Opera Omnia Luigi Einaudi

Di alcune usanze non protocollari attinenti alla Presidenza della Repubblica italiana

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1956

Di alcune usanze non protocollari attinenti alla Presidenza della Repubblica italiana[1]

«Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei», marzo-aprile 1956, pp. 62-76

 

 

 

La presente lettura non intende analizzare la figura del presidente della Repubblica quale può essere ricostruita a norma del testo della costituzione e degli atti, nei quali via via si è attuata l’opera di coloro i quali hanno coperto l’ufficio.

 

 

Essa vorrebbe fissare il ricordo di talune usanze osservate e rispettate da chi vi parla durante il settennato; usanze non scritte in alcuna norma costituzionale o legislativa e che possono essere considerate il legato che le istituzioni antiche trasmisero a quelle attuali. Solo in piccola parte le usanze, di cui intendo discorrere, erano proprie dell’istituto monarchico; le più essendo invece attinenti all’indole dello stato quale era innanzi che i suoi compiti si ampliassero e moltiplicassero. Il tenue problema qui studiato si potrebbe dire degli usi e dei costumi nei rapporti fra il capo dello stato e le pubbliche amministrazioni; e non degli usi e dei costumi cerimoniali, ai quali hanno sempre provveduto gli ufficiali della presidenza e del ministero degli esteri, a ciò addetti, dottissimi in una materia ricca di precedenti, nazionali ed internazionali, ed atta a stimolare l’intelligenza di uomini preparati da lungo tirocinio a sciogliere misteriosi intricati nodi di precedenza, di suscettibilità personali e di ossequio ad antiche e nuove tradizioni.

 

 

Neppure mi soffermerò sul modo con cui furono attuati taluni istituti, nuovi del tutto come il Consiglio supremo di difesa o di recente istituzione, come il giuramento dei vescovi, regolato dal Concordato. Sui compiti del presidente, chiamato a presiedere il Consiglio supremo di difesa, e sui rapporti tra le conclusioni del consiglio medesimo e le deliberazioni del Consiglio dei ministri nelle medesime materie, fervono le dispute tra i giuristi. Per quel che mi riguarda, procurai di non arrecare alcun pregiudizio all’insegnamento che l’esperienza potrà in proposito offrire col trascorrere del tempo. Essa non potrà non confortare il criterio, che fin dal principio mi parve si imponesse: il Consiglio è il massimo mezzo di consultazione dal quale ciascun organo costituzionale, il quale vi partecipa, dovrà poi trarre ispirazione nell’attuare quei compiti di sua spettanza, che in qualsiasi guisa riguardino la difesa. Non essendo ancora stato costituito non ho avuto occasione di presiedere, secondo ordina la costituzione all’art. 87, il Consiglio superiore della magistratura.

 

 

Per quanto tocca il giuramento che i vescovi debbono prestare, prima di prendere possesso della loro chiesa cattedrale, innanzi al presidente della Repubblica, assistito dal ministro dell’interno o da un suo delegato, trattasi di un rito formale, consistente nella lettura da parte del vescovo di una formula prescritta dalla legge e resa solenne dalla prestazione del giuramento su un esemplare dei vangeli[2].

 

 

Tra le consuetudini, prima osservate, era quella della firma dei decreti in giorno fisso, che era il giovedì di ogni settimana; forse la sola consuetudine, che non fu rispettata durante il mio settennato. Poiché le settimane utili alle firme non sono praticamente superiori alla trentina (per i provvedimenti urgenti, pochi di numero, tutte le settimane sono buone) e poiché i decreti ed i provvedimenti sottoposti alla firma presidenziale si aggirarono sui dieci-dodici mila all’anno, la firma settimanale di 300-400 decreti, in presenza dei ministri, non poteva non ridursi ad un rito senza contenuto sostanziale.

 

 

E, poiché anche, nello spirito della Costituzione italiana, sarebbe fuor di luogo che il presidente della Repubblica pensasse al «Governo», dotato di poteri suoi proprii, e regolato in un «titolo» suo proprio, come al «suo governo» – solo il presidente del consiglio è scelto da lui, ma i ministri sono nominati «su proposta» del designato presidente del consiglio – così la riunione settimanale dei ministri per il rito della firma fu ritenuta da me non opportuna, in quanto poteva essere paragonata, sebbene non fosse tale, ad una seduta del Consiglio dei ministri, presieduta da chi non aveva avuto dalla costituzione siffatto incarico.

 

 

La firma in udienza settimanale fissa, parve, sovratutto, contrastante con l’obbligo del presidente di esaminare preventivamente i provvedimenti, per assicurarsi che fossero conformi alla legge. È bensì vero che di codesta conformità sono garanti i ministri, ognuno dei quali è assistito da un ufficio legislativo; ma, poiché ognuno deve adempiere personalmente ai suoi doveri, giudicai che nessun provvedimento potesse giungere sul mio scrittoio se non fosse prima riveduto da chi avesse la mia piena fiducia, per la sua conoscenza della legislazione vigente. Il segretario generale della presidenza fu all’uopo il mio consigliere, aiutato da non mai più di un paio di collaboratori; sicché la firma dei decreti poté seguire sempre rapidissima senza che alla presidenza potesse attribuirsi mai la responsabilità di alcun apprezzabile ritardo. La immediatezza della firma e della presentazione implicava, ovviamente, in regime regio, la esclusione di una qualsiasi indagine, richiedendo pur sempre questa un certo tempo tecnico; esclusione che era incompatibile con l’osservanza dei doveri imposti dalla costituzione al presidente.

 

 

La revisione giuridica non escludeva la mia revisione sostanziale. Intorno alla quale non accade di dar qui notizia, essendomene altrove occupato[3].Più che la consuetudine non osservata durante il settennato, meritano di essere ricordate le usanze vigenti, che non si vide la ragione di non continuare. E prime, le visite di cortesia. I capi missione all’estero, inviati con le credenziali di ambasciatori o di ministri, hanno sempre usato, innanzi di raggiungere la sede, recarsi dal Capo dello stato; dal quale ripetevano la lettera che li accreditava, indirizzata con formule, religiosamente graduate in relazione alla formula usata a sua volta dal capo dello stato straniero, al «Carissimo e buon amico» od al «Grande e buon amico» e somiglianti variazioni ritenute di notabile rilievo[4]. Usavano altresì rendere visita di cortesia gli addetti militari inviati presso le nostre ambasciate più importanti.

 

 

La visita di cortesia era parimenti di rito per tutti i capi delle corti d’appello: primi presidenti e procuratori generali, prima di recarsi a prendere possesso del loro ufficio. Non era una mera visita di cortesia, quella del presidente della Corte dei conti, ché essa aveva luogo ad occasione della presentazione dei rapporti periodici che, dopo forzata interruzione, si sono ricominciati a pubblicare, densi di dottrine e di utili insegnamenti per la buona gestione della cosa pubblica. La visita di cortesia era altresì consuetudinaria, oltreché da parte dei generali comandanti territoriali dell’esercito e dei pari loro nella marina e nell’aeronautica, da parte del Consiglio superiore delle forze armate, al quale, diviso nelle tre sezioni: dell’esercito, della marina e dell’aeronautica, spetta l’ufficio di dar parere al ministro per quanto ha tratto alle questioni tecniche delle diverse branche dell’amministrazione militare.

 

 

Durante la visita il presidente aveva modo di informarsi dei problemi attinenti al reclutamento, all’addestramento, alla disciplina, ai desideri dei soldati e degli ufficiali. Era di rito altresì la visita dei componenti delle commissioni di avanzamento, ogni qual volta si riunivano per assolvere ai loro compiti, nonché del presidente della commissione per il conferimento delle onorificenze militari, dette prima di Savoia ed ora d’Italia, il quale riferiva sulle ragioni che nei singoli casi avevano consigliato l’assegnazione di onori giustamente assai ambiti nell’ambiente militare. Fuor dei diplomatici, dei magistrati e dei militari, le visite di rito erano quelle di presentazione collettiva, fatta dal ministro dell’interno dei prefetti di nuova nomina. Ed anche si presentavano, non come persone, ma in qualità di investiti di un ufficio amministrativo, i direttori generali del ministero dell’interno.

 

 

Non più visite di cortesia, ma di rapporto erano quelle del Capo della polizia e del Comandante generale dei carabinieri; i quali periodicamente informavano il capo dello stato sulla situazione dell’ordine pubblico, sui principali accadimenti verificatisi dopo l’ultimo rapporto, sullo stato dell’opinione e sulle variazioni di essa rispetto ai partiti, al governo ed al parlamento. Trattavasi spesso di notizie che già erano state fatte oggetto di pubblici commenti; ma corredate non di rado da informazioni riservate, raccolte, a quanto potevo giudicare, oggettivamente. Le informazioni, al pari di quelle fornite nei loro rapporti dai diplomatici, erano opportune al solo scopo di mantenere il capo dello stato al corrente dei fatti, dati ed elementi necessari a lui per esercitare, occorrendo, le facoltà sue proprie.

 

 

Tra i decreti sottoposti alla firma presidenziale, si aggiunse, negli ultimi anni, la valanga delle onorificenze nell’ordine al merito della repubblica, assegnati in dotazione ai singoli ministeri e tutti riferiti alla data della festa nazionale del 2 giugno. Solo i decreti che un tempo si dicevano di motu proprio e che ora sono autorizzati dall’art. 4 della legge del 3 marzo 1951, n. 178, possono essere concessi fuori della data del 2 giugno; ma fu consuetudine mia di usare di questa facoltà largamente solo per quello che aveva tratto allo scambio delle onorificenze fra l’Italia e gli stati esteri; che il regolamento definiva concesse per ragioni «di cortesia internazionale». Era chiaro che non si poteva mettere limiti al numero ed alla qualità delle onorificenze scambiate fra stranieri ed italiani ad occasione delle visite reciproche di capi di stato o di governo, di ministri, di missioni diplomatiche straordinarie, di conferenze internazionali, di congressi, di mostre, fiere e somiglianti avvenimenti ufficiali.

 

 

All’interno, usai invece della facoltà detta un tempo di motu proprio due sole volte e fu quando furono collocati a riposo due primi presidenti della Corte di cassazione, Andrea Ferrara e Vincenzo Galizia, i quali, dopo avere assolto il massimo ufficio giudiziario, uscivano, per lo scadere inesorabile dei limiti di età, dalla magistratura, e, a differenza di altri, i quali avevano potuto giustamente essere serbati alla vita pubblica, erano restituiti allo stato originario e neppure più, come è uso non bello per tutte le alte cariche dello stato, elencati «per memoria» negli annuari ufficiali del loro corpo. Mi parve doveroso, in quei soli due casi, fare eccezione alla regola di lasciare al governo il merito e la responsabilità delle proposte, conferendo ai due insigni uomini la massima, dopo quella riservata ai capi di stato, delle onorificenze nell’ordine al merito della Repubblica.[5]

 

 

Fuor delle onorificenze, prevalevano di gran lunga, per numero, i decreti relativi alla difesa ed alla magistratura. Tutti i decreti di nomina, promozione di militari, dagli ufficiali subalterni ai generali, trasferimento, designazione ad incarichi normali e speciali, erano trasmessi alla firma presidenziale. Parimenti per i magistrati. Non soltanto le nomine, le promozioni, i trasferimenti dei magistrati così di carriera che onorari; ma i comandi ad uffici diversi; ma la composizione delle corti e loro sezioni erano sempre ordinate in virtù di decreto presidenziale. Non così per gli altri ministeri; per i quali solo i decreti di nomine e di collocamento a riposo dei direttori generali, dei prefetti e dei funzionari con grado equiparato o superiore giungevano sino al tavolo del presidente.

 

 

Vissuto per cinquant’anni (1899-1949) nell’ambiente universitario, vidi che non solo dei maestri elementari, dei professori di scuole medie, ma anche dei professori ordinari (detti ora nel grigio linguaggio amministrativo «di ruolo») di università non avevo alcuna notizia sino al giorno in cui, essendo, per limiti di età, stati collocati a riposo ed essendo stata fatta la opportuna proposta dalle facoltà, essi erano proclamati onorari od emeriti. Per gli altri nulla, salvo per i pochi insigniti della medaglia d’oro dei benemeriti della pubblica istruzione, che è del resto una specie di onorificenza, simile a quelle, in altri campi, dei cavalieri del lavoro, dei decorati al merito del lavoro o della stella della solidarietà nazionale; epperciò rientrano nel novero degli atti che negli altri tempi attenevano alla materia della prerogativa per gli ordini cavallereschi.

 

 

Non esistendo, nel campo militare, l’istituto della dichiarazione di «emerito», adempieva in sostanza al medesimo ufficio una lettera che il presidente della repubblica indirizzava agli alti ufficiali, i quali andavano a riposo col grado di «generali di corpo d’armata» o gradi equiparati della marina e dell’aeronautica. La lettera, che era uso antico, volontieri osservato, fosse tutta scritta di mano del presidente, riassumeva la carriera dell’uomo a cui era indirizzata, dalla prima nomina a sottotenente o ad aspirante, narrava gli atti di valore da lui compiuti in pace e in guerra, i meriti dimostrati nell’esercizio dei comandi e degli incarichi a lui affidati, le onorificenze e le medaglie militari guadagnate. Essa era naturalmente scritta sulla traccia degli appunti ricavati dal fascicolo personale, traccia alla quale il presidente arrecava solo varianti formali o personali e invariabilmente si iniziava con «Caro generale» o «Caro ammiraglio» e chiudeva con «affezionatissimo suo». A me parve sempre che la lettera fosse un giusto riconoscimento per l’opera prestata da fedeli servitori dello stato, meritevole di essere conservata, per figli e nepoti, a ricordo di quel che aveva operato il capo della loro famiglia. Mi rincresceva solo che la stessa cosa non si usasse per altri, pure benemeriti della pubblica amministrazione; ed inviai lettere anche ai capi supremi della magistratura collocati a riposo ed ai professori universitari al momento di firmare il decreto che li dichiarava onorari od emeriti. La sola variante all’uso antico fu di non scrivere le lettere di mano propria, ma di farle scrivere, pure a mano, dal bravo calligrafo della presidenza e chiuderle con il saluto e la firma.

 

 

Mi avvidi, così innovando, che l’ufficio del ministero della pubblica istruzione era meno bene attrezzato di quello della difesa. Ché, laddove questo registrava tutti i fatti e gli avvenimenti della vita degli ufficiali; e quindi i ricordi contenuti nella lettera erano nutriti e particolareggiati, l’ufficio del personale della pubblica istruzione aveva notizia solo degli accadimenti amministrativi e non della attività scientifica degli universitari collocati a riposo. Sicché le lettere, per la difficoltà di avere per ognuno le desiderate notizie, risultarono talvolta alquanto schematiche, se pure intonate ai sentimenti di stima e di riconoscenza che gli onorandi studiosi avevano ragione di meritare. Poiché i ministeri degli esteri, della difesa, dell’interno e della giustizia mantenevano così rapporti normali di cortesia con il presidente, era ovvio anche che essi fornissero a lui, in modo regolare, materia di lettura e di meditazione.

 

 

In primo luogo i rapporti diplomatici. Ne lessi a migliaia durante i sette anni. La impressione, largamente diffusa, che quei rapporti siano superflui perché dicono, in ritardo, quel che più rapidamente fu diffuso dai quotidiani è fondata solo in parte, ed anche qui solo per quel che tocca la notizia dei fatti accaduti. Nei rapporti diplomatici alla prima narrazione si aggiungono in seguito notizie complementari e rettifiche, che i giornali, assillati dalla novità, più non si curano di diffondere. Quel che nei rapporti sovrattutto interessa, sono i commenti, nei quali, quando c’è, si rivela l’acume di osservazione del capo missione o del consigliere o segretario, che egli ha incaricato di seguire un avvenimento. Firma sempre il capo-missione; ma talvolta, quando si sa che l’ambasciatore o il ministro è in congedo, in un rapporto si riscontra un pensiero, uno stile che si era supposto fossero suoi, e si scopre che invece l’autore era il tal consigliere o segretario.

 

 

I giovani diplomatici attendono talvolta quell’istante – dell’assenza del capo-missione – per inviare un rapporto brillante ed attirare su di sé l’attenzione del ministro o dei capi servizio. Oltreché per i commenti, i rapporti meritano non infrequentemente di essere segnalati perché trattano problemi solitamente ignorati dalla stampa quotidiana. Ad esempio, per i paesi d’oltre cortina, uno degli indici più istruttivi del grado di tolleranza per la libertà del pensiero è il regolamento, formale o di fatto, dei rapporti fra lo stato e la chiesa, rispetto alle diverse confessioni locali, cattolica, protestante, ortodossa, mussulmana. Se i rapporti in materia religiosa fossero resi noti, anche in modo non ufficiale, il vantaggio per la formazione di una opinione pubblica istruita, non sarebbe piccolo; maggiore di quello che si trarrebbe dalle notizie economiche, più divulgate e meno controllabili. Anche in questo campo, talvolta si leggono scorci illuminanti. Ricordo una specie di verbale di conversazione conviviale, a botta e risposta, fra Tito e certi suoi ospiti inglesi, dal quale saltava fuori il quadro di un socialismo all’ingrosso, fatto di «arrangiamenti» caso per caso, totalitario e comunistico sì, ma con molti adattamenti alle esigenze dei contadini. I rapporti diplomatici sono di utile lettura, anche perché essi trattano sempre di un solo argomento per volta.

 

 

Non accade di leggere, come negli articoli di fondo dei giornali, un documento in cui si discutano nel tempo stesso problemi diversi. Se occorre, nello stesso giorno, si inviano due o tre rapporti, ognuno dedicato ad un unico punto. Se si riferisce una conversazione con un ministro o un diplomatico, la si taglia in due o tre pezzi, ed ogni pezzo si occupa di un unico argomento. Probabilmente, il metodo è stato consigliato dalla opportunità di comunicare ad ogni servizio del ministero o di «rifischiare» alle ambasciate italiane all’estero solo il brano del rapporto interessante quel servizio o quell’ambasciata, senza dovere far troppo uso di forbici e di colla per ottenere lo stesso risultato. Ma il metodo è ottimo, e dovrebbe essere imitato da giornali, riviste, relatori di congressi, oratori di comizi, ecc., e trasformerebbe, forse, brodaglie smisurate in letture rapide, piacevoli ed istruttive.

 

 

Il ministero della difesa è del pari fornitore cospicuo di materiale di studio al tavolo del presidente. Esistono alla difesa, uffici studi od informazioni assai attrezzati (S.I.F.A.R., ufficio informazioni forze armate, succeduto al S.I.M., ufficio informazioni militari), i quali mettono in grado i capi servizio, i comandanti territoriali e giù giù discendendo per li rami, anche gli ufficiali superiori e subalterni in genere, di tenersi, se vogliono, informati su quanto accade nel mondo, non solo nelle materie tecniche delle armi nuove e vecchie, dei problemi di strategia, di tattica e di amministrazione, ma anche rispetto ai problemi politici ed economici.

 

 

I rapporti sono contenuti in fascicoli distinti, paese per paese, con particolari supplementi per qualche argomento degno di particolare riguardo. Nonostante la larghezza delle avvertenze «segreto», «segretissimo» (al Nato si usa il Top-secret e il Cosmic, che sarebbe il non plus ultra della segretezza), molte cose scritte in quei rapporti potrebbero essere divulgate senza nessun danno, anzi con vantaggio per la formazione di una pubblica opinione illuminata; e il frazionamento dei voluminosi rapporti in fascicoli separati suppongo abbia appunto lo scopo di agevolare agli alti comandi la divulgazione agli ufficiali di grado minore delle informazioni ad essi utili.

 

 

Del resto, molte notizie tecniche, storiche, geografiche anche correnti sono in seguito rese note nelle belle riviste speciali che sono pubblicate sotto il patronato del ministero della difesa, riviste le quali non sfigurano al paragone delle nostre buone riviste scientifiche. Non sarebbe invece opportuna la divulgazione dei rapporti periodici e quotidiani dell’arma dei carabinieri e della direzione generale della pubblica sicurezza. In mezzo ai cauti «si dice», «viene riferito» e simili, si leggono anche notizie sicure ed utili per la conoscenza dello stato dell’opinione pubblica, scritte senza alcuna intenzione di dire cosa gradita al ministro od al governo in genere. L’indipendenza di giudizi è notabile del resto anche nei rapporti diplomatici, dove, a differenza di quanto dicesi accadesse talvolta durante il regime fascistico, non vidi che si esprimessero opinioni, previsioni, giudizi, perché supposti graditi al ministro in carica od al segretario generale. Anzi, era non rarissimamente avvertita una tendenza ad insistere con garbo su osservazioni o giudizi che si poteva immaginare non fossero conformi all’opinione di chi doveva leggere i rapporti.

 

 

Tra i documenti provenienti dal comando generale dell’arma dei carabinieri parve sempre a me notabile un diagramma – che forse un giovane uscito da una scuola di statistica avrebbe potuto pitturare, ricevendo immeritata lode per il contributo puramente scolastico, in dimensioni più modeste e meglio adatto a seguitati raffronti temporali – compilato, se ben ricordo, da un maggiore e da un brigadiere; diagramma nel quale, mese per mese, si potevano seguire le variazioni dell’opinione rispetto alle diverse correnti politiche. Il diagramma era ricavato dalle informazioni inviate, indipendentemente l’una dall’altra, dalle quasi cinque migliaia di stazioni di carabinieri sparse nelle città e nei villaggi italiani. L’invio era fatto, contemporaneamente, per via gerarchica e direttamente al ministero; cosicché i dati e i giudizi arrivavano genuini al centro e non potevano essere attenuati cammin facendo.

 

 

Direi che quelle rilevazioni ed anche talune altre sulla disoccupazione, nelle quali era messo in evidenza il peso particolare dei disoccupati atti al lavoro e rimasti privi di lavoro fuor della loro volontà, siano più informative di quelle dei questionari Gallup e Doxa. Utili anche questi; ma le risposte possono essere influenzate dal tenore delle domande, dalla consapevolezza della pubblicità, dall’influenza che, anche involontariamente, l’inquirente esercita nel senso da lui desiderato. Laddove brigadieri e marescialli dei carabinieri registrano, col linguaggio semplice dei soliti verbali compilati dalla stazione, quel che giorno per giorno ascoltano, senza interrogare, discorrendo con amici, conoscenti, partitanti e con il così detto uomo della strada.

 

 

Forse il maggior fornitore al presidente di carte di obbligatoria lettura è il guardasigilli, al quale spetta di proporre le concessioni di grazia, per cui la decisione ultima spetta al capo dello stato. Classificherei la grandissima maggioranza delle grazie in una categoria detta delle «grazie necessarie». Il giudice, posto dinnanzi al fatto certo dell’eccesso di velocità sulle strade pubbliche o della violazione di norme annonarie o finanziarie o di minori reati commessi in stato di ubbriachezza ed altrimenti contemplati dal codice penale, deve infliggere tali e tali multe e tali e tanti giorni o mesi di carcere. Ma il colpevole ha la possibilità di pagare? Conviene allo stato assoggettarsi all’onere di mantenere in prigioni, non di rado già troppo popolate, coloro i quali, per mancanza di quattrini, dovessero convertire in giorni o mesi di carcere le multe non pagate? Non val meglio rassegnarsi a ridurre le multe a cifre adeguate alla borsa di chi le deve pagare e ridurre la durata del carcere al già sofferto od a poca cosa?

 

 

La più parte delle grazie è di questo tipo, concesse sovratutto nell’interesse dello stato e dell’erario. Per le altre il guardasigilli fa stendere un rapporto; e se la lettura non è bastevole, si richiama il fascicolo. Per lo più il tempo decorso, la buona condotta, lo stato di salute, le dichiarazioni di perdono degli offesi o delle loro famiglie, la possibilità per i liberati di essere accolti dai figli, dai parenti o in ospedali od ospizi di carità sono elementi persuasivi. Ma nei casi più gravi occorre leggere. Cagione di numerosi dubbi di coscienza furono i reati commessi da tedeschi e da camicie nere nel periodo della guerra partigiana. Sulla gravità dei reati commessi, sulle atrocità che li accompagnarono non vi era, spesso, alcun dubbio. Eppure la concessione della grazia era fondata su un motivo serio, che i giuristi chiamano della «par condicio».

 

 

Il compagno di eccidio, colpevole di atrocità maggiori di quelle addebitate al graziando, anzi il capo della banda, colui che aveva ordinato il fuoco, era riuscito, per via di amnistie, di più abile difesa, di ricorsi tempestivi, a conquistare la libertà e passeggiava tranquillamente e talvolta spavaldamente per le pubbliche piazze. Che cosa fare? Chi era dentro era un pezzo da forca, degno di rimanere in galera almeno sino al giorno ultimo fissato dalla sentenza. Ma gli altri, pendagli da forca peggiori di lui e liberi per giunta? Dove andava a finire la par condicio? E così accadeva che, dopo parecchi struggimenti d’animo, quel tal pendaglio se ne andava libero[6]. Dal quadro ora tracciato, non deve trarsi la conseguenza che le altre

amministrazioni dello stato non si facessero vive in rapporto con la presidenza della repubblica; ma soltanto che i rapporti erano determinati, non dall’uso ab immemorabile, ma da quelle che si potrebbero, nel linguaggio amministrativo, dire le esigenze del servizio: presentazione dei disegni di legge governativi, delle minute e delle relazioni attinenti ai medesimi disegni, memorie e relazioni intorno ai risultati delle varie branche dell’amministrazione, relazioni dei grandi enti, specialmente previdenziali, collegati con i diversi ministeri.

 

 

Quel che si è voluto mettere in chiaro è che, tra le diverse branche della macchina statale ve ne erano alcune, i cui rapporti con il capo dello stato erano, non più frequenti, ma quasi obbligati e consuetudinari. Visite di cortesia e rapporti informativi che cosa erano? Resti di un tempo, nel quale, anche dopo la concessione dello statuto del 1848, il sovrano aveva conservato effettivamente una ingerenza diretta negli affari dello stato?

 

 

È noto che per parecchi decenni, i ministri degli interni, degli esteri, della guerra e della marina erano in parte sottratti alle comuni vicende parlamentari; e nella scelta degli uomini, la opinione e la decisione del sovrano avevano un peso decisivo. Il sovrano, il quale probabilmente poco si interessava dei direttori generali del più dei ministeri, conosceva e seguiva invece le promozioni e le destinazioni degli ufficiali dell’esercito e della marina, anche al disotto dei gradi di generale e ammiraglio; ed era in diretto rapporto, se non con tutti, almeno coi capi delle maggiori missioni diplomatiche all’estero. Le usanze che ho cercato di descrivere hanno dunque un qualche valore storico: sono un quadro, che il tempo ha ridotto quasi allo stato di eco, di quel che era un dì l’ossatura sostanziale dello stato: difesa, rappresentanza all’estero, sicurezza e giustizia. C’era già e solida, la finanza: ma considerata quasi solo come un mezzo per tenere in piedi il resto.

 

 

Del fisco, poco si interessava di solito il capo dello stato; e bisogna risalire ben bene indietro nel tempo per ritrovare un sovrano come Carlo Emanuele III (1701-1773) il quale, insieme col fido ministro Bogino (1701- 1784) rivedesse ad uno ad uno, non soltanto i capitoli, ma le singole voci dei pubblici bilanci e conoscesse di tutti i suoi ufficiali (così erano detti anche i funzionari civili) nome e cognome e ufficio ed assegno di stipendio.

 

 

Il valore storico dei resti formali di quel che era un tempo tutto lo stato ha un aspetto caratteristico: questi resti, od echi di tempi che furono, si riferiscono a taluni ministeri: esteri, difesa, interno, giustizia, non al gabinetto preso nel suo insieme. Il presidente del consiglio, il quale di fatto intratteneva, come è ovvio, col presidente della repubblica rapporti più stretti e frequenti di quelli proprii di ognuno degli altri ministri, non era però un’eco del passato. Nessun suo ufficiale od ufficio o corpo dipendente aveva consuetudini di visite di cortesia o di rapporti informativi come quelli che ho cercato sopra di descrivere. Ed in verità, nel regime antico, il presidente del consiglio originariamente non esisteva; e di esso non si può quindi oggi risentire alcuna eco ritardata.

 

 

Il presidente del consiglio è una figura costituzionale nuova, posteriore allo statuto del 1848; e la sua importanza è cresciuta a poco a poco, in relazione al valore degli uomini che ricopersero l’alta carica ed all’indole dei sovrani succedutisi nel secolo dopo il 1848. Tramontata la diarchia fascistica, oggi il presidente del consiglio ha figura autonoma, dirige la politica generale del governo e di essa è responsabile. Questa non è un’eco, ma una realtà viva ed operante, e non cade perciò nel campo delle mie note. Non in Italia soltanto, la figura del presidente del consiglio è gradatamente cresciuta nei tempi moderni; essendo notissimo il caso del primo ministro britannico, del quale, sino a pochi decenni or sono, nonostante fosse l’uomo più potente dello stato, era inesistente la posizione formale; sicché, nelle gerarchie scritte, egli, primo tra i ministri, non aveva luogo definito e veniva nelle precedenze quasi ultimo di essi.

 

 

Tutta eco di storie antiche e di istituzioni tramontate nelle reliquie descritte fin qui? No. La eco ricorda agli immemori che i grandi pilastri sui quali si regge lo stato, qualunque stato, sia lo si dica aristocratico, borghese, liberale, ovvero laburista, socialista o comunista, non sono gli istituti sorti o cresciuti sul continente europeo occidentale dopo la rivoluzione francese ed altrove in date diverse; non sono, per elencarli con i nomi italiani l’istruzione pubblica, i lavori pubblici, i trasporti, le poste, il promovimento del commercio, dell’industria, dell’agricoltura, della marina, della pubblica sanità, del lavoro e della previdenza sociale. Questi – primissimo fra tutti l’incremento della istruzione, di tutti i giovani dalle scuole elementari a quelle medie ed alle superiori – sono i «fini» che lo stato si propone. I fini sono più alti, più ampi, più numerosi oggi di ieri; e cresceranno in numero ed in contenuto in avvenire. Ma nessun fine può essere conseguito se non si apprestano gli strumenti all’uopo opportuni e se gli strumenti non sono resi sempre più efficaci e perfetti a mano a mano che i fini dello stato arricchiscono il loro contenuto. Non giova all’uopo, come purtroppo è l’andazzo di taluni politici e pubblicisti, screditare i mezzi quasi si trattasse di cose «superate», lamentare i sacrifici sopportati per attuarli, come se si trattasse di spese «improduttive».

 

 

Non una lira di più del necessario si deve spendere né per i mezzi né per i fini; ogni spreco essendo un delitto contro l’interesse pubblico; ma l’andazzo di reputare sprecato tutto ciò che si spende per la difesa del paese, per la sua rappresentanza all’estero, per la sicurezza all’interno e la giustizia è brutto indice di dissoluzione sociale. è probabile che nella amministrazione della difesa, degli esteri, degli interni e della giustizia vi siano sprechi, che il numero degli ufficiali, militari e civili, dei diplomatici e dei magistrati sia esuberante, che risultati migliori si possano ottenere rialzando le remunerazioni di quelli tra essi i quali diano rendimenti adeguati; ma non è più probabile di quel che sia nelle altre pubbliche amministrazioni. In tutte la lotta contro lo spreco e contro l’idea falsa dello stato-ospizio di carità per i disoccupati è la urgentissima e lodevolissima fra tutte le lotte, a combattere le quali siamo ogni giorno chiamati.

 

 

L’eco delle cose passate ammonisce tuttavia: non illudetevi che lo stato, qualunque stato, a qualunque ideale si ispiri, esista e duri se non sono saldi i suoi pilastri fondamentali: che sono difesa, sicurezza e giustizia. Le due parole «Law and order – diritto ed ordine pubblico -», le quali nei paesi anglosassoni sono il tacito fondamento dello stato, le quali inspirano l’azione del poliziotto, armato soltanto di un bastone, verso il cittadino e del cittadino verso il poliziotto; le due parole le quali persuadono il cittadino ad accorrere volontariamente ad aiutare il poliziotto contro i violatori della legge e dell’ordine; le due parole le quali ci spiegheranno fra qualche decennio, se osservate, la sopravvivenza e la nuova grandezza o, se obliterate, la decadenza, la corruzione e l’asservimento dell’India, del Pakistan e dell’Egitto, risorti oggi ad indipendenza; quelle parole sono, ancora oggi, le fondamenta dello stato. Se esse sono osservate, per persuasione divenuta lentamente universale, gli stati fioriscono; se dimenticate o non ancora apprese, gli stati sono cose fragili, che un colpo di vento fa cadere e frantuma.

 

 

Lo strumento, tuttavia, non agisce per virtù sua originaria. L’ispirazione ad agire può venire soltanto da noi. Le quante volte mi è accaduto di assistere a pubbliche cerimonie nelle quali si ritrovavano riuniti i rappresentanti delle grandi assise dello stato, sempre mi sono chiesto: nell’ora del pericolo, quando sembri che la compagine statale e sociale si guasti, chi, di tutti i presenti, dirà la parola risolutiva, chi darà l’ordine necessario? In quel giorno, ne ebbi sempre la piena sicurezza morale, l’ordine non sarà dato né dal comandante generale dei carabinieri, né dal capo di stato maggiore generale, né dai comandanti territoriali, né dal capo della polizia, né dai prefetti né a maggior ragione, dai diplomatici o dai magistrati o da un funzionario anche se rivestito di alta dignità. Tutti ubbidiranno; ma tutti aspetteranno l’ordine.

 

 

 

Dicasi subito che gli ufficiali, militari e civili, così aspettando, faranno il loro dovere. Potere affermare che i capi dell’esercito e della polizia non assumeranno su di sé la responsabilità di dare l’ordine decisivo, significa essere finalmente sicuri che nel nostro paese non esiste spirito di sedizione e che gli uomini a cui è affidata l’osservanza della legge non mettono se stessi al di sopra della legge. Significa però anche che la responsabilità finale è dei capi civili, degli uomini i quali sono dalla legge costituzionale e dal libero voto dei cittadini posti nei sommi gradi dello stato e che essi e soltanto essi hanno il dovere di dire, nel momento decisivo, la parola decisiva, di dare l’ordine al quale gli altri debbono ubbidire ed ubbidiranno. I capi civili, a loro volta, diranno, tuttavia quella parola solo se essi sapranno di essere confortati dal consenso di cittadini, convinti che nessuno stato dura, che nessuna proprietà, nessuna sicurezza di lavoro, nessuna certezza di avvenire sono pensabili, se tutti non siano decisi ad osservare i principii vigenti del diritto e dell’ordine pubblico. Dopo, discuteremo liberamente se e come si debba mutare il diritto vigente; frattanto quel diritto deve essere osservato. Questo dice l’eco delle antiche usanze che ho ricordato in queste pagine.

 



[1] Presentata nella seduta del 14 aprile 1956.

[2] Nella conversazione, solitamente non breve, che seguiva al rito, vidi che la Santa Sede sceglie il suo stato maggiore in maniere che potrebbero non senza frutto essere imitate dallo stato per la nomina dei capi delle sue amministrazioni civili e militari. Non legata necessariamente a premiare uffici precedentemente coperti né a vincoli di progressive promozioni da minori a maggiori uffici, la Santa Sede esalta non di rado alla dignità vescovile, accanto a vicari generali od a vescovi ausiliari, semplici parroci od insegnanti di seminario; e li invia per lo più in sedi lontane dai luoghi di provenienza o di formazione. Se anche un sacerdote, venerando per età, è talvolta insignito dall’ufficio vescovile, per lo più i prescelti sono relativamente giovani, sui cinquant’anni, non di rado di aspetto prestante e decisi alle battaglie, non tanto spirituali e teologiche quanto morali e sociali. La Chiesa si giova anche, per il buon governo delle diocesi, di un istituto ignoto al nostro diritto pubblico. Giustamente contraria ai limiti di età, i quali per la impossibilità delle misurate eccezioni, che pur sarebbero tanto vantaggiose alla cosa pubblica, rendono inutili tante valide energie; e contraria anche, non esistendo l’istituto della pensione per i sacerdoti che dovessero essere collocati a riposo, per ragioni di rispetto verso i vecchi, la Chiesa usa nominare, accanto al vescovo titolare, al quale la malattia o l’età rendano gravoso il pieno adempimento del ministero, un vescovo ausiliare, con diritto di futura successione. Nessun emolumento è legato all’ufficio; sicché ambi, titolare ed ausiliare, vivono col provento della unica mensa; e la dignità dell’anziano è salvaguardata dal principio che all’ausiliare spettino quelle funzioni che al titolare piaccia delegargli. In fatto, la tradizione e la disciplina ecclesiastica aiutano ad evitare e risolvere conflitti, i quali sono invece pari inevitabili ed insormontabili nei rapporti fra anziani professori universitari, andati fuori ruolo dopo i 70 anni, ma non ancora, tra i 70 ed i 75 anni, collocati a riposo, ed i loro successori nella cattedra. Talvolta i nomi delle diocesi suscitavano ricordi storici, specie nel mezzogiorno d’Italia, dove alla rinomanza antica non sempre si accompagna lo stato attuale o questo reca traccie imponenti dei passati fasti gloriosi, come accade per l’abbazia di Montecassino, diocesi nullius, la quale governa parrocchie, le quali sono oasi discontinue sparse in un territorio che va dal Tirreno all’Adriatico. Ma anche i nomi dei vescovi talvolta rammentano nomine inaspettate, come quando, al sentire il nome di Mons. Gavazzi, che prestava giuramento in qualità di abate ausiliare con diritto di futura successione dell’abbazia benedettina di Subiaco, chiesi se appartenesse alla famiglia del senatore Gavazzi, di cui ero stato collega; «e non solo a quella famiglia, rispose, ma anche ad un’altra che lei conobbe: io sono figlio della signora Andreina, andata sposa in Gavazzi, i cui genitori erano Andrea Costa ed Anna Kuliscioff. Quando decisi di entrare nello stato ecclesiastico, sentii il dovere di comunicare il proposito a Filippo Turati, che noi chiamavamo zio; e recatomi a Parigi, dove stava in esilio, egli, dopo avermi ascoltato, così mi confortò: se, interrogata la tua coscienza, questa è la tua vocazione, bene fai a seguirla».

[3] Nel volume Lo scrittoio del presidente (un vol. di pp. XVI-677, Editore Einaudi in Torino, 1956). Tra i precedenti, che potranno eventualmente, in prosieguo di tempo, diventare «usanze», merita di essere ricordato il metodo tenuto nell’invio alle Camere del messaggio motivato, col quale, in virtù dell’art. 74 della Costituzione, il presidente della Repubblica può, innanzi di promulgarlo, chiedere una nuova deliberazione di un disegno di legge già approvato dal Parlamento. Ritenni di dover far uso assai cauto di questa facoltà; e quattro soli furono i messaggi inviati a tal fine e tutti a proposito di leggi aventi origine nell’iniziativa parlamentare: tre per motivi di legittimità ed uno per motivi anche di merito, che avevano, tuttavia, riflessi di ordine giuridico meritevoli di essere meditati e rimeditati dal Parlamento. L’attuazione di questo nuovo istituto rese necessario un procedimento, il quale non aveva naturalmente precedenti. Perciò disposi che il messaggio, redatto in due originali, fosse personalmente recato ai presidenti delle due camere del Parlamento dal ministro controfirmante accompagnato dal segretario generale della presidenza della Repubblica. La solennità della consegna parve richiesta sia dall’importanza propria dell’atto non ordinario, anche se non eccezionale, sia da ragioni di correttezza costituzionale, dovendosi i rapporti tra organi primari informarsi costantemente a regole di correttezza, al di là dello schema normativo che li contempla.

[4] Le mutazioni di sede dei capi missione mi parvero poco frequenti nelle grandi sedi, Parigi, Washington, Londra (qui determinate dalle rinuncie di Carandini e di Gallarati Scotti) e Mosca; ed in taluni casi si poté osservare, anche in altre sedi, come nella Svizzera e nell’Argentina una notabile stabilità. Meno duratura la permanenza nelle sedi minori quasi si ritenesse opportuno un turno tra l’ambasceria e la meno ambita permanenza al ministero. Sono di gran lunga, tra i capi missione, prevalenti i diplomatici di carriera e guardati, come si poteva riscontrare dai rari commenti dei giornali, con una certa tal quale contrarietà, gli incarichi affidati ad estranei. Che giova sperare siano serbati, come fu sempre tradizione nostra dai tempi di Cavour, in misurato e, forse misuratissimo numero, ma senza esclusione di principio e senza necessaria premessa di eccezionalità. è chiaro che la chiamata di uomini politici e di uomini eminenti e periti in rami diversi delle pubbliche e private faccende può dare e diede anche ora ottimi risultati ed essere feconda di emulazione per gli uomini venuti su dalla carriera. Come possono questi ultimi fare apprezzare giustamente i loro meriti, se non si possono saggiare alla cote dei meriti altrui? Che è criterio, il quale può vantaggiosamente essere applicato nei posti più alti di tutte le pubbliche amministrazioni. Guardare con sospetto e usare con parsimonia le nomine di estranei a prefetti e direttori generali, sì; ma sarebbe errore grave escluderle per principio.

[5] Esortatori convinti ad atti di misericordia erano e, credo siano stati e saranno sempre, cappellani e sacerdoti. Essi posseggono mezzi di convincimento negati al laico; hanno ricevuto confessioni, assistito ad atti di pentimento, sono testimoni di buona condotta. L’uomo si è trasformato; è un altro; il delitto commesso, anche se atrocissimo, è stato lavato dalle lunghe penitenze e dalle dure espiazioni. Sacerdoti e pie donne scrivono lettere commosse per gente di cui il laico diffida, nonostante il tempo decorso. Talvolta il rumore per una grazia cresce a dismisura: i giornali pubblicano versioni del fatto che paiono persuasive e tali da consigliare la grazia quasi d’urgenza. In un caso celebre, che qui non giova ricordare per nome, avvocati e pubblicisti insistevano: condanna sommaria, per un fatto di sangue provocato dall’onore famigliare offeso, per reazione immediata spontanea. Nessuna traccia dei verbali del processo celebrato sommariamente dinnanzi ad una corte militare estera nel tempo della cobelligeranza ed, anzi, rifiuto di far pervenire le carte del processo da parte dell’autorità forestiera. Richiedo il fascicolo, ed oh sorpresa! Il fascicolo esiste, ed è sempre rimasto nel suo luogo naturale; intiero e particolareggiatissimo. I verbali degli interrogatori dell’imputato, dei testi di accusa e di difesa, le arringhe del pubblico accusatore e dei difensori sono stenografici, nel testo originario e nelle traduzioni letterali. Né l’imputato, né i difensori fanno il minimo accenno, né nel primo, né nel secondo processo – in seguito al quale la pena di morte fu ridotta a trent’anni, dichiaratamente sin d’allora affermata riducibile in una eventuale revisione da parte delle autorità italiane, a norma delle leggi nostrane – al punto d’onore. La moglie era assente; e l’imputato era, dopo essersi munito nella casa di un’amica della moglie, di pugnale, ritornato sul luogo dove un’ora o due prima erasi verificato un tafferuglio, subito sedato senza conseguenze; ed a freddo aveva commesso il delitto, a cui era seguita la condanna. La campagna di stampa fondata su narrazione falsa ed inventata di sana pianta, non poté allora concludersi in una grazia, che dai giornali vedo, i fatti essendo quelli risultati dagli atti, non potere neppur ora, nell’opinione del guardasigilli d’oggi, essere proposta. Ciò nonostante la vecchia frottola del punto d’onore trova rinnovata commossa eco nei giornali.

 

 

Ai capi delle corti usai sempre richiedere se avevano già trovato stanza per sé e, naturalmente, per la famiglia. Qualche volta mi potei compiacere per la risposta affermativa: ed il compiacimento veniva dalla ovvia persuasione che il delicato geloso strumento della giustizia possa operare bene solo se i due capi, primo presidente e procuratore generale, vivono stabilmente, col dovuto decoro, primi fra tutti, in mezzo ai giudici ed avvocati della corte, dei tribunali e delle magistrature minori della circoscrizione. Spesso, troppo spesso la risposta era incerta: i legami di famiglia, gli studi universitari dei figli, la speranza di potere non troppo in là ottenere una destinazione più confacente alle proprie esigenze ed aspirazioni, il possesso di un appartamento a Roma o nelle città di precedenti sedi, la difficoltà di trovare casa a prezzi ritenuti sopportabili nel luogo di nuova sede, costringevano i capi di corte ad espedienti provvisori, ma non di rado duraturi; come il vivere a dozzina in albergo ed il correre ogni settimana a rivedere moglie e figli nella loro stanza consueta. Spedienti non utili al buon andamento della giustizia, del quale sono fattori essenziali il contatto continuo con il vario e non facile mondo giudiziario e forense; e la dignitosa riservatezza della vita. La soluzione, per i due capi di corte, si troverebbe nella provvista di due appartamenti decorosi, sebbene privi di sfarzo inutile, di stanze dagli alti soffitti, e del consueto raccapricciante mobilio ufficiale dorato e sculturato, ovvero ignobilmente nudo nella sua modernità. Ma per gli altri? Temo assai che anche quando sarà ristabilito il mercato libero delle case, pochi funzionari statali, e non solo i magistrati, si decideranno a pagare il prezzo, che quarant’anni addietro pareva naturale; ed il malanno delle residenze lontane dalla sede continuerà, se il costume di osservanza scrupolosa dei proprii doveri, anche esteriori, non prenderà il sopravvento sulla rilassatezza determinata dai duri tempi bellici e postbellici e prolungata dal consiglio inavvertito delle convenienze personali. Siamo tuttavia, per i magistrati, ancora lontani dagli eccessi ferroviari degli insegnanti universitari, lamentevoli non tanto per la irregolarità e la mancanza delle lezioni, quanto per lo scarso contatto con gli studenti e la distrazione dagli studi a consulenze, ad incarichi ed interventi a commissioni ed a camere legislative. Sembra, a leggere le querele dei giornali che il rimedio sia nell’osservanza delle lezioni a data ed in numero fisso. Al qual proposito giovano due ricordi. L’uno tocca una impressione di Allyn Young, valoroso economista di Harvard, il quale, chiamato ad una cattedra londinese, stupì per il numero, sebbene non grande e minore di quello scritto nel calendario italiano, delle lezioni «cattedratiche» che gli si disse essere colà di rito: «Noi, od almeno io, lezioni ex-cattedra ne facciamo negli Stati Uniti punte o poche; e le sostituiamo con esercitazioni, colloquii, discussioni, letture di libri». Ed invero, il metodo delle lezioni orali ex cattedra, è antidiluviano e bene si può provvedere all’uopo con insegnamenti per corrispondenza o con la lettura di manuali, e persino col comodo per lo studente di rimanere in casa, con lezioni per radio o per televisione. Quel che non può essere sostituito è l’insegnamento con esercitazioni, con colloqui, con discussioni, con visite negli ospedali e con lavori di laboratorio; che è metodo assai più faticoso per gli insegnanti e fruttuoso per gli studenti. Dal diverso e spicciativo modo di insegnamento per via di lezioni cattedratiche deriva la possibilità per gli insegnanti universitari di attendere ad altri mestieri, oltre a quello di istituto. Di qui – ed ecco il secondo ricordo – l’assenza degli universitari americani dalle assemblee parlamentari. Che io sappia, un solo senatore d’oggi su novantasei, fu professore; l’economista Douglas della Chicago University. Ma egli, non appena eletto senatore, si dimise da professore; e non furono dimissioni finte o con collocamento fuori ruolo o somiglianti avvedimenti. Dimissioni reali, con perdita di ogni diritto, di stipendio e pensione, come se non avesse mai fatto parte del corpo universitario, del quale pure era membro insigne. Una diversa soluzione sarebbe parsa riprovevole ai suoi colleghi.

[6] Lo scorrimento attento, coll’occhio, dei lunghissimi elenchi delle onorificenze, se metteva in rilievo la usanza, ragionevole, delle amministrazioni di non fare proposte che, nella assegnazione dei gradi di cavaliere, ufficiale, commendatore. ecc., si dilungassero dalla posizione dell’onorato nella gerarchia, sia amministrativa come sociale, segnalava anche la prevalenza delle attività ufficiali su quelle libere ed una certa tale quale tendenza all’incasellamento degli uomini secondo una graduatoria ossequiente a tradizionali criteri, diversi da quelli seguiti dai più nella vita ordinaria. Anni addietro, ed eravamo ancora nel regime fascistico, stupimmo a Torino quando, essendo imminente il suo collocamento a riposo, il prof. Gioele Solari, che noi stimavamo il maggiore degli educatori della nostra facoltà giuridica, fu chiamato in questura – con qualche preoccupazione della sua ottima signora – perché da Roma era giunta, per via gerarchica, una lettera per chiarimenti non solo sui precedenti, ma anche sui meriti che il predetto insegnante potesse vantare per il conferimento della croce di cavaliere. Naturalmente, l’amico rispose che, essendo vissuto nudo sino a tarda età (chi c’a l’è cul om patanu, narravasi chiedesse un giorno la regina Margherita vedendo passare in un ricevimento a corte a Torino, l’on Palberti, avvocato principe, ma non insignito di alcuna decorazione), poteva restare tale sino alla fine. Scorrendo un elenco, trasalii in seguito nel leggere la proposta di crear «cavaliere» Rinaldo Rigola, «sindacalista», insieme con altri organizzatori di primo pelo. Cancellai il rigo e ricordai che il Rigola era stato, innanzi all’avvento del regime, il capo della Confederazione generale del lavoro. E il decreto fu poi mutato, come dovevasi, con maggior riguardo per il vecchio organizzatore, ormai prossimo alla dipartita.

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