Di alcuni recenti studi di storia economica e finanziaria
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/12/1903
Di alcuni recenti studi di storia economica e finanziaria
«La Riforma Sociale» 15 dicembre 1903
Studi di economia e finanza, Società tipografico editrice nazionale, Torino-Roma, 1907, pp. 95-114
Se fra gli economisti è controversa l’importanza degli studi storici, ciò è dovuto a due circostanze principalissime: a) che troppe volte furono scritte storie da studiosi che non conoscevano la scienza economica e finanziaria e, guardando con disprezzo alle teorie da essi ignorate, non potevano vedere i nessi che i piccoli fatti appassionatamente studiati nelle vicende del passato avevano con le grandi leggi che governano il mondo economico; b) che gli studiosi – specialmente italiani – di storia economica, presero ad oggetto delle loro pazienti investigazioni quasi soltanto la letteratura dell’Economia e della Finanza. Ora è facile vedere come il riassunto, sia pure diligentissimo, di quello che scrissero gli economisti dei tempi andati, non può non riuscire spesso freddo e incolore, sia perché le dottrine di quei vecchi corrispondevano a tempi che noi brameremmo vedere rivivere dinanzi ai nostri occhi per potere gustare e comprendere le morte dottrine, sia perché esse – separate dal quadro dei tempi in cui ebbero nascimento – ci paiono erronee od almeno più non corrispondenti allo stato avanzato della scienza presente.
Qui invece si vuole rendere conto di alcuni libri in cui si studiano dei fatti economici e finanziarii del passato – cosa sempre interessante, qualunque opinione si abbia intorno alla rilevanza teorica di questi studi; – libri scritti da persone che non affettano disprezzo per la scienza e, pure limitandosi ad un campo specialissimo, intendono portare il loro contributo ad un’opera più generale di cultura. Due trattano espressamente di storia finanziaria, descrivendo l’uno le finanze medievali della città di Douai e l’altro la trasformazione degli ordini tributari nel Tirolo dalla fine del medioevo alla formazione degli Stati assoluti. Il terzo – e l’unico scritto da un italiano – indaga le cause economiche della rivoluzione siciliana del 1647; – e l’ultimo finalmente èuna genialissima ricostruzione dei lineamenti di fatto della conquista nel diritto antico, ricostruzione dalla quale è prezzo dell’opera stralciare le risultanze precipue rispetto ai rapporti economici e finanziarii fra conquistatore e conquistato.
Il signor Giorgio Espinas[1] si è proposto il compito non facile di narrare la storia del regime finanziario del comune di Douai dal 1200 circa al 1400, attraverso al periodo fiammingo, quando il potere spetta alla aristocrazia degli scabini (1200 a settembre 1296), al periodo rivoluzionario delle lotte fra lo scabinato aristocratico e il popolo (settembre 1296 ottobre 1311), al periodo comunale sotto la supremazia francese (ottobre 1311 settembre 1368), ed al periodo di decadenza dell’autonomia comunale e dello sviluppo dei poteri sovrani della Casa di Borgogna (settembre 1368-1401). Noi non possiamo seguire l’A. nella sua minuta e ricchissima esposizione delle vicende finanziarie ed economiche della città di Douai in tutto questo periodo fortunoso. Ci basti il dire che esso culmina intorno alla lotta combattutasi nel settembre 1296 fra l’aristocrazia degli scabini e la borghesia popolare. Questa, malcontenta delle vessazioni dei patrizi, chiede l’aiuto dei Duchi di Borgogna e dei Re di Francia che si alternano nell’alto dominio della città. Alla quale dapprima è consentita una larghissima autonomia anche fiscale; ma poco a poco cresce l’ingerenza del governo, le spese di Stato aumentano ogni giorno e l’imposta assume carattere intieramente pubblico, cessando di essere comunale.
Durante il periodo comunale (1311-1368), che è il più interessante per la maggior fissità ed autonomia degli ordinamenti amministrativi e fiscali, l’imposta, che allora avrebbe dovuto essere fondamentale, era quella sulla fortuna e sul reddito: la taille. I cittadini dovevano fare la dichiarazione giurata dei loro beni, sia fondiarii che mobiliari, distinti il più spesso in due divisioni principali: l’«hiretage» e il «catel». La prima comprendeva tutta la proprietà immobiliare, costrutta o non, con le rendite perpetue, pecuniarie od in natura, che essa produceva o vi si riattacavano. Il «catel» era la proprietà mobile, comprendente i mobili propriamente detti; gli oggetti della economia domestica o mercantile, l’argento liquido e le rendite vitalizie. Durante il regime aristocratico, la taille dovea servire in mano agli scabini per tassare sovratutto la borghesia ed il popolo minuto; di qui il largo uso che ne è fatto in tutto il secolo XIII. Ma coll’avvento al potere del popolo, probabilmente le parti furono investite; almeno ciò si può congetturare dal tasso della taille nel 1302 che era di 2 soldi per ogni lira di valore capitale della ricchezza mobiliare, ossia del 10%; mentre la ricchezza immobiliare era tassata solo di 16 denari per ogni lira, ossia col 6.66 per cento. Era cioè tassata maggiormente la ricchezza mobiliare, posseduta specialmente dal patriziato. Si aggiunga che per ogni parte di fortuna valutata 50 lire, vi era una aliquota supplementare di 1 lira, ossia del 2 per cento, dando cosi all’imposta carattere di progressività.
L’aristocrazia ne dovette quindi essere malcontenta, e dovette sforzarsi di farla mettere in disuso, aiutata potentemente in ciò dal fatto che la valutazione delle fortune si compieva male, la riscossione era malagevole; ed insomma si trattava di un’imposta oppressiva e male distribuita. Così è che dopo il 1308 non si sente più parlare della taille.
I redditi indiretti della città in parte provenivano dal suo demanio fiscale ed in parte erano antichi dazi di consumo che per i concetti propri al medioevo avevano preso un carattere regalistico. Alcune erano specie di tasse per l’occupazione del suolo pubblico, come i mercati, le mura antiche, i prati fuori porta, ecc. Fra i dazi di consumo il più importante era il tonlieu o teloneum diviso in varie parti. Il «tonlieu del markiet» formava senza dubbio un diritto di entrata o di vendita per ogni sorta di merci o di oggetti di consumo portati per terra. I «menus tonlius» erano diritti d’entrata sugli oggetti in terra o in legno portati per terra o per acqua. Vi era il diritto di «muiage» sorta di patente sui negozianti di vino, e di «forage» sui negozianti che non facevano la loro dichiarazione annua. Vi si aggiungano i diritti di «stalaticum» o di pesi e misure, i diritti di «issue» o diritti sul passaggio a forestieri di immobili prima appartenenti a cittadini, i diritti di «cauchies» percepiti alle porte sulle vetture e carri, per la manutenzione delle strade. Tutte queste erano tasse ad aliquota mitissima; le quali appartenendo all’«hiretage» della città, erano percepite senza l’autorizzazione del sovrano.
Invece occorreva il consenso del sovrano per l’assise o maltôte che era dapprima un’imposta generale su tutte le vendite e divenne nel 1369 una imposta di consumo e di esportazione sul vino venduto al dettaglio od all’ingrosso, sui vini dei giardini e vigne per uso privato, sui grani venduti nella città od esportati fuori, sulla fabbricazione della birra, e su tutte le bevande con miele e senza, idromele ed altre. Sorta in origine per il pagamento del debito dalla città, rimane in seguito per far fronte a tutte le spese straordinarie. La aliquota ne doveva essere elevata: sul vino era in media nel 1260 da 1-7 a 1-10 del prezzo del liquido. Per le altre derrate alimentari il tasso, di 2 denari per lira, era molto meno elevato. In parte era un raddoppiamento dei dazi di tonlieu, con questa differenza che i diritti di tonlieu erano divenuti una quantità minima invariabile e fissata secondo i prezzi e le monete del passato, mentre l’assise poteva essere adattata alle condizioni del momento.
Le risorse straordinarie della città erano due: la «vinée» ed il «Debito». La vinée era una curiosa impresa di compra e rivendita di vino che la città esercitò fra il 1312 ed il 1320 per mezzo di quattro ricevitori che facevano venire il vino dalla Borgogna, dal Poitou e dalla Guascogna e lo rivendevano al minuto ed all’ingrosso per conto della città. In principio la città guadagnava bene: nel 1313-1314 in un periodo di quindici mesi i guadagni si elevarono a 2550 lire; ma durante 7 mesi del 1319 caddero a 38 lire; sicchè il Comune, giudicando l’operazione poco fruttuosa, «laissa le viner».
Il Debito pubblico era anche allora a breve od a lunga scadenza. Il debito fluttuante, detto «dette courant» o «dette du moeble» comprendeva i prestiti forzati senza interesse imposti agli abitanti della città, ovvero «a usures» contratti verso i Caorsini od i Lombardi. Il debito consolidato comprendeva le «rendite perpetue» garantite sul demanio fiscale della città e sulle entrate che facevano parte del suo hiretage, e le «rendite vitalizie» garantite sull’assisa. Le rendite perpetue erano vendute care e fruttavano appena dal 3-4 al 5%. Essendo emesse in piccole quantità e garantite sui redditi più sicuri dalla città, erano un investimento ricercato dalle opere pie, dai tutori di pupilli, ecc. Invece le rendite vitalizie erano capitalizzate più basse; e fruttavano fino al 20%; ma per tutto il periodo borgognone appena dall’8,33 all’11%.
Le spese – a cui tutte queste entrate dovevano servire – presentavano a Douai dei caratteri identici a quelli che offrono nelle altre città del Medio Evo. Esse non comprendevano nessuna parte economica o civilizzatrice. La funzione economica non esisteva od era limitata alla manutenzione delle strade, dei ponti e degli edifici urbani; quella civilizzatrice (istruzione pubblica), era assunta da associazioni religiose. La quasi totalità delle entrate aveva un doppio impiego: amministrativo, per spese di rappresentanza; militare, per le fortificazioni ed i gravami locali ed esteriori della guerra: guardia della città e spedizioni contro i nemici.
Come conclusione riportiamo il quadro delle entrate e delle spese della città dal 7 gennaio 1391 al 31 ottobre 1494 (in lire parisis).
Esercizi finanziari
|
Entrate |
Spese | Prodotto delle Assise |
Avanzo |
Disavanzo | ||
7 gennaio | 1391-7 febbraio | 1392 | 24.451 | 23.874 | 19.652 | 577 | – |
7 febbraio | 1392-6 marzo | 1393 | 22.210 | 21.766 | 20.133 | 544 | – |
7 aprile | 1394-6 maggio | 1395 | 27.665 | 28.758 | 20.872 | – | 93 |
8 agosto | 1398-7 settemb. | 1399 | 38.217 | 37.435 | 21.148 | 782 | – |
7 settemb. | 1399-7 ottobre | 1400 | 46.004 | 44.681 | 22.924 | 1.323 | – |
7 ottobre | 1400-7 novemb. | 1401 | 27.994 | 27.103 | 20.805 | 891 | – |
7 febbraio | 1405-7 marzo | 1406 | 34.624 | 25.688 | 18.556 | 8.936 | – |
7 novemb. | 1414-7 dicembre | 1415 | 32.224 | 34.225 | 12.517 | – | 2.001 |
7 gennaio | 1417-7 febbraio | 1418 | 21.837 | 29.217 | 8.846 | – | 7.380 |
1 novemb. | 1425-31 ottobre | 1426 | 26.425 | 29.356 | 17.451 | – | 2.931 |
» | 1427 | 1428 | 21.560 | 27.513 | 19.798 | – | 5.953 |
» | 1428 | 1429 | 24.856 | 26.735 | 19.872 | – | 1.879 |
» | 1429 | 1430 | 22.480 | 21.150 | 20.345 | 1.330 | – |
» | 1431 | 1432 | 25.441 | 28.321 | 20.688 | – | 2.880 |
» | 1436 | 1437 | 21.606 | 22.629 | 18.792 | – | 1.023 |
» | 1439 | 1440 | 25.518 | 30.233 | 17.838 | – | 4.715 |
» | 1444 | 1445 | 23.128 | 23.247 | 18.037 | – | 49 |
» | 1446 | 1447 | 32.235 | 34.481 | 18.029 | – | 2.246 |
» | 1450 | 1451 | 23.253 | 21.320 | 19.455 | 1.933 | – |
» | 1451 | 1452 | 25.059 | 22.128 | 18.193 | 2.931 | – |
» | 1452 | 1453 | 21.208 | 15.453 | 15.198 | 5.755 | – |
» | 1454 | 1455 | 27.156 | 26.089 | 19.728 | 1.067 | – |
» | 1455 | 1456 | 22.662 | 21.553 | 18.560 | 1.109 | – |
» | 1456 | 1457 | 23.768 | 19.242 | 19.338 | 4.526 | – |
» | 1458 | 1459 | 32.537 | 25.656 | 20.036 | 6.881 | – |
» | 1460 | 1461 | 31.381 | 26.056 | 18.544 | 5.325 | – |
» | 1461 | 1462 | 27.920 | 22.743 | 18.385 | 5.177 | – |
» | 1462 | 1463 | 26.055 | 19.737 | 17.878 | 6.318 | – |
» | 1464 | 1465 | 24.337 | 23.200 | 17.276 | 1.137 | – |
» | 1469 | 1470 | 26.412 | 18.550 | 16.898 | 7.862 | – |
» | 1478 | 1479 | 19.186 | 32.458 | 15.538 | – | 13.272 |
» | 1486 | 1487 | 16.693 | 18.815 | 14.446 | – | 2.122 |
» | 1493 | 1494 | 22.496 | 20.533 | 19.434 | 1.963 | – |
Il prof. Tullius R.V. Sartori Montecroce, insegnante di diritto all’Università di Innsbruck, aveva già nel 1895 pubblicato un primo contributo alla storia del diritto austriaco con uno scritto su la recezione del diritto straniero nel Tirolo (Uber die Reception der fremden Rechte in Tirol und die Tiroler Landes Ordnungem, Innsbruck, 1895). Ora egli pubblica un secondo contributo dedicandolo alla storia del sistema territoriale di imposte nel Tirolo, dall’imperatore Massimiliano I a Maria Teresa (1490-1740).[2] Periodo questo importantissimo, perché sotto Massimiliano I soltanto comincia a formarsi un regolare sistema di imposte locali, in conseguenza delle continue guerre da lui condotte, alle quali non bastarono i mezzi e gli aiuti straordinari a cui si aveva ricorso prima. Il Land libell del 1511 è la carta fondamentale del sistema tributario tirolese, e in esso possiamo scorgere gli inizi di quelli che sono ancora i moderni sistemi tributari. L’obbligo feudale dei quattro Stati, della nobiltà, del clero, delle città e delle giudicature, a fornire per la difesa del territorio un determinato contingente di soldati, è la base sulla quale si stabiliscono i sussidi che il Tirolo concede al Principe in denaro per le guerre esterne da lui condotte. Ne è la base, perché nel medesimo modo con cui prima i diversi Stati e paesi contribuivano a fornire i 5000 uomini che erano il contingente normale del Tirolo, così in seguito vengono distribuite le somme che gli Stati largiscono al Principe in sussidio per le sue guerre. Ma non ne è la giustificazione perché il servizio militare per la difesa del territorio era una prestazione feudale obbligatoria, mentre l’imposta pagata per le guerre esterne ha il carattere di un dono graziosamente concesso dagli Stati. L’imposta era di contingente fra i diversi Stati: i 5000 uomini venivano distribuiti in parti fisse fra gli Adel (nobiltà), Prälaten (clero), le Städten und Gerichten (terzo Stato). La nobiltà e il clero provvedevano poi a distribuire fra i loro membri il contingente sullabase dalla loro entrata totale e del domicilio del contribuente, cosicché per essi l’imposta aveva un carattere spiccatamente personale. Invece per il terzo Stato l’oggetto dell’imposta era la cosa singola valutata separatamente dalle altre; e l’imposta reale veniva pagata nel luogo rei sitae. Le terre e le altre sostanze imponibili venivano raggruppate in unità dette Feuerstatte, il cui valore nel 1551 era di 150 fiorini. Erano nelle valutazioni compresi anche i beni posseduti dagli stranieri, ed i redditi degli impiegati del Governo e delle provincie; esentandosi soltanto i minatori ed alcune comunità che aveano certi obblighi militari speciali. Il contingente del clero e della nobiltà da una parte, delle Città e Giudicature dall’altra era fissato una volta per sempre; e per evitare gli inconvenienti derivanti dal passaggio dei beni da uno Stato ad un altro, si supponeva che la loro situazione fosse sempre quella dell’anno 1500 principio questo solito ad adottarsi in quei tempi.
Questi i lineamenti principali del sistema tributario locale nel Tirolo all’inizio del periodo, la cui storia è scritta dall’A.; e forse il carattere più spiccato di questo ordinamento è la mancanza di privilegi tributarii per il clero e la nobiltà, mancanza dovuta all’influenza che i ceti degli artigiani e dei contadini ancora sapevano esercitare.
Sarebbe troppo lungo seguire l’A. nella chiara e diligentissima esposizione da lui fatta delle vicende storiche del sistema territoriale tributario del Tirolo. Ci basti in questo brevissimo riassunto dire che questa storia si può distinguere in due periodi: prima e dopo il 1573. Prima di quell’anno l’autonomia locale ancora vigorosa, la novità medesima dei sussidi dati volta per volta dagli Stati, la mancanza di una burocrazia centrale forte ed organizzata, la povertà del Principe, l’indebitamento crescente della Camera Regia mettevano il Principe in una specie di dipendenza verso gli Stati, i quali concedevano bensì i sussidi, ma non ponevano molto zelo nel fare riscuotere le somme concesse, sicché i contribuenti renitenti, specie nel Trentino e verso i confini italiani, erano numerosi ed ostinati. I residui sono sempre così elevati, e così grandi le difficoltà di far rientrare l’imposta che nel 1525 il Principe invita gli Stati a procedere essi medesimi alla revisione dell’imposta per mezzo di propri uomini di fiducia. È l’inizio dell’istituto dello Steuercompromissariats, delegazione degli Stati che sovraintende alla percezione dei sussidi straordinarii ed alla erogazione dei fondi per conto della Provincia. Coll’andar del tempo i debiti della Camera regia crescono talmente che, malgrado la concessione dei sussidi da straordinaria sia divenuta normale, le finanze si trovano in gravi distrette. Nel 1573 gli Stati consentono ad assumere il servizio degli interessi e dell’ammortamento di un debito regio di 1.600.000 fiorini, obbligandosi a pagare gli interessi e ad ammortizzarlo entro 20 anni, a patto che l’amministrazione delle imposte del Tirolo sia lasciata completamente ad essi. È il punto culminante dell’autonomia finanziaria del Tirolo. La quale si mantiene poi quasi intatta per mezzo secolo. Ma già nel 1626 l’Arciduca Leopoldo impone l’Ungeld, che era un’imposta sui consumi, senza richiedere il consenso degli Stati e l’opera sua è proseguita dal Canceliere Bienner, il quale rimette di suo arbitrio l’imposta di minuta vendita sul vino, incamera definitivamente l’Ungeld, istituisce l’imposta sulle carni e vorrebbe avocare tutta la materia delle finanze alla Camera Regia. La lotta prosegue fra gli Stati che vogliono conservare i loro privilegi ed il Principe che compie sempre nuove usurpazioni, favorito in ciò dall’inerzia degli Stati; i quali non riescono mai a condurre a termine la perequazione tributaria. In due modi il principe riesce a minare le autonomie provinciali, specialmente a partire dal principio del secolo XVIII: a) sminuendo l’importanza del diritto di voto delle imposte (Steuerbewilligungsrecht). Gli eserciti permanenti, rendendo l’imposta necessaria ogni anno, favoriscono questa tendenza, la quale nel 1722 si manifesta in un decennato di 65-70 mila fiorini all’anno per l’esercito. A poco a poco il governo fa radicare la consuetudine di un sussidio minimo, al disotto del quale gli Stati non possono discendere; b) riducendo l’autonomia dell’amministrazione delle finanze spettante agli Stati (Selbständige Stewer und Finanzverwaltung), per mezzo della nomina di un Commissionsactuarius, nominato dal Principe che avrebbe dovuto servire come segretario permanente della Commissione provinciale delle imposte. Dapprima gli Stati si oppongono; ma poi col consentire la nomina di autorità permanenti dette Activitat porgono il destro al Principe di crescere la propria autorità.
A tal fine cospirava altresì la situazione poco propizia delle finanze provinciali che presentavano dal 1711 al 1720 un’entrata media di 179-180 mila fiorini per provento dell’imposta fondiaria (nel 1721-40 più di 200 mila); di 22-23 mila fiorini per l’accisa sul sale, 2400 fiorini da entrate varie, e dopo il 1730 circa 5-6 mila fiorini della tassa sul vino. Ma la Provincia aveva nel 1714 un debito di 2.115.031 fiorini cresciuto nel 1732 a 2.411.853, e nel 1740 a 3 milioni di fiorini. Il carico degli interessi ragguagliava 125-130 mila fiorini, a cui aggiungendo le spese d’amministrazione della Provincia arriviamo a 162-168 mila fiorini. Quantunque si fosse cercato di economizzare molto negli stipendi (pagando ad es. il tesoriere generale solo 1500 fiorini all’anno, il segretario della Provincia appena 400 e così via), il margine fra le spese e le entrate era troppo piccolo per far fronte alle domande continue di sussidio del Principe, all’ammortamento del debito e ad altre spese non comprese nella cifra ora ricordata. Necessaria quindi si palesava l’opera della perequazione tributaria per procacciare nuove entrate. L’avea decretata nel 1740 prima di morire Carlo VI, ed avea rinnovato l’ordine nel 1746 e nel 1771-74 Maria Teresa, finché finalmente si compieva nel 1784. Con la perequazione l’imposta cessava di avere un carattere locale e diventava un’imposta levata con criteri uniformi a quelli del resto dell’impero; tramontando così, anche per la burocratizzazione di tutti gli organi locali, l’autonomia tributaria del Tirolo.
Questa, sommariamente, la tela della materia trattata dal professor Sartori Montecroce. Ma il rapido sunto non ha potuto dare se non una pallidissima idea della cura con cui l’A. ha studiato i documenti d’Archivio ed ha saputo egregiamente tracciare le vicende storiche degli istituti tributari del Tirolo.
Il signor Francesco Morsellino Avila ha compiuto un lodevole tentativo nello scrivere sulle cause della Rivoluzione del 1647 in Sicilia.[3] Quello dell’A. è, dicemmo, un tentativo. Basta paragonarlo con gli altri volumi di autori stranieri di cui è tenuto discorso nel presente articolo per vedere quanto più scarso ne sia l’apparato bibliografico, meno dirette le ricerche d’archivio e troppo frequenti i ricorsi a libri recenti di indole così generale da essere meno adatti del dovuto a fornire la documentazione di prima fonte che sarebbe sempre necessaria in lavori di questo genere. Né sappiamo persuaderci che negli archivi palermitani non si trovino documenti molto più ricchi di quello che si dovrebbe arguire da ciò che l’A. dice ad esempio nel Cap. II par. 2, sulla Finanza dello Stato Siciliano.
Ma l’autore deve essere incoraggiato a proseguire – sia pure con maggiore ampiezza di ricerche dirette e con maggiore critica delle fonti – in questi studi nei quali dimostra di possedere attitudini egregie. Innanzitutto il il suo discorso corre ordinato e chiaro. Discorre egli in paragrafi successivi dell’ordinamento politico, economico, doganale, cambiario dell’isola, dell’ordinamento finanziario della città di Palermo; e studia i «capitoli» in cui il D’Alesi riassunse le ispirazioni del popolo siciliano durante la rivoluzione del 1647, sì da mettere il lettore in grado di formarsi un’idea sufficientemente chiara delle tristi condizioni in cui il popolo si trovava sotto il dominio degli spagnuoli. In secondo luogo l’A. è immune dalla lebbra del preconcetto di teorie con le quali si vorrebbero spiegare tutti i fatti della storia. Egli è persuaso soltanto che la storia debba studiare la genesi dei fatti, ed investigarne le cause psicologiche e sociali. È il concetto della causalità che non è più controverso ed, a parte la difficoltà di applicarlo, non presta il fianco a critiche. Ma l’A. saggiamente non ha una propria dottrina da far trionfare intorno alla causa dei fatti storici; ed è perciò che può permettersi il lusso di descrivere i fatti senza contraffarli. Si aggiunga che l’A. ha voluto attrarre l’attenzione degli studiosi su un lato – quello economico – non abbastanza studiato della vita della Sicilia nel secolo XVII; e noi avremo ragioni sufficienti per lodarlo d’avere scritto un libro che, mentre fornisce notizie saggiamente ordinate, può dare argomento a lui e ad altri ad approfondire gli studi sulla storia dei fatti economici nella Sicilia.
L’ultimo libro di cui vogliamo parlare in questa rapida rassegna, non è un’opera di storia economica o finanziaria; ma di storia del Diritto internazionale.[4] Noi non ci fermiamo però sull’importanza sua dal punto di vista della storia del diritto per non entrare in argomenti che sarebbero estranei all’indole della presente rassegna; limitandoci a citare il seguente brano di una recensione del prof. Ruffini[5] che bellamente riassume l’idea informatrice delle indagini geniali e pazienti che il Lameire da anni prosegue: «Gli scrittori antichi di diritto internazionale intesi a gettare le basi dalla scienza, badano unicamente a mettere insieme un corpo di dottrine, composto per lo più di reminiscenze classiche e magari bibliche e di concetti filosofici, e appoggiato più sul diritto naturale, da essi appunto messo in voga, che non sul diritto positivo. Gli internazionalisti moderni guardano più al futuro che al passato, curanti più di prevenire gli abusi del diritto di conquista nei tempi avvenire che non di studiarne gli effetti nei secoli trascorsi. Egli invece si propone di studiare nelle guerre dell’antico regime i rapporti di diritto internazionale generati dalla conquista, e di chiarire i modi con cui la sovranità si spostava, esaminando gli effetti giuridici complessi e complicatissimi, così di diritto pubblico come di diritto privato, che nella vita reale, nella pratica hanno fatalmente tenuto dietro alle fortunose vicende dell’occupazione bellica; quando i confini dei due Stati belligeranti sono in continuo movimento, fluttuando e spostandosi incessantemente a seconda del successo di una carica di corazzieri o di una incursione di foraggiatori o di una punta di pattuglia. L’autore quindi vuole lasciar parlare i fatti stessi; proponendosi – com’egli dice immaginosamente – di raccogliere la teoria giuridica non sotto la penna dei pubblicisti, ma sotto quella degli intendenti, dei commissari di guerra, dei generali, dei sindaci e dei segretari comunali».
Per una fortuna singolare per l’Italia[6] il Lameire – che nel primo volume avea posto le basi dottrinali di tutta la trattazione successiva – nel secondo volume ha scelto come campo dei suoi studi il Piemonte durante le guerre della lega di Asburgo e della successione di Spagna, ossia durante il periodo 1690-1713, interrotto dagli anni di pace 1696-1703. Con una pazienza incredibile il Lameire ha percorso passo a passo tutto il Piemonte, ha rovistato gli archivi delle grandi città e dei paesi minuscoli e ne ha ricavato una massa stragrande di fatti poco noti ed interessantissimi. Qui noi ne vogliamo riassumere soltanto alcuni e più specialmente quelli che si riferiscono ai rapporti economici e finanziari tra le potenze belligeranti.
I più s’immaginano che nei secoli scorsi i paesi di conquista fossero abbandonati senz’altro all’arbitrio del nemico, il quale avrebbe levato imposte esorbitanti, requisiti raccolti ed angariate in ogni maniera le popolazioni soggette. L’impressione che si ricava dalla lettura del libro del Lameire è ben diversa. Non già che le truppe francesi[7] usassero molti riguardi: ad ogni momento si minacciano alle città conquistate le esecuzioni militari; come a Fossano il 13 luglio 1691 «sotto pena di far patire la detta città de rigori della guerra» (vol. II, pag. 69); od il giugno 1690 a Carignano, quando il tesoriere De Beausse con poco rispetto dell’ortografia e della sintassi italiane scrive: «Mi rincresce sig. di mandarmi che se non apportate domani 15 li denari che dovete a Nona dove campara l’Armata, sarete bruggiati doppo domani; à l’aviso, che do a luori altri signori, de quali sono il dev.mo servitore» (pag. 93). Così pure a Racconigi il 9 settembre 1691 il Consiglio comunale riceve avviso «di dover senza perdita di tempo pagar tutto il restante di da contributione, alla pena dell’esegutione militare e d’esser questo luogo saccheggiato» (II, 98). A Cavour ordine brutale di pagare in data 20 luglio 1704: «J’ay ordre de M. le duc de la Feuillade de vous avertir de vous rendre incessamment à la Pérouse pour traiter des contributions, et que si dans quatre jours vous ne prenez pas vos mesures auprès de luy, vous serez brùléz, c’est sur quoy vous pouvez compter. Je suis, messieurs votre très humble serviteur. Ganvis, commandant» (II, 271). Non sono certo dei complimenti codesti: ma in sostanza il principio adottato era quello del mantenimento delle imposte esistenti: le somme richieste corrispondendo quasi sempre alle imposte che i comuni pagavano diggià in ragione di tasso (imposta fondiaria), o di sale (che i comuni in Piemonte doveano comprare in una certa quantità fissa): ad es. lire 10.008 a Bricherasio nel 1692, lire 43.340 a Carignano nel 1690 e lire 41.915 nel 1706, lire 49 mila a Racconigi nel 1691, lire 122.406 a Savigliano nel 1691, lire 87.035 a Fossano nel 1706, lire 56.554 a Cherasco nel 1690, ecc. Le cifre, che precisano persino le unità, indicano esse medesime che si aveva avuto cura di verificare che cosa pagavano prima i comuni al Duca di Savoia.
Le novità principali, in fatto d’imposte, si riducevano alle requisizioni militari ed al bollo. In realtà le requisizioni e gli alloggi militari non erano cosa nuova, perché quando non vi erano le truppe di Francia, facevano altrettanto e peggio le truppe del Duca di Savoia. Ma non si può negare che le requisizioni fossero assai gravose, come risulta dalle rimostranze continue dei consigli municipali, uno dei quali, quello di Susa, durante la seconda occupazione francese (1703-1707) si lamenta ingenuamente di essere costretto a «far bollire la marmitta dei soldati della guarnigione» (II, 249).
Quanto alla carta bollata la pratica seguita varia a seconda dei casi: 1) talvolta l’occupazione francese lascia che le amministrazioni locali scrivano i loro processi verbali sulla carta bollata piemontese: 2) altrove è proibito l’uso della carta bollata piemontese e si esige la redazione dei processi verbali su carta libera; 3) in certi casi l’occupazione introduce la carta bollata francese, ora la carta normale, ora una carta «di fortuna» coi fiori di gigli neri; 4) e finalmente in alcuni casi si estende l’uso della carta bollata a fiori di giglio anche alle tappe d’insinuazione (II, 34-35).
Un fatto curioso si è che, durante la guerra di successione di Spagna, quando la Francia stringeva il Piemonte da un lato dalle alpi e dall’altro da Milano, sottoposto al nipote di Luigi XIV, l’impiego della carta bollata a fiori di giglio si verifica a Vercelli, a Biella, ad Ivrea e non a Susa ed a Saluzzo. Forse era più facile importare nelle città vicine l’organizzazione fiscale esistente a Milano che non mandare a Susa od a Saluzzo la carta bollata della generalità più vicina che era quella di Grenoble; e forse si temevano opposizioni da parte della Camera dei Conti. Il fatto, benché non spiegato, è interessante. Un altro fatto curioso che si verifica ad Ivrea (1704-1706) è questo: che gli atti registrati nelle tappe d’insinuazione che sono sotto la diretta sorveglianza dei commissari francesi sono su carta bollata ai fiori di giglio; mentre gli originali conservati negli uffici dei notai, i cui rapporti con gli occupanti erano molto meno frequenti, sono su carta bollata della gabella piemontese (II, 200-201).
Questa sovrapposizione dalle due organizzazioni fiscali, francese e piemontese, non è rara. Nel 1690 il Comune di Bibbiana nutre ed alloggia le truppe piemontesi e nello stesso tempo paga la contribuzione ai francesi (II, 54). A Cavour alla minaccia (4 luglio 1704) dei francesi «di saccheggio et fuoco» se non si consegna del fieno in conto della contribuzione, il Consiglio municipale risponde di aver ricevuto ordine dal Duca di Savoia «di non lasciar condurre alcuna benché minima parte di foraggio». Naturalmente i francesi si infuriano, e gli abitanti «in grandissima apprensione» abbandonano le loro case (II, 272). Talvolta i contribuenti, che hanno interesse a dichiararsi fedeli al Duca di Savoia per non pagare le imposte a nessuno dei belligeranti, si rifiutano a versare le somme stabilite dal Consiglio Comunale per ordine dei francesi; ed allora il Consiglio ricorre all’esercito d’occupazione per esserne aiutato. Così a Chivasso nel 1706 il Consiglio impetra dal Governatore francese «la licenza di havere dei soldati per mandare alle spese dei particolari renitenti et che negano di contribuere in danari la Capitatione» (II, 246-7). Alcuni Comuni, prima di pagare la contribuzione ai Francesi, hanno l’idea originale di chiederne licenza al Duca di Savoia. Così la città di Cherasco avvertita il 13 giugno 1691 di «aggiustar la contributione con il generale Intendente dell’armata francese senza perdita di momento de tempo con pericolo d’esser messa a sacco, sangue e fuoco» tergiversa alquanto, invia i ruoli delle imposte e frattanto chiede consiglio al Duca di Savoia, il quale avvertito «della chiamata contributione da Francesi, consente che la città paghi la Medesima» (II, 106-108). Un’altra volta il Comune di Bricherasio dovendo pagare una contribuzione ai Francesi vorrebbe far venire del vino di sua proprietà che si trova a Luserna, per venderlo e col prezzo acquetare il nemico. Ma Luserna è soggetta al Duca di Savoia; ed allora Bricherasio domanda al Duca il permesso di far venire il vino, alla qual domanda non solo il Duca consente, ma concede persino una scorta di «barbetti» (valdesi) i quali però a mezza strada si gettano sulle botti e le portano via. Storia bizzarra che dimostra a quali compromessi le parti belligeranti si adattassero (II, 51-2).
Dove il rispetto alla situazione finanziaria preesistente è maggiore si è nei cosidetti Paesi di Stato (Pays d’États), nei quali il sovrano non aveva burocratizzata tutta l’amministrazione civile e politica, e rimanevano ancora tracce della indipendenza e della autonomia antiche. Da noi l’unico paese di stato era il Ducato d’Aosta governato dal Consiglio dei Commessi, il quale in materia fiscale distribuiva le imposte; ed era verso il sovrano direttamente responsabile del «Donativo» da esso deliberato. Quivi l’occupazione francese conserva l’esenzione dall’uso della carta bollata, che il Ducato già possedeva sotto la casa di Savoia; quivi il Consiglio dei Commessi, radunato dinnanzi al comandante delle truppe francesi delibera che la taglia sia di 36 lire per «focage» fissandola cioè nella stessa cifra degli anni precedenti (II, 206-7). Per il sale, il Consiglio dei Commessi si adatta a riceverlo dai francesi purché sia «aussy bon que celluy qui se débitait icy avant la réduction et qu’il se vende au mesme prix»; altrimenti chiede di essere lasciato «dans le droit d’en faire prendre ou bon nous semblera» (II, 208). Siccome il governo francese bussava a denari, il Consiglio dei Commessi, geloso tutore delle «franchises, usages et Costume» che dal Re di Francia ancora recentemente erano state riconfermate, si adopera unicamente ad ottenere da una terza persona un prestito di 10 mila lire purchè il commissario del Re «s’obblige a proprio de les restituer» (II, 208).
Il rispetto alle consuetudini fiscali esistenti va fino a permettere che si continuino a pagare le tasse dovute ai signori locali, anche quando questi signori sono della Casa di Carignano, membri della famiglia regnante. In un processo verbale 31 magio 1706 contenente la convenzione fra il Comune di Carignano e l’intendente d’Esgrigny è stabilito che si devolvano al Re di Francia le contribuzioni prima dovute al Duca di Savoia; ma che continuino a pagarsi al Principe di Carignano i diritti dovutile «les, sommes qui luy sont dues pour la taxe et l’insinuation» anche se si tratta di diritti che si potrebbero considerare regalistici, come il prodotto della cancelleria delle tappe d’insinuazione (II, 284).
Le novità più importanti in materia fiscale sono le seguenti:
a) Affermazione del principio dell’uguaglianza di tutti i ceti dinnanzi all’imposta. In un tempo in cui era in Piemonte vigente l’esenzione per i beni del clero e della nobiltà dal tasso, affermare che tutti i ceti doveano pagare le contribuzioni, sia pure di guerra, era audace. Questa audacia l’ebbe Catinat in una decisione che ha tutti i caratteri di una decisione generica. Avendo nel 1690 la città di Cherasco, per poter pagare la contribuzione ai francesi, preteso che «tutto l’intero registro concorresse, tanto dei patrimonnii che abbazie, priorali et beni, ciò che di chiesa etiandio non cattastrate» i reverendi Padri Cassinesi rifiutarono di pagare e chiamarono a giudice il generale di Catinat. Questi risponde che tutti debbono pagare «senza una accessione»; ed anzi esorbitando dal quesito postogli, dà una soluzione generale per tutti i casi di questo genere: «l’istesso pure senza replica si estende nelle beni feudali, vecchi et novi et diqual sicciaglia immunità» (II, 109-110). La decisione di Catinat sembra formasse la regola generale, poiché così pure si procede a Fossano nel 1691 (II, 21), a Carmagnola nel 1691, dove il Consiglio comunale richiede il governatore di «prestar il civico brachio della luoro autorità compellendo anche li signori ecclesiastici et altri pretesi immuniti» (II, 80-1), ad Asti, dove il clero molto graziosamente si sottomette ad un prestito, che si direbbe patriottico, di guerra (II, 133), e ad Ivrea nel 1204. Nei paesi di Stato la regola pare non si sia potuto applicare, poiché vediamo che ad Aosta nel 1705 l’intendente accorda al capitolo della cattedrale la rinnovazione del privilegio goduto sotto il regime piemontese, di ottenere una certa quantità di sale ad un prezzo più basso di quello comune (II, 214). Ma forse si tratta qui di un caso specialissimo.
b) Introduzione di speciali imposte di guerra. Oltre alle requisizioni ed alloggi militari, abbiamo una singolarissima imposta, consueta a quei tempi: il prezzo di riscatto delle campane. A Carmagnola gli ordinati del Consiglio municipale in data 18 luglio 1691 fanno allusione al riscatto delle campane della città che, secondo la consuetudine, dovevano appartenere all’artiglieria dell’esercito d’occupazione. «Hanno proposto li signori sindici esser spirato il termine stabilito col sig. dell’artiglieria di S.M. Xma per il pagamento del residuo della somma convenuta per le campane della città nella conquista di questa Piazza» (II, 78). A Vercelli subito dopo la resa avvenuta il 20 luglio 1704, i francesi pretendono «la devolutione ad essi di tutte le campane come altressì de tutti gli stagni, bronzi, rami, ottone et piombi de presente Città et habitanti». Dopo alcune trattative la città prende l’iniziativa del riscatto, pregando il nemico ad «accetar quella somma che sarà compatibile con le forze di questa povera città massime nel stato che si ritrova dai presenti emergenti di guerra, et ciò a fine et effeto anche di non lasciar le cose alla discretione, havendo a tal effeto di già praticato l’aggiustam., et quando come stabilita la pretentione di tal devolutione nella somma di due mila et cinquecento luigi d’oro» (II, 146). La Città di Chivasso, presa il 29 luglio 1705, riuscì a cavarsela a più buon mercato: con 800 luigi d’oro riscattò tutte le sue campane e bronzi (II, 242).
c) Introduzione di speciali tasse di guerra. Il riscatto delle campane serviva a mascherare in realtà una contribuzione di guerra senza alcun correspettivo da parte del conquistatore. Invece qui si tratta di una tassa che le città occupate pagano volontariamente per ottenere un servigio particolare dall’esercito nemico. La città di Racconigi il 27 giugno 1706, quando non era ancora stata occupata dai francesi, avendo saputo che le truppe nemiche occupavano di già Carmagnola e temendo di essere posta a sacco, si indirizza al Duca De La Feuillade e chiede due salvaguardie. Il Duca chiede un diritto fisso di quattro luigi d’oro per la patente di salvaguardia ed un luigi d’oro in più per salvaguardia e per giorno. Sembra che il Consiglio comunale non abbia trovato la tariffa eccessiva, perché dà la sua approvazione unanime al contratto che i suoi inviati hanno conchiuso col Duca De La Feuillade (II, 281).
d) Consuetudine dei donativi (pot de vin) ai maggiorenti dell’esercito nemico. Per essere trattati bene era buona norma da parte delle città conquistate di propiziarsi i segretari particolari dei generali e degli intendenti francesi. Il 9 settembre 1691 la città di Fossano delibera di regalare 3600 lire ai segretari del maresciallo di Catinat e dell’intendente Bouchu (II, 73). Il comune di Bricherasio per avere il permesso di vendere il suo vino si vede costretto a regalarne una parte (una volta del vino in genere, ed un’altra dieci carra specificatamente), al Marchese di Herleville, governatore di Pinerolo (II, 51). A Crescentino, il Consiglio comunale, minacciato il 28 giugno 1705 di saccheggio e di esecuzione militare, ad evitare tanta jattura decide di inviare venti luigi d’oro al segretario dell’Intendenza generale di guerra per averne la protezione (II, 232). A Susa per ammansare il governatore. M. De Masselin, la Città fa venire delle stoffe di damasco a grandi fiori da Torino del prezzo di lire 256 e le regala alla sua signora (II, 251).
Queste le principali caratteristiche del regime fiscale francese in Piemonte. Alquanto diverse quelle dell’occupazione piemontese nel territorio allora francese del Delfino posto sul versante italiano delle Alpi e che comprendeva, fra i principali comuni, quelli di Bardonecchia, Exilles, Feuestrelles, Oulx, Pragelato, ecc.
Malgrado la promessa solenne di non cambiare nulla nel regime fiscale esistente (II, 304), il Duca di Savoia, com’era naturale, sostituisce subito alla carta bollata dai fiori di griglio e dal delfino della generalità di Grenoble la carta bollata piemontese (II, 311). Anche per il sale, il Duca «voulant bien décharger les communautez et les habitans de la dite vallée de Pragelas du pesant fardeau du prix excessiff qu’ils payoient du sel, ordonne pour cet effet qu’à l’avenir le sel soit distribué tant en gros qu’en detail selon la volonté des dites communautez, ed habitans au prix seulement de 4 sols 6 deniers la livre, poids et monoie de Piémont» (II, 328). Abolisce pure tutti i dazi d’entrata e d’uscita fra le valli del Delfinato ed il Piemonte, conservando quelli esistenti fra le valli anzidette e la Francia. Abolisce i diritti di controllo e del centieme denier e vi sostituisce i diritti di insinuazione e bollo nel modo usato in Piemonte. Conserva soltanto la taglia reale a seconda di ciò che s’era praticato prima (II, 329-330). Malgrado il buon volere del Duca i nuovi sudditi non sono contenti e protestano che «il y a trop d’impôst, et c’est ce qui fait le malheur de votre pauvre peuple» (II, 336).
Si potrebbero continuare a spigolare nel volume del Lameire i particolari interessanti, ma quelli ora citati possono bastare a dimostrarci questa ricchezza d’informazione l’A. sia riuscito a ricavare dagli archivi ignorati e talvolta negletti dei villaggi e delle cittadine del Piemonte. Se qualcuno volesse studiare quegli archivi, senza limitarsi allo specialissimo punto di vista del Lameire, probabilmente scoprirebbe tesori di notizie curiose intorno all’economia ed alla finanza dei tempi andati. L’opera è tale che dovrebbe tentare gli studiosi di buona volontà.
[1][1] Georges Espinas, Les finances de la Commune de Douai, des origines au XVe siècle, Paris, Alph. Picard et Fils, 82, rue Bonaparte, 1902.
[2] Dr. Phil. et jur. Tullius R. V. Sartori Montecroce, Professor der Rechte an der Universitat in Innsbruck. Beitrage zur Oesterreichischen Reichs und Rechtsheschichte II. Geschichte des Landschaftlichen Steuerwesens in Tirol, von K. Maximilian I, bis Maria Theresia. Innsbruck (Varlag der Wagner’schen Universitats buchhandlung, 1903).
[3] Francesco Morsellino Avila, La genesi della rivoluzione del 1647 in Sicilia. Palermo, Stab. Tipo Lit. Era Nova, 1903.
[4] Irenee Lameire, Théorie et pratique de la Conquête dans l’ancien Droit. (Étude de droit international ancien). I Introduction, p. 84, Paris, Arthur Rousseau, editeur, 1902. – II Les Occupations militaires en Italie pendant les guerres de Louis XIV, pp. VIII/400, ibid, 1903.
[5] Francesco Ruffini, Teoria e pratica della conquista del Diritto antico. A proposito di alcuni recenti scritti di Irenee Lameire (Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XXXVIII). Torino, Clausen 1903. A questa larga recensione ed al libro medesimo rimandiamo il lettore desideroso di più ampie notizie sull’opera del Lameire.
[6] La scelta dell’autore non è però dipendente dal puro caso o dalle predilezioni singolari dell’autore, ma da una vera elaborazione storica e scientifica. L’autore avendo voluto studiare le guerre di conquista, ha dovuto eliminare tutte le guerre che erano infette di quello che il Lameire chiama precarietà. «La quale può derivare – citiamo ancora il Ruffini – da tre fonti principalmente, e cioè o dal vincolo feudale finchè esso conserva importanza politica, o dalla egemonia imperiale così persistente in tanti paesi come è troppo noto, o dalle pretensioni a una medesima sovranità di entrambi i belligeranti». Escluse per questo motivo tutte le guerre imperiali, quelle degli stati tedeschi tra di loro, le guerre dell’Inghilterra contro la Francia, le imprese di conquista in Italia da Carlo VIII a Luigi XII, a Francesco I, a Enrico II, a Luigi XIII, il campo rimane molto limitato; e per l’Italia si restringe alla guerra della Lega di Asburgo e alla guerra per la successione di Spagna, durante le quali la Francia ed il Piemonte lottavano tra di loro come veri Stati indipendenti, senza nessun carattere di precarietà. Ed il secondo volume del Lameire, di cui qui discorriamo, tratta in una prima sezione delle occupazioni francesi in Piemonte e in una seconda delle occupazioni piemontesi nel territorio allora francese del Delfinato posto sul versante italiano.
[7] Dell’occupazione piemontese nel Delfinato si parlerà di poi.