Opera Omnia Luigi Einaudi

Di alcuni connotati dello Stato elencati dai trattatisti finanziari

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1942

Di alcuni connotati dello Stato elencati dai trattatisti finanziari

«Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», dicembre 1942, pp. 191-200

 

 

 

1

Dei beni o servigi pubblici e dei connotati proprii dello Stato che offre quei beni

Uno dei problemi i quali si presentano al limite dello studio della scienza delle finanze è quello della distinzione fra i bisogni e relativi beni o servigi pubblici e i bisogni e beni o servigi privati. Ove si accolga, senza più indagare[1], il concetto che siano pubblici i bisogni a soddisfare i quali provvede di fatto lo stato «per mezzo di una sua attività peculiare detta finanziaria»[2]; noi distingueremo i bisogni pubblici dai bisogni privati, dicendo che i primi sono quelli soddisfatti da ogni stato il quale sia fornito dei seguenti connotati:

 

 

  • l’universalità, per cui lo stato agisce su tutti i membri della collettività umana vivente su un dato territorio;

 

  • la coattività, per cui le sue deliberazioni sono obbligatorie per tutti i membri della collettività, né essi possono sciogliersi dal vincolo di ubbidienza, senza far parte immediatamente di un altro stato. L’uomo può far parte ovvero non di un’associazione privata; non può non far parte di una fra le associazioni politiche esistenti nel mondo;

 

  • la eterogeneità o variabilità dei bisogni soddisfatti per mezzo dello stato, che sono caratteristiche dalle quali deriva la quasi impossibilità di ottenere il consenso volontario di tutti i consociati circa le scelte di essi ed i modi di soddisfarlo. Sicché la coazione si palesa necessaria;

 

  • la indefettibilità, ossia il considerare, che ognuno fa, essere illimitata la durata dello stato.

 

 

Scopo delle pagine che seguono non è di negare la idoneità dei quattro connotati ora detti a definire, al punto di vista finanziario, lo stato e quindi a circoscrivere i bisogni pubblici, ossia quei bisogni ai quali gli uomini provvedono per mezzo dello stato; ma unicamente di chiarire l’indole storicamente e contingente di taluno di quei connotati. Del chiarimento non hanno bisogno gli autori i quali hanno elencato quei connotati come caratteristici dello stato, essendo ovvio che la scelta di essi fatta avendo di mira non tutti i casi possibili di stato, ma i casi più frequenti e comuni, particolarmente nel tempo presente. Non dunque qui si vuol muovere un appunto agli scrittori, fra cui si novera anche lo scrivente, i quali per logica necessità di esposizione, accolsero in tutto o in parte quei connotati; ma si vogliono soltanto offrire talune considerazioni forse utili a precisare i limiti di tempo e di luogo posti alla attitudine di essi a definire lo stato.

 

 

È invero legittima la domanda: o non vi furono stati i quali non possedettero alcuni di quei connotati o non se ne fregiarono in pieno; e non vi sono sintomi i quali fanno presumere che lo stato moderno più non li possegga nella loro interezza?

 

 

2

La «indefettibilità» è propria solo degli stati della cui durata pochi dubitano

 

Intanto si noti che la cosidetta indefettibilità è una caratteristica la quale si può dir propria solo degli stati ai quali si possano attribuire gli aggettivi prosperi o stabili, della cui durata cioè pochi membri della collettività dubitano. Solo questi stati compiono o progettano di compiere opere le quali trascendono la durata della vita umana o di quel più lungo tempo che gli uomini sono soliti a prendere in considerazione.

 

 

Dovunque invoca non esiste il consenso reciproco tra governanti e governati, dovunque esistono cospicue minoranze insofferenti o ribelli, dovunque si inaspriscono le lotte e le invidie sociali, la classe politica mira soltanto ad affermare o ad utilizzare il proprio potere e non guarda al di là di periodi brevissimi di tempo. Lo stato provvede a taluni beni o servigi pubblici in conseguenza della indefettibilità già conquistata e nella quale si crede; ma talvolta i servizi pubblici hanno per iscopo di creare una «indefettibilità» che ancora non esiste o nella quale non si crede ancora o di supplire (colla fuga) alla indefettibilità alla quale non si è mai creduto o non si crede più.

 

 

3

La universalità e la coattività sono proprie di un tipo peculiare di stato a cui sia adatta la dottrina della piena sovranità. di alcune gravi limitazioni alla dottrina.

L’«immunità» dalle imposte, dal servizio militare, dall’ubbidienza a certe leggi penali (diritto di asilo per i condannati), dall’ubbidienza a leggi civili (permanenza di leggi nazionali accanto a quelle territoriali), questo istituto così largamente diffuso nel medioevo e del quale solo la rivoluzione francese riuscì, e non dappertutto, a trionfare, ha contrastato a lungo il principio della universalità e della coattività delle leggi dello stato. In realtà le caratteristiche della universalità e della coazione (da indissolubilità) sono proprie, dopo la caduta dell’impero romano, solo di quel tipo peculiarissimo di stato, il quale andò faticosamente formandosi nell’età moderna e toccò l’apogeo con Napoleone primo. I detti l’Etat c’est moi di Luigi XIV, o La Camera dei comuni tutto può fare fuorché cangiare l’uomo in femmina, sono espressioni caratteristiche della concezione della piena sovranità dello stato, sia che la sovranità risieda in un monarca o in una assemblea rappresentativa o nel popolo intero o in una mescolanza dell’uno, dei pochi e dei molti.

 

 

Secondo questa concezione sarebbe stato solo quell’ente il quale sia fornito di potere pieno o supremo, originario, non dipendente da un potere superiore, limitato soltanto dai limiti che pone a se stessa la volontà degli organi legislativi proprii dello stato medesimo. Possedeva forse l’attributo della piena sovranità e quindi della coazione in senso proprio lo stato medievale, di fronte al quale l’inerme vicario di Cristo poteva brandire efficacemente l’arma della scomunica e sciogliere i sudditi dal vincolo di fedeltà, obbligando l’imperatore a chiedere perdonanza a piedi scalzi a Canossa? Possedeva forse l’attributo della universalità quello stato, i cui sudditi non credevano di venir meno alle leggi dell’onore prestando servizio negli eserciti di altri stati, forsanco nemici; o quello nel quale il vincolo tra sovrano e vassallo era meramente personale e non esisteva o non aveva presa sull’animo e sulla condotta degli uomini l’idea della patria territoriale?

 

 

Il punto sembra rilevante ai fini della definizione del bisogno pubblico.

 

 

Il ragionamento:

 

 

  • è bisogno pubblico quello che di fatto gli uomini, soddisfano per mezzo dello stato;

 

  • lo stato è quella associazione alla quale si conviene l’attributo della coazione, nel senso che il rapporto dell’uomo con essa non può essere sciolto se non coll’istituirsi immediato di un altro rapporto con un altro stato;

 

 

sembra imperfetto, se vi sono campi nei quali allo stato viene negato il diritto di coazione, sicché l’uomo può efficacemente resistere ai comandi dello stato od a questo non è possibile ottenere ubbidienza neanche se volesse usare l’arma della coazione; e se vi sono casi nei quali all’uomo è possibile prestare ubbidienza a due poteri od all’uno od all’altro a piacimento; ed i poteri non sono subordinati l’uno all’altro. Pare sia necessario aggiungere, a definire il bisogno pubblico, qualche altro attributo oltre a quello di «essere di fatto soddisfatto dallo stato». La definizione sembra monca, se non formalmente, sostanzialmente. Si ha l’impressione che, volendo dare, come per lo più è logico, una definizione atta a comprendere tutti i casi, si lasci sfuggire quel che specificamente è più caratteristico.

 

 

Perché uno stato legifera in materia religiosa e l’altro no? Perché uno stato punisce e l’altro no il cittadino il quale milita sotto bandiera nemica?

 

 

È o non è bisogno pubblico la sicurezza interna o la difesa nazionale? Eppure talvolta furono compiti abbandonati a privati. La definizione: bisogno pubblico è «quel che di fatto gli uomini soddisfano per mezzo dello stato» è larga come la misericordia di Dio. Ma è non di rado sconcertante. Anche se la si ammette, in mancanza di meglio, come l’ho ammessa anch’io, essa manca di contenuto preciso se non si aggiunga che essa si riferisce a quel certo «tipo» di «stato», a cui si convengono certi attributi detti universalità, coattività, eterogeneità e variabilità, indefettibilità.

 

 

Ma universalità, coattività e indefettibilità sono connotati storici, limitati nel tempo, dello stato. Sono sovratutto costruzioni elaborate dei giuristi e dedotte dal concetto, pure giuridico, della piena sovranità dello stato. Solo quando e dove e nei limiti entro i quali si ammette che lo stato sia un ente perfetto in se stesso, unica fonte della legge e della norma giuridica vincolante, non vincolato a sua volta da altri poteri superiori o collaterali, solo ivi si può affermare che lo stato agisce sulla universalità dei cittadini anzi degli uomini viventi entro il territorio statale e li può costringere ad ubbidire a quelle qualsiasi deliberazioni comunque eterogenee e mutevoli e varie che possono essere prese dagli organi legalmente incaricati di manifestare la volontà sovrana dello stato.

 

 

Ma codesta dottrina della piena assoluta sovranità dello stato soffre di gravissime limitazioni. Non è vero, di fatto, che lo stato goda di impero su tutti gli aspetti della vita dell’uomo vivente sul suo territorio. Neppure oggi, che in dottrina della piena sovranità pare dominare tra i giuristi, lo stato può ordinare di credere o di non credere in Dio od in quel Dio. La fede è un campo sottratto al comandamento dello stato. Si è rinunciato, dopo le persecuzioni contro i primi cristiani, ad ordinare di compiere atti di ossequio esteriori i quali siano in contrasto con la religione internamente professata.

 

 

Le persecuzioni religiose non sono più usate, se non siano confuse con altri elementi, ad es., la razza, giuridicamente scindibili dalla religione, e furono abbandonate, per la loro efficacia a favore dei perseguitati. Lo stato non può ordinare all’uomo di pensare in un modo piuttosto che in un altro ed accade solo che si puniscano le manifestazioni esteriori del pensiero contrarie a quello fatto proprio dallo stato o giudicate contrarie all’ordine od all’interesse pubblico.

 

 

Anche quando lo stato commina incapacità od esclude dall’esercizio di talun diritto comune coloro i quali non «credono» o non «credono in un certo senso», esso rende tuttavia formalmente omaggio alla libertà religiosa (si veda il caso della Russia bolscevica, intollerantissima di fatto verso il cristianesimo, nel quale essa ragionevolmente vede il vero mortale suo nemico, ma ossequiosissima nella lettera della costituzione verso la libertà religiosa) e le sanzioni punitive sono ordinate contro specifiche manifestazioni esteriori di culto o pratiche osservanze o professioni reputate incompatibili con manifestazioni di ossequio alla fede politica statale che siano legalmente obbligatorie od implicitamente imposte ad occasione di concessioni pubbliche, come della tessera del pane o delle cose e simili.

 

 

4

Il bisogno pubblico soddisfatto in un dato tempo e luogo non è un «dato» primo; né lo stato possiede potestà coattiva illimitata

 

In realtà lo stato, il quale potrebbe, a norma della costruzione giuridica del concetto di piena sovranità esercitare senza limiti il suo potere di coazione, lo vede ristretto in campi ben delimitati. Non giova allo studioso dire: bisogno pubblico è quel che di fatto è soddisfatto dallo stato nella forma dell’attività finanziaria; ché l’interesse della discussione verte principalmente su quali bisogni si debbano – parla il filosofo – o convenga – parla l’economista – o si usi – parla il sociologo – soddisfare. Il bisogno pubblico soddisfatto in un dato tempo e paese non è dato primo dal quale prenda cominciamento la indagine finanziaria; ma un mero anello della catena dei fatti, le cui leggi importa investigare. Tutta la catena è saldamente saldata ed è in circolo. Se si vuole, poiché da un punto qualunque bisogna pure cominciare il discorso, si può dire:

 

 

  • la difesa nazionale è postulata come un bisogno pubblico;

 

  • ma la difesa nazionale non può essere esercitata senza coazione, perché altrimenti pochi pagherebbero spontaneamente, essendo sicuri che lo stato non potrebbe, senza venire meno al suo compito essenziale, lasciare indifeso il paese; ed occorre che lo stato abbia preventivamente i mezzi per far fronte alle spese relative;

 

  • di qui la necessità di tale e tanta spesa e di tali e tante imposte coattivamente ripartite sui contribuenti.

 

 

Solo per ragioni ovvie di divisione scientifica del lavoro il discorso può chiudersi entro i confini così dichiarati, colla discussione dell’ammontare e della qualità delle spese, e con quella della ripartizione dei costi sui contribuenti e dei relativi effetti e ripercussioni. Ma proseguirebbe, ad opera degli stessi e di altri studiosi, quando, volendosi ulteriormente analizzare le ripercussioni dell’imposta, ci si trovasse di fronte a cittadini, i quali, armata mano, rifiutassero il pagamento delle imposte perché contrarie ai fini che essi si propongono nella vita. Quando in Francia nel XVI e nel XVII secolo si trovarono di fronte ugonotti e cattolici e, la sovranità dello stato non essendo ancora divenuta così assoluta come fu poi, si consentirono, con l’editto di Nantes, diritti di religione e di guarnigione in determinate città agli ugonotti, in sostanza si riconobbe che lo stato non aveva ugualmente diritto di impero su tutti i punti del territorio nazionale, né aveva il diritto di difendere esso, con il suo esercito e la sua flotta, tutto quel territorio; e quella funzione doveva in parte essere esercitata in modo indipendente, affinché la minoranza protestante potesse ritenere salvaguardate talune libertà, principalmente quella di culto, alla quale era grandemente attaccata.

 

 

Se poi, nei tempi moderni, il compito della difesa nazionale e quindi della sicurezza interna fu esclusivamente affidato allo stato; se a poco a poco vennero meno gli eserciti dei minori enti politici territoriali o religiosi o professionali; se furono aboliti i diritti di asilo, le giurisdizioni speciali; se i bravi di signorotti locali e le mafie e camorre furono eliminate e debellate; se negli Stati Uniti venne meno durante il secolo presente l’usanza o necessità di ricorrere ad imprese private, non delegate dallo stato, sebbene con suo scorno non ignorate da questo, per la tutela della sicurezza delle persone e delle cose, ciò accadde perché gli uomini viventi in quel territorio riconobbero da un lato che l’esclusività era il metodo tecnicamente più efficace e meno costoso per raggiungere l’intento della difesa e della sicurezza e dall’altro lato si tennero sicuri dell’efficacia delle guarentigie contro il malo uso che lo stato avrebbe potuto fare della forza coattiva esclusivamente ad esso attribuita per conculcare quella libertà di religione, di culto, di pensiero e di stampa, di discussione alla cui difesa gli eserciti delle minoranze o dei gruppi politici dissidenti erano intesi.

 

 

Sicché la universalità e la coattività rispetto a taluni bisogni e servigi pubblici si affermano quando e perché lo stato rinuncia ad usare del suo potere coattivo rispetto a bisogni e servizi (conformismo religioso o spirituale o morale) che in altri tempi furono reputati o potrebbero in avvenire di nuovo tornare ad essere considerati pubblici. Non essendo dunque conforme ai fatti che lo stato abbia potestà coattiva illimitata, non si può assumere questa potestà come un dato primo, dal quale partire, ma come una eventuale illazione da altri dati che importa discutere ed analizzare.

 

5

Limitazioni crescenti alla piena sovranità degli stati moderni

 

Contemporaneamente le necessità della vita moderna hanno allargato e stanno vieppiù allargando il campo del concetto dell’uomo vivente in società con gli altri uomini. Una lunga strada è stata percorsa dal giorno nel quale le esigenze economiche e tecniche secondarono gli ideali spirituali e nazionali nel sostituire agli antichi stati sovrani, nei quali ancora nel 1959 era divisa l’Italia, un unico stato nazionale.

 

 

Come il ricordo della pur limitata unità napoleonica, i perfezionamenti nelle vie ordinarie di trasporto, l’intensificarsi del traffico, i crescenti rapporti intellettuali, lo scambio di libri, riviste o giornali, le iniziate linee ferroviarie, le prime comunicazioni telegrafiche, avevano allora contribuito a rendere i popoli intolleranti verso la minutaglia spezzettata degli esistenti stati sovrani ed a farli considerare quasi fossili provenienti da lontane epoche passate; così il trionfo contemporaneo delle ferrovie, delle linee di navigazione rapide per mare, rapidissime per aria, i trafori montani, i canali marittimi interoceanici, le possibilità di comunicazione istantanea per telegrafo e per telefono, la possibilità degli uomini di far sentir la loro voce per radio oltre i confini del territorio statale nei più lontani punti del globo hanno esercitato una lenta azione corrosiva sul tradizionale concetto puro della sovranità statale.

 

 

A poco a poco, con le convenzioni e le unioni internazionali postali telegrafiche e telefoniche, per la protezione della proprietà letteraria e delle invenzioni industriali, per la tutela della pubblica sanità contro le malattie contagiose, per la difesa contro le malattie degli animali e delle piante, per la unificazione del diritto cambiario e di altre parti del diritto privato, per la creazione di un comune diritto marittimo e di navigazione aerea, gli stati hanno rinunciato – riservandosene unicamente, colla notificazione delle convenzioni internazionali, il guscio esteriore – a frazioni successive ed importanti della loro sovranità e cioè a valersi del proprio diritto autonomo di coazione sui propri cittadini. Il diritto di coazione è rimasto ma oggi, per molti aspetti della vita collettiva, è attribuito ad enti, forse malamente definiti od indefinibili, che non si possono dire soprastatali, perché non hanno potere sopra gli stati; ma che non sono neppure intrastatali, perché i loro poteri non possono essere aboliti dalla volontà di un solo stato.

 

 

Il processo non è terminato. La guerra mondiale passata e quella presente sono una protesta tragica contro il concetto della sovranità piena ed assolta degli stati territoriali[3]. Esse dicono: i poteri assoluti in materia economica e finanziaria degli stati territoriali sono finiti. Gli stati sopravviveranno, diventando anzi ognor più cari e preziosi, come organi delle idealità e delle tradizioni nazionali, come fermenti di cultura e di rivalità intellettuale e nazionale fra popoli diversi di lingua e di costumi e giustamente gelosi della loro storia e della loro indipendenza nazionale; non possono sopravvivere come strumenti di regolamento della vita economica.

 

 

Pur astraendo in sede scientifica dall’enunciazione di soluzioni concrete, se la guerra presente dovrà avere una soluzione stabile, come l’altra non ebbe, questa non potrà non consistere nella creazione al di fuori – non si dice né al di sopra né al di sotto – degli stati territoriali fin qui esistenti, di organi, a carattere prevalentemente economico, indipendenti dai singoli stati territoriali – tipica la Lega doganale germanica del 1833, la quale potrebbe avere, più di cent’anni dopo, una replica grandiosa nell’organo od insieme di organi destinato a regolare la vita economica del nostro e di altri continenti – e questi organi dovranno togliere agli stati territoriali esistenti una particella più o meno grande della loro sovranità.

 

 

6

La discussione, che oggi interessa, è quella della razionalità dei beni e dei servigi attribuiti ai diversi ordini di organizzazioni statali.

 

La sovranità degli stati territoriali perciò sarà domani ancor più limitata e circoscritta di quanto ieri non fosse; e le discussioni di sostanza non verteranno sul punto, meramente formale ed estrinseco, del diritto di coazione spettante agli stati sovrani, quali essi siano per essere; ma sulle ragioni per le quali taluni diritti di coazione debbano essere attribuiti alle unioni economiche ed altri agli stati territoriali e, forse in primissimo luogo, su quali diritti di coazione debbano essere negati ad ambedue gli ordini di stati.

 

 

Nessuno stato vorrà invero permanentemente rinunciare a qualche particella della propria sovranità, ossia a qualche diritto di coazione, senza ottenere guarentigie contro il pericolo che l’unione economica si serva della sovranità sua propria per menomare la sovranità residua degli stati territoriali e per mutare istituti e leggi in modo contrario alle più care tradizioni nazionali.

 

 

D’altro canto l’unione economica non sarebbe duratura se non attribuisse a sé taluni poteri sovrani, ad esempio l’esclusività delle dogane; e non si garantisse contro le evasioni che i singoli stati territoriali tentassero in avvenire contro la legge federale. Nel nuovo ordinamento, tutto diverso dalla morta Società delle nazioni, il quale dovrà uscire dalla tragedia attuale, molta parte dovrà essere fatta ai divieti di agire imposti ai singoli stati sovrani; ai quali probabilmente dovrà essere vietato, sempre in materia economica, di modificare le proprie interne tariffe ferroviarie in modo favorevole più ai nazionali che agli stranieri, più a taluni stranieri che ad altri; e così dicasi per i diritti di porto e marittimi in genere, per il traffico di navigazione interna e di cabotaggio, per le imposte di consumo interne e in genere per tutta la legislazione tributaria.

 

 

Formalmente la formula: «è bisogno pubblico quello il quale sia soddisfatto da uno stato il quale sia fornito dei connotati della universalità, della coattività, della eterogeneità e variabilità, e dell’indefettibilità» rimane valida; purché si sottintenda che il diritto di coazione di cui si parla è limitato talvolta a taluni o forse ad un solo compito ben precisato, talaltra è esteso a tutti i compiti determinati dallo stato medesimo ad eccezione di quelli vietati dal costume, dalla legge internazionale o dalla contemporanea esistenza, sullo stesso territorio, di altri poteri sovrani indipendenti; e quando si ricordi altresì che la eterogeneità e variabilità dei fini è negata a taluno degli enti dotati di sovranità propria.

 

 

7

Il connotato della eterogeneità e della variabilità dei fini è assente in taluni tipi moderni di stato

 

Se è vero infatti che il connotato della coazione derivi dall’altro della eterogeneità e variabilità dei bisogni ai quali gli stati soddisfano[4], quale valore possiamo ad esso attribuire dinnanzi al fatto della rinuncia degli stati territoriali alla consecuzione di taluni fini e del passaggio di questi ad altri enti specificamente creati a quest’unico oggetto, privi dunque dell’attributo della eterogeneità o della variabilità dei fini? A tacere di una eventuale lega doganale europea od altrimenti ultranazionale, non è forse vero che unioni o leghe o enti aventi per scopo la gestione delle poste, dei canali marittimi (suppongasi Suez, Panama, Corinto, in futuro quel di Malacca ecc. ecc.), di navigazione fluviale (Danubio) esistettero o potrebbero essere chiamati in vita? Godono siffatti enti di una particella di sovranità? Hanno diritto di stabilire imposte o tasse, sebbene i loro scopi siano strettamente limitati ad uno solo? Non è forse vero che taluni stati federali non hanno affatto, sinché non muti lo statuto federale – ma da ciò si deve prescindere in tema di studio dei fatti esistenti, regolati da leggi vigenti – una apprezzabile eterogeneità di fini e non certo godono dell’attributo di variabilità dei medesimi?

 

 

se non quelle precise facoltà che sono elencate nelle carte statutarie, tutti gli altri poteri, vecchi e nuovi, essendo riservati ai cantoni, agli stati ed alle provincie. Già fin d’ora, non è sempre consentito, ove si escluda l’arma estrema della guerra, allo stato territoriale il diritto di secessione della unione federale; ma accadrà in avvenire ancor più frequentemente che quel diritto non sia ad esso consentito anche rispetto alle mere unioni economiche; e potrà accadere che neppure in secessione bellica sia possibile, ove allo stato territoriale manchi di diritto lo strumento a ciò necessario della forza armata. E tuttavia tutti questi tipi di stato – stati territoriali facenti parte di una federazione, stati privi di una forza armata, unioni economiche – godono, per dati scopi, di sovranità propria non derivata e non condizionata e dipendente da poteri superiori e non mutabile se non col consenso proprio o per verdetto bellico ed indubbiamente svolgono una attività finanziaria ed, in relazione a questa, hanno una potestà tributaria.

 

 

L’allargamento della base territoriale degli stati moderni e in sovrapposizione di diverse specie di stati, di cui alcuni non hanno certamente l’attributo della eterogeneità dei fini e poterono persino essere creati a tempo (ricordiamo le varie sopraricordate unioni internazionali alle quali spetta una qualche particella della sovranità sottratta agli stati territoriali) hanno avuto o potranno avere a loro fondamento l’esigenza di negare ai singoli stati territoriali ed a varii tipi di unioni internazionali talune potestà coattive che prima parevano ovvie.

 

 

Il diritto di bando e di confisca che pareva connaturato alle città medievali (il bandito trovava rifugio nella città vicina e di lì muoveva alla riconquista della città natale) diventa di più difficile applicazione nello stato moderno, e diventerebbe assurdo se e quando la convivenza pacifica delle genti umane si estendesse al mondo intero e convenzioni internazionali obbligassero le varie specie di stati territoriali e di superstati a rispettare l’integrità fisica e morale di ogni uomo.

 

 

8

Esiste un terreno di confine tra la scienza finanziaria ed altre scienze in cui si discutono le premesse del ragionamento economico finanziario; e di questa terra di confine gli economisti non possono disinteressarsi

 

Le osservazioni ora fatte non hanno per iscopo di mutare le definizioni di stato e di bisogno pubblico correnti nei trattati di scienza delle finanze. Qui il trattatista può seguitare a scrivere: bisogno pubblico è quel che di fatto è soddisfatto dallo stato con una sua attività finanziaria e potrebbe, a sbarazzarsi dalla incomoda indagine sui connotati che diversificano lo stato dalle associazioni private, limitarsi a scrivere: stato è quel qualsiasi ente il quale sia definito o risulti tale in virtù delle leggi vigenti in un dato territorio; dopo le quali definizioni formali, egli può procedere innanzi nelle sue proprie indagini.

 

 

Con esse si è voluto soltanto segnalare un terreno di confine, una no man’s land meritevole di essere scavata in profondità. Dubito assai se convenga ai cultori della finanza disinteressarsene. Questo, che già sarebbe parso un sacrificio di Origine in tempi nei quali il dogma della assoluta e piena sovranità degli stati territoriali non era messo in dubbio, appare atteggiamento troppo distratto in un tempo nel quale tutto muta e nessuno sa quali siano i servigi pubblici ed a chi spettino e se spettino a qualche ordine di stato od a nessuno di essi.

 

 

Nessuno meglio del finanziere, il quale per le sue indagini sugli effetti delle varie qualità e quantità di spese e di entrate pubbliche è in grado di formulare norme – nel senso di enunciazioni di vincoli logici fra l’un fatto e l’altro – intorno alla attribuzione o non attribuzione di certi fini ad una specie o all’altra di stato, nessuno può a maggior diritto e più fecondamente intervenire nel dibattito sempre aperto intorno ai compiti dello stato. Direi che nessuno deve più acconciamente intervenire, se compito dello studioso di un dato territorio scientifico si reputa essere quello di indagare sui vincoli che intercedono tra i fatti attinenti a quel territorio, ad esempio fra quantità e qualità delle spese pubbliche e quantità e qualità delle entrate (imposte) necessarie a compiere quelle spese.

 

 

Certamente la discussione feconda e veramente suggestiva per l’economista è sempre la stessa; che cosa accadrà se quella premessa sia il dato da cui dovremo partire? Ma è feconda e suggestiva solo perché essa consente all’uomo intiero, di cui l’economista è un aspetto, di rispondere all’altra domanda: dobbiamo o vorremo attuare quella premessa od un’altra concorrente? Una qualunque premessa, nel momento precedente a quello della sua traduzione in norma obbligatoria da parte dello stato sovrano, è materia di discussione. Prima, si discute se a questo o quel tipo od ordine di stato si debba attribuire quel diritto di coazione, o se non debba invece essere negato ad ogni ordine di stato; e la discussione si fa sul fondamento dei principi morali, di sentimenti religiosi, di convenienza tecnica od economica, di forza politica.

 

 

Principii, sentimenti, convenienze, forze sono tutti fattori di decisione i quali possono essere oggetto di indagine scientifica nella stessa precisa maniera, seppure con maggiore difficoltà e incertezza di risultati, di quelli che gli economisti assumono a punto di partenza dei loro ragionamenti. La universalità dell’appartenenza del cittadino allo stato e il diritto di coazione dello stato sui cittadini non sono un dato primo. Le leggi che si possono dedurre da quelle premesse sono per fermo rilevanti; ma non sono meno rilevanti le leggi le quali ci dicano quando, se e entro quali limiti quelle premesse esistano. Né queste leggi possono essere scoverte da chi non abbia indagato prima o non indaghi contemporaneamente gli effetti della premessa eventualmente accolta dal legislatore.

 

 



[1] Se sia compito dello studioso della finanza indagare il perché lo stato offra certi beni o servigi è altro problema, che qui, per non confondere problemi distinti, non si vuole discutere. Non si vuole neppure indagare se lo «stato», definito come alla nota seguente, comprenda anche gli enti, le associazioni e ben anche gli individui privati, ai quali esso deleghi, esplicitamente od implicitamente, qualche sua funzione. Se una esplicita od implicita delega esiste, enti, associazioni ed individui privati si debbono considerare meri organi dello stato, il quale non perde, a causa del modo tecnico scelto per adempiere ai suoi compiti, i connotati elencati nel testo. Se invece non esiste delega, ecco gli enti associazioni ed individui privati investiti in maniera autonoma di una particella della sovranità, ed ecco rafforzata la tesi della limitazione del concetto della sovranità assoluta dello stato. Se la delega esiste, esiste anche una attività finanziaria dello stato, sia pure mascherata talvolta con modalità illusorie, come sarebbero dazi doganali protettivi, diritti di prelevar tributi o di fissare prezzi pubblici e simiglianti avvedimenti. Se la delega non esiste ogni ente o individuo investito di una particella autonoma di sovranità ha necessariamente un bilancio di entrate e spese, diverso dai bilanci pubblici in senso stretto per ciò solo che di esso non si rende conto a parlamenti, a corti dei conti od altre pubbliche autorità all’uopo create dallo stato, sibbene, forse, ad organi propri dell’ente od individuo.

[2] Accolgo questa definizione del bisogno pubblico come premessa, che non si intende discutere, dal recentissimo corso di lezioni di Mauro Fasiani, Principi di scienza delle finanze; e dallo stesso l’elenco delle caratteristiche dello stato. Egli in verità, invece che di stato, parla di caratteristiche del «gruppo pubblico». Ma noi possiamo fare la convenzione di ritenere sinonimo le parole «stato» e «gruppo pubblico» e di intendere con quelle parole ogni «associazione politica» la quale possegga gli attributi indicati nel testo.

[3] In tre lettere indirizzate al Corriere della sera, il 5 gennaio e 28 dicembre 1918 e 6 maggio 1919, quando l’opinione pubblica era, nei paesi allora alleati ed associati, infatuata dell’idea della costituenda Società delle nazioni, dimostravo l’assurdità di quell’idea ed i suoi fatali nefasti risultati ed insieme il contenuto anacronistico dell’altra idea della sovranità perfetta ed assoluta degli stati territoriali. I fatti accaduti poi e la guerra presente hanno dato ragione alle critiche ed ai lugubri prognostici. Le lettere sono state, con altre, riunite in una silloge intitolata Lettere politiche di Junius (Bari, Laterza, 1920).

[4] «La eterogeneità e variabilità dei bisogni soddisfatti dal gruppo pubblico è in relazione di interdipendenza con la coazione che si esercita nel suo seno. La coazione appare appunto necessaria perché i bisogni soddisfatti sono eterogenei e variabili e non vi sono molte probabilità di incontrare il consenso della totalità dei consociati circa le scelte ed i mezzi di soddisfacimento. Ma la coazione che si può esercitare può rendere e rende tanto più variabili ed eterogenei i bisogni che di fatto si soddisfano». Proposizione la quale appare plausibilissima nell’ipotesi dello stato dotato di sovranità piena.

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