzionistico protezionistico monopolistico restrittivo. I legislatori, sopraffatti dalla grandezza e dalla complessità dei problemi, hanno creduto di risolverli non col regolare ma coll’annullare i mercati, nei quali si formano i prezzi dei

beni di consumo e dei servizi produttori. Sorpresi da qualche ribasso di prezzi seguito all’introduzione della navigazione a vapore e delle ferrovie, a cui essi pure avevano plaudito, i legislatori dopo il 1870 annullarono con barriere protezionistiche crescenti i benefici di quelle scoperte, chiusero le gallerie transalpine, insabbiarono i porti e fomentarono il sorgere di monopoli industriali, accentratori di ricchezze e taglieggiatori delle masse.

 

 

Timorosi dei progressi delle dottrine rivoluzionarie marxistiche, che in quegli accentramenti e in quelle formazioni di artificiosi giganteschi organismi industriali trovavano alimento alla loro propaganda distruttiva, i legislatori non seppero far di meglio che distruggere ogni elasticità e libertà di movimento nel mercato del lavoro. Ciò fecero a sedicente protezione dei lavoratori; ma, irrigidendo salari ed orari, resero difficile l’adeguazione delle quantità domandate ed offerte sul mercato del lavoro e provocarono enormi disoccupazioni cicliche.

 

 

Dimentichi che la sicurezza delle contrattazioni è il terreno più fecondo per la formazione del risparmio e per la riduzione del saggio dell’interesse ad un minimo, essi non videro che il cosidetto «capitalismo» è un fantasma che si fuga col rassicurarlo e rendergli omaggio di severe norme a sua tutela.

 

 

Di tratto in tratto, quando la sicurezza sembra tendere a prevalere nel mondo, il saggio dell’interesse, ossia la rimunerazione offerta al capitale puro, astrazione fatta dal compenso dovuto all’imprenditore vivo ed operante, tendeva a ribassare, in certi momenti, fra il 1870 ed il 1900, al 3, al 2,5 ed anche al 2 per cento; ed il ribasso sarebbe seguitato, se di nuovo non si fossero diffusi allarmi di insicurezza per i risparmiatori; se i legislatori, timorosi di vederlo sfuggire verso lidi più ospitali, non l’avessero incatenato con vincoli larvati o con divieti palesi di esportazione. Il capitale si vendica, diventando raro e caro là dove esso è costretto a rimanere; o fuggendo qua e là con movimenti rapidi ed affannosi, provocatori di tremende variazioni nei corsi dei cambi.

 

 

15. La tendenza ai piani intesi ad accentrare nei governi, non più solo il regolamento giuridico dei mercati né gli uffici propri suoi, ma il funzionamento diretto dei mercati medesimi in sostituzione delle libere contrattazioni private, già marcata innanzi, fu accentuata dalla guerra mondiale, la quale rese necessario di applicare a paesi interi le norme tradizionalmente proprie delle piazze assediate. Il mondo, quale uscì dalla grande tragedia, non fu più fondato sul principio dello stato creatore dell’ambiente giuridico, nei limiti posti dal quale gli uomini possono liberamente svolgere la loro attività economica; ma sul principio interamente diverso di uno stato, il quale detta all’uomo non i limiti dell’azione, ma il contenuto, le modalità e gli scopi dell’azione.

 

 

16. Dalla constatazione, che è di fatto, deriva logicamente la terza proposizione: se il piano liberale, che funzionava già assai parzialmente prima del 1914, era stato già durante la guerra e rimase poi sostituito da altri piani, se al piano caratterizzato dallo stato regolatore e dall’uomo liberamente operante nei limiti delle norme giuridiche vigenti si erano sostituiti piani caratterizzati dallo stato operante a mezzo di uomini da lui indirizzati, quel che accadde dopo il 1914 non può certamente attribuirsi all’operare del piano liberale. Se quel che accadde deve giudicarsi prevalentemente «buono» il merito di esso non può essere attribuito al liberalismo economico o sistema di libera concorrenza; se fu prevalentemente «dannoso» la colpa del danno non può medisimamente farsi ad esso risalire.

 

 

17. Poiché qui si vuole soltanto porre problemi, non seguo il Robbins nell’analisi che egli fa dei meriti – egli discorre invero demeriti – dei nuovissimi piani in confronto al piano classico. Sembra necessario insistere sulla necessità di porre chiaramente i problemi; e qui ricordo, come quella che parmi eccellente, la terminologia del Roepke[2]. Il quale distingue «politica conformistica dei cicli» e «piani».

 

 

La «politica conformistica» del Roepke corrisponde suppergiù al liberalismo economico del Robbins; ed i «piani» sono in genere tutti i piani diversi da quello liberale. Mi piace assai l’aggettivo «conformistico» come quello che non ha per se stesso nessun significato né liberale, né socialistico, né protezionistico, né comunistico, né corporativismo, né nazionalsocialistico. È un aggettivo tecnico, il quale segnala soltanto la presenza o l’assenza di talune caratteristiche dei sistemi discussi; ed elimina vantaggiosamente le vane logomachie procedenti dal connettere ad arbitrio a certe parole taluni connotati non necessariamente da quelle inseparabili.

 

 

18. Proporrei perciò chiamare piani conformistici tutti quei piani o quelle politiche economiche le quali sono compatibili con l’esistenza di un mercato, sul quale gli uomini consumatori si recano, muniti dei mezzi per essi disponibili, allo scopo di comprare beni atti a soddisfare i loro desideri e sul quale gli stessi uomini, in veste di produttori, si recano per acquistare i fattori produttivi e vendere i beni prodotti.

 

 

Piano conformistico è per antonomasia il piano che il Robbins chiama liberale ed io dissi di concorrenza. Esso non solo richiede un complesso di norme giuridiche atte a regolare il mercato ed una organizzazione coercitiva statale atta a produrre beni e servigi che l’iniziativa privata non produrrebbe o produrrebbe male; ma è perfettamente compatibile con istituti che non si sogliono comunemente dire liberistici.

 

 

Sono così conformistici:

 

 

  • i dazi doganali protettivi, perché entro i limiti del vincolo fissato all’importazione di certe merci estere, produttori e consumatori sono liberi di organizzare la loro produzione o variare i loro consumi. Il mercato esiste tuttora, rimanendo variati i prezzi e le quantità prodotte e consumate di talune merci;

 

  • i regolamenti di borsa, i quali impongono di contrattare titoli o merci in certi luoghi, in certe ore del giorno, a mezzo di determinati agenti pubblici o semipubblici, depositando, a garanzia di contratti a scadenza futura, date percentuali dell’importo pattuito. Cotali vincoli, che certuni legislatori reputano utili ad assicurare la fede pubblica, non impediscono ai contraenti di intervenire liberamente sul mercato;

 

  • le leggi sulle ore di lavoro, sui minimi di salario, sugli indennizzi per infortuni, per invalidità, sui sussidi di famiglia e simili. Codeste norme rendono noto agli imprenditori che, se vuolsi assoldare lavoratori, ciò si può fare osservando date condizioni. Ma gli imprenditori sono liberi di assoldare ed i lavoratori di obbligarsi sul mercato del lavoro;

 

  • leggi intese a regolare o limitare i monopoli che tendano a costituirsi sul mercato tra produttori. Se l’esperienza insegna, a cagion d’esempio, che la libera concorrenza tra esercenti ferrovie non dura e tra questi nascono accordi coronati da monopoli, il legislatore può intervenire a stabilire vincoli intesi a creare condizioni simili, quanto a prezzi e quantità di servigi offerti, a quelle che esisterebbero se vigesse piena concorrenza tra molti produttori.

 

 

E può darsi che il legislatori, riconoscendo la difficoltà di ricostituire artificialmente una inesistente situazione di piena concorrenza, avochi a sé la gestione delle ferrovie, allo scopo di rendere servigio a prezzo non superiore a quello che sarebbe di concorrenza. Può anche darsi che l’esperienza insegni che produttori grossi o e con i metodi stabiliti parimenti da una privilegiati per notorietà o marchi di fabbrica, con la minaccia di rifiutare la fornitura della propria merce, impongano ai negozianti al minuto di astenersi dalla vendita di prodotti concorrenti.

 

 

Si sostiene da taluno che la necessità di vietare legalmente imposizioni siffatte. Può darsi che l’esperienza insegni che i monopoli fioriscono grazie alla possibilità di svendere in certi luoghi od a certi clienti allo scopo di rovinare il concorrente. Una legislazione, per fermo delicatissima, la quale impedisse la svendita temporanea a scopi di guerra economica, sarebbe conformistica. Leggi e norme di questo tipo sono conformistiche, perché tendono a non turbare ma anzi ad agevolare l’opera del mercato.

 

 

19. Dovrebbero chiamarsi invece piani non – conformistici tutti quegli altri piani i quali sostituiscano all’iniziativa libera dei consumatori e dei produttori la volontà della pubblica autorità. Siffatti tipi di piano diconsi non – conformistici perché essi non sono compatibili con l’esistenza di un mercato, nel quale consumatori e produttori liberamente si incontrano.

 

 

Piano non – conformistico per antonomasia è quello comunistico, nel quale, sebbene ciò si affermi non logicamente necessario, di fatto i consumatori non possono acquistare i beni che essi desiderano, ma solo quei bei che piaccia all’autorità regolatrice offrire e li debbono acquistare a prezzi determinati pure di autorità; ed i produttori (enti pubblici produttori) producono nelle quantità e qualità e con i metodi stabiliti parimenti da una qualche pubblica autorità.

 

 

Senza giungere sino all’estremo comunistico sarebbero non – conformistici:

 

 

  • i provvedimenti intesi a fissare i contingenti di merci straniere importabili; ché non più la convenienza dei consumatori fisserebbe la quantità da acquistarsi all’estero, sia pure a prezzo cresciuto dal dazio; ma la volontà di un pubblico ufficiale, mossa da motivi non coincidenti necessariamente con quelli del mercato;

 

  • i provvedimenti di controllo dei cambi e di fissazione d’autorità dei prezzi delle divise estere, Laddove la politica della Banca d’emissione la quale, in regime di libertà dei cambi, continua a dar oro alla pari contro consegna dei propri biglietti, ma aumenta, per difendere la riserva aurea, il saggio di sconto dal 3 al 5, al 7, al 9, al 15 per cento o vende i titoli pubblici di portafoglio per rarefare i biglietti sul mercato e scemare l’interesse a presentarli al cambio, laddove questa politica è conformistica, perché il detentore di biglietti è libero di cambiarli in oro rinunciando all’alto frutto che otterrebbe impiegandoli in paese; invece la politica di controllo dei cambi è non – conformistica, perché fa dipendere dalla volontà di un’autorità pubblica il diritto a cambiare biglietti in oro o in divise estere, e la quantità di oro o di divise che si possono acquistare;

 

  • i provvedimenti di autorizzazione ad aprire botteghe, costruire od allargare impianti industriali. Al giudizio del produttore intorno alla convenienza di iniziare od allargare un’impresa, giudizio mosso dalla speranza del guadagno o dal timore della perdita si sostituisce invero il giudizio dell’autorità pubblica, la quale delibera sulla base di criteri di carattere pubblico.

 

 

20. I piani conformistici e non conformistici si distinguono non solo perché i primi affidano alla volontà dei consumatori e dei produttori manifestata liberamente attraverso il mercato la soluzione del problema del produrre, non produrre e quanto produrre, laddove i secondi attribuiscono tale soluzione al giudizio della pubblica autorità; ma anche perché i primi operano dentro una legislazione la quale può essere chiusa entro limiti definiti ed i secondi richieggono una legislazione la quale tende ad estendersi sempre più, sino al regolamento compiuto di tutta l’attività umana.

 

 

In un piano conformistico, il legislatore ordina un dazio di lire 7,50 su ogni quintale di frumento importato dall’estero? Avrà quel legislatore operato bene o male; ma è consentito non andar oltre. I produttori agricoli si adatteranno a quel dazio; cresceranno certe culture, diminuiranno certe altre; i consumatori varieranno la distribuzione del reddito tra i diversi consumi. Dopo un certo tempo, un nuovo equilibrio si sarà formato, migliore o peggiore dell’antico; e non sarà necessario procedere oltre.

 

 

In un piano non – conformistico, lo stato determina quali nuovi impianti industriali siano consentiti, quali botteghe possano essere aperte al pubblico e simili? Poiché noi possiamo escludere a priori che tra le tante soluzioni possibili, si sia per caso fortuito caduti d’autorità

precisamente su quel numero e quell’importanza di autorizzazioni che sia uguale al numero e all’importanza delle iniziative che si sarebbero manifestate in regime di piena concorrenza ed avrebbero condotto ad impiegare tutti i fattori produttivi esistenti, così le autorizzazioni eccederanno o staranno al disotto del punto di equilibrio.

 

 

Nel primo caso avremo crisi per eccesso di impianti; nel secondo disoccupazione di risparmi e di mano d’opera. Poiché le conseguenze furono dovute ad atto dell’autorità, questa sarà chiamata a provvedere; e di qui una catena di provvedimenti ulteriori, probabilmente destinata a svolgersi sino a che tutta l’economia del paese sia regolata d’autorità. Ogni provvedimento non conformistico, anche modesto, è il cuneo destinato a trasformare l’economia a mercato libero in un’economia totalitariamente regolata dallo stato.

 

 

21. Robbins e Roepke sono concordi nel ritenere che i piani conformistici risolvano meglio di quelli non – conformistici il problema economico in genere ed in particolare il problema dell’attenuazione della violenza delle crisi. Qui, trattandosi di studiare soltanto i fatti accaduti, chiedo: l’esperienza storica che cosa dice? quali furono in passato le conseguenze derivanti dall’applicazione dei due tipi contrastanti dei piani? S’intende che, per risolvere il quesito, importa preliminarmente risolvere quello posto dal Robbins: quale dei due tipi di piani, conformistico o non conformistico, era prevalente prima durante e dopo la grande guerra? Se i due tipi erano insieme mescolati, quale parte si può constatare abbia avuto ciascuno di essi nel determinare la sequela degli avvenimenti fortunosi ai quali assistemmo?



[1] Tradotto in italiano col titolo: Di chi la colpa della grande crisi? Torino, Einaudi, 1935.

[2] Anche del libro «Crises and Cycles» citato in epigrafe al presente articolo non faccio il sunto, perché dovrei troppo dilungarmi. Dico solo che il libro del Roepke parmi attissimo fra i tanti comparsi in questi ultimi anni, a fornire al lettore un’idea chiara delle molte contrastanti teorie venute fuori a spiegare le cause delle crisi e dei cicli. Il capitolo terzo sulla «storia delle crisi e dei cicli» mette bene in rilievo le differenze e le somiglianze fra l’analisi dei rimedi, ossia alla «politica delle crisi»; e qui (pag. 193 e seg.) vien fuori la distinzione terminologica ricordata nel testo. Il Roepke è ritornato efficacemente sull’argomento nel saggio Socialism, Planning and the Business Cycle in The Journal of Political Economy, del giugno 1936.

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