Opera Omnia Luigi Einaudi

Di alcuni importanti problemi di finanza. A proposito dell’ultima opera del Pigou

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1928

Di alcuni importanti problemi di finanza. A proposito dell’ultima opera del Pigou

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1928, pp. 159-187[1]

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 93-123

 

 

 

A. C. Pigou: A study in public finance (Macmillan and Co., Saint Martin’s Street, London, 1928. Un vol. di pag. XVII-323. Prezzo 16 sc. net).

 

 

1. – Nell’avvertenza premessa al volume, l’autore dichiara di averlo intitolato Studio sulla pubblica finanza e non semplicemente «Finanza pubblica» per chiarire nettamente che egli non intendeva trattare di tutti i problemi i quali ordinariamente rientrano nel campo dei trattati di finanza. La materia dello studio o saggio si divide in tre parti: problemi generali, entrate derivanti da imposte, entrate derivanti da prestiti. Gran parte delle nozioni esposte nella prima e nella terza parte erano già contenute nel precedente volume Political Economy of War e nella quarta parte della prima edizione di The Economy of Welfare. Eccettuati due capitoli, sulle imposte sui valori terrieri e sui guadagni di congiuntura, la seconda parte contiene invece materia nuova.

 

 

Gli ammiratori dei ragionamenti fini e delle analisi eleganti; coloro i quali desiderano, leggendo libri di economia, di non essere disturbati da ingombranti divagazioni ed intrusioni e confusioni politiche o sentimentali, ma nel tempo stesso godono di vedere sezionato il problema economico nelle sue parti componenti essenziali e di sentirsi ricordato continuamente che il punto di vista economico non è il solo, ma ben deve l’uomo di Stato tener conto, nella decisione ultima, di altri punti di vista altrettanto e forse ben più importanti di quello; i lettori che gli sono perciò fedeli, saranno grati al Pigou di avere nel presente volume rivolto le sue eccezionali doti di scrutatore e di ragionatore ad illuminare singolarmente il problema della pubblica finanza. Invece di saggi e capitoli sparsi, noi possediamo ora un libro al quale sarà possibile ricorrere senz’altro ogni volta interessi sapere che cosa il capo attuale della scuola di Cambridge pensa sui problemi di finanza.

 

 

2. – Doveva essere vecchia già nel 1752 la tesi per cui la spesa per il servizio del debito pubblico non grava la collettività se in quell’anno David Hume, nel celebre saggio sul credito pubblico, ricorda essere credenza comune che «il debito pubblico, essendo principalmente dovuto all’interno, reca agli uni quella ricchezza che toglie agli altri; simile in ciò al riporre denaro dalla mano destra nella mano sinistra, la qual cosa ci lascia né più poveri né più ricchi di prima» (p. 8 della ristampa Mc Culloch). Intorno alla distinzione suggerita da questa comune vecchia credenza tra le spese le quali impongono alla collettività un reale sacrificio e spese le quali non implicano alcuna distruzione di beni e servizi, il Pigou ricama uno dei migliori capitoli del volume. Egli chiama exhaustive il primo genere di spese; e in mancanza di una parola migliore invalsa nell’uso, né piacendomi inventarne di nuove e riflettendo che egli si riferisce alle spese le quali hanno per effetto di consumare qualche risorsa pubblica, io tradurrò dall’exhaustive in spese «di consumo». Se si costruisce un palazzo governativo, se si stipendiano funzionari od ufficiali, se si pagano interessi a creditori esteri, si consumano beni materiali, forze di lavoro «che la collettività non può più usare altrimenti o deve riprodurre con lavoro aggiunto se voglia altrimenti disporne». Invece se si spende il provento delle imposte a pagare interessi a creditori pubblici interni, pensioni ai vecchi, sussidi ai poveri, i mezzi di acquisto tolti agli uni sono dati agli altri. Sono, forse, diversi, sebbene non sempre, coloro che godono da quelli che pagano la spesa «di trasferimento» (transfer expenditure); i beneficiari potendo, anche, consumare o risparmiare quegli interessi o pensioni o sussidi che i contribuenti avrebbero inversamente risparmiato o consumato; ma il fatto essenziale è che la collettività nel suo complesso non ha rinunciato a nulla di reale, non ha sopportato un sacrificio. Di questa chiave di interpretazione, il Pigou si giova accortamente per mettere in luce la differenza che vi è fra lo spreco di fabbricare in tempo di guerra bombe che non scoppiano e lo spreco di pagare un membro del parlamento o un appaltatore o un operaio di più di quanto egli non meriti; nel primo caso essendoci vero spreco, nel secondo solo passaggio, condannabile per altro, di danaro da una ad altra persona.

 

 

Alla luce della distinzione ripetuta dal Pigou, appare erronea la tesi secondo la quale la Germania, liberatasi colla svalutazione del marco della più parte dei debiti interni, sia atta a pagare riparazioni almeno quanto Francia ed Inghilterra ed Italia sono atte a pagare altrettanti interessi ai creditori interni; poiché quel primo pagamento, essendo fatto a forestieri, scema la ricchezza della collettività germanica, mentre il secondo importa soltanto un trasferimento di ricchezza nel seno della collettività francese, britannica ed italiana. Ed ancora, ragionando sullo stesso tema, l’autore ammonisce di stare attenti contro il vizio di ingrossare l’incremento del peso dei tributi conseguente alla guerra; che a tutta prima appare aumentato nella Gran Bretagna dall’11% del reddito nazionale nel 1913 al 20% nel 1924. Ma la parte di siffatto onere complessivo dovuta a spese di consumo essendo cresciuta solo dal 9 e 1/2 al 12 e 1/2, laddove la parte di spesa di semplice trasferimento andava dall’1 e 1/2 al 7 e 1/2 per cento, è chiaro che l’incremento dell’onere effettivo della collettività – che è misurata dalle sole spese di consumo – crebbe assai meno in verità di quanto parrebbe da una affrettata considerazione delle cifre greggie.

 

 

3. – L’indulgenza con la quale il Pigou guarda alle imposte stabilite per provvedere alle spese di trasferimento non avrebbe incontrato il consenso di Davide Hume, manifestamente impaziente dinnanzi a consimili ragionamenti fiacchi (loose) e paragoni «speciosi», che anche allora si facevano. Nelle imposte stabilite per il servizio del debito pubblico pare all’Hume ci sia «qualcosa di più di un mero trasferimento di ricchezza da una mano all’altra». Par poco che in un certo, sia pur lungo, decorso di anni, seguitando il processo del «trasferire», i ricchi siano divenuti poveri ed i poveri ricchi? Par poco che i portatori di titoli di debito pubblico assorbano la migliore parte del reddito nazionale, e che i proprietari fondiari, oberati da imposte di trasferimento siano ridotti al grado di amministratori pubblici dei terreni e delle case che un tempo possedevano? Non conta nulla per la collettività che, al luogo di una classe indipendente di proprietari (Hume parla di nobility, di gentry, come oggi si parlerebbe, più adeguatamente alle nuove condizioni sociali, di proprietari fondiari, di industriali, di commercianti, di professionisti, e in generale di classi indipendenti dal pubblico bilancio), sottentri a poco a poco una classe di debitori pubblici, pavidi di vedersi ridotti gli interessi, di vecchi pensionati di Stato e di impiegati pubblici? «Ogni forza intermedia fra il re e il popolo essendo così interamente tolta di mezzo, il despotismo più maligno si instaurerebbe senza opposizione».

 

 

4. – A queste obbiezioni antiche contro la teoria della innocuità, in punto di sacrificio, delle imposte di trasferimento, gli scrittori alla Pigou replicano facendo il confronto tra l’utilità bassa delle dosi di ricchezza portate via ai ricchi coll’imposta e l’utilità più alta delle dosi di ricchezza date ai pensionati vecchi, alle madri povere aiutate nell’allevamento dei loro bambini, alle masse meglio educate, meglio alloggiate, provvedute di giardini, di palestre di teatri pubblici. Non aggiungono che il confronto tra le utilità dei contribuenti e quelle dei portatori di titolo di debito pubblico penda a favore del trasferimento a pro dei secondi; ché anzi guardano con sospetto alla classe dei creditori pubblici, perché più ricca forse di quella dei contribuenti e desidererebbero perciò leve sul capitale, che abbattessero alquanto la forza economica di quella classe. Ma, se esitano ad invocare una imposta livellatrice la quale, dopo aver provveduto alle spese per pubblici servizi (sopradetta di consumo), tolga ancora ai ricchi allo scopo di dare ai poveri, fino ad eguagliarne i redditi, ciò fanno non perché l’equiparazione non paia in se stessa giusta, ma perché sarebbe suicida. I contribuenti, avvertiti in tempo dall’esperienza passata cesserebbero dal produrre per soddisfare alle esercitazioni trasmutatrici dei finanzieri. Ovvia osservazione, che si legge in tutti i trattati di pubblica finanza (per es., nel Corso di chi scrive, dalla prima edizione del 1911, a pag. 370 e seg. alla quarta del 1926, a pag. 108 e seg.).

 

 

5. – Ma non pare che l’indagine possa, fuor dei trattati per le scuole, dove fa d’uopo limitare il campo di studio, far astrazione dal punto di vista di Hume. Il suo sconsolato grido: Addio a tutte le idee di nobiltà, di medio ceto, di famiglia (Adieu to all ideas of nobility, gentry and family, a pag. 10 dell’ediz. di Mc Culloch) giunge al fondo del contrasto veduto dal Pigou fra le spese pubbliche di consumo e quelle di semplice trasferimento. Se dobbiamo a lungo meditare prima di spendere il denaro dei contribuenti nel pagare funzionari, magistrati, soldati, perché così facendo, si consumano beni della collettività, quanto più a lungo fa d’uopo esitare prima di accrescere il numero dei creditori pubblici, dei vecchi pensionati di Stato e di tutti in genere gli usufruttuari gratuiti di servizi pubblici, nonostante che, così operando, si trasferiscano soltanto e non si consumino beni collettivi! Si consuma invece, si distrugge un tipo di organizzazione sociale e politica; che è cosa ben più seria del consumo di pochi o molti milioni o miliardi di beni materiali. È logicamente possibile e non è certo difficile fare calcoli edonistici per dimostrare l’esistenza di un guadagno netto di utilità derivante dal trasferimento di ricchezza delle classi indipendenti di proprietari di terreni, di case, di industriali, commercianti, professionisti, alle classi di creditori pubblici, di pensionati e di beneficiari di pubbliche elemosine. Non si dimentichi, tuttavia, che nel trasferimento si opera una grandiosa mutazione storica: dal tipo di società in cui la massima parte degli uomini che la compongono vive una vita indipendente dallo Stato ad un tipo di società in cui la maggior parte degli uomini attende i propri mezzi di vita alla qualità di creditori, impiegati, pensionati dello Stato. La mutazione può, da taluno, essere ritenuta vantaggiosa o indeprecabile; può concepirsi od anche attuarsi il passaggio da un tipo di società, in cui gli individui, le famiglie, le associazioni, i corpi locali vivono di una vita propria, correlata allo Stato, ma indipendente da esso, nella quale si urtino e si secondino correnti di idee mosse da scaturigini originali e spontanee ad un tipo di società in cui a poco a poco la maggior parte degli uomini si abitui a considerare lo Stato come la fonte del reddito, della ricchezza, della possibilità di lavoro, di pensiero, di ozio. Limitarsi, dinanzi ad una trasformazione storica così grandiosa, a constatare che il trasferimento di mezzi di pagamento dall’una all’altra classe avviene senza onere della collettività, è, in verità, troppo poco. Quale classe perde e quale guadagna? Come si trasforma la società in conseguenza del trasferimento? Quali ne sono le immediate e lontane conseguenze? Il vantaggio immediato di un residuo netto attivo di utilità non è contro bilanciato alla lunga dalla mutazione del tipo di società di uomini indipendenti in una società servile? Hume, come è proprio dei grandi pensatori, vede a distanza di secoli e un brivido lo fa sussultare: dove finiranno le classi proprietarie e medie che furono e sono (1752) la forza dell’Inghilterra; come finirà la famiglia, che è sovranità, che è legge in sé stessa, che non può essere serva di una forza esterna? Egli vede, a trasferimento compiuto, l’Inghilterra in balia di un tiranno; epperciò incapace a prevede l’assalto, a resistere al nemico esterno, resistono e si difendono e vincono gli uomini economicamente indipendenti, i quali temono di perdere vita ed averi ove il nemico vinca. Ma i semplici agenti di uno Stato, uso a portar via ad essi il debito delle ricchezze, lasciate loro in amministrazione, il quale eccede la somma necessaria per vivere, per redistribuirlo a creditori, a pensionati ed a beneficiari, non hanno interesse a resistere; né i creditori, pensionati e beneficiari, pavidi ed avari, hanno forza da ciò. E così lo Stato perisce, contribuenti e creditori amendue giacendo alla mercé del conquistatore (They themselves and their creditors lie both at the mercy of the conqueror, pag. 18, ed. cit.).

 

 

6. – Ammettasi pure che quelle ora fatte siano melanconiche recriminazioni di chi vorrebbe risalire il corso della storia contro il fatale andare, il quale porta all’onnipotenza dello Stato, al taglio degli alti papaveri, alla eliminazione di tutte le forze sociali spontanee ed indipendenti; e si ammiri l’eleganza delle dottrine odierne, le quali accelerano con bei ragionamenti il fatale andare della storia. Ma, appunto perché piace il ragionamento attento, è valida la contrapposizione tra il nonostante e il perché enunciati poco dianzi? Valido o non valido che sia il «nonostante» per le spese di trasferimento, è valido il «perché» riferito alle spese di consumo? Le imposte le quali servono a pagare stipendi a funzionari, a magistrati ed a soldati, le quali cioè consentono allo Stato di adempiere ai fini suoi propri di giustizia, di sicurezza, di difesa nazionale sono davvero spese di consumo? Il Pigou si affretta bene a dichiarare che, qualificandole exhaustive o «di consumo», egli non vuole lasciare supporre che quelle spese siano sprecate o che la collettività si troverebbe meglio se non fossero fatte; ma resta che il connotato loro caratteristico è che esse «implicano il consumo di fatto di una parte dei beni della collettività, cosicché la collettività deve far senza quei beni o lavorare più duramente di quanto avrebbe dovuto fare per riempire il mancamento per ciò ed allora verificatosi». (They involve the actual using up of a part of the community’s resources, so that the community either has to do without these resources itself or has to work harder than it otherwise need have done in order to fill the gap that for the time been made). V’è nella piena spontaneità con la quale Pigou discorre del consumo di fatto di beni collettivi che si opererebbe per mezzo delle spese pubbliche l’eco lontana del parlare che Adamo Smith e Davide Ricardo facevano di spese pubbliche «improduttive» ed un vago ricordo della taccia di sterilità che per tanto tempo si diede al lavoro dei magistrati, dei poliziotti, dei soldati e degli insegnanti. Contro la quale maniera erronea di considerare l’opera dei lavoratori intellettuali, epperciò dei servitori dello Stato odo levarsi, a tacere di tante altre, la voce gagliarda del nostro grande Francesco Ferrara nelle prefazioni ai fisiocrati (1850), a Storch (1855), a Ricardo (1856) ed a Dunoyer (1859), che se fosse stata ascoltata, come non fu per la scarsissima conoscenza tra gli economisti forestieri della lingua italiana, e per il cenno, elogiativo in apparenza e denigratorio in sostanza fattone (Introduzione, ecc., pag. 511 e 512) dal solo libro di storia della scienza economica, quello del Cossa, meritamente conosciuto all’estero, avrebbe impedito che tanti anni dopo si leggessero frasi, come quelle soprariprodotte del Pigou, inavvertite propaggini della distinzione tra lavoro produttivo ed improduttivo, che Ferrara aveva distrutto fin nel suo ultimo fortilizio della differenza tra prodotti materiali e prodotti immateriali. Ma alla applicazione ai fatti finanziari di quella tenace teoria della improduttività aveva dato in Italia nel 1888 il colpo di grazia Antonio De Viti De Marco[2] nel saggio sul Carattere teorico dell’economia finanziaria, dove è delineata particolareggiatamente la teoria dello Stato «produttore» dei beni o servizi pubblici destinati a soddisfare i bisogni collettivi. Che talvolta lo Stato venda i beni e servizi medesimi ad un prezzo di monopolio e riparta i profitti della sua intrapresa tra i membri della classe dominante è fatto storico, il quale, del resto, si avvera anche nell’economia privata. Ed a quel fatto storico si contrappone, nel libro del De Viti, l’altro fatto storico dello Stato democratico o cooperativo, il quale vende i suoi servizi al prezzo di costo. Dalla limpida concezione del De Viti si deduce l’equivoco riposto nel parlare, senza assai cautele, di spese pubbliche che sarebbero caratterizzate dall’essere exhaustive e di «consumo» o capaci di using up ossia di distruggere certi beni spettanti alla collettività. Gergo, questo, per fermo incomprensibile; perché lo Stato, per stipendiare magistrati e poliziotti e soldati non consuma, non preleva nessuna resource, nessun bene che sia stato precedentemente prodotto o in altro modo sia venuto in possesso della collettività ; sicché la collettività, vedendosene per tal modo privata, sia più povera o costretta ad uno sforzo maggiore. Lo Stato invece preleva – si discorre naturalmente fatta l’ipotesi di uno Stato organizzato ai fini del massimo vantaggio, presente o futuro, della collettività e si fa, come si deve, astrazione ai fatti contingenti che storicamente si allontanano dall’ipotesi tendenziale e teorica – dai contribuenti soltanto ciò che è suo, quella parte del flusso continuo di produzione dei beni e dei servizi che esso ha prodotto, garantendo ai cittadini la difesa nazionale, la sicurezza e la giustizia. Il cittadino, pagando l’imposta ossia il prezzo dei servizi pubblici forniti dallo Stato, non soffre alcun sacrificio, perché se non pagasse quel prezzo egli non avrebbe il reddito che ha, ma un altro diverso e di gran lunga minore. Che il discorrere di un impoverimento o sacrificio della collettività in seguito al pagamento dell’imposta sia mero vaniloquio, dimostrò a lungo anche lo scrittore delle presenti note in un saggio composto nel 1912, e poi in un altro del 1919, insistendo nel dire che l’imposta è «una delle condizioni, l’esistenza delle quali consente ad una collettività di produrre il massimo di ricchezza, di toccare l’ottimo nella ripartizione di essa fra i singoli e la più conveniente distribuzione fra consumo e risparmio. Quindi l’imposta non che provocare un aumento nello sforzo che l’uomo deve fare per procacciarsi il reddito, è la condizione necessaria per ridurre al minimo quello sforzo e per rendere massimo il reddito. Dire, in tali condizioni, che l’imposta decurta il reddito è enunciare una proposizione formalmente esatta, ma in sostanza lontanissima dalla verità. Tanto irreale e tanto fantastica, come quella che farebbe un imprenditore, il quale si lagnasse di dover pagare salari agli operai o materie prime ai fornitori e considerasse questi pagamenti come una decurtazione del suo reddito. Ognuno sa invece che per l’imprenditore non è un danno sopportare i costi necessari ed utili della sua impresa; ma anzi una condizione per rendere massimo il suo reddito. È un danno pagare salari ad operai fannulloni o comperare una materia prima disadatta; ma è un vantaggio poter remunerare convenientemente operai capaci o acquistare materie prime atte ad ottenere prodotti finiti che egli venderà come profitto. Così è dell’imposta: dannosa se male impiegata, utilissima se usata secondo la regola della più conveniente distribuzione della ricchezza. (Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, in «Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino» vol. 54, pag. 1078-1079 e 30-31 dell’estratto).

 

 

7. – Se è erronea la definizione delle spese cosidette exhaustive, erronee sono dunque le illazioni che se ne ricavano. La distinzione fra spese di consumo e spese di trasferimento non è quella veramente importante o relevant come ama dire nella sua particolare terminologia il Pigou; essendo invece importante quella fra spese le quali rientrano nel concetto dell’«ottimo» economico e spese le quali vi contraddicono. La collettività è danneggiata se si producono bombe che non esplodono invece di quelle buone; se si impiegano due poliziotti a fare il lavoro di uno; se si spreca il lavoro di un carabiniere a perseguitare l’uomo onesto, invece di mandarlo a caccia del malfattore; se si ritarda, oltre il momento necessario a farne persuasa la coscienza collettiva, a passare da un tipo inferiore di organizzazione internazionale con Stati piccoli a guerre frequenti a tipi ognora superiori di Stati grandi e di federazioni con guerre rade. La collettività è in questi casi danneggiata, non perché si tratti di spese di consumo, ma perché si impiegano fattori produttori di difesa e di sicurezza pubblica a non produrre nulla od a produrre ad alti costi. Ma la collettività è medesimamente danneggiata se si pagano, seguitando nell’esempio del Pigou, 400 lire sterline i membri del parlamento britannico, se è vero che si possa ottenere i servizi di uomini ugualmente valenti per 300 lire o se si paga il 5 % ai creditori pubblici quando sarebbe possibile procacciare denaro a prestito allo Stato al 4 per cento. Ed è danneggiata nel primo caso perché aspirano ad entrare nel parlamento uomini attratti non più solo dall’ambizione politica o dal desiderio di servire alla cosa pubblica, ma anche dal salario superiore al dovuto; epperciò scade la classe politica e la cosa pubblica tende ad essere male amministrata e la collettività può soffrire danni gravissimi. Nuoce del pari pagare il 5 invece del 4 %, perché il risparmio nuovo tende ad essere male distribuito tra imprese pubbliche e private, preferendo le prime a scapito delle seconde, con danno dell’ottima ripartizione del flusso e del risparmio tra i diversi impieghi possibili; epperciò è incoraggiato lo spreco del risparmio ad opera degli enti pubblici, capaci di attirarne, a spese dei contribuenti, troppi più capitali di quanto converrebbe se si volesse perseguire l’ideale dell’ottima loro distribuzione produttiva.

 

 

8. – Non esiste dunque, per le osservazioni ora fatte, un sacrificio di beni compiuto dalla società quando essa compra, pagando lo stipendio, i servizi del magistrato. Il che non vuol dire che il costo non esista, simile al costo che si deve sopportare per l’acquisto di qualunque altro bene. Contro al vantaggio della conseguita giustizia, che è il bene collettivo ottenuto a mezzo della organizzazione statale, sta il costo dello stipendio fornito al magistrato, ossia del lavoro e del tempo consumato dal magistrato nel rendere giustizia. Il problema di «ottimo» sta nel rendere minimo il costo e massimo il vantaggio. È forse diverso il calcolo che si deve istituire per le pensioni di vecchiaia? Da un lato si ha il bene collettivo di tranquillità sociale, di sicurezza, di esistenza assicurata a tutti nei tardi anni, di maggiore produttività del lavoro degli operai negli anni giovani e maturi confortati dalla certezza del pane quotidiano per gli anni più tardi; dall’altra si ha il costo della attribuzione di una quota del flusso corrente della produzione, del dividendo nazionale a uomini vecchi non lavoratori. E quest’ultima è una maniera imperfetta di esprimere un’altra relazione: alla lunga, guardando una generazione nel suo ciclo complessivo, la società, per ottenere un determinato flusso di ricchezza nuova deve impiegare la fatica di un determinato numero di lavoratori, il che comunemente si esprime dicendo che deve sottostare al costo di pagare un salario attuale ai lavoratori attuali e un salario differito ai lavoratori pensionati. L’insieme di questi due salari, attuale e differito, è la misura del costo che la società sopporta per ottenere il prodotto. Il costo è la fatica durata dei lavoratori, misurata dall’ammontare di quei due salari. Il problema si intenderà bene risoluto quando distribuendo il salario, col mezzo dell’imposta pensione, tra presente e differito si ottenga il massimo prodotto e si sia perciò in grado di pagare il massimo salario all’operaio durante la intiera sua vita di produzione e di riposo. Il pagamento di una pensione di vecchiaia non fa cioè sorgere un problema di «trasferimento» di ricchezza dai contribuenti ai pensionati. Questa è l’apparenza del fatto considerato. La realtà che sta sotto l’apparenza è un’altra: la pensione di vecchiaia è, nel giudizio della collettività, un metodo con cui si riesce a distribuire la ricchezza prodotta tra le diverse età degli uomini in guisa da massimizzare la ricchezza medesima. Se il calcolo è fatto bene, non solo deve essere pari il vantaggio al costo collettivo, ma anche non ci deve essere nessuno, neppure tra i contribuenti delle imposte necessarie per le pensioni, il quale si trovi peggio in conseguenza del pagamento. Anche il contribuente più ricco e più gravato di tributi, deve riflettere che – pur non essendoci equivalenza tra imposte pagate a vantaggio individualmente ricevuto, quest’ultimo non esistendo a sé e non essendo perciò misurabile – il sistema gli consente di godere, lui e i suoi figli, un massimo di reddito, senza rischio di rivoluzioni espropriatrici o di malcontento sociale pericoloso per la sua vita e la sua fortuna; un massimo, in confronto di quello che avrebbe goduto se si fosse pagato soltanto un salario agli operai produttori e nulla ai vecchi.

 

 

9. – La trattazione che il Pigou fa delle imposte sugli incrementi di capitale (in parte seconda, cap. ottavo, par. 3 e cap. 12esimo, par. 2) avrebbe meritato un approfondimento maggiore. Pare che si possa fondatamente distinguere, nella concezione del Pigou, gli incrementi di valori capitali da quelli che egli chiama windfalls e noi diremmo guadagni di congiuntura del tipo dei sopraprofitti di guerra. Questi ultimi egli giudica (nel cap. XVI della medesima parte) veri guadagni dovuti al caso, quando non siano semplicemente apparenti per mutato valore della moneta (ivi par. 6) o per mutato saggio di interesse (par. 7) e neppure siano preveduti e scontati da tempo (par. 8). Se un’area fabbricabile aumenta di valore soltanto da 100.000 lire nel 1928 a 200.000 nel 1943 quando si supporrà verrà edificata e darà, astrazione fatta dal reddito dell’edificio, un frutto di 10.000. lire all’anno, l’aumento di valore, verificatosi nei 15 anni, non è dovuto al caso, ma interamente preveduto e scontato nel valore iniziale di lire 100.000. Le quali sono in tutto uguali a lire 200.000 dopo 15 anni. Dunque non si potrebbe tassare di lire 40.000 l’incremento di lire 100.000, senza ridurre subito il valore prospettivo futuro dell’area da lire 200.000 a lire 160.000 e quindi il valore presente da lire 100.000 a lire 80.000. Quindi l’imposta colpirebbe il valore «attuale» dell’area e non sarebbe un’imposta su guadagni di congiuntura, non preveduti e non scontati. Il Pigou vuole che l’imposta sui windfalls o sui guadagni di congiuntura, la quale egli senza ripugnanza vorrebbe portata fino al 100 %, colpisca «esclusivamente» i veri guadagni di congiuntura o del caso o doni di mera fortuna, recati sulle ali del vento. Su qual punto si potrebbe fare lunga discussione, non vedendosi bene quel vantaggio concreto la finanza potrebbe trarre da un balzello tenuto, e giustamente tenuto, entro limiti così ferrei. Se la finanza italiana e con essa quella della più parte dei paesi del tempo di guerra, avesse dovuto eliminare sul serio, dal campo della tassazione, i sopraprofitti di guerra «apparenti» dovuti a variazioni monetarie, che cosa le sarebbe rimasto da stringere in mano? Nulla più di un pugno di mosche. Forse qualche profitto di intermediario, arduo ad accertare, ancor più arduo a tassare con probabilità di incasso. Se non si voglia, come per lo più si fece per i profitti di guerra e si tornerebbe a fare, ad es., per gli aumenti di valore non guadagnati (ma Pigou bene aggiunge «non apparenti» e non «sperati») delle aree fabbricabili, procedere a colpi di sciabola, sarebbe necessario procedere ancora più guardinghi di quanto il Pigou non desideri. Non basta sottrarre dall’incremento di valore verificatosi la quota che è «apparente» per mutato valore della moneta o per variato saggio di interesse o quella che era già stata «scontata» perché prevista. Soddisfa il residuo alla definizione del Pigou (XVI, 1) per cui sono windfalls o doni della fortuna «gli accrescimenti del valore reale dei capitali posseduti dal contribuente i quali non siano da lui previsti e non siano in alcuna parte dovuti ad uno sforzo fatto, ad un’intelligenza applicata, ad un rischio corso o ad un capitale investito»? Pare che quasi mai possa ritenersi soddisfatta la definizione, finché l’imprevisto, la fortuna, il caso sia un elemento essenziale della condotta economica di una così gran parte degli uomini. Si cercherebbero e si scaverebbero miniere se dinanzi alla mente del minatore non brillasse la speranza di un insperato, straordinario rinvenimento? Si sarebbero costruite città in luoghi spopolati di paesi nuovi, senza la speranza di un fortunato sviluppo futuro? Si costruirebbero case in quartieri lontani dal centro delle grandi città, se non sorreggesse la speranza di attirare a sé la popolazione e raccogliere il premio di un forte incremento di valore delle aree accaparrate in quella speranza? Si comprerebbero azioni e si investirebbero risparmi nella industria se non sorreggesse la speranza di indovinare la buona tra le tante azioni poste sul mercato? Si comprerebbero biglietti di lotteria se il giocatore non fosse animato dalla speranza di vincere il premio? Né queste speranze sono tali che consentano di essere scontate. Tutti sperano che il proprio lotto di terreno acquistato oggi al prezzo di 100.000 lire valga, dopo 15 anni, ben più di 200.000 lire; perché se, così non sperassero, avrebbero preferito investire tranquillamente i propri risparmi in un titolo fruttifero sicuramente del 5% annuo. Se lo fecero, non furono mossi dalla media possibilità di riprendere dopo 15 anni le proprie 100.000 lire accresciute dall’interesse composto del 5% annuo e divenute così 200.000 lire, ma invece dalla speranza di essere favoriti dalla fortuna e di acquistare «quella» area che,invece di toccare la normalità delle 200.000 lire raggiunse invece l’eccezionalità, non sperabile e non scontabile singolarmente, delle 500.000 e del milione di lire. Dico cioè che, se si deve dedurre dagli incrementi quella parte che fu prevista e scontata, non basta dedurre le quote di incremento previste e scontate caso per caso, singolarmente, ma anche le speranze e gli sconti applicati ad una collettività di casi. Quell’incremento eccezionale di 300.000 o 700.000 lire in più non è un dono della fortuna, ma è condizione necessaria affinché gli speculatori applichino la loro intelligenza a scoprire le aree adatte a costruzione futura, facciano sforzi per attirare verso di esse la popolazione costruendo case pioniere, sopportando parte dei costi delle strade di accesso, correndo il rischio dei capitali impiegati. Se quel premio eccezionale, individualmente imprevedibile, sebbene collettivamente probabile, non si potesse ottenere, gli speculatori non accorrerebbero verso quell’impresa o vi accorrerebbero in misura minore; né la produzione sarebbe quella che è.

 

 

Che la deduzione dell’interesse composto accumulato tra due consecutivi realizzi non sia sufficiente a depurare l’incremento da ogni fattore di costo riducendolo al puro dono della fortuna aveva ben visto il Bickerdike in un saggio letto nel 1910 alla sezione economica dell’associazione britannica per l’avanzamento delle scienze (cfr. The principle of land value taxation, in «The Economic Journal», 1912, p. 3), quando aveva chiesto: «se si avverte oggi che tutte le probabilità favorevoli saranno tassate, non è esattamente come se si riducesse senz’altro il valore presente di tutte le probabilità»? Lo Stamp (in The incidence of increment duties, nello stesso «Journal», 1913, pag. 197 e seg., riassunto nel volume The Fundamental principles of taxation, 1921, pag. 141 e seg.), risponde che il valore attuale di un grosso premio è minore, a parità di somma totale offerta in premio, del valore attuale di molti piccoli premi, e che si può tranquillamente ridurre l’importo dei grossi premi senza scemare la spinta al giuoco. Il punto, che è di psicologia, merita di essere approfondito, più di quanto lo Stamp abbia fatto. Lo Stato, come prova l’esperienza italiana del monopolio del lotto, può prelevare coll’imposta assai più sulle grosse vincite dei quaterni che su quelle dei terni ed ancor più che sui premi degli ambi; e l’esperienza conforterebbe l’assunto dello Stamp. Tuttavia il premio a giuocatori ignoranti, come son quelli del lotto, appare ancora, tuttoché ridotto dall’imposta, rilevante nei quaterni e terni e bastevole ad attirare i giuocatori. Montecarlo conserverebbe la sua clientela, appartenente ad una classe più istruita, se non più elevata se i possibili premi fossero di poche centinaia di franchi? Gli speculatori in terreni, in miniere, in azioni si possono assimilare a puri giuocatori? Nel mondo economico, in cui le imprese si distribuiscono lungo una scala, da quelle le quali perdono a quelle le quali guadagnano rendite sempre più elevate e nessuna probabilmente si trova al margine della copertura dei costi intieri, l’esistenza delle imprese più fortunate non è spesso una condizione necessaria per incoraggiare i capitali ad investirsi in industrie incerte? Se dinnanzi alla mente dei giovani non brillassero i guadagni degli avvocati principi, dei chirurghi e dei clinici famosi, quanti si indurrebbero ad avviarsi su vie seminate più di triboli che di successi? Fin dove si può tassare senza toccare quella frazione d’incremento che sia guiderdone, compenso di lavoro, d’iniziativa, di speculazione? Le difficoltà di partire con esattezza nei suoi elementi costitutivi gli incrementi di capitali così da cavarne fuori il residuo di reale guadagno dovuto al caso e tassabile senza pericolo, paiono dunque assai maggiori di quanto il Pigou non dica; sicché forse non esistono applicazioni veramente pure dell’imposta teoricamente configurata; e quelle che si dicono imposte sui guadagni del caso o della fortuna sono in verità tutt’altra cosa e colpiscono per lo più guadagni previsti e calcolati, per individui o per gruppi, e condizione necessaria della produzione. L’imposta configurata teoricamente resta una pura esercitazione accademica, la finanza essendo ben lontana dall’adattarsi a fare le detrazioni e le distinzioni sottili volute dalla teoria.

 

 

10. – Ma il Pigou non limita la tassabilità e il guadagno del caso. Se per questi è pronto ad attribuire allo Stato il 100% del guadagno, per gli incrementi generici di capitale non enuncia aliquote, ma ammette (settimo, 3) che se un incremento di capitale si verificò e si realizzò esso «teoricamente debba essere considerato parte del reddito» e come tale tassato. E poiché nessun altra ragione di tassazione è addotta dal Pigou all’infuori di questa sola: doversi l’incremento di capitale comprendere, se realizzato, nel reddito del contribuente, consegue logicamente dalla fatta premessa che l’incremento medesimo dev’essere tassato alla stessa stregua, colle medesime aliquote, colle stessa detrazioni del reddito di cui esso fa parte. Egli aggiunge subito che siffatto conteggio non può tuttavia praticamente farsi per ragioni amministrative (VII, 3), ragioni le quali pare abbiano consigliato l’amministrazione finanziaria britannica ad accertare gli incrementi di capitale solo quando siano ottenuti nel corso della normale attività commerciale o professionale del contribuente. La commissione reale britannica sull’imposta sul reddito pare fosse favorevole ad un’estensione della pratica fiscale, così da accertare i guadagni per incremento di capitale ogniqualvolta la cosa accresciuta di valore fosse stata, da chiunque, acquistata con intenzione speculativa (with a view to profit making). Il Pigou non si nasconde le difficoltà pratiche della proposta e propenderebbe a ritenere che esse possano essere meglio sormontate con una imposta ragionata sul patrimonio e non sul reddito (XII, 2). Ma queste osservazioni se inducono a cautele prudenti di applicazione, non scrollano il principio, in virtù del quale gli incrementi di capitale, se accertabili e tassabili senza eccessivo costo amministrativo, dovrebbero essere inclusi nel reddito e quindi tassati alla medesima stregua di questo. A leggere il Pigou, pare questo un assioma evidente su cui non cada discussione.

 

 

11. – Evidente invece non è, come può con breve analisi essere facilmente dimostrato. Supponiamo, per adoperare una esemplificazione preferita dal Pigou per la sua semplicità, trattarsi di un’imposta ad aliquota costante. Supponiamo che il valore capitale di una cosa passi da 100.000 lire nel tempo A a 200.000 lire nel tempo B. Il guadagno di lire 100.000 sia «realizzato» in seguito a vendita della cosa capitale. Se il reddito dei contribuenti è colpito con un’imposta del 10 %, anche il guadagno di 100.000 lire dovrebbe teoricamente, dice il Pigou e dicono tanti altri, essere tassato. A me pare invece che se c’è evidenza di assioma in tal caso, essa sia per la risposta negativa al quesito[3]. Infatti, quelle 100.000 lire di guadagno capitale già furono gravate da un onere del 10 % e se venissero oggi tassate, sopporterebbero un peso maggiore di quello gravante sugli altri redditi in generale. Perché una cosa capitale passa invero dal valore 100.000 a quello 200.000 lire? Perché il reddito netto annuo futuro probabile passa da 5.000 a 10.000 lire. Ma le 5.000 e le 10.000 lire sono già nette dalla imposta generale del 10%, da cui esse sono colpite. Il mercato capitalizza i redditi al netto e non al lordo delle imposte ad aliquota costante od uniforme. Se l’imposta del 10% non fosse pagata dai redditi di 5.000 e 10.000 lire questi sarebbero, al netto, di 5.555,55 ed 11.111,11 lire rispettivamente; e si capitalizzerebbero al 5%[4] a loro volta in lire 111.111,11 e 222.222,22 lire. Quindi il contribuente, se non esistesse l’imposta del 10% sul reddito, guadagnerebbe un incremento di capitale di 111.111,11 lire. L’imposta del 10% sul reddito, intesa come imposta sui semplici frutti annui distaccabili dal capitale, esclusi dal computo gli incrementi del capitale stesso, basta da sola a produrre questi due effetti: 1) riduzione del reddito netto nel tempo A da 5.555,55 a 5.000 lire e nel tempo B da 11.111,11 a 10.000 lire; 2) e corrispondente riduzione dei valori capitali da 111.111,11 a 100.000 nel tempo A e da 222.222,22 a 200.000 nel tempo B. Resta così dimostrato che redditi e capitali, incrementi di reddito e incrementi di capitali sono già tutti ugualmente colpiti da un’imposta che riduce semplicemente i redditi e quindi gli incrementi di reddito del 10 per cento.

 

 

Se, ora, come vuole il Pigou, si afferma che debbono essere compresi nel reddito, ossia nei frutti annui della sorte capitale, anche gli incrementi di valore della sorte capitale medesima, noi graviamo maggiormente una frazione, quella nuova od accresciuta, del reddito in confronto della frazione originaria. Ed invero la frazione originaria del reddito, quella di 5.555,55 lorde e 5.000 lire nette dall’imposta del 10%, già esistente nel tempo A continua a pagare soltanto 555,55 d’imposta; ed il corrispondente valore capitale continua ad essere ridotto soltanto da 111.111,11 a 100.000 lire. L’aggiunta di reddito, invece, o seconda frazione di esso, del medesimo ammontare di 5.555,55 lorde, viene dall’imposta del 10% ridotta in un primo momento a 5.000 lire nette. E capitalizzandosi queste 5.000 e non le 5555,55 lorde, il contribuente già soffre la riduzione dell’incremento potenziale di 111.111,11 all’incremento effettivo di 100.000 lire. Entra in campo a questo punto la innumere schiera dei tassatori di incrementi e Pigou con essa, la quale trova «evidente» far d’uopo tassare col 10% l’incremento di 100.000 lire, perché «guadagno» diverso e aggiunto al reddito annuo di 10.000 lire, sì da ridurlo a 90.000 lire. Così facendo costoro non si avveggono che:

 

 

  • l’incremento di capitale già decapitato in virtù dell’imposta da 111.111,11 potenziali a 100.000 lire effettive viene ridotto ancora a 90.000 lire;

 

  •  l’incremento di reddito già ridotto dall’imposta da 5.555,55 a 5.000 lire, viene, grazie alla riduzione dell’incremento, fruttifero di reddito, a 90.000, ulteriormente ridotto a 4.500 lire;

 

  • che, perciò identici ammontari di reddito e di capitale vengono diversamente colpiti, solo perché si producono in tempi successivi: gli ammontari, primi nel tempo, essendo colpiti, se reddito, con 555,55 lire, se capitale, con 11.111,11 lire; laddove gli ammontari, secondi nel tempo, sono ridotti, quanto a reddito, di 555,55 più 450 ossia 1.005,55 lire e, quanto a capitale, di 11.111,11 più 10.000 ossia in tutto di 21.111,11 lire.

 

 

12. – Come dalla circostanza del prodursi di un reddito o di un capitale per incrementi successivi si deduca l’evidenza dell’equità di una tassazione maggiore degli incrementi in confronto delle dosi originarie, confesso di non riuscirmi a spiegare.

 

 

Il Pigou, assai correttamente, esclude che il motivo del diverso trattamento fiscale possa consistere nella facilità o gratuità con cui si ottengono gli incrementi e le novelle dosi di reddito o di capitale. Come fu spiegato sopra, questo è problema tutt’affatto differente. Nei casi in cui si riscontri che un reddito è dovuto al caso (windfalls), od è ottenuto senza sforzo del contribuente, o con particolare facilità o larghezza, per ragioni di monopolio o di posizioni di rendita e simili, si può discutere, come sopra si fece, se convenga o non tassare il reddito facile, gratuito, largo con aliquote particolarmente alte. Ma tal problema deve essere discusso per sé e non deve essere confuso con il problema della tassazione degli incrementi. Un reddito può essere dovuto al caso, alla fortuna, al monopolio, sia che esso sia prodotto prima ovvero dopo; può essere dovuto al caso il «primo» reddito e al lavoro il «secondo» e viceversa. Sono due fatti distinti e non giova confonderli.

 

 

Il Pigou, che pure aveva scansata siffatta confusione, in cui cadono per lo più i trattatisti della tassazione degli incrementi di capitale, non ha veduto l’errore logico di considerare l’incremento di capitale meritevole «per sé stesso» d’imposta. Se il ragionamento da me sopra fatto non patisce critica – e in tanti anni da che primamente fu esposta, nessuna critica sostanziale è venuta a mia conoscenza – si può perlomeno concludere non essere stata data alcuna prova della asserita evidenza della giustizia di tassare, al par dei redditi, gli incrementi di capitale ed essere forte la presunzione che, ove la tassazione si facesse, dovrebbe essere tacciata di doppia tassazione.

 

 

13. – Se dunque l’amministrazione finanziaria britannica sinora si è limitata a tassare gli incrementi di capitale nei soli casi in cui essi siano la conseguenza dell’ordinaria attività professionale del contribuente, è probabile che siffatta condotta sia dovuta non al timore di errare estendendo i casi di tassazione al di là di quelli professionali, più agevoli ad accertarsi, sibbene per la sensazione, consapevole o non, che, a tassare al di là di quei ben definiti casi, si sarebbe commesso opera ingiusta, si sarebbe indebitamente tassato due volte lo stesso cespite per lo stesso motivo.

 

 

È rimarchevole la circostanza che, a quanto si può capire dalle parole del Pigou, la pratica inglese è tutt’affatto simile a quella italiana. Ma è ancora più rimarchevole che la pratica italiana non è una semplice «pratica» accolta in mancanza di meglio; ma è l’attuazione di un pensiero maturamente dedotto dal testo e dallo spirito della nostra legge di imposta di ricchezza mobile e lentamente e sapientemente elaborato dalla giurisprudenza. Recensendo altra volta alcuni saggi finanziari dello Seligman ebbi già a chiarire la relativa eccellenza della dottrina italiana su questo punto, davvero singolarissimo per la facilità con cui insigni studiosi cadono in equivoco (cfr. in «La Riforma Sociale», 1927, pag. 385 e mio Corso di Scienza della Finanza, quarta ediz., pag. 191). La dottrina italiana quale si deduce dalla giurisprudenza interpretativa della legge, reputa tassabili solo quegli incrementi di valore capitale che sono conseguiti in seguito ad una preesistente intenzione speculativa. Il banchiere il quale acquista titoli pubblici a scopo di rivendita, il negoziante che acquista case e terreni col medesimo scopo, se ottiene l’intento, non viene tassato perché abbia conseguito un incremento di valore capitale, ma perché quell’incremento è il frutto normale di una attività professionale o commerciale. L’incremento non è mai tassabile come tale ma solo quando si ha frutto di capitale o di lavoro o di amendue. Si tassa l’incremento da 100 a 200 mila lire del valore della casa se e quando esso sia il frutto di un’attività professionale, così come si tassa l’aumento di valore del sacco di frumento da 100 a 105 lire se esso è frutto e compenso dell’opera del negoziante. Quella regola, che al Pigou sembra un espediente empirico di una finanza timorosa di accettare gli incrementi di capitale in generale e paga di colpirli nei casi più evidenti, attua invece il canone dell’uguaglianza, il quale comanda di colpire i frutti dell’opera umana dovunque si producano, per differenza nei prezzi di compra e di vendita di derrate agricole o di merci industriali o di titoli o di immobili. Con ciò non si pretende affatto di colpire incrementi di capitale, sibbene e soltanto frutti o compensi di lavoro o di capitale; né si commette errore di doppia tassazione, ché il negoziante di case non ha per intento di investire capitali in case allo scopo di goderne i fitti; ma solo di barattare denaro contro case e queste nuovamente contro denaro accresciuto. Appurare se in un dato caso di incremento si riscontrino gli estremi del lucro professionale è problema concreto, che non ha importanza ai fini del punto di principio e quindi non deve essere qui discusso.

 

 

14. – Ad illustrazione del modo tenuto, ragionando, dal Pigou giova ricordare la sua analisi del problema della tassazione del risparmio. Egli non dubita che l’imposta la quale colpisce nella stessa misura la parte del reddito risparmiata e quella consumata discrimina a danno della prima parte. Infatti, se l’imposta è del 10 % del reddito, e se il reddito è di 200 lire, di cui 100 consumate e 100 risparmiate, l’imposta sulla parte consumata risulta di 10 lire e nulla più, nessuna altra imposta potendo di seguito riscuotersi su ciò che più non esiste. Ma l’imposta sulla parte risparmiata risulta di 10 lire subito e poi ancora del 10% sui frutti delle 100-10 ossia 90 lire risparmiate. Se l’investimento è perpetuo ed effettuato al saggio del 5%, ossia dà luogo ad un frutto di 4,50 lire all’anno, l’imposta, prelevando ogni anno in perpetuo 0,45, dà luogo ad un ulteriore gravame di 9 lire, attuali, ed in tutto di 10+9, che è assai più e praticamente quasi il doppio dell’imposta gravante sulla parte consumata. Se noi chiamiamo x l’imposta sulla parte consumata del reddito l’imposta sulla parte risparmiata è

 

 

ossia

 

 

15. – L’autore, il quale non ricorda le fonti della teoria, per lui pacifica nonostante alcune obbiezioni o meglio negazioni di Cannan e di Stamp[5], a questo punto ha, si può dire, esaurito il problema principale: quello di principio, se ci sia o non ci sia doppia tassazione nel colpire il risparmio alla stessa stregua del consumo. La doppia tassazione esiste quelle che vengono in seguito si potrebbero dire consigli di cautela nell’interpretazione del principio. In primo luogo, occorre avvertire che se il risparmio, investito, non dà frutti, neppure patisce imposta e quindi non si verifica il vizio lamentato della doppia tassazione. Quale caso di investimenti senza frutti avesse in mente il Pigou non è, dato il suo silenzio, agevole immaginare. Non pare egli si possa riferire all’investimento di cose temporaneamente infruttifere, come aree fabbricabili, azioni di società non ancora arrivate al momento della raccolta degli utili e simili. In tal caso la seconda o doppia tassazione è meramente sospesa, ma cadrà in seguito su redditi più vistosi quanto più furono prorogati nel tempo. Teoricamente non c’è differenza fra una annualità di reddito costante la quale prenda inizio nel momento zero e la annualità di reddito maggiore che si inizi dopo 1, 2, 3 … n. anni. Ragguagliate al valore attuale, le due annualità sono identiche. Forse egli si riferisce ad investimenti in parchi, giardini quadrerie, oggetti d’arte e d’ornamento, e non danno reddito pecuniario tassabile. L’argomento aggrava, se mai, il peso della obbiezione di doppia tassazione perché questa è chiarita particolar nemica di quei risparmi che si investono così da dare un reddito pecuniario, immediato ovvero prorogato ad un tempo futuro.

 

 

16. – In secondo luogo, vi sono consumi, come la buona alimentazione, la casa accogliente, la buona educazione, i quali crescono la produttività futura dell’uomo. L’imposta, tassando in seguito il maggior reddito ottenuto dall’uomo in conseguenza del consumo precedente, si rende dunque colpevole di doppia tassazione, anche perciò che si riferisce alla parte consumata dal reddito. Ma all’accenno, il Pigou non fa seguire alcun ulteriore riflesso; a differenza di chi logicamente deducendo dalla premessa, asserì tempo addietro che, in pura teoria, l’osservazione conduceva a esentare dall’imposta la quota di reddito destinata ai risparmi detti «personali» per distinguerli dai risparmi «capitalistici» (cfr. la citata memoria Intorno al concetto, ecc., pag. 27).

 

 

17. – In terzo luogo, se l’imposta sul reddito è differenziata contro i redditi di capitale ed a favore dei redditi di lavoro, il risparmio è soggetto a più che doppia tassazione, quando sia formato coi frutti del lavoro. Poiché se lo consuma, paga il 10 per cento; se lo risparmia, i frutti del risparmio, essendo redditi di capitale, pagano, ad es., il 15%; ossia 10 lire su 100 subito e 13,50 dopo sulle 90 residue; in tutto 23,50.

 

 

Dimentica il Pigou, nel fare questo corretto rilievo, quale è la ragion di essere della differenziazione favorevole ai redditi di lavoro e contraria ai redditi di capitale. Il Mill, che è il vero autore della teoria della doppia tassazione del risparmio, che a leggere Pigou parrebbe venuta al mondo senza legittimi genitori, avendo subito riconosciuto la impossibilità pratica di esentare i risparmi effettivi dall’imposta, suggerì che si esentassero invece i risparmi presunti e concluse fin dalla prima edizione (1848) dei suoi Principles of Political Economy che «probabilmente» l’unico modo di esentare i risparmi presunti era tassare meno i redditi dei lavoratori, come quelli che hanno maggior “bisogno” di risparmiare di coloro che già possegono un capitale. Il ripiego, poiché indubbiamente trattasi di un ripiego, fu accolto da pressoché tutti i legislatori, e da quello italiano per il primo; e conviene tenerne conto nel valutare l’importanza dell’osservazione del Pigou. Questi, invece, a controbilanciare il rilievo, secondo cui il risparmio è tassato più del doppio del consumo, per il gioco delle aliquote differenziate contro i redditi di capitale, adduce la circostanza che i risparmi dei ricchi, i quali sono in mano loro per la prima volta tassati, ad es., al 50%, possono essere lasciati in eredità a gente relativamente più povera e saranno, i frutti di quei risparmi, tassati allora, nel momento della ripetizione, con aliquote del 5 o del 10 o del 20%; sicché si rimarrà al disotto del doppio. Non pare che l’osservazione sia pertinente al problema; poiché essa non nega il difetto di principio, solo allegando che per qualche ragione e per accidente il difetto non al luogo in misura così grave come per sé sarebbe caduto.

 

 

18. – In quarto luogo, egli si chiede se la maggior tassazione del risparmio non sia per avventura giustificata. E prima da quel certo punto di vista da cui tutti i problemi di imposta sono discussi nel libro che è detto di announcement. Sarebbe come dire che degli effetti di una qualunque imposta è bene discutere prima e solo dal punto di vista dell’impressione che essa fa sul contribuente, quando egli, conoscendone previamente l’esistenza, possa modificare in conseguenza la propria condotta economica allo scopo di limitarne od eliminarne la incidenza a proprio svantaggio.

 

 

Da questo punto di vista, l’A. opina che sia preferibile tassare il risparmio piuttostoché il consumo se la domanda del risparmio è meno elastica della domanda di consumo. Perciò le classi di persone le quali sono decise a fare un dato risparmio a vantaggio della propria famiglia possono essere sul risparmio tassate impunemente più che sul consumo; poiché, per quanto le si sovratassino, sempre esse risparmieranno quel dato ammontare; e l’imposta non correrà rischio di diminuire il risparmio. Laddove se c’è gente che risparmia solo quel che le avanza dopo aver provveduto ai consumi normali per il loro consueto tenor di vita, sarebbe vano per la finanza e pericolosa per l’economia del paese sovratassare il risparmio; poiché i contribuenti, avendo già poca propensione verso il risparmio, sarebbero scoraggiati dall’attendervi. L’opinamento del Pigou ha in sé alcunché di cinico, poiché condurrebbe alla conclusione che si possa fare cosa ingiusta, quando il colpo riesca; e si possa impunemente violare il canone da lui posto della necessità di esentare, per ragion di uguaglianza, il risparmio quando la violazione danneggi soltanto i padri di famiglia costretti, nonostante le sproporzionate imposte, a risparmiare comechessia per provvedere alla moglie ed ai figli. Per fortuna i meritevoli son salvi essendo il Pigou persuaso essere in maggior numero coloro i quali preferiscono consumare piuttosto che risparmiare; cosicché, per evitare che i previdenti attaccati ai beni presenti della vita rinuncino tutt’affatto a risparmiare il Pigou conclude essere prudente consiglio, per quanto tocca agli effetti dell’imposta sulla condotta economica dei contribuenti, tassare il risparmio meno del consumo.

 

 

19. – E, sempre da questo punto di vista, egli ritiene (XI, 7) preferibile esentare il risparmio nel momento in cui è prodotto, piuttostoché ricorrere all’espediente di esentare invece i frutti di risparmio già investito. La scelta sarebbe indifferente se il risparmio annuo nuovo di un paese fosse uguale al frutto annuo degli investimenti passati. In tal caso, la finanza perderebbe, col rinunciare a tassare l’una o l’altra quantità, l’identica somma e di altrettanto dovrebbe aumentare l’imposta sui redditi non esenti; e cioè sul reddito consumato; da qualunque fonte proveniente, nel caso che l’esenzione si riferisse al risparmio nuovo o sul reddito di lavoro, nel caso che l’esenzione riguardasse i frutti dei risparmi già investiti. Ma il risparmio annuo nuovo di un paese è per lo più grandemente inferiore al frutto, pure annuo, del risparmio già investito. Per esempio, secondo i calcoli del Dr. Bowley i redditi di lavoro, di capitale, ed i nuovi risparmi erano, rispettivamente, prima della guerra il 63, 37 e 15% del totale reddito nazionale britannico e secondo Bowley e Stamp erano nel 1924 il 71, 29 e 12 per cento. L’esenzione dei redditi di capitale o frutti dei risparmi passati, riguardando il 37 o il 29% del reddito totale avrebbe provocato nel tesoro un vuoto più cospicuo e quindi reso necessario un inasprimento assai più forte a danno dei redditi di lavoro che non la esenzione dei nuovi risparmi (15 o 12% del reddito totale).

 

 

L’impressione di cinismo, che s’era avuta dianzi, si accentua a questo punto. Il sugo del discorso porta a dire che impadronirsi della roba altrui è lecito, se la rinuncia al latrocinio reca troppa perdita al ladro. È pacifico per il Pigou che la tassazione del risparmio è ingiusta; ma lo Stato non può rinunciare all’ingiustizia sebbene un mezzo, a parer suo, di riparazione esista: la tassazione dei frutti del risparmio; perché il mezzo condurrebbe ad una perdita troppo grave per lo Stato. Poiché l’altro mezzo: esenzione del risparmio nel momento della sua formazione, è impraticabile, la conclusione parrebbe dover essere l’abbandono di ogni proposito di attuare il canone dell’esenzione del risparmio. Parrebbe; ma non è, essendo chiaramente artificiosa l’ipotesi che per attuare un principio di ripartizione di imposta oggi riconosciuto equo, gli si debba senz’altro dare forza retroattiva. Se a tanto non si giunge, e se si ammette che l’esenzione sia richiesta dalla logica per i frutti dei «nuovi» risparmi, ecco il problema diventa senz’altro meno grave per il tesoro; occorrendo, al 5%, vent’anni affinché il cumulo di successive annualità di frutti eguagli l’ammontare di una annualità di risparmio; e per il seguito soccorrendo ovvii espedienti, come il Pigou subito nota riscoprendo pratiche antiche di governo (cfr. sotto par. 21).

 

 

20. – In quinto luogo il Pigou si chiede quale soluzione si debba dare al problema, considerato dal punto di vista della distribuzione. Supponendo cioè che le imposte debbano essere ripartite in base al principio del minimo sacrificio della collettività ed astrazion fatta dagli effetti che la ripartizione avrebbe sulla produzione della ricchezza – il che fu già discusso al luogo precedente – debbono i risparmi essere tassati più o meno dei consumi? Sebbene, quando discorre qui di più o di meno il linguaggio del Pigou sia, in verità, alquanto incerto; e, ad esempio laddove dapprima (X, 2) ritiene dimostrato che una imposta, ad aliquota uguale per redditi di ammontare uguali, differenzia contro la parte risparmiata ed a favore della parte consumata, e invece la imposta sulla spesa, esentando automaticamente il risparmio, li tratta neutralmente alla stessa stregua, in seguito (par. 3) si esprime in modo da far dubitare che nel suo pensiero l’esenzione del risparmio dall’imposta sul reddito crei a favore del risparmio una condizione di favore, dal contesto si può ragionevolmente concludere che l’autore non pretenda, a pro’ del risparmio, nulla più della sua parificazione al consumo. Possiamo perciò partire senz’altro dalla premessa che «minore tassazione del risparmio in confronto al consumo» non implichi alcun favore ma puramente quella esenzione dall’imposta nel momento in cui il risparmio si produce ovvero in quello in cui dà frutti, la quale non è «esenzione» se non in apparenza ma giova soltanto a trattare risparmio e consumo con perfetta uguaglianza. Ciò posto, parecchie sono le avvertenze da tenersi presente secondo il Pigou, per rispondere – dal punto di vista della ottima o migliore distribuzione dell’imposta sulle varie categorie dei contribuenti classificati in ragione di ricchezza e di quegli altri elementi dei quali fa d’uopo tener conto per cagionare alla collettività il minimo sacrificio – al quesito: debbono i risparmi essere tassati più o meno dei consumi?

 

 

  • A favore di una minore tassazione del risparmio milita la circostanza che i risparmiatori sono gente più bisognosa; e del loro stato di relativa maggiore necessitudine sarebbe prova appunto il risparmiare che essi fanno.

 

  • Contro tale minore tassazione sta il fatto che qualvolta i bisognosi di risparmio sono già altrimenti tassati di meno: ad es., i percettori di reddito di lavoro possono essere tassati, a parità di reddito, più dolcemente dei percettori di redditi di capitale.

 

  • Contro, sta ancora che i ricchi risparmiano, assolutamente e proporzionatamente, di più dei meno ricchi o dei poveri; ed il favor fatto al risparmio equivarrebbe perciò ad un regalo «considerevole» fatto ai ricchi. Che il Pigou ritiene tuttavia potersi controbilanciare con un aumento dell’aliquota sui redditi più alti in un sistema di imposta più progressiva.

 

  • Né si può ricorrere allo spediente di esentare, invece che il risparmio nuovo, i frutti del risparmio vecchio, perché il regalo fatto ai ricchi da «considerevole» diventerebbe «enorme». I redditi di capitale o frutti del risparmio vecchio sono goduti dalla minoranza della popolazione e precisamente dalla minoranza più ricca; e l’esentarli dal tributo equivarrebbe a spostare pressoché tutto il peso dei tributi sulle classi più povere e medie.

 

  • Contro, sta finalmente la circostanza che non è possibile in pratica, sebbene preferibile teoricamente, favorire quelle somme che di fatto sono risparmiate piuttosto che quelle «presunte» risparmiarsi dal contribuente normale privo di capitale. Non è possibile perché «se fossero esentati i risparmi, i cittadini disonesti potrebbero risparmiare in un anno così sfuggendo all’imposta e segretamente realizzare e spendere i risparmi nell’anno successivo» (X, 4).

 

 

Delle quali cinque avvertenze la sola importante perché perentoria, è l’ultima, che già il Mill aveva esposta nella terza edizione (1852) dei Principles, quando notava l’impossibilità pratica di sormontare la facile frode «dello spendere nell’anno successivo ciò che era stato esentato come risparmio nell’anno precedente» (V, II, 4). La quale avvertenza potrebbe essere corroborata con altre (ed il Mill, al luogo citato e lo scrivente al capo terzo di Il concetto, ecc., parecchi riflessi avevano aggiunto); ma anche di essa sola il Pigou avrebbe potuto contentarsi. Lo Stato non può riparare in pieno ad una ingiustizia quando è certissimo che dalla riparazione deriverebbe la rovina delle sue finanze, per l’incoraggiamento smisurato dato alla frode. Se per esentare un risparmiatore, è mestieri esentare altresì dieci frodatori, giocoforza è abbandonare la partita e adattarsi ad espedienti. Perché, a questa ottima ragione aggiungere pro’ e contro altre pessime? Pessima è quella (prima) che il risparmio debba essere favorito perché i risparmiatori sono bisognosi. Se ci sono contribuenti bisognosi, il legislatore potrà favorirli con l’esenzione totale delle imposte o con aliquote basse, perché bisognosi, non perché risparmiatori. La bisognosità può essere motivo di favore; laddove l’esenzione del risparmio non è chiesta per favore, ma per stretta giustizia di eguaglianza di trattamento. Riconosciuta fondata quella esenzione deve essere data per sé stessa, a tutti, bisognosi e non bisognosi, epperciò in aggiunta a quei favori che ai bisognosi si vogliano concedere. Pessime del pari sono le ragioni seconda, terza e quarta e basti così parafrasarle: – non potersi far giustizia a talun quando egli goda già per altre giuste ragioni di altri vantaggi (che sarebbe la cosidetta seconda ragione); ai ricchi doversi togliere senza motivo, ricchezza perché se così non si facesse diventerebbero «considerevolmente» (ragione terza) od «enormemente» (ragione quarta) più ricchi. Non mancano, se così piace, ragioni per togliere con l’imposta, quanta ricchezza si voglia ai ricchi, senza ricorrere a fallacie così evidenti; né si vede il motivo di chiamare soldati spedati a rincalzo di una battaglia già vinta.

 

 

21. – Rincresce, tuttavia, all’autore di rifiutare del tutto l’applicazione del principio che comanda di esentare il risparmio dall’imposta. E propone un compromesso: si esentino d’or innanzi i frutti del risparmio per un periodo definito di tempo, ad es., per vent’anni dopo l’inizio dell’investimento. Se si calcola l’interesse al 5%, l’esenzione ventennale dell’intiero frutto del capitale equivale alla riduzione perpetua del saggio dell’imposta a poco più della metà per i frutti dei nuovi risparmi. Il principio viene così in parte attuato senza troppo grave danno della finanza e si tien conto della ripugnanza che il pubblico sentirebbe per una compiuta e visibile riduzione od abolizione dell’imposta sui redditi dei capitali, in confronto a quella sul reddito del lavoro. Egli non si nasconde che la proposta incontrerà ostacoli amministrativi, sembrandogli non facile distinguere il reddito dei nuovi risparmi impiegati da non più di vent’anni, dal reddito dei risparmi più antichi. E si limita a citare, senza indicare il luogo così da rendere difficili i riscontri, il Marshall, il quale, più modestamente, avrebbe voluto esentare per vent’anni dalle imposte locali le migliorie apportare ai terreni od alle case. Nelle risposte al questionario della commissione reale sulle imposte locali (1897) il Marshall infatti così si esprimeva: «Forse è possibile esentare parzialmente il risparmio dall’imposta per un limitato numero di anni, così da evitare l’ingiustizia di gravare al doppio il reddito da cui il risparmio procede. Qualunque piano simile deve necessariamente essere attuato secondo principi generali e trascurare le minori considerazioni di equità, mentre cerca di tener conto delle più gravi; e gradi e per tentativi. Reputerei che esso potesse vantaggiosamente essere sperimentato fin d’ora su piccola scala per quanto riguarda gli investimenti interni nella proprietà immobiliare, con speciale riferimento alle imposte locali» (Official Papers by Alfred Marshall, pag. 338).

 

 

Lo avevano, quel piano, proposto ben prima, in Italia, Vincenzo De Miro e Pompeo Neri e l’avevano fatto adottare in pieno nel catasto di Maria Teresa (1718-1760); e cent’anni dopo, nel 1839, nel 1844 e nel 1847 Carlo Cattaneo ne spiegava, ai connazionali radunati a Milano nel congresso degli scienziati ed al console britannico Robert Campbell, il principio informatore essenziale. Trattavasi di repartire l’imposta – allora principalmente su terreni, ma anche sui beni detti di seconda stazione, ossia su case e opifici – sul reddito accertato al momento della stima, cosicché «le migliorie successive rimangono esenti», lasciando fuori dell’imposta «gli ulteriori aumenti di valore che l’industria del proprietario venisse operando». Quei vecchi economisti non partivano, nell’attuare il principio, dalla premessa di volere esentare il risparmio a scopo di equità di trattamento col consumo; ma ben sapevano di tracciare un nuovo solco nella storia finanziaria dei popoli. Cattaneo ne parla con ispirato orgoglio di italiano: «Questa profonda verità [la esenzione dall’imposta dei miglioramenti] fu avvertita nello scorso secolo dai grandi economisti che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti del nostro paese [la Lombardia]». Angelo Messedaglia, che rifacendosi agli esempi del De Miro, del Neri, del Carli e del Cattaneo, costrusse nel 1886 il moderno vigente catasto italiano, rinunciò alla «perpetuità» dell’esenzione ed interpretandola per «lungo intervallo di tempo» la fissò nel 1886 in trent’anni. Prima dunque di Marshall ed assai prima di Pigou[6].

 

 

22. – Farebbe d’uopo, per rendere conto esatto dello scritto del Pigou, esporre, almeno per rapido riassunto, quel che egli dice su molti punti di sommo rilievo, come sulle indennità da darsi in caso di espropriazione forzata (I, II), sulle fonti dell’imposta (I, IV), sulle formule per la ripartizione dell’imposta (II,ii) e principalmente su quella del sacrificio minimo (II, iv e v), sui sistemi di imposte e di premi da usarsi per riparare agli inconvenienti degli squilibrii determinati dal privato interesse (II, viii), sulle imposte sul commercio estero (II, xix), sulle entrate da crediti di banca (III, iii a v), sul confronto fra debito pubblico ed imposta straordinaria (II, vi); ma il riassunto fatto sopra di alcune discussioni basta, suppongo, a dimostrare l’importanza del volume, nel quale nuovamente spiccano le qualità di analizzatore fino, di ragionatore acuto, di riavvicinatore impensato di idee apparentemente lontane che si ammiravano in The Economics of Welfare, The Political Economy of the War, Unemployment ed Industrial Fluctuations. Tuttavia, c’è nella nuova opera, qualcosa che lascia il lettore insoddisfatto. Non è soltanto quel suo pratico confinarsi entro la cerchia delle fonti inglesi e, anche per queste, quel suo non risalire quasi mai al di là di Marshall (a malapena si trovano ricordati i nomi di List, Mill, Ricado, Sidgwick, Smith e non sempre a proposito delle veramente grandi questioni da lui discusse); ché il vizio gli sarebbe, all’infuori di una certa stortura di visione del contributo dei diversi paesi al progresso della scienza, agevolmente perdonato da chi apprezza in pieno l’impazienza delle citazioni così difficili ad essere fatte appropriatamente ed ammira chi, piuttostoché citar troppo, sen va per le spiccie, senza citar nessuno. Non è neppure quel carattere di mezzo, tra il saggio e il trattato, riconosciuto candidamente dallo stesso autore, che fa sembrare il volume monco come trattato e ridondante, come saggio, di osservazioni divulgate in un qualunque trattato. Questi rincrescimenti hanno tratto alla forma ed alla materia del libro; ed ogni scrittore ha diritto di dare al suo libro la forma e il contenuto che a lui paiono migliori. La querela: perché l’autore non ha «anche» o non ha «invece» trattato di questo o di quel problema? serve per silurare un candidato nei concorsi universitari, quando, per far ciò, vi sono altre ottime ragioni, che sarebbe troppo lungo o fastidioso o difficile o pericoloso raccontare; ma il suo valore può dirsi stia tutto lì. È un pretesto di critica, non una critica vera.

 

 

23. – La ragione sostanziale della minor soddisfazione intellettuale che il libro procaccia al lettore, in confronto di altri del Pigou, è in un certo spirito accademico che lo aduggia. Di quando in quando il Pigou si lascia andare a confessioni interessanti: «Come esercizio di teoria pura, l’analisi (di certe condizioni anormali) ha interesse e valore, ma per scopi pratici esse possono essere trascurate senza danno» (pag. 203). Ancora, dopo aver discusso di un’imposta la quale potrebbe essere fatta pagare a certi proprietari avvantaggiati da dazi e il cui provento potrebbe essere distribuito ai consumatori di prodotti agricoli, riconosce che mai di un siffatto piano si tentò l’attuazione pratica; come neppure vi è probabilità di attuare piani scientifici di dazi su certi manufatti atti a redistribuire ai lavoratori la ricchezza o più della ricchezza ad essi portata via a favore dei ricchi da altri dazi. Trattasi ahimé! soltanto di «possibilità aventi un qualche interesse accademico» (pag. 226).

 

 

Ecco. Fa d’uopo avere grande rispetto per la teoria pura e per le prime approssimazioni. In questo campo non bisogna mettere alcun limite alla scelta delle premesse che fa l’indagatore. Siano, pure apparentemente e per la comune dei lettori, astratte, prive di nesso con la realtà, forse strane, dicasi pure bislacche, ad esse ed a chi le fa e le assume a punto di partenza dei suoi ragionamenti vuolsi prestare rispetto illimitato. Noi non sappiamo quali potranno essere i frutti di queste «esercitazioni accademiche nella teoria pura». Forse meravigliosi. Chi sbraita contro la teoria pura, contro le ipotesi astratte in nome della «pratica» non sa che, nel campo degli alti studi, la scuola veramente e solamente «pratica» è quella in cui si insegna «soltanto» a fare della teoria; e che se per caso dalle scuole pratiche uscì qualcuno che lasciò traccia di sé nel mondo, ciò accadde perché egli si costruì, forse inconsapevolmente una teoria per raggruppare e spiegare le notizie ed i fatti dissociati della cosidetta pratica.

 

 

Messo ciò fuor di discussione, rimane il quesito della convenienza di scegliere piuttosto questa che quella ipotesi come punto di partenza per questa o quella discussione. Se si scrive francamente per un pubblico «accademico» di studiosi adusati alle eleganze raziocinative, l’ipotesi è quella che piace all’autore di assumere a tema del suo esercizio teorico. Se, invece, si scrive anche per esercitare un’influenza sul pensiero del legislatore, dell’uomo politico, per dire una parola sui problemi vivi del giorno, l’ipotesi puramente accademica, quella che serve per gli esercizi del pensiero ed ha fine nella scoverta di qualche norma o legge teorica, non è, no, uno sbaglio di principio, è uno sbaglio di tattica, vorrei dire di tatto nello scrivere quel tale libro. Nel libro del Pigou si avvertono, non di rado, di questi errori di tatto, leggendo talune dimostrazioni eleganti e complesse, si resta in attesa del dove l’autore voglia andare a parare. Parrebbe che la conclusione dovesse essere qualche proposta concreta di una riforma tributaria, di una preferenza da darsi ad un provvedimento piuttostoché ad un altro. Niente. Arrivati a fine, si vede che lo scrittore era pago di aver fatto il bel ragionamento e di aver interessato così i soci della sua confraternita accademica. Poiché egli non aspirava ad altro, noi non possiamo pretendere che egli avesse aspirazioni diverse dalle sue; ma par tuttavia lecito fare legittimamente un augurio: che in una prossima edizione, quando il suo libro prenderà la forma di un vero saggio e sarà sfrondato di tutte le pagine che sono la suppellettile ordinaria di un comune trattato di finanza, le esercitazioni in teoria pura, prive di nesso effettivo, per il momento, con le soluzioni da darsi ai problemi vivi, siano collocate in testa o in coda del volume, cosicché si sappia da tutti che quelle sono offerte all’apprezzamento dei colleghi e dei concorrenti nel difficile arringo dell’analisi teorica; e vengano dopo o prima, ed apertamente separate, le discussioni suscettibili di applicazioni concrete.

 

 

24. – Potrebbe darsi che la distinzione tra quel che è pura esercitazione logica e quel che è analisi di un problema concreto, posto di fatto in un certo momento dinnanzi all’opinione pubblica – e il libro del Pigou per i nove decimi è discussione, sia pur teorica, di problemi concreti – giovi a dimostrare che le discussioni più feconde, anche ai fini del progresso della teoria pura, sono quelle che si riferiscono a problemi non inventati solitariamente dal pensatore, ma offertigli dalle vicende della storia e della vita. L’età eroica della scienza economica, quella in cui si fecero le maggiori scoperte e si posero i germi dello sviluppo posteriore, volse attorno e subito dopo le grandi guerre napoleoniche. Smith, Malthus, Ricardo, Senior, i grandi monetaristi inglesi presero la penna in mano per rispondere a qualche quesito che era nell’aria del tempo; e accadde che essi gittarono così le basi della scienza. Non dico che questa sia sempre stata la vicenda delle scoperte teoriche: poiché non si sa a quale problema pratico volessero rispondere Cournot, Gossen, Jevons, Walras ed altri venuti poi nel campo della teoria pura. Certo, la mescolanza della esercitazione accademica cavata dalla propria mente e della risposta ad un quesito suggerito da un problema esistente nel mondo esterno, non giova. La risposta data da uno scienziato come Pigou ad un quesito posto dal governo o dal parlamentare fa sempre pensare. La esercitazione teorica, portata fuori del suo campo proprio, rischia di far scambiare il teorico con un progettista, che è la peggior genia si incontri sotto la cappa dei cieli finanziari. Quei frequenti calcoli che il Pigou fa intorno alla convenienza di prendere qua e là, con uno od altro mezzo, denaro ai ricchi per darlo, con una od altra forma di premio, ai poveri – naturalmente qui si incontra il nome del progettista italiano mondialmente più noto e cioè del Rignano – non conducono a nulla, ché il Pigou alla fine ha sempre, per l’innato buon senso riflessivo britannico, cura di avvertire che di quei progetti non c’è nulla da fare in pratica. Ed allora perché farli? A scopo di esercizio logico? O non sarebbe, in tal caso, meglio, quei calcoli, confinarli nei seminari di università, dove trovano loro luogo per addestrare le menti dei giovani? E limitare la pubblicazione a quelli tra di essi, di cui sia dimostrata l’importanza teorica o la fecondità di possibili applicazioni?

 

 

25. – Non sono persuaso anche che sia sempre feconda la cura sistematica usata nel guardare tutti i problemi studiati da certi «fissi» punti di vista. Quel così frequente succedersi di paragrafi destinati a studiare un problema prima from the announcement point of view e poi from the distributional point of view e quindi, se occorre, from the technical or from the administrative point of view sa un po’ di manuale scolastico o di strumento atto ad abituare i giovani a ragionare chiaramente, senza mescolare cose disparate. Ed è utilissimo e nessuno può negare che i lettori dei libri abbiano bisogno, per lo più, di essere guidati per mano come gli studenti ed avvertiti forte; attenti agli equivoci, alle confusioni, alle interpretazioni le quali vanno oltre il pensiero dell’autore! D’altro canto, non si può negare parimente che alcuni lettori si secchino di vedersi palesata troppo la trama del pensiero dello scrittore ed esposto il processo con cui l’autore, a grado a grado ragionando, giunse alle sue conclusioni. Fra Ricardo che dimentica quasi sempre le premesse del ragionamento, e Marshall, il quale usa ogni scrupolo per ricordarle tutte, talvolta si preferisce Ricardo perché lascia un buon margine di ginnastica intellettuale al lettore; sebbene Marshall riscatti lo scrupolo delle premesse con la modestia nell’enunciare le conclusioni, la cui novità ed importanza fa indovinare, non senza fatica, al lettore.

 

 

V’ha di più. La sistematica dei punti di vista è utilissima per la nettezza del ragionamento e delle conclusioni; ma non deve diventare la tiranna del ragionamento. Non tutti i problemi di imposta si prestano ad essere trattati dal punto di vista degli effetti del loro annuncio ed insieme da quello della loro distribuzione o da altri ancora. A volerli trattare per forza così, accade che si facciano considerazioni di poco conto, giunto alla fine delle quali l’autore stesso talvolta è tratto a notare essere forse dopo tutto la loro importanza scarsa. Ed allora perché enunciarle? e perché dalla sistematica essere portato a dare al lettore un’idea sbagliata dell’importanza relativa delle cose dette? La bella architettura piace anche nei libri; ma si vorrebbe pure che essa non producesse l’effetto che si osserva nei vecchi palazzi dove, accanto alle magnifiche stanze di apparato, quelle da dormire e di servizio non hanno, per ragioni di facciata, luce e comodità bastevoli. Troppe pretese in verità queste mie; ma indice dell’alta stima che il Pigou ha saputo guadagnarsi e della perfezione che ogni volta si vorrebbe assaporare nei suoi scritti.



[1] Pubblicato sotto il titolo generico Cronache e rassegne; nell’indice dell’annata sotto il titolo Il problema della pubblica finanza in uno studio di A. C. Pigou [ndr]

[2] Deve ancora una volta essere segnalata la troppo scarsa conoscenza che, fuori d’Italia, si ha degli scritti di colui che tutti noi studiosi italiani di finanza reputiamo «maestro» e poniamo bene in alto, in luogo dove non si giunge se non da pochissimi in parecchie generazioni. Talvolta se si bada ai nomi che da labbra straniere si odono pronunciare come rappresentativi della scienza italiana si rimane esterefatti; la casualità delle conoscenze ad occasione di viaggi o di congressi, la grafomania epistolare, l’invio continuo di stampati in omaggio, la reciprocità di onorificenze accademiche o di altre forme di lodi, l’appartenenza alla medesima scuola giovando assai più del reale contributo fornito al progresso della scienza. Di siffatte e piccole storture fa pronto e giusto giudizio il tempo; ma anche il tempo è capace talvolta di rimediare alle storture grosse; e come appena adesso si comincia a conoscere fuori dei confini italiani il Ferrara (ad opera di G. – H. BOUSQUET, Un grand economiste italien, Francesco Ferrara, in «Revenue d’histoire economique et sociale», 1926, pag. 344) così non ancora si sa fuori d’Italia che al gran cenacolo romano, famoso in tutto il mondo scientifico per i nomi di Pareto, di Pantaleoni e di Barone, appartenne anche Antonio De Viti De Marco. Colpa in gran parte sua, questa ignoranza; del suo carattere schivo di notorietà, ripugnante a concedersi al primo venuto, finemente aristocratico, dal sorriso lieve, agghiacciante per la gente grossolana desiderosa di conoscere uomini «illustri», sieno tali per consenso altrui e per persuasione propria. Ma colpa anche di chi, leggendo i suoi rari e brevi scritti, non si è avveduto che, fra i quattro del cenacolo famoso, il nome del De Viti non è certamente l’ultimo. Difficilissimo il paragone tra i quattro; dei quali il Barone, per le vicissitudini varie di una vita distratta fra l’esercito, il giornalismo, l’insegnamento e il cinematografo, e per il prepotere, stupefacente e simpatico di una immaginazione che gli faceva scambiare le speranze sognate per un tempo futuro con la realtà immediata presente, sentendo gravemente la fatica paziente della ricerca diretta, non diede i frutti dei suoi estimatori e sovrattutto il Pantaleoni, si ripromettevano copiosi e preziosi da lui, riducendosi troppo spesso, per la furia di scrivere, egli, che pur aveva tanto ingegno e preparazione e inquadrata forma mentale, a saccheggiare ingenuamente la roba altrui, specie se di amici non usi a lagnarsi in pubblico delle sfortune loro letterarie. Ed è notabile altresì come degli altri due grandi, si atteggiasse quasi convintamente a discepolo del Pareto proprio quel Pantaleoni, il quale di tanto gli era superiore almeno sotto due rispetti: in primo luogo per la cura somma riposta nell’osservare la massima del suum unique tribuere, sicché i suoi Principii sono mirabili anche per avere intitolato teoremi, come si usò, credo sempre, in fisica, in chimica e nelle altre discipline naturali e matematiche, ma non si usava quasi affatto e poco ancora si usa in economia, al momento dei loro temi formulatori, laddove il Pareto si ostinò ingiustamente fino all’ultimo a non volere riconoscere di avere portato via di sana pianta al Mosca le idee dalla classe e della formula politica, da lui diversamente battezzate, ma rimaste tali e quali; ed in secondo luogo per essere il Pantaleoni uomo che sentiva profondamente i problemi economici concreti, li analizzava con l’incontentabilità propria di chi ne vede il fondo e l’intrico, con inarrivabile senso della realtà, costruendo monoliti capaci di resistere ai secoli; laddove se si legge e si tornerà sempre a rileggere il Pareto nei capitoli che illuminano la toeria generale dell’equilibrio economico e di riflesso i maggiori problemi del risparmio, della capitalizzazione, dell’impresa, del commercio internazionale, della ripartizione dei redditi e simili, difficilmente si sentirà il bisogno di rivedere quel che egli disse intorno a problemi particolari, per cui troppo facilmente si contentò di prime approssimazioni, quel suo affastellamento di notizie curiose, di statistiche diverse, di commenti arguti, sentendo inoltre troppo di appiccicatura e non esonerando di ricorrere alle fonti prime chi voglia appurare quel che altri disse o che veramente accadde. Del Pareto meravigliano il tono antistorico con cui bistrattò non di rado grandi economisti e l’uso frequente della parola «errore» a proposito di scritture classiche, nelle quali pure sono contenuti gli spunti pei suoi medesimi successivi sviluppi; e dà un qualche fastidio la persuasione, in cui visse sino all’ultimo, che nessuno o pochissimi suoi discepoli soltanto avessero compreso talune sue elementarissime proposizioni: come quella che al rapporto di causa ed effetto dovesse sostituirsi il rapporto o concetto di interdipendenza; proposizione che, appena divulgata, fu capita da tutti entro i limiti in cui l’appplicazione ne è feconda. Perciò il Pareto non ebbe e forse non avrebbe tollerato discepoli, ossia uomini atti a superarlo; esigendo egli che i discepoli ripetessero esattamente le sue formule, ossia cessassero di pensare per conto proprio. Il tempo dirà se Pantaleoni abbia avuto discepoli; ma forse sarà difficile distinguerli dai ripetitori o rapinatori, se qualche amico fidato suo non fermi per tempo sulla carta le idee che nella conversazione con amici, con studiosi, con studenti, col primo venuto egli regalava con noncuranza da gran signore, senza adontarsi che l’ascoltatore le facesse sue e neppure sovvenendosi che le idee lette poscia negli scritti altrui fossero farina del suo proprio sacco.

 

 

Dei quattro, De Viti è forse il meno subitamente affascinante. Chi lo legge e lo ascolta ha l’impressione che il pensiero si formi in lui a fatica; e talvolta par ci sia un salto nel processo logico, per cui una sentenza non si attacca senz’altro a quella che la precede. In questo egli è ricardiano; e come si ritorna a capitoli notissimi di Ricardo, per necessità di mestiere letti le decine di volte, ed ogni volta vi si scoprono idee ed aspetti nuovi e scaturigini di sviluppi posteriori, così accade per De Viti. Non c’è nei suoi scritti nulla che lasci l’impressione grandiosa della teoria dell’equilibrio di Pareto; nessuna sua monografia diletta ed istruisce e rapisce come la Crisi del Credito mobiliare di Pantaleoni; forse neppure si incontrano in lui certe lapidarie dimostrazioni di teoremi elementari come sa far Barone; ma nessuno degli altri ti sforza a ritornare tante volte su quello che egli ha scritto, ogni volta che tu voglia ristudiare quel problema. Si accettino o si respingano le sue tesi sul carattere teorico della finanza, sull’imposta straordinaria e sul debito, sulla diversificazione dei redditi di fronte alle imposte, sulla progressività delle aliquote ed altre molte, fa d’uopo ritornare, prima di parlare o di scrivere, alle pagine del De Viti, per riceverne stimolo a meditare, a consentire, a contraddire, a vedere od intravvedere ciò a che, coll’aiuto di altri, non si sarebbe arrivati.

 

 

Fa d’uopo dire, che parlando di “cenacolo romano” non si vuole menomamente accennare a conventicole o riunioni regolari di amici, a solidarietà di mutuo appoggio scientifico, ad esclusività od ostilità contro i non iniziati, come si usa tra artisti e letterati; sibbene unicamente ricordare che, tra il 1885 e il 1900, ci furono anni o momenti in cui Pareto, Pantaleoni, De Viti e Barone ebbero, non forse tutti insieme, contemporaneamente, sibbene si per combinazioni variabili, tra di loro, commercio personale di conversazioni e discussioni in cui l’ingegno si affinò, nacque o si rinsaldò la tendenza alle speculazioni economiche, da consensi e contrasti di idee ebbe stimolo quella fioritura di scritti, la quale è oggi patrimonio prezioso della scienza economica italiana?

[3] Vedasi a questo punto il capitolo nono del titolo secondo della Relazione al disegno di legge (Meda) sulla Riforma generale delle imposte dirette sui redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali, n. 1105 e le dilucidazioni pubblicate dallo stesso relatore in Il Contribuente italiano del marzo e del giugno – luglio 1920 in due articoli intitolati: La tassazione degli incrementi patrimoniali nel disegno Meda e nel decreto – legge Tedesco e Perché tassare gli incrementi patrimoniali in sede di complementare e non in sede di normale? Intorno all’importanza delle imposte ad aliquota variabile, cfr. le Osservazioni critiche nel capitolo terzo. Sulla tesi generale che la tassazione degli incrementi di capitale dia luogo a doppia tassazione cfr. la mia Memoria del 1912: Intorno al concetto di reddito imponibile, pag. 8, nelle «Memorie dell’Accademia di Torino del 1912» e prima ancora il FISHER in The nature o

Di alcuni importanti problemi di finanza. A proposito dell’ultima opera del Pigou

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1928, pp. 159-187[1]

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 93-123

 

 

 

 

A. C. Pigou: A study in public finance (Macmillan and Co., Saint Martin’s Street, London, 1928. Un vol. di pag. XVII-323. Prezzo 16 sc. net).

 

 

1. – Nell’avvertenza premessa al volume, l’autore dichiara di averlo intitolato Studio sulla pubblica finanza e non semplicemente «Finanza pubblica» per chiarire nettamente che egli non intendeva trattare di tutti i problemi i quali ordinariamente rientrano nel campo dei trattati di finanza. La materia dello studio o saggio si divide in tre parti: problemi generali, entrate derivanti da imposte, entrate derivanti da prestiti. Gran parte delle nozioni esposte nella prima e nella terza parte erano già contenute nel precedente volume Political Economy of War e nella quarta parte della prima edizione di The Economy of Welfare. Eccettuati due capitoli, sulle imposte sui valori terrieri e sui guadagni di congiuntura, la seconda parte contiene invece materia nuova.

 

 

Gli ammiratori dei ragionamenti fini e delle analisi eleganti; coloro i quali desiderano, leggendo libri di economia, di non essere disturbati da ingombranti divagazioni ed intrusioni e confusioni politiche o sentimentali, ma nel tempo stesso godono di vedere sezionato il problema economico nelle sue parti componenti essenziali e di sentirsi ricordato continuamente che il punto di vista economico non è il solo, ma ben deve l’uomo di Stato tener conto, nella decisione ultima, di altri punti di vista altrettanto e forse ben più importanti di quello; i lettori che gli sono perciò fedeli, saranno grati al Pigou di avere nel presente volume rivolto le sue eccezionali doti di scrutatore e di ragionatore ad illuminare singolarmente il problema della pubblica finanza. Invece di saggi e capitoli sparsi, noi possediamo ora un libro al quale sarà possibile ricorrere senz’altro ogni volta interessi sapere che cosa il capo attuale della scuola di Cambridge pensa sui problemi di finanza.

 

 

2. – Doveva essere vecchia già nel 1752 la tesi per cui la spesa per il servizio del debito pubblico non grava la collettività se in quell’anno David Hume, nel celebre saggio sul credito pubblico, ricorda essere credenza comune che «il debito pubblico, essendo principalmente dovuto all’interno, reca agli uni quella ricchezza che toglie agli altri; simile in ciò al riporre denaro dalla mano destra nella mano sinistra, la qual cosa ci lascia né più poveri né più ricchi di prima» (p. 8 della ristampa Mc Culloch). Intorno alla distinzione suggerita da questa comune vecchia credenza tra le spese le quali impongono alla collettività un reale sacrificio e spese le quali non implicano alcuna distruzione di beni e servizi, il Pigou ricama uno dei migliori capitoli del volume. Egli chiama exhaustive il primo genere di spese; e in mancanza di una parola migliore invalsa nell’uso, né piacendomi inventarne di nuove e riflettendo che egli si riferisce alle spese le quali hanno per effetto di consumare qualche risorsa pubblica, io tradurrò dall’exhaustive in spese «di consumo». Se si costruisce un palazzo governativo, se si stipendiano funzionari od ufficiali, se si pagano interessi a creditori esteri, si consumano beni materiali, forze di lavoro «che la collettività non può più usare altrimenti o deve riprodurre con lavoro aggiunto se voglia altrimenti disporne». Invece se si spende il provento delle imposte a pagare interessi a creditori pubblici interni, pensioni ai vecchi, sussidi ai poveri, i mezzi di acquisto tolti agli uni sono dati agli altri. Sono, forse, diversi, sebbene non sempre, coloro che godono da quelli che pagano la spesa «di trasferimento» (transfer expenditure); i beneficiari potendo, anche, consumare o risparmiare quegli interessi o pensioni o sussidi che i contribuenti avrebbero inversamente risparmiato o consumato; ma il fatto essenziale è che la collettività nel suo complesso non ha rinunciato a nulla di reale, non ha sopportato un sacrificio. Di questa chiave di interpretazione, il Pigou si giova accortamente per mettere in luce la differenza che vi è fra lo spreco di fabbricare in tempo di guerra bombe che non scoppiano e lo spreco di pagare un membro del parlamento o un appaltatore o un operaio di più di quanto egli non meriti; nel primo caso essendoci vero spreco, nel secondo solo passaggio, condannabile per altro, di danaro da una ad altra persona.

 

 

Alla luce della distinzione ripetuta dal Pigou, appare erronea la tesi secondo la quale la Germania, liberatasi colla svalutazione del marco della più parte dei debiti interni, sia atta a pagare riparazioni almeno quanto Francia ed Inghilterra ed Italia sono atte a pagare altrettanti interessi ai creditori interni; poiché quel primo pagamento, essendo fatto a forestieri, scema la ricchezza della collettività germanica, mentre il secondo importa soltanto un trasferimento di ricchezza nel seno della collettività francese, britannica ed italiana. Ed ancora, ragionando sullo stesso tema, l’autore ammonisce di stare attenti contro il vizio di ingrossare l’incremento del peso dei tributi conseguente alla guerra; che a tutta prima appare aumentato nella Gran Bretagna dall’11% del reddito nazionale nel 1913 al 20% nel 1924. Ma la parte di siffatto onere complessivo dovuta a spese di consumo essendo cresciuta solo dal 9 e 1/2 al 12 e 1/2, laddove la parte di spesa di semplice trasferimento andava dall’1 e 1/2 al 7 e 1/2 per cento, è chiaro che l’incremento dell’onere effettivo della collettività – che è misurata dalle sole spese di consumo – crebbe assai meno in verità di quanto parrebbe da una affrettata considerazione delle cifre greggie.

 

 

3. – L’indulgenza con la quale il Pigou guarda alle imposte stabilite per provvedere alle spese di trasferimento non avrebbe incontrato il consenso di Davide Hume, manifestamente impaziente dinnanzi a consimili ragionamenti fiacchi (loose) e paragoni «speciosi», che anche allora si facevano. Nelle imposte stabilite per il servizio del debito pubblico pare all’Hume ci sia «qualcosa di più di un mero trasferimento di ricchezza da una mano all’altra». Par poco che in un certo, sia pur lungo, decorso di anni, seguitando il processo del «trasferire», i ricchi siano divenuti poveri ed i poveri ricchi? Par poco che i portatori di titoli di debito pubblico assorbano la migliore parte del reddito nazionale, e che i proprietari fondiari, oberati da imposte di trasferimento siano ridotti al grado di amministratori pubblici dei terreni e delle case che un tempo possedevano? Non conta nulla per la collettività che, al luogo di una classe indipendente di proprietari (Hume parla di nobility, di gentry, come oggi si parlerebbe, più adeguatamente alle nuove condizioni sociali, di proprietari fondiari, di industriali, di commercianti, di professionisti, e in generale di classi indipendenti dal pubblico bilancio), sottentri a poco a poco una classe di debitori pubblici, pavidi di vedersi ridotti gli interessi, di vecchi pensionati di Stato e di impiegati pubblici? «Ogni forza intermedia fra il re e il popolo essendo così interamente tolta di mezzo, il despotismo più maligno si instaurerebbe senza opposizione».

 

 

4. – A queste obbiezioni antiche contro la teoria della innocuità, in punto di sacrificio, delle imposte di trasferimento, gli scrittori alla Pigou replicano facendo il confronto tra l’utilità bassa delle dosi di ricchezza portate via ai ricchi coll’imposta e l’utilità più alta delle dosi di ricchezza date ai pensionati vecchi, alle madri povere aiutate nell’allevamento dei loro bambini, alle masse meglio educate, meglio alloggiate, provvedute di giardini, di palestre di teatri pubblici. Non aggiungono che il confronto tra le utilità dei contribuenti e quelle dei portatori di titolo di debito pubblico penda a favore del trasferimento a pro dei secondi; ché anzi guardano con sospetto alla classe dei creditori pubblici, perché più ricca forse di quella dei contribuenti e desidererebbero perciò leve sul capitale, che abbattessero alquanto la forza economica di quella classe. Ma, se esitano ad invocare una imposta livellatrice la quale, dopo aver provveduto alle spese per pubblici servizi (sopradetta di consumo), tolga ancora ai ricchi allo scopo di dare ai poveri, fino ad eguagliarne i redditi, ciò fanno non perché l’equiparazione non paia in se stessa giusta, ma perché sarebbe suicida. I contribuenti, avvertiti in tempo dall’esperienza passata cesserebbero dal produrre per soddisfare alle esercitazioni trasmutatrici dei finanzieri. Ovvia osservazione, che si legge in tutti i trattati di pubblica finanza (per es., nel Corso di chi scrive, dalla prima edizione del 1911, a pag. 370 e seg. alla quarta del 1926, a pag. 108 e seg.).

 

 

5. – Ma non pare che l’indagine possa, fuor dei trattati per le scuole, dove fa d’uopo limitare il campo di studio, far astrazione dal punto di vista di Hume. Il suo sconsolato grido: Addio a tutte le idee di nobiltà, di medio ceto, di famiglia (Adieu to all ideas of nobility, gentry and family, a pag. 10 dell’ediz. di Mc Culloch) giunge al fondo del contrasto veduto dal Pigou fra le spese pubbliche di consumo e quelle di semplice trasferimento. Se dobbiamo a lungo meditare prima di spendere il denaro dei contribuenti nel pagare funzionari, magistrati, soldati, perché così facendo, si consumano beni della collettività, quanto più a lungo fa d’uopo esitare prima di accrescere il numero dei creditori pubblici, dei vecchi pensionati di Stato e di tutti in genere gli usufruttuari gratuiti di servizi pubblici, nonostante che, così operando, si trasferiscano soltanto e non si consumino beni collettivi! Si consuma invece, si distrugge un tipo di organizzazione sociale e politica; che è cosa ben più seria del consumo di pochi o molti milioni o miliardi di beni materiali. È logicamente possibile e non è certo difficile fare calcoli edonistici per dimostrare l’esistenza di un guadagno netto di utilità derivante dal trasferimento di ricchezza delle classi indipendenti di proprietari di terreni, di case, di industriali, commercianti, professionisti, alle classi di creditori pubblici, di pensionati e di beneficiari di pubbliche elemosine. Non si dimentichi, tuttavia, che nel trasferimento si opera una grandiosa mutazione storica: dal tipo di società in cui la massima parte degli uomini che la compongono vive una vita indipendente dallo Stato ad un tipo di società in cui la maggior parte degli uomini attende i propri mezzi di vita alla qualità di creditori, impiegati, pensionati dello Stato. La mutazione può, da taluno, essere ritenuta vantaggiosa o indeprecabile; può concepirsi od anche attuarsi il passaggio da un tipo di società, in cui gli individui, le famiglie, le associazioni, i corpi locali vivono di una vita propria, correlata allo Stato, ma indipendente da esso, nella quale si urtino e si secondino correnti di idee mosse da scaturigini originali e spontanee ad un tipo di società in cui a poco a poco la maggior parte degli uomini si abitui a considerare lo Stato come la fonte del reddito, della ricchezza, della possibilità di lavoro, di pensiero, di ozio. Limitarsi, dinanzi ad una trasformazione storica così grandiosa, a constatare che il trasferimento di mezzi di pagamento dall’una all’altra classe avviene senza onere della collettività, è, in verità, troppo poco. Quale classe perde e quale guadagna? Come si trasforma la società in conseguenza del trasferimento? Quali ne sono le immediate e lontane conseguenze? Il vantaggio immediato di un residuo netto attivo di utilità non è contro bilanciato alla lunga dalla mutazione del tipo di società di uomini indipendenti in una società servile? Hume, come è proprio dei grandi pensatori, vede a distanza di secoli e un brivido lo fa sussultare: dove finiranno le classi proprietarie e medie che furono e sono (1752) la forza dell’Inghilterra; come finirà la famiglia, che è sovranità, che è legge in sé stessa, che non può essere serva di una forza esterna? Egli vede, a trasferimento compiuto, l’Inghilterra in balia di un tiranno; epperciò incapace a prevede l’assalto, a resistere al nemico esterno, resistono e si difendono e vincono gli uomini economicamente indipendenti, i quali temono di perdere vita ed averi ove il nemico vinca. Ma i semplici agenti di uno Stato, uso a portar via ad essi il debito delle ricchezze, lasciate loro in amministrazione, il quale eccede la somma necessaria per vivere, per redistribuirlo a creditori, a pensionati ed a beneficiari, non hanno interesse a resistere; né i creditori, pensionati e beneficiari, pavidi ed avari, hanno forza da ciò. E così lo Stato perisce, contribuenti e creditori amendue giacendo alla mercé del conquistatore (They themselves and their creditors lie both at the mercy of the conqueror, pag. 18, ed. cit.).

 

 

6. – Ammettasi pure che quelle ora fatte siano melanconiche recriminazioni di chi vorrebbe risalire il corso della storia contro il fatale andare, il quale porta all’onnipotenza dello Stato, al taglio degli alti papaveri, alla eliminazione di tutte le forze sociali spontanee ed indipendenti; e si ammiri l’eleganza delle dottrine odierne, le quali accelerano con bei ragionamenti il fatale andare della storia. Ma, appunto perché piace il ragionamento attento, è valida la contrapposizione tra il nonostante e il perché enunciati poco dianzi? Valido o non valido che sia il «nonostante» per le spese di trasferimento, è valido il «perché» riferito alle spese di consumo? Le imposte le quali servono a pagare stipendi a funzionari, a magistrati ed a soldati, le quali cioè consentono allo Stato di adempiere ai fini suoi propri di giustizia, di sicurezza, di difesa nazionale sono davvero spese di consumo? Il Pigou si affretta bene a dichiarare che, qualificandole exhaustive o «di consumo», egli non vuole lasciare supporre che quelle spese siano sprecate o che la collettività si troverebbe meglio se non fossero fatte; ma resta che il connotato loro caratteristico è che esse «implicano il consumo di fatto di una parte dei beni della collettività, cosicché la collettività deve far senza quei beni o lavorare più duramente di quanto avrebbe dovuto fare per riempire il mancamento per ciò ed allora verificatosi». (They involve the actual using up of a part of the community’s resources, so that the community either has to do without these resources itself or has to work harder than it otherwise need have done in order to fill the gap that for the time been made). V’è nella piena spontaneità con la quale Pigou discorre del consumo di fatto di beni collettivi che si opererebbe per mezzo delle spese pubbliche l’eco lontana del parlare che Adamo Smith e Davide Ricardo facevano di spese pubbliche «improduttive» ed un vago ricordo della taccia di sterilità che per tanto tempo si diede al lavoro dei magistrati, dei poliziotti, dei soldati e degli insegnanti. Contro la quale maniera erronea di considerare l’opera dei lavoratori intellettuali, epperciò dei servitori dello Stato odo levarsi, a tacere di tante altre, la voce gagliarda del nostro grande Francesco Ferrara nelle prefazioni ai fisiocrati (1850), a Storch (1855), a Ricardo (1856) ed a Dunoyer (1859), che se fosse stata ascoltata, come non fu per la scarsissima conoscenza tra gli economisti forestieri della lingua italiana, e per il cenno, elogiativo in apparenza e denigratorio in sostanza fattone (Introduzione, ecc., pag. 511 e 512) dal solo libro di storia della scienza economica, quello del Cossa, meritamente conosciuto all’estero, avrebbe impedito che tanti anni dopo si leggessero frasi, come quelle soprariprodotte del Pigou, inavvertite propaggini della distinzione tra lavoro produttivo ed improduttivo, che Ferrara aveva distrutto fin nel suo ultimo fortilizio della differenza tra prodotti materiali e prodotti immateriali. Ma alla applicazione ai fatti finanziari di quella tenace teoria della improduttività aveva dato in Italia nel 1888 il colpo di grazia Antonio De Viti De Marco[2] nel saggio sul Carattere teorico dell’economia finanziaria, dove è delineata particolareggiatamente la teoria dello Stato «produttore» dei beni o servizi pubblici destinati a soddisfare i bisogni collettivi. Che talvolta lo Stato venda i beni e servizi medesimi ad un prezzo di monopolio e riparta i profitti della sua intrapresa tra i membri della classe dominante è fatto storico, il quale, del resto, si avvera anche nell’economia privata. Ed a quel fatto storico si contrappone, nel libro del De Viti, l’altro fatto storico dello Stato democratico o cooperativo, il quale vende i suoi servizi al prezzo di costo. Dalla limpida concezione del De Viti si deduce l’equivoco riposto nel parlare, senza assai cautele, di spese pubbliche che sarebbero caratterizzate dall’essere exhaustive e di «consumo» o capaci di using up ossia di distruggere certi beni spettanti alla collettività. Gergo, questo, per fermo incomprensibile; perché lo Stato, per stipendiare magistrati e poliziotti e soldati non consuma, non preleva nessuna resource, nessun bene che sia stato precedentemente prodotto o in altro modo sia venuto in possesso della collettività ; sicché la collettività, vedendosene per tal modo privata, sia più povera o costretta ad uno sforzo maggiore. Lo Stato invece preleva – si discorre naturalmente fatta l’ipotesi di uno Stato organizzato ai fini del massimo vantaggio, presente o futuro, della collettività e si fa, come si deve, astrazione ai fatti contingenti che storicamente si allontanano dall’ipotesi tendenziale e teorica – dai contribuenti soltanto ciò che è suo, quella parte del flusso continuo di produzione dei beni e dei servizi che esso ha prodotto, garantendo ai cittadini la difesa nazionale, la sicurezza e la giustizia. Il cittadino, pagando l’imposta ossia il prezzo dei servizi pubblici forniti dallo Stato, non soffre alcun sacrificio, perché se non pagasse quel prezzo egli non avrebbe il reddito che ha, ma un altro diverso e di gran lunga minore. Che il discorrere di un impoverimento o sacrificio della collettività in seguito al pagamento dell’imposta sia mero vaniloquio, dimostrò a lungo anche lo scrittore delle presenti note in un saggio composto nel 1912, e poi in un altro del 1919, insistendo nel dire che l’imposta è «una delle condizioni, l’esistenza delle quali consente ad una collettività di produrre il massimo di ricchezza, di toccare l’ottimo nella ripartizione di essa fra i singoli e la più conveniente distribuzione fra consumo e risparmio. Quindi l’imposta non che provocare un aumento nello sforzo che l’uomo deve fare per procacciarsi il reddito, è la condizione necessaria per ridurre al minimo quello sforzo e per rendere massimo il reddito. Dire, in tali condizioni, che l’imposta decurta il reddito è enunciare una proposizione formalmente esatta, ma in sostanza lontanissima dalla verità. Tanto irreale e tanto fantastica, come quella che farebbe un imprenditore, il quale si lagnasse di dover pagare salari agli operai o materie prime ai fornitori e considerasse questi pagamenti come una decurtazione del suo reddito. Ognuno sa invece che per l’imprenditore non è un danno sopportare i costi necessari ed utili della sua impresa; ma anzi una condizione per rendere massimo il suo reddito. È un danno pagare salari ad operai fannulloni o comperare una materia prima disadatta; ma è un vantaggio poter remunerare convenientemente operai capaci o acquistare materie prime atte ad ottenere prodotti finiti che egli venderà come profitto. Così è dell’imposta: dannosa se male impiegata, utilissima se usata secondo la regola della più conveniente distribuzione della ricchezza. (Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, in «Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino» vol. 54, pag. 1078-1079 e 30-31 dell’estratto).

 

 

7. – Se è erronea la definizione delle spese cosidette exhaustive, erronee sono dunque le illazioni che se ne ricavano. La distinzione fra spese di consumo e spese di trasferimento non è quella veramente importante o relevant come ama dire nella sua particolare terminologia il Pigou; essendo invece importante quella fra spese le quali rientrano nel concetto dell’«ottimo» economico e spese le quali vi contraddicono. La collettività è danneggiata se si producono bombe che non esplodono invece di quelle buone; se si impiegano due poliziotti a fare il lavoro di uno; se si spreca il lavoro di un carabiniere a perseguitare l’uomo onesto, invece di mandarlo a caccia del malfattore; se si ritarda, oltre il momento necessario a farne persuasa la coscienza collettiva, a passare da un tipo inferiore di organizzazione internazionale con Stati piccoli a guerre frequenti a tipi ognora superiori di Stati grandi e di federazioni con guerre rade. La collettività è in questi casi danneggiata, non perché si tratti di spese di consumo, ma perché si impiegano fattori produttori di difesa e di sicurezza pubblica a non produrre nulla od a produrre ad alti costi. Ma la collettività è medesimamente danneggiata se si pagano, seguitando nell’esempio del Pigou, 400 lire sterline i membri del parlamento britannico, se è vero che si possa ottenere i servizi di uomini ugualmente valenti per 300 lire o se si paga il 5 % ai creditori pubblici quando sarebbe possibile procacciare denaro a prestito allo Stato al 4 per cento. Ed è danneggiata nel primo caso perché aspirano ad entrare nel parlamento uomini attratti non più solo dall’ambizione politica o dal desiderio di servire alla cosa pubblica, ma anche dal salario superiore al dovuto; epperciò scade la classe politica e la cosa pubblica tende ad essere male amministrata e la collettività può soffrire danni gravissimi. Nuoce del pari pagare il 5 invece del 4 %, perché il risparmio nuovo tende ad essere male distribuito tra imprese pubbliche e private, preferendo le prime a scapito delle seconde, con danno dell’ottima ripartizione del flusso e del risparmio tra i diversi impieghi possibili; epperciò è incoraggiato lo spreco del risparmio ad opera degli enti pubblici, capaci di attirarne, a spese dei contribuenti, troppi più capitali di quanto converrebbe se si volesse perseguire l’ideale dell’ottima loro distribuzione produttiva.

 

 

8. – Non esiste dunque, per le osservazioni ora fatte, un sacrificio di beni compiuto dalla società quando essa compra, pagando lo stipendio, i servizi del magistrato. Il che non vuol dire che il costo non esista, simile al costo che si deve sopportare per l’acquisto di qualunque altro bene. Contro al vantaggio della conseguita giustizia, che è il bene collettivo ottenuto a mezzo della organizzazione statale, sta il costo dello stipendio fornito al magistrato, ossia del lavoro e del tempo consumato dal magistrato nel rendere giustizia. Il problema di «ottimo» sta nel rendere minimo il costo e massimo il vantaggio. È forse diverso il calcolo che si deve istituire per le pensioni di vecchiaia? Da un lato si ha il bene collettivo di tranquillità sociale, di sicurezza, di esistenza assicurata a tutti nei tardi anni, di maggiore produttività del lavoro degli operai negli anni giovani e maturi confortati dalla certezza del pane quotidiano per gli anni più tardi; dall’altra si ha il costo della attribuzione di una quota del flusso corrente della produzione, del dividendo nazionale a uomini vecchi non lavoratori. E quest’ultima è una maniera imperfetta di esprimere un’altra relazione: alla lunga, guardando una generazione nel suo ciclo complessivo, la società, per ottenere un determinato flusso di ricchezza nuova deve impiegare la fatica di un determinato numero di lavoratori, il che comunemente si esprime dicendo che deve sottostare al costo di pagare un salario attuale ai lavoratori attuali e un salario differito ai lavoratori pensionati. L’insieme di questi due salari, attuale e differito, è la misura del costo che la società sopporta per ottenere il prodotto. Il costo è la fatica durata dei lavoratori, misurata dall’ammontare di quei due salari. Il problema si intenderà bene risoluto quando distribuendo il salario, col mezzo dell’imposta pensione, tra presente e differito si ottenga il massimo prodotto e si sia perciò in grado di pagare il massimo salario all’operaio durante la intiera sua vita di produzione e di riposo. Il pagamento di una pensione di vecchiaia non fa cioè sorgere un problema di «trasferimento» di ricchezza dai contribuenti ai pensionati. Questa è l’apparenza del fatto considerato. La realtà che sta sotto l’apparenza è un’altra: la pensione di vecchiaia è, nel giudizio della collettività, un metodo con cui si riesce a distribuire la ricchezza prodotta tra le diverse età degli uomini in guisa da massimizzare la ricchezza medesima. Se il calcolo è fatto bene, non solo deve essere pari il vantaggio al costo collettivo, ma anche non ci deve essere nessuno, neppure tra i contribuenti delle imposte necessarie per le pensioni, il quale si trovi peggio in conseguenza del pagamento. Anche il contribuente più ricco e più gravato di tributi, deve riflettere che – pur non essendoci equivalenza tra imposte pagate a vantaggio individualmente ricevuto, quest’ultimo non esistendo a sé e non essendo perciò misurabile – il sistema gli consente di godere, lui e i suoi figli, un massimo di reddito, senza rischio di rivoluzioni espropriatrici o di malcontento sociale pericoloso per la sua vita e la sua fortuna; un massimo, in confronto di quello che avrebbe goduto se si fosse pagato soltanto un salario agli operai produttori e nulla ai vecchi.

 

 

9. – La trattazione che il Pigou fa delle imposte sugli incrementi di capitale (in parte seconda, cap. ottavo, par. 3 e cap. 12esimo, par. 2) avrebbe meritato un approfondimento maggiore. Pare che si possa fondatamente distinguere, nella concezione del Pigou, gli incrementi di valori capitali da quelli che egli chiama windfalls e noi diremmo guadagni di congiuntura del tipo dei sopraprofitti di guerra. Questi ultimi egli giudica (nel cap. XVI della medesima parte) veri guadagni dovuti al caso, quando non siano semplicemente apparenti per mutato valore della moneta (ivi par. 6) o per mutato saggio di interesse (par. 7) e neppure siano preveduti e scontati da tempo (par. 8). Se un’area fabbricabile aumenta di valore soltanto da 100.000 lire nel 1928 a 200.000 nel 1943 quando si supporrà verrà edificata e darà, astrazione fatta dal reddito dell’edificio, un frutto di 10.000. lire all’anno, l’aumento di valore, verificatosi nei 15 anni, non è dovuto al caso, ma interamente preveduto e scontato nel valore iniziale di lire 100.000. Le quali sono in tutto uguali a lire 200.000 dopo 15 anni. Dunque non si potrebbe tassare di lire 40.000 l’incremento di lire 100.000, senza ridurre subito il valore prospettivo futuro dell’area da lire 200.000 a lire 160.000 e quindi il valore presente da lire 100.000 a lire 80.000. Quindi l’imposta colpirebbe il valore «attuale» dell’area e non sarebbe un’imposta su guadagni di congiuntura, non preveduti e non scontati. Il Pigou vuole che l’imposta sui windfalls o sui guadagni di congiuntura, la quale egli senza ripugnanza vorrebbe portata fino al 100 %, colpisca «esclusivamente» i veri guadagni di congiuntura o del caso o doni di mera fortuna, recati sulle ali del vento. Su qual punto si potrebbe fare lunga discussione, non vedendosi bene quel vantaggio concreto la finanza potrebbe trarre da un balzello tenuto, e giustamente tenuto, entro limiti così ferrei. Se la finanza italiana e con essa quella della più parte dei paesi del tempo di guerra, avesse dovuto eliminare sul serio, dal campo della tassazione, i sopraprofitti di guerra «apparenti» dovuti a variazioni monetarie, che cosa le sarebbe rimasto da stringere in mano? Nulla più di un pugno di mosche. Forse qualche profitto di intermediario, arduo ad accertare, ancor più arduo a tassare con probabilità di incasso. Se non si voglia, come per lo più si fece per i profitti di guerra e si tornerebbe a fare, ad es., per gli aumenti di valore non guadagnati (ma Pigou bene aggiunge «non apparenti» e non «sperati») delle aree fabbricabili, procedere a colpi di sciabola, sarebbe necessario procedere ancora più guardinghi di quanto il Pigou non desideri. Non basta sottrarre dall’incremento di valore verificatosi la quota che è «apparente» per mutato valore della moneta o per variato saggio di interesse o quella che era già stata «scontata» perché prevista. Soddisfa il residuo alla definizione del Pigou (XVI, 1) per cui sono windfalls o doni della fortuna «gli accrescimenti del valore reale dei capitali posseduti dal contribuente i quali non siano da lui previsti e non siano in alcuna parte dovuti ad uno sforzo fatto, ad un’intelligenza applicata, ad un rischio corso o ad un capitale investito»? Pare che quasi mai possa ritenersi soddisfatta la definizione, finché l’imprevisto, la fortuna, il caso sia un elemento essenziale della condotta economica di una così gran parte degli uomini. Si cercherebbero e si scaverebbero miniere se dinanzi alla mente del minatore non brillasse la speranza di un insperato, straordinario rinvenimento? Si sarebbero costruite città in luoghi spopolati di paesi nuovi, senza la speranza di un fortunato sviluppo futuro? Si costruirebbero case in quartieri lontani dal centro delle grandi città, se non sorreggesse la speranza di attirare a sé la popolazione e raccogliere il premio di un forte incremento di valore delle aree accaparrate in quella speranza? Si comprerebbero azioni e si investirebbero risparmi nella industria se non sorreggesse la speranza di indovinare la buona tra le tante azioni poste sul mercato? Si comprerebbero biglietti di lotteria se il giocatore non fosse animato dalla speranza di vincere il premio? Né queste speranze sono tali che consentano di essere scontate. Tutti sperano che il proprio lotto di terreno acquistato oggi al prezzo di 100.000 lire valga, dopo 15 anni, ben più di 200.000 lire; perché se, così non sperassero, avrebbero preferito investire tranquillamente i propri risparmi in un titolo fruttifero sicuramente del 5% annuo. Se lo fecero, non furono mossi dalla media possibilità di riprendere dopo 15 anni le proprie 100.000 lire accresciute dall’interesse composto del 5% annuo e divenute così 200.000 lire, ma invece dalla speranza di essere favoriti dalla fortuna e di acquistare «quella» area che,invece di toccare la normalità delle 200.000 lire raggiunse invece l’eccezionalità, non sperabile e non scontabile singolarmente, delle 500.000 e del milione di lire. Dico cioè che, se si deve dedurre dagli incrementi quella parte che fu prevista e scontata, non basta dedurre le quote di incremento previste e scontate caso per caso, singolarmente, ma anche le speranze e gli sconti applicati ad una collettività di casi. Quell’incremento eccezionale di 300.000 o 700.000 lire in più non è un dono della fortuna, ma è condizione necessaria affinché gli speculatori applichino la loro intelligenza a scoprire le aree adatte a costruzione futura, facciano sforzi per attirare verso di esse la popolazione costruendo case pioniere, sopportando parte dei costi delle strade di accesso, correndo il rischio dei capitali impiegati. Se quel premio eccezionale, individualmente imprevedibile, sebbene collettivamente probabile, non si potesse ottenere, gli speculatori non accorrerebbero verso quell’impresa o vi accorrerebbero in misura minore; né la produzione sarebbe quella che è.

 

 

Che la deduzione dell’interesse composto accumulato tra due consecutivi realizzi non sia sufficiente a depurare l’incremento da ogni fattore di costo riducendolo al puro dono della fortuna aveva ben visto il Bickerdike in un saggio letto nel 1910 alla sezione economica dell’associazione britannica per l’avanzamento delle scienze (cfr. The principle of land value taxation, in «The Economic Journal», 1912, p. 3), quando aveva chiesto: «se si avverte oggi che tutte le probabilità favorevoli saranno tassate, non è esattamente come se si riducesse senz’altro il valore presente di tutte le probabilità»? Lo Stamp (in The incidence of increment duties, nello stesso «Journal», 1913, pag. 197 e seg., riassunto nel volume The Fundamental principles of taxation, 1921, pag. 141 e seg.), risponde che il valore attuale di un grosso premio è minore, a parità di somma totale offerta in premio, del valore attuale di molti piccoli premi, e che si può tranquillamente ridurre l’importo dei grossi premi senza scemare la spinta al giuoco. Il punto, che è di psicologia, merita di essere approfondito, più di quanto lo Stamp abbia fatto. Lo Stato, come prova l’esperienza italiana del monopolio del lotto, può prelevare coll’imposta assai più sulle grosse vincite dei quaterni che su quelle dei terni ed ancor più che sui premi degli ambi; e l’esperienza conforterebbe l’assunto dello Stamp. Tuttavia il premio a giuocatori ignoranti, come son quelli del lotto, appare ancora, tuttoché ridotto dall’imposta, rilevante nei quaterni e terni e bastevole ad attirare i giuocatori. Montecarlo conserverebbe la sua clientela, appartenente ad una classe più istruita, se non più elevata se i possibili premi fossero di poche centinaia di franchi? Gli speculatori in terreni, in miniere, in azioni si possono assimilare a puri giuocatori? Nel mondo economico, in cui le imprese si distribuiscono lungo una scala, da quelle le quali perdono a quelle le quali guadagnano rendite sempre più elevate e nessuna probabilmente si trova al margine della copertura dei costi intieri, l’esistenza delle imprese più fortunate non è spesso una condizione necessaria per incoraggiare i capitali ad investirsi in industrie incerte? Se dinnanzi alla mente dei giovani non brillassero i guadagni degli avvocati principi, dei chirurghi e dei clinici famosi, quanti si indurrebbero ad avviarsi su vie seminate più di triboli che di successi? Fin dove si può tassare senza toccare quella frazione d’incremento che sia guiderdone, compenso di lavoro, d’iniziativa, di speculazione? Le difficoltà di partire con esattezza nei suoi elementi costitutivi gli incrementi di capitali così da cavarne fuori il residuo di reale guadagno dovuto al caso e tassabile senza pericolo, paiono dunque assai maggiori di quanto il Pigou non dica; sicché forse non esistono applicazioni veramente pure dell’imposta teoricamente configurata; e quelle che si dicono imposte sui guadagni del caso o della fortuna sono in verità tutt’altra cosa e colpiscono per lo più guadagni previsti e calcolati, per individui o per gruppi, e condizione necessaria della produzione. L’imposta configurata teoricamente resta una pura esercitazione accademica, la finanza essendo ben lontana dall’adattarsi a fare le detrazioni e le distinzioni sottili volute dalla teoria.

 

 

10. – Ma il Pigou non limita la tassabilità e il guadagno del caso. Se per questi è pronto ad attribuire allo Stato il 100% del guadagno, per gli incrementi generici di capitale non enuncia aliquote, ma ammette (settimo, 3) che se un incremento di capitale si verificò e si realizzò esso «teoricamente debba essere considerato parte del reddito» e come tale tassato. E poiché nessun altra ragione di tassazione è addotta dal Pigou all’infuori di questa sola: doversi l’incremento di capitale comprendere, se realizzato, nel reddito del contribuente, consegue logicamente dalla fatta premessa che l’incremento medesimo dev’essere tassato alla stessa stregua, colle medesime aliquote, colle stessa detrazioni del reddito di cui esso fa parte. Egli aggiunge subito che siffatto conteggio non può tuttavia praticamente farsi per ragioni amministrative (VII, 3), ragioni le quali pare abbiano consigliato l’amministrazione finanziaria britannica ad accertare gli incrementi di capitale solo quando siano ottenuti nel corso della normale attività commerciale o professionale del contribuente. La commissione reale britannica sull’imposta sul reddito pare fosse favorevole ad un’estensione della pratica fiscale, così da accertare i guadagni per incremento di capitale ogniqualvolta la cosa accresciuta di valore fosse stata, da chiunque, acquistata con intenzione speculativa (with a view to profit making). Il Pigou non si nasconde le difficoltà pratiche della proposta e propenderebbe a ritenere che esse possano essere meglio sormontate con una imposta ragionata sul patrimonio e non sul reddito (XII, 2). Ma queste osservazioni se inducono a cautele prudenti di applicazione, non scrollano il principio, in virtù del quale gli incrementi di capitale, se accertabili e tassabili senza eccessivo costo amministrativo, dovrebbero essere inclusi nel reddito e quindi tassati alla medesima stregua di questo. A leggere il Pigou, pare questo un assioma evidente su cui non cada discussione.

 

 

11. – Evidente invece non è, come può con breve analisi essere facilmente dimostrato. Supponiamo, per adoperare una esemplificazione preferita dal Pigou per la sua semplicità, trattarsi di un’imposta ad aliquota costante. Supponiamo che il valore capitale di una cosa passi da 100.000 lire nel tempo A a 200.000 lire nel tempo B. Il guadagno di lire 100.000 sia «realizzato» in seguito a vendita della cosa capitale. Se il reddito dei contribuenti è colpito con un’imposta del 10 %, anche il guadagno di 100.000 lire dovrebbe teoricamente, dice il Pigou e dicono tanti altri, essere tassato. A me pare invece che se c’è evidenza di assioma in tal caso, essa sia per la risposta negativa al quesito[3]. Infatti, quelle 100.000 lire di guadagno capitale già furono gravate da un onere del 10 % e se venissero oggi tassate, sopporterebbero un peso maggiore di quello gravante sugli altri redditi in generale. Perché una cosa capitale passa invero dal valore 100.000 a quello 200.000 lire? Perché il reddito netto annuo futuro probabile passa da 5.000 a 10.000 lire. Ma le 5.000 e le 10.000 lire sono già nette dalla imposta generale del 10%, da cui esse sono colpite. Il mercato capitalizza i redditi al netto e non al lordo delle imposte ad aliquota costante od uniforme. Se l’imposta del 10% non fosse pagata dai redditi di 5.000 e 10.000 lire questi sarebbero, al netto, di 5.555,55 ed 11.111,11 lire rispettivamente; e si capitalizzerebbero al 5%[4] a loro volta in lire 111.111,11 e 222.222,22 lire. Quindi il contribuente, se non esistesse l’imposta del 10% sul reddito, guadagnerebbe un incremento di capitale di 111.111,11 lire. L’imposta del 10% sul reddito, intesa come imposta sui semplici frutti annui distaccabili dal capitale, esclusi dal computo gli incrementi del capitale stesso, basta da sola a produrre questi due effetti: 1) riduzione del reddito netto nel tempo A da 5.555,55 a 5.000 lire e nel tempo B da 11.111,11 a 10.000 lire; 2) e corrispondente riduzione dei valori capitali da 111.111,11 a 100.000 nel tempo A e da 222.222,22 a 200.000 nel tempo B. Resta così dimostrato che redditi e capitali, incrementi di reddito e incrementi di capitali sono già tutti ugualmente colpiti da un’imposta che riduce semplicemente i redditi e quindi gli incrementi di reddito del 10 per cento.

 

 

Se, ora, come vuole il Pigou, si afferma che debbono essere compresi nel reddito, ossia nei frutti annui della sorte capitale, anche gli incrementi di valore della sorte capitale medesima, noi graviamo maggiormente una frazione, quella nuova od accresciuta, del reddito in confronto della frazione originaria. Ed invero la frazione originaria del reddito, quella di 5.555,55 lorde e 5.000 lire nette dall’imposta del 10%, già esistente nel tempo A continua a pagare soltanto 555,55 d’imposta; ed il corrispondente valore capitale continua ad essere ridotto soltanto da 111.111,11 a 100.000 lire. L’aggiunta di reddito, invece, o seconda frazione di esso, del medesimo ammontare di 5.555,55 lorde, viene dall’imposta del 10% ridotta in un primo momento a 5.000 lire nette. E capitalizzandosi queste 5.000 e non le 5555,55 lorde, il contribuente già soffre la riduzione dell’incremento potenziale di 111.111,11 all’incremento effettivo di 100.000 lire. Entra in campo a questo punto la innumere schiera dei tassatori di incrementi e Pigou con essa, la quale trova «evidente» far d’uopo tassare col 10% l’incremento di 100.000 lire, perché «guadagno» diverso e aggiunto al reddito annuo di 10.000 lire, sì da ridurlo a 90.000 lire. Così facendo costoro non si avveggono che:

 

 

  • l’incremento di capitale già decapitato in virtù dell’imposta da 111.111,11 potenziali a 100.000 lire effettive viene ridotto ancora a 90.000 lire;

 

  •  l’incremento di reddito già ridotto dall’imposta da 5.555,55 a 5.000 lire, viene, grazie alla riduzione dell’incremento, fruttifero di reddito, a 90.000, ulteriormente ridotto a 4.500 lire;

 

  • che, perciò identici ammontari di reddito e di capitale vengono diversamente colpiti, solo perché si producono in tempi successivi: gli ammontari, primi nel tempo, essendo colpiti, se reddito, con 555,55 lire, se capitale, con 11.111,11 lire; laddove gli ammontari, secondi nel tempo, sono ridotti, quanto a reddito, di 555,55 più 450 ossia 1.005,55 lire e, quanto a capitale, di 11.111,11 più 10.000 ossia in tutto di 21.111,11 lire.

 

 

12. – Come dalla circostanza del prodursi di un reddito o di un capitale per incrementi successivi si deduca l’evidenza dell’equità di una tassazione maggiore degli incrementi in confronto delle dosi originarie, confesso di non riuscirmi a spiegare.

 

 

Il Pigou, assai correttamente, esclude che il motivo del diverso trattamento fiscale possa consistere nella facilità o gratuità con cui si ottengono gli incrementi e le novelle dosi di reddito o di capitale. Come fu spiegato sopra, questo è problema tutt’affatto differente. Nei casi in cui si riscontri che un reddito è dovuto al caso (windfalls), od è ottenuto senza sforzo del contribuente, o con particolare facilità o larghezza, per ragioni di monopolio o di posizioni di rendita e simili, si può discutere, come sopra si fece, se convenga o non tassare il reddito facile, gratuito, largo con aliquote particolarmente alte. Ma tal problema deve essere discusso per sé e non deve essere confuso con il problema della tassazione degli incrementi. Un reddito può essere dovuto al caso, alla fortuna, al monopolio, sia che esso sia prodotto prima ovvero dopo; può essere dovuto al caso il «primo» reddito e al lavoro il «secondo» e viceversa. Sono due fatti distinti e non giova confonderli.

 

 

Il Pigou, che pure aveva scansata siffatta confusione, in cui cadono per lo più i trattatisti della tassazione degli incrementi di capitale, non ha veduto l’errore logico di considerare l’incremento di capitale meritevole «per sé stesso» d’imposta. Se il ragionamento da me sopra fatto non patisce critica – e in tanti anni da che primamente fu esposta, nessuna critica sostanziale è venuta a mia conoscenza – si può perlomeno concludere non essere stata data alcuna prova della asserita evidenza della giustizia di tassare, al par dei redditi, gli incrementi di capitale ed essere forte la presunzione che, ove la tassazione si facesse, dovrebbe essere tacciata di doppia tassazione.

 

 

13. – Se dunque l’amministrazione finanziaria britannica sinora si è limitata a tassare gli incrementi di capitale nei soli casi in cui essi siano la conseguenza dell’ordinaria attività professionale del contribuente, è probabile che siffatta condotta sia dovuta non al timore di errare estendendo i casi di tassazione al di là di quelli professionali, più agevoli ad accertarsi, sibbene per la sensazione, consapevole o non, che, a tassare al di là di quei ben definiti casi, si sarebbe commesso opera ingiusta, si sarebbe indebitamente tassato due volte lo stesso cespite per lo stesso motivo.

 

 

È rimarchevole la circostanza che, a quanto si può capire dalle parole del Pigou, la pratica inglese è tutt’affatto simile a quella italiana. Ma è ancora più rimarchevole che la pratica italiana non è una semplice «pratica» accolta in mancanza di meglio; ma è l’attuazione di un pensiero maturamente dedotto dal testo e dallo spirito della nostra legge di imposta di ricchezza mobile e lentamente e sapientemente elaborato dalla giurisprudenza. Recensendo altra volta alcuni saggi finanziari dello Seligman ebbi già a chiarire la relativa eccellenza della dottrina italiana su questo punto, davvero singolarissimo per la facilità con cui insigni studiosi cadono in equivoco (cfr. in «La Riforma Sociale», 1927, pag. 385 e mio Corso di Scienza della Finanza, quarta ediz., pag. 191). La dottrina italiana quale si deduce dalla giurisprudenza interpretativa della legge, reputa tassabili solo quegli incrementi di valore capitale che sono conseguiti in seguito ad una preesistente intenzione speculativa. Il banchiere il quale acquista titoli pubblici a scopo di rivendita, il negoziante che acquista case e terreni col medesimo scopo, se ottiene l’intento, non viene tassato perché abbia conseguito un incremento di valore capitale, ma perché quell’incremento è il frutto normale di una attività professionale o commerciale. L’incremento non è mai tassabile come tale ma solo quando si ha frutto di capitale o di lavoro o di amendue. Si tassa l’incremento da 100 a 200 mila lire del valore della casa se e quando esso sia il frutto di un’attività professionale, così come si tassa l’aumento di valore del sacco di frumento da 100 a 105 lire se esso è frutto e compenso dell’opera del negoziante. Quella regola, che al Pigou sembra un espediente empirico di una finanza timorosa di accettare gli incrementi di capitale in generale e paga di colpirli nei casi più evidenti, attua invece il canone dell’uguaglianza, il quale comanda di colpire i frutti dell’opera umana dovunque si producano, per differenza nei prezzi di compra e di vendita di derrate agricole o di merci industriali o di titoli o di immobili. Con ciò non si pretende affatto di colpire incrementi di capitale, sibbene e soltanto frutti o compensi di lavoro o di capitale; né si commette errore di doppia tassazione, ché il negoziante di case non ha per intento di investire capitali in case allo scopo di goderne i fitti; ma solo di barattare denaro contro case e queste nuovamente contro denaro accresciuto. Appurare se in un dato caso di incremento si riscontrino gli estremi del lucro professionale è problema concreto, che non ha importanza ai fini del punto di principio e quindi non deve essere qui discusso.

 

 

14. – Ad illustrazione del modo tenuto, ragionando, dal Pigou giova ricordare la sua analisi del problema della tassazione del risparmio. Egli non dubita che l’imposta la quale colpisce nella stessa misura la parte del reddito risparmiata e quella consumata discrimina a danno della prima parte. Infatti, se l’imposta è del 10 % del reddito, e se il reddito è di 200 lire, di cui 100 consumate e 100 risparmiate, l’imposta sulla parte consumata risulta di 10 lire e nulla più, nessuna altra imposta potendo di seguito riscuotersi su ciò che più non esiste. Ma l’imposta sulla parte risparmiata risulta di 10 lire subito e poi ancora del 10% sui frutti delle 100-10 ossia 90 lire risparmiate. Se l’investimento è perpetuo ed effettuato al saggio del 5%, ossia dà luogo ad un frutto di 4,50 lire all’anno, l’imposta, prelevando ogni anno in perpetuo 0,45, dà luogo ad un ulteriore gravame di 9 lire, attuali, ed in tutto di 10+9, che è assai più e praticamente quasi il doppio dell’imposta gravante sulla parte consumata. Se noi chiamiamo x l’imposta sulla parte consumata del reddito l’imposta sulla parte risparmiata è

 

 

ossia

 

 

15. – L’autore, il quale non ricorda le fonti della teoria, per lui pacifica nonostante alcune obbiezioni o meglio negazioni di Cannan e di Stamp[5], a questo punto ha, si può dire, esaurito il problema principale: quello di principio, se ci sia o non ci sia doppia tassazione nel colpire il risparmio alla stessa stregua del consumo. La doppia tassazione esiste quelle che vengono in seguito si potrebbero dire consigli di cautela nell’interpretazione del principio. In primo luogo, occorre avvertire che se il risparmio, investito, non dà frutti, neppure patisce imposta e quindi non si verifica il vizio lamentato della doppia tassazione. Quale caso di investimenti senza frutti avesse in mente il Pigou non è, dato il suo silenzio, agevole immaginare. Non pare egli si possa riferire all’investimento di cose temporaneamente infruttifere, come aree fabbricabili, azioni di società non ancora arrivate al momento della raccolta degli utili e simili. In tal caso la seconda o doppia tassazione è meramente sospesa, ma cadrà in seguito su redditi più vistosi quanto più furono prorogati nel tempo. Teoricamente non c’è differenza fra una annualità di reddito costante la quale prenda inizio nel momento zero e la annualità di reddito maggiore che si inizi dopo 1, 2, 3 … n. anni. Ragguagliate al valore attuale, le due annualità sono identiche. Forse egli si riferisce ad investimenti in parchi, giardini quadrerie, oggetti d’arte e d’ornamento, e non danno reddito pecuniario tassabile. L’argomento aggrava, se mai, il peso della obbiezione di doppia tassazione perché questa è chiarita particolar nemica di quei risparmi che si investono così da dare un reddito pecuniario, immediato ovvero prorogato ad un tempo futuro.

 

 

16. – In secondo luogo, vi sono consumi, come la buona alimentazione, la casa accogliente, la buona educazione, i quali crescono la produttività futura dell’uomo. L’imposta, tassando in seguito il maggior reddito ottenuto dall’uomo in conseguenza del consumo precedente, si rende dunque colpevole di doppia tassazione, anche perciò che si riferisce alla parte consumata dal reddito. Ma all’accenno, il Pigou non fa seguire alcun ulteriore riflesso; a differenza di chi logicamente deducendo dalla premessa, asserì tempo addietro che, in pura teoria, l’osservazione conduceva a esentare dall’imposta la quota di reddito destinata ai risparmi detti «personali» per distinguerli dai risparmi «capitalistici» (cfr. la citata memoria Intorno al concetto, ecc., pag. 27).

 

 

17. – In terzo luogo, se l’imposta sul reddito è differenziata contro i redditi di capitale ed a favore dei redditi di lavoro, il risparmio è soggetto a più che doppia tassazione, quando sia formato coi frutti del lavoro. Poiché se lo consuma, paga il 10 per cento; se lo risparmia, i frutti del risparmio, essendo redditi di capitale, pagano, ad es., il 15%; ossia 10 lire su 100 subito e 13,50 dopo sulle 90 residue; in tutto 23,50.

 

 

Dimentica il Pigou, nel fare questo corretto rilievo, quale è la ragion di essere della differenziazione favorevole ai redditi di lavoro e contraria ai redditi di capitale. Il Mill, che è il vero autore della teoria della doppia tassazione del risparmio, che a leggere Pigou parrebbe venuta al mondo senza legittimi genitori, avendo subito riconosciuto la impossibilità pratica di esentare i risparmi effettivi dall’imposta, suggerì che si esentassero invece i risparmi presunti e concluse fin dalla prima edizione (1848) dei suoi Principles of Political Economy che «probabilmente» l’unico modo di esentare i risparmi presunti era tassare meno i redditi dei lavoratori, come quelli che hanno maggior “bisogno” di risparmiare di coloro che già possegono un capitale. Il ripiego, poiché indubbiamente trattasi di un ripiego, fu accolto da pressoché tutti i legislatori, e da quello italiano per il primo; e conviene tenerne conto nel valutare l’importanza dell’osservazione del Pigou. Questi, invece, a controbilanciare il rilievo, secondo cui il risparmio è tassato più del doppio del consumo, per il gioco delle aliquote differenziate contro i redditi di capitale, adduce la circostanza che i risparmi dei ricchi, i quali sono in mano loro per la prima volta tassati, ad es., al 50%, possono essere lasciati in eredità a gente relativamente più povera e saranno, i frutti di quei risparmi, tassati allora, nel momento della ripetizione, con aliquote del 5 o del 10 o del 20%; sicché si rimarrà al disotto del doppio. Non pare che l’osservazione sia pertinente al problema; poiché essa non nega il difetto di principio, solo allegando che per qualche ragione e per accidente il difetto non al luogo in misura così grave come per sé sarebbe caduto.

 

 

18. – In quarto luogo, egli si chiede se la maggior tassazione del risparmio non sia per avventura giustificata. E prima da quel certo punto di vista da cui tutti i problemi di imposta sono discussi nel libro che è detto di announcement. Sarebbe come dire che degli effetti di una qualunque imposta è bene discutere prima e solo dal punto di vista dell’impressione che essa fa sul contribuente, quando egli, conoscendone previamente l’esistenza, possa modificare in conseguenza la propria condotta economica allo scopo di limitarne od eliminarne la incidenza a proprio svantaggio.

 

 

Da questo punto di vista, l’A. opina che sia preferibile tassare il risparmio piuttostoché il consumo se la domanda del risparmio è meno elastica della domanda di consumo. Perciò le classi di persone le quali sono decise a fare un dato risparmio a vantaggio della propria famiglia possono essere sul risparmio tassate impunemente più che sul consumo; poiché, per quanto le si sovratassino, sempre esse risparmieranno quel dato ammontare; e l’imposta non correrà rischio di diminuire il risparmio. Laddove se c’è gente che risparmia solo quel che le avanza dopo aver provveduto ai consumi normali per il loro consueto tenor di vita, sarebbe vano per la finanza e pericolosa per l’economia del paese sovratassare il risparmio; poiché i contribuenti, avendo già poca propensione verso il risparmio, sarebbero scoraggiati dall’attendervi. L’opinamento del Pigou ha in sé alcunché di cinico, poiché condurrebbe alla conclusione che si possa fare cosa ingiusta, quando il colpo riesca; e si possa impunemente violare il canone da lui posto della necessità di esentare, per ragion di uguaglianza, il risparmio quando la violazione danneggi soltanto i padri di famiglia costretti, nonostante le sproporzionate imposte, a risparmiare comechessia per provvedere alla moglie ed ai figli. Per fortuna i meritevoli son salvi essendo il Pigou persuaso essere in maggior numero coloro i quali preferiscono consumare piuttosto che risparmiare; cosicché, per evitare che i previdenti attaccati ai beni presenti della vita rinuncino tutt’affatto a risparmiare il Pigou conclude essere prudente consiglio, per quanto tocca agli effetti dell’imposta sulla condotta economica dei contribuenti, tassare il risparmio meno del consumo.

 

 

19. – E, sempre da questo punto di vista, egli ritiene (XI, 7) preferibile esentare il risparmio nel momento in cui è prodotto, piuttostoché ricorrere all’espediente di esentare invece i frutti di risparmio già investito. La scelta sarebbe indifferente se il risparmio annuo nuovo di un paese fosse uguale al frutto annuo degli investimenti passati. In tal caso, la finanza perderebbe, col rinunciare a tassare l’una o l’altra quantità, l’identica somma e di altrettanto dovrebbe aumentare l’imposta sui redditi non esenti; e cioè sul reddito consumato; da qualunque fonte proveniente, nel caso che l’esenzione si riferisse al risparmio nuovo o sul reddito di lavoro, nel caso che l’esenzione riguardasse i frutti dei risparmi già investiti. Ma il risparmio annuo nuovo di un paese è per lo più grandemente inferiore al frutto, pure annuo, del risparmio già investito. Per esempio, secondo i calcoli del Dr. Bowley i redditi di lavoro, di capitale, ed i nuovi risparmi erano, rispettivamente, prima della guerra il 63, 37 e 15% del totale reddito nazionale britannico e secondo Bowley e Stamp erano nel 1924 il 71, 29 e 12 per cento. L’esenzione dei redditi di capitale o frutti dei risparmi passati, riguardando il 37 o il 29% del reddito totale avrebbe provocato nel tesoro un vuoto più cospicuo e quindi reso necessario un inasprimento assai più forte a danno dei redditi di lavoro che non la esenzione dei nuovi risparmi (15 o 12% del reddito totale).

 

 

L’impressione di cinismo, che s’era avuta dianzi, si accentua a questo punto. Il sugo del discorso porta a dire che impadronirsi della roba altrui è lecito, se la rinuncia al latrocinio reca troppa perdita al ladro. È pacifico per il Pigou che la tassazione del risparmio è ingiusta; ma lo Stato non può rinunciare all’ingiustizia sebbene un mezzo, a parer suo, di riparazione esista: la tassazione dei frutti del risparmio; perché il mezzo condurrebbe ad una perdita troppo grave per lo Stato. Poiché l’altro mezzo: esenzione del risparmio nel momento della sua formazione, è impraticabile, la conclusione parrebbe dover essere l’abbandono di ogni proposito di attuare il canone dell’esenzione del risparmio. Parrebbe; ma non è, essendo chiaramente artificiosa l’ipotesi che per attuare un principio di ripartizione di imposta oggi riconosciuto equo, gli si debba senz’altro dare forza retroattiva. Se a tanto non si giunge, e se si ammette che l’esenzione sia richiesta dalla logica per i frutti dei «nuovi» risparmi, ecco il problema diventa senz’altro meno grave per il tesoro; occorrendo, al 5%, vent’anni affinché il cumulo di successive annualità di frutti eguagli l’ammontare di una annualità di risparmio; e per il seguito soccorrendo ovvii espedienti, come il Pigou subito nota riscoprendo pratiche antiche di governo (cfr. sotto par. 21).

 

 

20. – In quinto luogo il Pigou si chiede quale soluzione si debba dare al problema, considerato dal punto di vista della distribuzione. Supponendo cioè che le imposte debbano essere ripartite in base al principio del minimo sacrificio della collettività ed astrazion fatta dagli effetti che la ripartizione avrebbe sulla produzione della ricchezza – il che fu già discusso al luogo precedente – debbono i risparmi essere tassati più o meno dei consumi? Sebbene, quando discorre qui di più o di meno il linguaggio del Pigou sia, in verità, alquanto incerto; e, ad esempio laddove dapprima (X, 2) ritiene dimostrato che una imposta, ad aliquota uguale per redditi di ammontare uguali, differenzia contro la parte risparmiata ed a favore della parte consumata, e invece la imposta sulla spesa, esentando automaticamente il risparmio, li tratta neutralmente alla stessa stregua, in seguito (par. 3) si esprime in modo da far dubitare che nel suo pensiero l’esenzione del risparmio dall’imposta sul reddito crei a favore del risparmio una condizione di favore, dal contesto si può ragionevolmente concludere che l’autore non pretenda, a pro’ del risparmio, nulla più della sua parificazione al consumo. Possiamo perciò partire senz’altro dalla premessa che «minore tassazione del risparmio in confronto al consumo» non implichi alcun favore ma puramente quella esenzione dall’imposta nel momento in cui il risparmio si produce ovvero in quello in cui dà frutti, la quale non è «esenzione» se non in apparenza ma giova soltanto a trattare risparmio e consumo con perfetta uguaglianza. Ciò posto, parecchie sono le avvertenze da tenersi presente secondo il Pigou, per rispondere – dal punto di vista della ottima o migliore distribuzione dell’imposta sulle varie categorie dei contribuenti classificati in ragione di ricchezza e di quegli altri elementi dei quali fa d’uopo tener conto per cagionare alla collettività il minimo sacrificio – al quesito: debbono i risparmi essere tassati più o meno dei consumi?

 

 

  • A favore di una minore tassazione del risparmio milita la circostanza che i risparmiatori sono gente più bisognosa; e del loro stato di relativa maggiore necessitudine sarebbe prova appunto il risparmiare che essi fanno.

 

  • Contro tale minore tassazione sta il fatto che qualvolta i bisognosi di risparmio sono già altrimenti tassati di meno: ad es., i percettori di reddito di lavoro possono essere tassati, a parità di reddito, più dolcemente dei percettori di redditi di capitale.

 

  • Contro, sta ancora che i ricchi risparmiano, assolutamente e proporzionatamente, di più dei meno ricchi o dei poveri; ed il favor fatto al risparmio equivarrebbe perciò ad un regalo «considerevole» fatto ai ricchi. Che il Pigou ritiene tuttavia potersi controbilanciare con un aumento dell’aliquota sui redditi più alti in un sistema di imposta più progressiva.

 

  • Né si può ricorrere allo spediente di esentare, invece che il risparmio nuovo, i frutti del risparmio vecchio, perché il regalo fatto ai ricchi da «considerevole» diventerebbe «enorme». I redditi di capitale o frutti del risparmio vecchio sono goduti dalla minoranza della popolazione e precisamente dalla minoranza più ricca; e l’esentarli dal tributo equivarrebbe a spostare pressoché tutto il peso dei tributi sulle classi più povere e medie.

 

  • Contro, sta finalmente la circostanza che non è possibile in pratica, sebbene preferibile teoricamente, favorire quelle somme che di fatto sono risparmiate piuttosto che quelle «presunte» risparmiarsi dal contribuente normale privo di capitale. Non è possibile perché «se fossero esentati i risparmi, i cittadini disonesti potrebbero risparmiare in un anno così sfuggendo all’imposta e segretamente realizzare e spendere i risparmi nell’anno successivo» (X, 4).

 

 

Delle quali cinque avvertenze la sola importante perché perentoria, è l’ultima, che già il Mill aveva esposta nella terza edizione (1852) dei Principles, quando notava l’impossibilità pratica di sormontare la facile frode «dello spendere nell’anno successivo ciò che era stato esentato come risparmio nell’anno precedente» (V, II, 4). La quale avvertenza potrebbe essere corroborata con altre (ed il Mill, al luogo citato e lo scrivente al capo terzo di Il concetto, ecc., parecchi riflessi avevano aggiunto); ma anche di essa sola il Pigou avrebbe potuto contentarsi. Lo Stato non può riparare in pieno ad una ingiustizia quando è certissimo che dalla riparazione deriverebbe la rovina delle sue finanze, per l’incoraggiamento smisurato dato alla frode. Se per esentare un risparmiatore, è mestieri esentare altresì dieci frodatori, giocoforza è abbandonare la partita e adattarsi ad espedienti. Perché, a questa ottima ragione aggiungere pro’ e contro altre pessime? Pessima è quella (prima) che il risparmio debba essere favorito perché i risparmiatori sono bisognosi. Se ci sono contribuenti bisognosi, il legislatore potrà favorirli con l’esenzione totale delle imposte o con aliquote basse, perché bisognosi, non perché risparmiatori. La bisognosità può essere motivo di favore; laddove l’esenzione del risparmio non è chiesta per favore, ma per stretta giustizia di eguaglianza di trattamento. Riconosciuta fondata quella esenzione deve essere data per sé stessa, a tutti, bisognosi e non bisognosi, epperciò in aggiunta a quei favori che ai bisognosi si vogliano concedere. Pessime del pari sono le ragioni seconda, terza e quarta e basti così parafrasarle: – non potersi far giustizia a talun quando egli goda già per altre giuste ragioni di altri vantaggi (che sarebbe la cosidetta seconda ragione); ai ricchi doversi togliere senza motivo, ricchezza perché se così non si facesse diventerebbero «considerevolmente» (ragione terza) od «enormemente» (ragione quarta) più ricchi. Non mancano, se così piace, ragioni per togliere con l’imposta, quanta ricchezza si voglia ai ricchi, senza ricorrere a fallacie così evidenti; né si vede il motivo di chiamare soldati spedati a rincalzo di una battaglia già vinta.

 

 

21. – Rincresce, tuttavia, all’autore di rifiutare del tutto l’applicazione del principio che comanda di esentare il risparmio dall’imposta. E propone un compromesso: si esentino d’or innanzi i frutti del risparmio per un periodo definito di tempo, ad es., per vent’anni dopo l’inizio dell’investimento. Se si calcola l’interesse al 5%, l’esenzione ventennale dell’intiero frutto del capitale equivale alla riduzione perpetua del saggio dell’imposta a poco più della metà per i frutti dei nuovi risparmi. Il principio viene così in parte attuato senza troppo grave danno della finanza e si tien conto della ripugnanza che il pubblico sentirebbe per una compiuta e visibile riduzione od abolizione dell’imposta sui redditi dei capitali, in confronto a quella sul reddito del lavoro. Egli non si nasconde che la proposta incontrerà ostacoli amministrativi, sembrandogli non facile distinguere il reddito dei nuovi risparmi impiegati da non più di vent’anni, dal reddito dei risparmi più antichi. E si limita a citare, senza indicare il luogo così da rendere difficili i riscontri, il Marshall, il quale, più modestamente, avrebbe voluto esentare per vent’anni dalle imposte locali le migliorie apportare ai terreni od alle case. Nelle risposte al questionario della commissione reale sulle imposte locali (1897) il Marshall infatti così si esprimeva: «Forse è possibile esentare parzialmente il risparmio dall’imposta per un limitato numero di anni, così da evitare l’ingiustizia di gravare al doppio il reddito da cui il risparmio procede. Qualunque piano simile deve necessariamente essere attuato secondo principi generali e trascurare le minori considerazioni di equità, mentre cerca di tener conto delle più gravi; e gradi e per tentativi. Reputerei che esso potesse vantaggiosamente essere sperimentato fin d’ora su piccola scala per quanto riguarda gli investimenti interni nella proprietà immobiliare, con speciale riferimento alle imposte locali» (Official Papers by Alfred Marshall, pag. 338).

 

 

Lo avevano, quel piano, proposto ben prima, in Italia, Vincenzo De Miro e Pompeo Neri e l’avevano fatto adottare in pieno nel catasto di Maria Teresa (1718-1760); e cent’anni dopo, nel 1839, nel 1844 e nel 1847 Carlo Cattaneo ne spiegava, ai connazionali radunati a Milano nel congresso degli scienziati ed al console britannico Robert Campbell, il principio informatore essenziale. Trattavasi di repartire l’imposta – allora principalmente su terreni, ma anche sui beni detti di seconda stazione, ossia su case e opifici – sul reddito accertato al momento della stima, cosicché «le migliorie successive rimangono esenti», lasciando fuori dell’imposta «gli ulteriori aumenti di valore che l’industria del proprietario venisse operando». Quei vecchi economisti non partivano, nell’attuare il principio, dalla premessa di volere esentare il risparmio a scopo di equità di trattamento col consumo; ma ben sapevano di tracciare un nuovo solco nella storia finanziaria dei popoli. Cattaneo ne parla con ispirato orgoglio di italiano: «Questa profonda verità [la esenzione dall’imposta dei miglioramenti] fu avvertita nello scorso secolo dai grandi economisti che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti del nostro paese [la Lombardia]». Angelo Messedaglia, che rifacendosi agli esempi del De Miro, del Neri, del Carli e del Cattaneo, costrusse nel 1886 il moderno vigente catasto italiano, rinunciò alla «perpetuità» dell’esenzione ed interpretandola per «lungo intervallo di tempo» la fissò nel 1886 in trent’anni. Prima dunque di Marshall ed assai prima di Pigou[6].

 

 

22. – Farebbe d’uopo, per rendere conto esatto dello scritto del Pigou, esporre, almeno per rapido riassunto, quel che egli dice su molti punti di sommo rilievo, come sulle indennità da darsi in caso di espropriazione forzata (I, II), sulle fonti dell’imposta (I, IV), sulle formule per la ripartizione dell’imposta (II,ii) e principalmente su quella del sacrificio minimo (II, iv e v), sui sistemi di imposte e di premi da usarsi per riparare agli inconvenienti degli squilibrii determinati dal privato interesse (II, viii), sulle imposte sul commercio estero (II, xix), sulle entrate da crediti di banca (III, iii a v), sul confronto fra debito pubblico ed imposta straordinaria (II, vi); ma il riassunto fatto sopra di alcune discussioni basta, suppongo, a dimostrare l’importanza del volume, nel quale nuovamente spiccano le qualità di analizzatore fino, di ragionatore acuto, di riavvicinatore impensato di idee apparentemente lontane che si ammiravano in The Economics of Welfare, The Political Economy of the War, Unemployment ed Industrial Fluctuations. Tuttavia, c’è nella nuova opera, qualcosa che lascia il lettore insoddisfatto. Non è soltanto quel suo pratico confinarsi entro la cerchia delle fonti inglesi e, anche per queste, quel suo non risalire quasi mai al di là di Marshall (a malapena si trovano ricordati i nomi di List, Mill, Ricado, Sidgwick, Smith e non sempre a proposito delle veramente grandi questioni da lui discusse); ché il vizio gli sarebbe, all’infuori di una certa stortura di visione del contributo dei diversi paesi al progresso della scienza, agevolmente perdonato da chi apprezza in pieno l’impazienza delle citazioni così difficili ad essere fatte appropriatamente ed ammira chi, piuttostoché citar troppo, sen va per le spiccie, senza citar nessuno. Non è neppure quel carattere di mezzo, tra il saggio e il trattato, riconosciuto candidamente dallo stesso autore, che fa sembrare il volume monco come trattato e ridondante, come saggio, di osservazioni divulgate in un qualunque trattato. Questi rincrescimenti hanno tratto alla forma ed alla materia del libro; ed ogni scrittore ha diritto di dare al suo libro la forma e il contenuto che a lui paiono migliori. La querela: perché l’autore non ha «anche» o non ha «invece» trattato di questo o di quel problema? serve per silurare un candidato nei concorsi universitari, quando, per far ciò, vi sono altre ottime ragioni, che sarebbe troppo lungo o fastidioso o difficile o pericoloso raccontare; ma il suo valore può dirsi stia tutto lì. È un pretesto di critica, non una critica vera.

 

 

23. – La ragione sostanziale della minor soddisfazione intellettuale che il libro procaccia al lettore, in confronto di altri del Pigou, è in un certo spirito accademico che lo aduggia. Di quando in quando il Pigou si lascia andare a confessioni interessanti: «Come esercizio di teoria pura, l’analisi (di certe condizioni anormali) ha interesse e valore, ma per scopi pratici esse possono essere trascurate senza danno» (pag. 203). Ancora, dopo aver discusso di un’imposta la quale potrebbe essere fatta pagare a certi proprietari avvantaggiati da dazi e il cui provento potrebbe essere distribuito ai consumatori di prodotti agricoli, riconosce che mai di un siffatto piano si tentò l’attuazione pratica; come neppure vi è probabilità di attuare piani scientifici di dazi su certi manufatti atti a redistribuire ai lavoratori la ricchezza o più della ricchezza ad essi portata via a favore dei ricchi da altri dazi. Trattasi ahimé! soltanto di «possibilità aventi un qualche interesse accademico» (pag. 226).

 

 

Ecco. Fa d’uopo avere grande rispetto per la teoria pura e per le prime approssimazioni. In questo campo non bisogna mettere alcun limite alla scelta delle premesse che fa l’indagatore. Siano, pure apparentemente e per la comune dei lettori, astratte, prive di nesso con la realtà, forse strane, dicasi pure bislacche, ad esse ed a chi le fa e le assume a punto di partenza dei suoi ragionamenti vuolsi prestare rispetto illimitato. Noi non sappiamo quali potranno essere i frutti di queste «esercitazioni accademiche nella teoria pura». Forse meravigliosi. Chi sbraita contro la teoria pura, contro le ipotesi astratte in nome della «pratica» non sa che, nel campo degli alti studi, la scuola veramente e solamente «pratica» è quella in cui si insegna «soltanto» a fare della teoria; e che se per caso dalle scuole pratiche uscì qualcuno che lasciò traccia di sé nel mondo, ciò accadde perché egli si costruì, forse inconsapevolmente una teoria per raggruppare e spiegare le notizie ed i fatti dissociati della cosidetta pratica.

 

 

Messo ciò fuor di discussione, rimane il quesito della convenienza di scegliere piuttosto questa che quella ipotesi come punto di partenza per questa o quella discussione. Se si scrive francamente per un pubblico «accademico» di studiosi adusati alle eleganze raziocinative, l’ipotesi è quella che piace all’autore di assumere a tema del suo esercizio teorico. Se, invece, si scrive anche per esercitare un’influenza sul pensiero del legislatore, dell’uomo politico, per dire una parola sui problemi vivi del giorno, l’ipotesi puramente accademica, quella che serve per gli esercizi del pensiero ed ha fine nella scoverta di qualche norma o legge teorica, non è, no, uno sbaglio di principio, è uno sbaglio di tattica, vorrei dire di tatto nello scrivere quel tale libro. Nel libro del Pigou si avvertono, non di rado, di questi errori di tatto, leggendo talune dimostrazioni eleganti e complesse, si resta in attesa del dove l’autore voglia andare a parare. Parrebbe che la conclusione dovesse essere qualche proposta concreta di una riforma tributaria, di una preferenza da darsi ad un provvedimento piuttostoché ad un altro. Niente. Arrivati a fine, si vede che lo scrittore era pago di aver fatto il bel ragionamento e di aver interessato così i soci della sua confraternita accademica. Poiché egli non aspirava ad altro, noi non possiamo pretendere che egli avesse aspirazioni diverse dalle sue; ma par tuttavia lecito fare legittimamente un augurio: che in una prossima edizione, quando il suo libro prenderà la forma di un vero saggio e sarà sfrondato di tutte le pagine che sono la suppellettile ordinaria di un comune trattato di finanza, le esercitazioni in teoria pura, prive di nesso effettivo, per il momento, con le soluzioni da darsi ai problemi vivi, siano collocate in testa o in coda del volume, cosicché si sappia da tutti che quelle sono offerte all’apprezzamento dei colleghi e dei concorrenti nel difficile arringo dell’analisi teorica; e vengano dopo o prima, ed apertamente separate, le discussioni suscettibili di applicazioni concrete.

 

 

24. – Potrebbe darsi che la distinzione tra quel che è pura esercitazione logica e quel che è analisi di un problema concreto, posto di fatto in un certo momento dinnanzi all’opinione pubblica – e il libro del Pigou per i nove decimi è discussione, sia pur teorica, di problemi concreti – giovi a dimostrare che le discussioni più feconde, anche ai fini del progresso della teoria pura, sono quelle che si riferiscono a problemi non inventati solitariamente dal pensatore, ma offertigli dalle vicende della storia e della vita. L’età eroica della scienza economica, quella in cui si fecero le maggiori scoperte e si posero i germi dello sviluppo posteriore, volse attorno e subito dopo le grandi guerre napoleoniche. Smith, Malthus, Ricardo, Senior, i grandi monetaristi inglesi presero la penna in mano per rispondere a qualche quesito che era nell’aria del tempo; e accadde che essi gittarono così le basi della scienza. Non dico che questa sia sempre stata la vicenda delle scoperte teoriche: poiché non si sa a quale problema pratico volessero rispondere Cournot, Gossen, Jevons, Walras ed altri venuti poi nel campo della teoria pura. Certo, la mescolanza della esercitazione accademica cavata dalla propria mente e della risposta ad un quesito suggerito da un problema esistente nel mondo esterno, non giova. La risposta data da uno scienziato come Pigou ad un quesito posto dal governo o dal parlamentare fa sempre pensare. La esercitazione teorica, portata fuori del suo campo proprio, rischia di far scambiare il teorico con un progettista, che è la peggior genia si incontri sotto la cappa dei cieli finanziari. Quei frequenti calcoli che il Pigou fa intorno alla convenienza di prendere qua e là, con uno od altro mezzo, denaro ai ricchi per darlo, con una od altra forma di premio, ai poveri – naturalmente qui si incontra il nome del progettista italiano mondialmente più noto e cioè del Rignano – non conducono a nulla, ché il Pigou alla fine ha sempre, per l’innato buon senso riflessivo britannico, cura di avvertire che di quei progetti non c’è nulla da fare in pratica. Ed allora perché farli? A scopo di esercizio logico? O non sarebbe, in tal caso, meglio, quei calcoli, confinarli nei seminari di università, dove trovano loro luogo per addestrare le menti dei giovani? E limitare la pubblicazione a quelli tra di essi, di cui sia dimostrata l’importanza teorica o la fecondità di possibili applicazioni?

 

 

25. – Non sono persuaso anche che sia sempre feconda la cura sistematica usata nel guardare tutti i problemi studiati da certi «fissi» punti di vista. Quel così frequente succedersi di paragrafi destinati a studiare un problema prima from the announcement point of view e poi from the distributional point of view e quindi, se occorre, from the technical or from the administrative point of view sa un po’ di manuale scolastico o di strumento atto ad abituare i giovani a ragionare chiaramente, senza mescolare cose disparate. Ed è utilissimo e nessuno può negare che i lettori dei libri abbiano bisogno, per lo più, di essere guidati per mano come gli studenti ed avvertiti forte; attenti agli equivoci, alle confusioni, alle interpretazioni le quali vanno oltre il pensiero dell’autore! D’altro canto, non si può negare parimente che alcuni lettori si secchino di vedersi palesata troppo la trama del pensiero dello scrittore ed esposto il processo con cui l’autore, a grado a grado ragionando, giunse alle sue conclusioni. Fra Ricardo che dimentica quasi sempre le premesse del ragionamento, e Marshall, il quale usa ogni scrupolo per ricordarle tutte, talvolta si preferisce Ricardo perché lascia un buon margine di ginnastica intellettuale al lettore; sebbene Marshall riscatti lo scrupolo delle premesse con la modestia nell’enunciare le conclusioni, la cui novità ed importanza fa indovinare, non senza fatica, al lettore.

 

 

V’ha di più. La sistematica dei punti di vista è utilissima per la nettezza del ragionamento e delle conclusioni; ma non deve diventare la tiranna del ragionamento. Non tutti i problemi di imposta si prestano ad essere trattati dal punto di vista degli effetti del loro annuncio ed insieme da quello della loro distribuzione o da altri ancora. A volerli trattare per forza così, accade che si facciano considerazioni di poco conto, giunto alla fine delle quali l’autore stesso talvolta è tratto a notare essere forse dopo tutto la loro importanza scarsa. Ed allora perché enunciarle? e perché dalla sistematica essere portato a dare al lettore un’idea sbagliata dell’importanza relativa delle cose dette? La bella architettura piace anche nei libri; ma si vorrebbe pure che essa non producesse l’effetto che si osserva nei vecchi palazzi dove, accanto alle magnifiche stanze di apparato, quelle da dormire e di servizio non hanno, per ragioni di facciata, luce e comodità bastevoli. Troppe pretese in verità queste mie; ma indice dell’alta stima che il Pigou ha saputo guadagnarsi e della perfezione che ogni volta si vorrebbe assaporare nei suoi scritti.



[1] Pubblicato sotto il titolo generico Cronache e rassegne; nell’indice dell’annata sotto il titolo Il problema della pubblica finanza in uno studio di A. C. Pigou [ndr]

[2] Deve ancora una volta essere segnalata la troppo scarsa conoscenza che, fuori d’Italia, si ha degli scritti di colui che tutti noi studiosi italiani di finanza reputiamo «maestro» e poniamo bene in alto, in luogo dove non si giunge se non da pochissimi in parecchie generazioni. Talvolta se si bada ai nomi che da labbra straniere si odono pronunciare come rappresentativi della scienza italiana si rimane esterefatti; la casualità delle conoscenze ad occasione di viaggi o di congressi, la grafomania epistolare, l’invio continuo di stampati in omaggio, la reciprocità di onorificenze accademiche o di altre forme di lodi, l’appartenenza alla medesima scuola giovando assai più del reale contributo fornito al progresso della scienza. Di siffatte e piccole storture fa pronto e giusto giudizio il tempo; ma anche il tempo è capace talvolta di rimediare alle storture grosse; e come appena adesso si comincia a conoscere fuori dei confini italiani il Ferrara (ad opera di G. – H. BOUSQUET, Un grand economiste italien, Francesco Ferrara, in «Revenue d’histoire economique et sociale», 1926, pag. 344) così non ancora si sa fuori d’Italia che al gran cenacolo romano, famoso in tutto il mondo scientifico per i nomi di Pareto, di Pantaleoni e di Barone, appartenne anche Antonio De Viti De Marco. Colpa in gran parte sua, questa ignoranza; del suo carattere schivo di notorietà, ripugnante a concedersi al primo venuto, finemente aristocratico, dal sorriso lieve, agghiacciante per la gente grossolana desiderosa di conoscere uomini «illustri», sieno tali per consenso altrui e per persuasione propria. Ma colpa anche di chi, leggendo i suoi rari e brevi scritti, non si è avveduto che, fra i quattro del cenacolo famoso, il nome del De Viti non è certamente l’ultimo. Difficilissimo il paragone tra i quattro; dei quali il Barone, per le vicissitudini varie di una vita distratta fra l’esercito, il giornalismo, l’insegnamento e il cinematografo, e per il prepotere, stupefacente e simpatico di una immaginazione che gli faceva scambiare le speranze sognate per un tempo futuro con la realtà immediata presente, sentendo gravemente la fatica paziente della ricerca diretta, non diede i frutti dei suoi estimatori e sovrattutto il Pantaleoni, si ripromettevano copiosi e preziosi da lui, riducendosi troppo spesso, per la furia di scrivere, egli, che pur aveva tanto ingegno e preparazione e inquadrata forma mentale, a saccheggiare ingenuamente la roba altrui, specie se di amici non usi a lagnarsi in pubblico delle sfortune loro letterarie. Ed è notabile altresì come degli altri due grandi, si atteggiasse quasi convintamente a discepolo del Pareto proprio quel Pantaleoni, il quale di tanto gli era superiore almeno sotto due rispetti: in primo luogo per la cura somma riposta nell’osservare la massima del suum unique tribuere, sicché i suoi Principii sono mirabili anche per avere intitolato teoremi, come si usò, credo sempre, in fisica, in chimica e nelle altre discipline naturali e matematiche, ma non si usava quasi affatto e poco ancora si usa in economia, al momento dei loro temi formulatori, laddove il Pareto si ostinò ingiustamente fino all’ultimo a non volere riconoscere di avere portato via di sana pianta al Mosca le idee dalla classe e della formula politica, da lui diversamente battezzate, ma rimaste tali e quali; ed in secondo luogo per essere il Pantaleoni uomo che sentiva profondamente i problemi economici concreti, li analizzava con l’incontentabilità propria di chi ne vede il fondo e l’intrico, con inarrivabile senso della realtà, costruendo monoliti capaci di resistere ai secoli; laddove se si legge e si tornerà sempre a rileggere il Pareto nei capitoli che illuminano la toeria generale dell’equilibrio economico e di riflesso i maggiori problemi del risparmio, della capitalizzazione, dell’impresa, del commercio internazionale, della ripartizione dei redditi e simili, difficilmente si sentirà il bisogno di rivedere quel che egli disse intorno a problemi particolari, per cui troppo facilmente si contentò di prime approssimazioni, quel suo affastellamento di notizie curiose, di statistiche diverse, di commenti arguti, sentendo inoltre troppo di appiccicatura e non esonerando di ricorrere alle fonti prime chi voglia appurare quel che altri disse o che veramente accadde. Del Pareto meravigliano il tono antistorico con cui bistrattò non di rado grandi economisti e l’uso frequente della parola «errore» a proposito di scritture classiche, nelle quali pure sono contenuti gli spunti pei suoi medesimi successivi sviluppi; e dà un qualche fastidio la persuasione, in cui visse sino all’ultimo, che nessuno o pochissimi suoi discepoli soltanto avessero compreso talune sue elementarissime proposizioni: come quella che al rapporto di causa ed effetto dovesse sostituirsi il rapporto o concetto di interdipendenza; proposizione che, appena divulgata, fu capita da tutti entro i limiti in cui l’appplicazione ne è feconda. Perciò il Pareto non ebbe e forse non avrebbe tollerato discepoli, ossia uomini atti a superarlo; esigendo egli che i discepoli ripetessero esattamente le sue formule, ossia cessassero di pensare per conto proprio. Il tempo dirà se Pantaleoni abbia avuto discepoli; ma forse sarà difficile distinguerli dai ripetitori o rapinatori, se qualche amico fidato suo non fermi per tempo sulla carta le idee che nella conversazione con amici, con studiosi, con studenti, col primo venuto egli regalava con noncuranza da gran signore, senza adontarsi che l’ascoltatore le facesse sue e neppure sovvenendosi che le idee lette poscia negli scritti altrui fossero farina del suo proprio sacco.

 

 

Dei quattro, De Viti è forse il meno subitamente affascinante. Chi lo legge e lo ascolta ha l’impressione che il pensiero si formi in lui a fatica; e talvolta par ci sia un salto nel processo logico, per cui una sentenza non si attacca senz’altro a quella che la precede. In questo egli è ricardiano; e come si ritorna a capitoli notissimi di Ricardo, per necessità di mestiere letti le decine di volte, ed ogni volta vi si scoprono idee ed aspetti nuovi e scaturigini di sviluppi posteriori, così accade per De Viti. Non c’è nei suoi scritti nulla che lasci l’impressione grandiosa della teoria dell’equilibrio di Pareto; nessuna sua monografia diletta ed istruisce e rapisce come la Crisi del Credito mobiliare di Pantaleoni; forse neppure si incontrano in lui certe lapidarie dimostrazioni di teoremi elementari come sa far Barone; ma nessuno degli altri ti sforza a ritornare tante volte su quello che egli ha scritto, ogni volta che tu voglia ristudiare quel problema. Si accettino o si respingano le sue tesi sul carattere teorico della finanza, sull’imposta straordinaria e sul debito, sulla diversificazione dei redditi di fronte alle imposte, sulla progressività delle aliquote ed altre molte, fa d’uopo ritornare, prima di parlare o di scrivere, alle pagine del De Viti, per riceverne stimolo a meditare, a consentire, a contraddire, a vedere od intravvedere ciò a che, coll’aiuto di altri, non si sarebbe arrivati.

 

 

Fa d’uopo dire, che parlando di “cenacolo romano” non si vuole menomamente accennare a conventicole o riunioni regolari di amici, a solidarietà di mutuo appoggio scientifico, ad esclusività od ostilità contro i non iniziati, come si usa tra artisti e letterati; sibbene unicamente ricordare che, tra il 1885 e il 1900, ci furono anni o momenti in cui Pareto, Pantaleoni, De Viti e Barone ebbero, non forse tutti insieme, contemporaneamente, sibbene si per combinazioni variabili, tra di loro, commercio personale di conversazioni e discussioni in cui l’ingegno si affinò, nacque o si rinsaldò la tendenza alle speculazioni economiche, da consensi e contrasti di idee ebbe stimolo quella fioritura di scritti, la quale è oggi patrimonio prezioso della scienza economica italiana?

[3] Vedasi a questo punto il capitolo nono del titolo secondo della Relazione al disegno di legge (Meda) sulla Riforma generale delle imposte dirette sui redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali, n. 1105 e le dilucidazioni pubblicate dallo stesso relatore in Il Contribuente italiano del marzo e del giugno – luglio 1920 in due articoli intitolati: La tassazione degli incrementi patrimoniali nel disegno Meda e nel decreto – legge Tedesco e Perché tassare gli incrementi patrimoniali in sede di complementare e non in sede di normale? Intorno all’importanza delle imposte ad aliquota variabile, cfr. le Osservazioni critiche nel capitolo terzo. Sulla tesi generale che la tassazione degli incrementi di capitale dia luogo a doppia tassazione cfr. la mia Memoria del 1912: Intorno al concetto di reddito imponibile, pag. 8, nelle «Memorie dell’Accademia di Torino del 1912» e prima ancora il FISHER in The nature of capitale and income, 1906, il quale ora la ribadisce nello studio The income concept in the light of experience, 1927, specialmente a pag. 18 e seg.

[4] Sulla capitalizzazione dei redditi al netto od al lordo dell’imposta, cfr. le Osservazioni critiche, cit., pag. 63 e seg. Sulla correttezza di assumere un saggio di interesse invariato, ad es., del 5 % cfr., ivi, passim.

[5] Anche qui, l’A. avrebbe potuto ricordare che la schiera più folta di critici alla teoria milliana della doppia tassazione del risparmio, accolta in Inghilterra come di evidenza intuitiva da quasi tutti coloro che se ne occuparono (ad es. Marshall), si trova in Italia; e perché scritto in francese, lingua della nostra più accessibile, ricorderò La Taxation de l’epargne di Umberto Ricci (in «Revue d’economie politique», 1927, pag. 860 e seg.).

[6] Tutta questa vicenda teorica e pratica della tassazione delle «migliorie» è esposta nel mio scritto La terra e l’imposta, in «Annali di Economia», 1924, passim e ricollegata al problema generale di tassazione degli incrementi patrimoniali nel Corso di Scienza della Finanza, quarta ediz., pag. 203 e seg.

f capitale and income, 1906, il quale ora la ribadisce nello studio The income concept in the light of experience, 1927, specialmente a pag. 18 e seg.

[4] Sulla capitalizzazione dei redditi al netto od al lordo dell’imposta, cfr. le Osservazioni critiche, cit., pag. 63 e seg. Sulla correttezza di assumere un saggio di interesse invariato, ad es., del 5 % cfr., ivi, passim.

[5] Anche qui, l’A. avrebbe potuto ricordare che la schiera più folta di critici alla teoria milliana della doppia tassazione del risparmio, accolta in Inghilterra come di evidenza intuitiva da quasi tutti coloro che se ne occuparono (ad es. Marshall), si trova in Italia; e perché scritto in francese, lingua della nostra più accessibile, ricorderò La Taxation de l’epargne di Umberto Ricci (in «Revue d’economie politique», 1927, pag. 860 e seg.).

[6] Tutta questa vicenda teorica e pratica della tassazione delle «migliorie» è esposta nel mio scritto La terra e l’imposta, in «Annali di Economia», 1924, passim e ricollegata al problema generale di tassazione degli incrementi patrimoniali nel Corso di Scienza della Finanza, quarta ediz., pag. 203 e seg.

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