Opera Omnia Luigi Einaudi

Di alcuni scatoloni vuoti correnti nell’economia agraria italiana

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Di alcuni scatoloni vuoti correnti nell’economia agraria italiana[1]

«I Georgofili» (Firenze), serie VII, vol. IV, 1957, dispensa I-II, pp. 32-44[2]

Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1957, pp. 242-256

 

 

 

Col titolo «Di alcuni problemi odierni dell’economia agraria italiana» ho detto il 3 marzo del 1957 il discorso inaugurale del 204° corso dell’Accademia dei georgofili di Firenze. Riproduco integralmente il discorso, che reputo, per la sua chiara inutilità, appropriato anche alla presente effemeride.

 

 

Il presidente dell’accademia ha voluto cortesemente ricordare che già altra volta ho avuto l’onore di dire il discorso inaugurale dell’anno in questo antico glorioso sodalizio. La prima volta fu il 6 dicembre del 1914; e sono passati più di quaranta anni. Allora cercai di contrastare una tesi ancor oggi divulgata: che le guerre abbiano origine in contrasti di interessi economici. Oggi ripeterò alcune, che per essere da me reputate verità, non mi sono stancato mai di riaffermare; essendo persuaso che la figura retorica della ripetizione sia una delle pochissime armi consentite agli studiosi per combattere l’errore.

 

 

Ripeterò dunque oggi la critica di alcuni scatoloni vuoti ovverosia parole magiche, che hanno gran voga nel momento presente in Italia e compiono opera di persuasione a legiferare dannosamente, laddove se al vuoto si sostituissero parole di sostanza, molto bene si potrebbe conseguire sia col non fare – e sarebbe il più delle volte – sia col fare acconciamente, cosa più ardua e perciò da tentare più raramente e con prudenza somma.

 

 

Sceglierò, come è naturale in questa casa, problemi attinenti all’economia agricola. E, prima, del ritorno alla terra in genere ed alla montagna ed all’alta collina in particolare. Diligenti inchieste hanno dimostrato che la montagna si spopola, che assai poderi sono abbandonati dai coloni, malcontenti della quota di prodotto ad essi offerta dal contratto, dalla consuetudine o dalla legge; e che parecchi altri poderi sono abbandonati dai proprietari medesimi che, pur disponendo del ricavo totale della terra, sono mal soddisfatti a causa dei tributi gravosi e della tenuità dei prezzi correnti sul mercato. L’abbandono, che è fatto degno di studio, è senz’altro dai più reputato, quasi per definizione, «il male» e si invocano rimedi di riduzione di imposte, di mutui di favore, di sussidi per trasformare e perfezionare le culture, di incoraggiamento al passaggio della terra dai maggiori ai minori proprietari e quindi dalla conduzione a colonato o mezzadria o fitto alla conduzione del proprietario diretto coltivatore, di istituzione di cooperative per la trasformazione e la vendita dei prodotti e per l’acquisto di sementi e concimi, senza pagamento di taglia ad intermediari. Ma i rimedi specifici non giovano, perché le riduzioni o le soppressioni di imposte sono inette a creare il reddito che, se esiste, deve essere assoggettato a tributo secondo le regole comuni; perché il credito è dannoso là dove difettano gli investimenti proficui; perché la piccola proprietà non ha in sé alcuna virtù atta a fornire l’aumento di reddito necessario a trattenere gli agricoli in terreni disadatti. In verità, la premessa medesima che l’abbandono della terra sia il male è erronea. Gli uomini non sono nati per la terra, ma la terra deve soddisfare ai bisogni degli uomini. Ogni qualvolta, contemplando dall’alto un fondo di valle o un costone montano ben esposto al sole, ho visto quei minutissimi brandelli di terra coltivati a segala, ad avena o ad orzo colorarsi di giallo dorato in fin d’agosto ho provato uno stringimento al cuore pensando alla fatica durata dal montanaro per così miserabile frutto; e sempre mi rallegrai quando, in prosieguo di tempo, qua e là vidi nascere e poi moltiplicarsi le chiazze di terreno abbandonate, segno che i proprietari avevano cercato e trovato maniere di vita più confacenti ai crescenti bisogni e desideri. Le terre, e non solo quelle della montagna e dell’alto colle, ma pur le migliori della bassa collina e della pianura dovranno rassegnarsi ad essere coltivate da un numero decrescente di uomini. La proporzione di circa il 40 per cento che dicesi occupata in Italia nei lavori attinenti alla terra, non potrà ridursi a quel 13 per cento, che pure si legge bastevole negli Stati uniti e bastò durante l’ultima guerra e nel primo dopoguerra a salvare dalla fame decine di milioni di uomini nelle più varie parti del mondo; né potrà scemare tanto per la maggiore diffusione delle culture arboree, orticole, industriali non adatte in tutto all’uso del macchinario; ma par certo che il dedicare il 40 per cento della popolazione lavoratrice alla coltivazione della terra sia un manifesto spreco della più preziosa fra le ricchezze naturali: l’intelligenza e il lavoro dell’uomo.

 

 

Par certo altresì che l’ossequio reso senza riserva veruna alla piccola proprietà sia frutto di stortura magica. Non so se un giorno qualcuno oserà giustificare l’incitamento quotidiano che oggi si fa allo spreco di capitale e di lavoro a sedicente prò del piccolo e del minuto; laddove non si innalza l’uomo piccolo, ma lo si danneggia incoraggiando l’uso dello strumento, del mezzo, dell’impresa agricola o commerciale od industriale piccola, all’infuori dei casi nei quali lo strumento piccolo è il più adatto ad ottenere, a parità di sforzo, il risultato massimo. A Dio piacendo, in tutti i rami della umana operosità, e nel campo agricolo in particolare, è serbato all’uomo piccolo e mediocre un luogo a lui appropriato, siffatto cioè da consentirgli di ottenere un reddito, il quale, fatta ragione agli svantaggi ed ai vantaggi proprii della sua maniera di vivere, non sia diverso da quello offerto ai suoi pari addetti ad altre opere; né sembra probabile che nella coltivazione dei fiori, degli orti, dei giardini di agrumi, nella cultura della vigna e dell’olivo, il luogo del coltivatore diretto sia in Italia per venir meno; ma non viene meno del pari, ed anzi cresce in tutti i paesi del mondo, là dove non si è perduta la nozione della verità che per far vivere bene gli uomini occorre produrre molto ed a basso costo, la tendenza all’impiego di macchinari ognora più complicati e potenti e quindi, necessariamente, ad adattare la estensione delle imprese agricole alle esigenze tecniche, ampliandone o restringendone la superficie in modo da raggiungere l’optimum. E neppure giova illudere sé e gli altri immaginando un altro scatolone vuoto, quello dei piccoli contadini lavoranti uniti in cooperative in superficie vaste ed ognora più vaste, a simiglianza dei centri agricoli-cittadini che si racconta fioriscano in lontane contrade; ma il racconto ha termine nel giorno in che i contadini esasperati dalla nuova specie di schiavitù mettono i centri a ferro ed a fuoco e tra loro nuovamente e malamente si spartiscono la terra. Lo scatolone vuoto delle cooperative si può riempire, sì; ma di fede, di sacrificio, di entusiasmo da parte di taluni apostoli; che in passato si chiamarono Prampolini, Buffoli, Morandi, Baldini, Massarenti e qualcuno di essi vivente conosco ed amo; ma quel vuoto non si riempie di circolari, di regolamenti, di commissari governativi, di delegati sindacali o simili carrieristi.

 

 

Eppure, troppa gente, attratta dalla magia delle parole, che fanno confondere la piccola impresa, il piccolo podere, la piccola proprietà, il piccolo artigianato col vantaggio dei più, si affanna tutto dì a creare a forza piccoli proprietari, anche e forse sovratutto là dove per le imprese piccole non v’ha avvenire e, con spreco del danaro di quei che lavorano a bassi costi, si industria a proteggere ed incrementare coloro i quali sono dannati a lavorare a costi alti. Le parole magiche creavano un tempo i processi alle streghe ed i giudizi di Dio; oggi, e dobbiamo dircene fortunatissimi, si contentano di distruggere ricchezza e provocare miseria.

 

 

Non dirò di quel che si sta facendo per limitare il latifondo; lotta per ora combattuta con un dispendio, del quale si legge avviarsi verso il milione di lire ad ettaro. Ammiratore dei metodi indiretti, avrei desiderato, al fine di ridurre a poco a poco il latifondo, che è quello nudo, privo di alberi e di case, si adoperasse meglio lo strumento antico dell’imposta sul reddito ordinario invece che su quello effettivo, imposta che premia l’agricoltore buono e multa quello inerte o incapace e lo danna, più o meno presto, a vendere. Ed avrei desiderato anche fossero aboliti tutti i tributi, qualunque ne sia la denominazione, i quali colpiscono i trapassi della terra a titolo oneroso ed oggi frastornano, nonostante siano stati ridotti a meno intollerabile misura, il passaggio della terra dai meno capaci ed operosi ai più periti e volenterosi coltivatori. Con l’uso, che dovrebbe essere pieno, severo e durevole, dei due strumenti, si sarebbe dato impulso altresì alla lotta contro una particolare specie di latifondo, quello frazionato in minute particelle, forse non meno esteso di quello più conosciuto perché ampio, ed altrettanto male coltivato e poco produttivo. Ma della lotta contro il latifondo minuto, da condurre in primo luogo con la abolizione dalle radici di tutti i tributi sui trapassi a titolo oneroso e con la assunzione, a spese degli uffici catastali, dei lavori di ricostituzione dei poderi oggi dispersi in decine di frammenti, vero pulviscolo inutilizzabile di terra, ne sentii parlare, durante le mie peregrinazioni attraverso l’Italia rurale, una sola volta, con parola mossa da lunghi e sino allora non riusciti sforzi all’uopo durati, da un sindaco della Liguria, regione particolarmente afflitta dal vizio della polverizzazione della terra.

 

 

I riformatori, resi frenetici dalla urgenza di dare subito corso ad aspettazioni di gratuite rapine a danno della roba altrui, non contenti della grande ed ardua impresa della riforma fondiaria, vi hanno innestato una riforma dei contratti agrari, che tutta si riduce alla proclamazione del diritto di insistenza perpetua dei fittavoli, dei mezzadri e dei coloni parziarii sui terreni oggi da essi coltivati; perpetua, nessuno potendo supporre che, al termine del lungo periodo fissato per il ripristino, per un attimo, della libertà di escomio senza giusta causa, non intervenga un provvedimento legislativo di proroga. Il diritto perpetuo di insistenza è integrato dal diritto di prelazione del coltivatore per l’acquisto del fondo in caso di vendita; e dalla fissazione di canoni di fitti equi, ossia fissati d’autorità.

 

 

Non ripeterò le osservazioni usuali sulla inutilità di proibire escomi per la grande maggioranza dei coloni anche meno che mediocri, escomi i quali suppongono uno stato di pazzia nei proprietari, immaginati impazienti di cadere nel peggio, e sulla necessità di consentire libertà assoluta di sbarazzarsi dei pochi che si rivelino, fattane esperienza, pessimi coltivatori, cattivi padri di famiglia e distruttori dei poderi, per i quali nessuna commissione e nessun giudice riuscirà mai a configurare gli estremi della giusta causa di licenziamento. Non ripeterò osservazioni divulgate sul gravissimo ostacolo che sarebbe posto dalle leggi vincolatrici ad utili frazionamenti della proprietà ed ai trapassi della terra dai proprietari incapaci – di solito figli e nepoti e discendenti neghittosi o distratti o disamorati dei creatori di imprese costrutte con fatica ed intelligenza durante una intiera vita – ad altri atti a far prosperare la terra; frazionamenti e trapassi che l’uso del diritto di prelazione, annunciato a suon di diffide per atto d’usciere, basterebbe a mandare a monte; ogni trattativa, per riuscire, abbisognando di segretezza e di rapidità. Non ripeterò che il concetto del fitto equo, come del prezzo equo, è uno scatolone vuoto, se non coincida con quello del prezzo di mercato in libera contrattazione fra un venditore disposto a vendere ed un compratore, fornito di mezzi di acquisto o del credito all’uopo occorrente, e disposto parimenti all’acquisto. Non ripeterò le verità ovvie, perché esse sono frutto del buon senso e dell’esperienza; e buon senso ed esperienza sono derrate non gradite ai frenetici di riforme, ed ai bisognosi del fare, pur di fare, e del far presto, pur di non indugiarsi a guardare, per la tema di parere immobili, ai probabili risultati di quel che si fa.

 

 

Dirò invece che gravemente si calunnia il medioevo, quello comunemente descritto come il più buio degli evi medi, quello dei secoli innanzi al mille; quando si osa paragonare talun istituto di quel tempo, come la enfiteusi perpetua e la servitù della gleba, alle modernissime conquiste dei diritti di prelazione, della giusta causa, della tutela delle migrazioni interne, dell’imponibile di mano d’opera e simiglianti strumenti di degradazione della terra e dell’uomo che la coltiva.

 

 

La enfiteusi perpetua, non riscattabile, non obbligatoria per legge, ma consigliata dalla convenienza dei domini e dei coloni, che invano auguro da tempo sia ristabilita in Italia, era istituto prezioso di avanzamento economico e sociale, perché liberava il coltivatore dall’obbligo e dalla malvagia tentazione di possedere il capitale necessario all’acquisto della terra e lo persuadeva e direi quasi costringeva a dedicare lavoro e risparmio non al vano orgoglio di ampliare il proprio possesso ma al fruttuoso sforzo di migliorarlo. I moderni istituti della giusta causa e del diritto di prelazione creano invece le premesse per l’instaurazione di un odio irrazionale inestinguibile fra il proprietario, privato del diritto di disporre della cosa sua, salvo defatiganti procedure amministrative e giudiziarie, ed il colono, il quale, sotto l’usbergo del suo diritto di insistenza e di quello di prelazione, ognora pensa ai mezzi più opportuni per cacciar via di seggio il proprietario nominale. Sicché i due, che sarebbero, nei consueti rapporti umani, tolleranti l’uno verso l’altro e disposti a, pure umani, ragionevoli compromessi, diventano sospettosi ed intenti solo a procurare il maggior danno al socio, per la speranza di conquistare o riconquistare un fondo depauperato dalla reciproca invidia. Laddove l’enfiteusi medievale creava l’interesse nel colono ad aumentare il prodotto, per godere tutto il sovrappiù oltre il canone, se questo era in derrate e per godere in aggiunta, se il canone era stilato in danaro, i frutti della lenta secolare degradazione del valore della unità monetaria; la giusta causa e il diritto di prelazione creano nei coloni e nei proprietari odierni l’interesse a persuadere l’altra parte ad abbandonare per disperazione il fondo, interesse che si crea medesimamente in ambi i casi degradando la terra e persuadendo così alla fuga colui che prima perde la speranza di farla sua. Laddove l’enfiteusi medievale consentiva, indipendentemente e disgiuntamente, ad ambo le parti la vendita del canone da parte del dominio e quella del diritto utile da parte dell’enfiteuta, gli istituti sedicenti moderni della giusta causa e del diritto di prelazione difficultano i trapassi, allontanando gli acquirenti con lo spettro di doppie contrattazioni contemporanee e congiunte, con pagamento di due prezzi, l’uno per l’acquisto della proprietà nominale del fondo dal domino e l’altro, per la liberazione dal diritto di insistenza del colono, fatto esigente dalla necessità di ottenere una sua rinuncia. Laddove il medievale servo della gleba riusciva, col sudato risparmio sul supero del prodotto totale oltre il canone dovuto al proprietario, a riscattare non troppo di rado la piena libertà della propria persona, e ad emigrare, garzone od artigiano, in città, quando non avesse avuto interesse a rimanere sulla terra; il colono odierno rimane legato alla terra dalla speranza di far sua una cosa che, impoverita, lo ridurrà a condizioni di vita inferiori a quelle che avrebbe goduto senza il miraggio della vana conquista.

 

 

L’infantilismo sociale, oltre ad assumere, come già dissi, ad ideale universale un fatto, la piccola proprietà, di convenienza economica eventuale, crede di compiere opera laudabile, legiferando altresì sui tipi di conduzione della terra; e naturalmente, assume ad ideale uno solo dei tanti tipi di conduzione, quello del coltivatore diretto su terra propria; dimenticando così l’insegnamento dei maggiori dei nostri economisti agrari, dai georgofili toscani, che pur si chiamavano Sismondi, Lambruschini, Ridolfi, Capponi ai grandi lombardi che si nomavano Carlo Cattaneo e Stefano Jacini. Apprendemmo da questi sommi che la divisione dei compiti fra proprietari, i quali conservano la terra ed attendono alle migliorie fondiarie di costruzioni, di strade poderali, di sistemazione dei terreni, di apprestamento dei canali irrigatori, di piantagioni arboree; fittaioli, i quali offrono, insieme con le scorte vive e morte e con gli ammegliamenti a breve scadenza di concimazioni e di sementi e di rotazioni, sovratutto la diuturna opera direttiva e organizzativa; e lavoranti a tempo fisso od a giornata sicuri di un reddito sempre più elevato, grazie anche alla forza combattiva delle loro leghe; può, in circostanze determinate di insediamento e di cultura, là dove le esigenze della buona coltivazione e la convenienza di investimenti accentrati di capitali in costruzioni rurali, in impianti di irrigazione e di energia, impongono limiti minimi non esigui alla estensione del fondo, può essere l’optimum, nel quale il prodotto totale della terra diventa un massimo e sono massime le quote spettanti ai diversi collaboratori. Ma, in altro clima economico-agrario, là dove il contratto di fitto potrebbe condurre alla rapina della fertilità naturale od artificiale immagazzinata nella terra ed alla degradazione delle piante arboree, frettolosamente sfruttate, può darsi che il massimo della convenienza si ottenga invece con il contratto di mezzadria; dove il consenso dei due soci è necessario e, dove non essendo le innovazioni urgenti né imponenti, i metodi di conduzione devono mutare lentamente, con vantaggio delle due parti e della collettività. Ma là dove non è necessario l’impiego di macchinario costoso, o questo non può essere utilizzato, con margine di utile, in spazio troppo ristretto o reso malagevole da un’alberatura troppo fitta; e là dove la cura attenta nei giardini di agrumi, nei frutteti, nelle vigne e negli orti produce i miracoli proprii dell’occhio del padrone, l’optimum economico si raggiunge con la conduzione diretta del proprietario coltivatore. Infine, il possesso di un appezzamento, sia pur modesto, di un ettaro, di mezzo ettaro di un quarto di ettaro può essere, astrazion fatta dal tornaconto economico, socialmente opportuno nelle vicinanze delle città, dei borghi e degli stabilimenti industriali affinché il bottegaio, l’artigiano, il professionista, l’impiegato, l’operaio posseggano un terreno attorno alla casa abitata dalla famiglia, nel quale trovino acconcia piacevole occupazione i vecchi e le donne, divertimento i bambini ed i ragazzi; dove perciò si possono compiere, quasi senza costo allevamenti minuti di animali di cortile, talvolta di una mucca o di qualche pecora da latte; ed il capo famiglia è attratto a rimanere in casa nelle feste e nelle ore libere dal lavoro quotidiano; e nei tempi di crisi industriali, è aiutato non di rado a superare i momenti difficili di mutazioni non agevoli da una occupazione all’altra. Chi può noverare tutti i tipi di conduzione della terra che la vita, così diversa e così ricca, come noi sappiamo essere nella nostra varia patria italiana, ma come fondatamente si può presumere sia nella più parte dei paesi del mondo, offre all’osservatore; ed ogni giorno rinnova e ricrea in maniere sempre nuove e inopinate?

 

 

Impervi alle lezioni dell’esperienza, persuasi che la via buona alla salvezza sociale sia esclusivamente la piccola proprietà diretta coltivatrice, troppi suonano le campane a morto per ogni altra maniera di conduzione; e proclamano la fine ineluttabile fatale della mezzadria e del fitto che si affermano incompatibili con le esigenze e gli ideali dei contadini, i quali, forti della certezza di rimanere, senza pagamento di un prezzo, proprietari della terra da essi, da tempo o per accidente momentaneo, coltivata, non vorrebbero più lavorare sulla terra altrui. In verità, di cosiffatte esigenze ed ideali necessari e fatali nessuno ha sentito parlare se non per bocca dei facili promettitori; ma fa d’uopo riconoscere che poiché il mondo non è mosso, come da molti si crede, dagli interessi, ma dalle idee; e poiché le idee, le quali muovono e fanno agire gli uomini, non è certo siano sempre quelle feconde, anzi non è piccola la probabilità che le idee generatrici di moto siano più facilmente quelle infantili e distruttive ma popolari che non quelle fornite di spirito di verità, così non si può escludere anzi è verosimile che la magia delle parole divulgate prevalga ed informi di sé l’azione legislativa.

 

 

Sia ben chiaro che in tal modo si contrasta la viva esigenza antica e nuova del mondo agrario; che è quello del movimento e del rinnovamento continuo. Al contadino bracciante, fornito delle sole sue braccia e voglioso di lavorare fa d’uopo non chiudere l’accesso alla terra. Poiché il bracciante non ha, per definizione dei riformatori, i mezzi per l’acquisto; e, per la mancanza di una provvista, quotidianamente rinnovantesi, di terreni disponibili per riforme fondiarie, le quali non possono essere ad ogni lustro ripetute, pochi hanno la possibilità di ottenere la terra gratuitamente dalla benevolenza di amici politici o di periti distributori; la terra in regime di piccola proprietà obbligatoria, diventa inaccessibile a chi non ne sia stato fornito nel momento originario o non sia figlio di assegnatari. La giusta causa, il diritto di prelazione, l’equità dei canoni di fitto hanno un nome: creazione di una casta di paria esclusi, per virtù di legge, dall’acqua e dal fuoco.

 

 

Variabilissime sono le maniere con le quali si accedeva ed oggi ancora si accede alla terra. Delle quali non è imitabile quella che nell’Alto Adige si intitola al maso chiuso; in virtù del quale uno solo dei figli, non necessariamente il primogenito, scelto dal padre per le sue attitudini a serbare e migliorare il fondo, subentra nella proprietà; e gli altri sono estromessi, con assegnazione di una quota ereditaria, valutata non col criterio del prezzo corrente che sul mercato avrebbe il maso, ma con quello della stima in capitale del reddito netto ordinario. Dal sistema conseguono due effetti meravigliosi, dei quali il primo è lo stimolo al genitore a costituire col risparmio e, fuor del maso, un patrimonio libero siffatto che i figli su cui non cadde la scelta non siano posti in situazione troppo diversa da quella dell’erede ed il secondo che gli esclusi, con apparente ingiustizia, dalla proprietà del maso paterno, sono salvi dalla schiavitù del possesso di particelle minime e son costretti a sciamare fuor di casa, provveduti però di un peculio atto ad agevolare ad essi la ricerca di buone occasioni di lavoro. Talché quel che sembra privilegio di maggiorascato è invece mezzo di salvare i rustici dall’immiserimento della proprietà da piccola ridotta a minima, insufficiente alla vita, ed è sprone a feconde iniziative da parte dei cosidetti diseredati. Ma il sistema non può essere trapiantato fuor della regione sua nativa, dove, nonostante la improvvida estensione, dopo la vittoria, delle norme egualitarie di divisione imposte dal codice civile italiano ai paesi redenti dall’Austria, il maso chiuso tenacemente sopravvisse, in virtù dell’ossequio alla tradizione antica, spontaneamente osservata per quasi un terzo di secolo dai figli consapevoli che l’ubbidienza alla volontà del padre era, più che la quota di terra, garanzia di prosperità nella vita. Non può, il sistema essere trapiantato nel resto d’Italia, dove valgono costumi diversi; e la ragione della impossibilità fu detta da una madre abruzzese la quale, ad un economista agrario che le chiedeva se i figli non avrebbero vissuto vita migliore assegnando tutto il breve podere ad uno solo di essi, rispose: signore, correrebbero coltelli.

 

 

Perché non corrano coltelli fa d’uopo che all’insipiente vincolo coattivo creato dalla servitù della gleba restituita, in mentite e degenerate spoglie, al nostro paese col nome di diritto di insistenza del colono, mezzadro o fittavolo e con quello di diritto di prelazione, si ritorni alla libertà dei proprietari, degli affittuari, dei mezzadri e dei lavoranti di muoversi da terra a terra, da podere a podere. Solo in regime di contratto liberamente stipulato fra le parti si mantiene quello che era il dono maggiore dato dai legislatori del sette e dell’ottocento all’agricoltura italiana: la possibilità di una carriera aperta ai contadini laboriosi risparmiatori ed intraprendenti. Nelle zone di tipica media e piccola proprietà si conoscevano – ma, in conseguenza dei vincoli, sono divenuti sempre meno numerosi – i giovani che si allogavano come garzoni a mese o ad anno e negli anni dai 15 ai 25 di loro età risparmiavano quanto bastava per trovar moglie – e costoro sapevano sceglierla amante della casa, dell’orto, e degli animali da cortile – e provvedersi del carro, dell’aratro e dei pochi attrezzi necessari per assumere a mezzadria od a partecipazione un modesto fondo. Cresceva la famiglia; e grazie all’aiuto sano e piacevole dei ragazzi, qualche pecora ed una mucca potevano, senza spesa, essere mandate al pascolo; e poteva essere assunto, con maggiori mezzi di lavoro, a mezzadria od a fitto, un fondo più ampio; sicché verso i sessant’anni i genitori anziani si ritiravano su un fondicello con casa, acquistato nei dintorni del borgo, quasi strumento di un reddito vitalizio, laborioso bensì, ma non faticoso; ed i figli continuavano, su fondamenta iniziali più ampie, la conduzione paterna e taluno volgeva ad altri mestieri; e taluno ancora, con opportuni arrotondamenti, progredendo da salariato, a mezzadro, a fittavolo, a piccolo proprietario giungeva allo stato di proprietario autonomo, riverito dai suoi pari e chiamato a sedere nel consiglio del comune. Ed oggi si conoscono figli di antichi mezzadri, che grazie ad un lavoro duro, ad occasioni non lasciate perdere, ad intelligenza svegliati, posseggono il trattore e la trebbiatrice ed offrono i loro servigi ai vecchi compagni, consentendo ad essi, come è ragione avvenga, di coltivare lo stesso fondo con assai minor spreco di mano d’opera.

 

 

Mentre i legislatori dannosamente si affaticano a legare, regolare, ordinare e mummificare i contratti, irrigidendoli e scemandone a poco a poco il rendimento, i contratti da sé mutano, seguendo il comando della tecnica perfezionata. E ancora nei miei ricordi il lungo lavoro della mietitura del frumento con la falce e poi l’aia battuta con la mazza e resa dura con lo scolo della stalla; e poi per giorni e giorni il battere dei correggiati sui covoni sparsi nell’aia e, finita la calura meridiana, iniziarsi col favore della tenue aria vespertina, il lancio del frumento dall’uomo perito, chiamato apposta per separare i chicchi buoni dai rotti, dalla pula e dalle veccie. Il lavoro dei correggiati fu poi sostituito da quello dei buoi i quali recavano in giro il rullo a grossi denti di legno e tutto il giorno si muovevano attorno all’aia tirati dai ragazzi e richiamati dal contadino pronto a spingere sotto il rullo nuovi covoni. La fatica durava settimane ed era tutta sostenuta dal colono. Dopo sessanta anni, quanto è mutato lo spettacolo! Anche laddove per la natura arborea e collinosa della terra non si conoscono i macchinari portentosi che tutto compiono, dalla mietitura alla ventilazione ed all’insaccamento del frumento pulito, all’imballo ed al ricovero della paglia, in un giorno solo il frumento messo al sicuro nel granaio è più che doppio, per ettaro, di quel d’una volta; la fatica del contadino da settimane è ridotta ad un giorno; e la spesa del trebbiare, la quale prima era tutta a carico dei coloni, è, per tacito pacifico accordo, ripartita per giusta metà fra proprietario e colono. Il legislatore non se ne è neppure accorto; e buon per tutti gli interessati, i quali non debbono riparare ai guai che la sua inframmettenza avrebbe procacciato; frattanto il contratto è stato mutato, tacitamente e senza alcun rumore, a vantaggio formalmente del mezzadro e in verità di ambe le parti, ché il risparmio di tempo e di fatica giova a tutti. Né le mutazioni sono finite. Nelle contrade a vite, la fatica delle irrorazioni cupriche è stata dura finché il contadino doveva, sotto il solleone, recare sulle spalle il recipiente del liquido ramato. Oggi, si diffonde l’uso di motorini leggeri, facilmente trasportabili, che alleviano grandemente la fatica dell’uomo; e da sé, senza clamore di legiferazioni complicate, ecco la spesa dei motori, degli aggeggi e della elettricità di nuovo essere divisa fra concedenti e conduttori, tutti traendo giovamento dal risparmio del tempo e dalla più pronta difesa contro l’insidia delle crittogame e delle malattie delle piante.

 

 

Io non so quale sarà fra dieci o venti o cinquant’anni l’assetto della economia agricola e dei rapporti fra le diverse classi agricole. Può darsi che allora la mezzadria ed il fitto siano venuti meno o siano così trasformati da non avere più alcuna somiglianza con i contratti oggi così denominati. Può darsi che i rapporti fra i tipi di proprietà siano diversi da quelli odierni. Se si guarda all’esperienza dei paesi che si dicono più progrediti del nostro perché sembra producano a costi minori, non appare probabile l’attuazione di quello che oggi è l’ideale di chi si attarda nella contemplazione delle cose moribonde, immesse a forza in climi economici disadatti; bensì si intravede la continuazione, sotto nuove e più perfette forme, di un assetto nel quale prevalgano per le produzioni di massa ed a basso costo, le medie imprese, divenute grandi non tanto per ampiezza di superficie, quanto per imponenza di investimenti; ma continuino a dominare, per numero, le piccole e minime imprese, sia perché richieste dalla finitezza e dalla cura meticolosa del lavoro, sia perché divenute vantaggioso, non autonomo, complemento di altre attività economiche, a cui la terra è destinata ad assicurare stabilità sociale e familiare.

 

 

Se la visione sicura dell’economia agraria italiana futura mi è negata, so però che le mutazioni non avranno tregua. Il mio primo viaggio da Pisa a Roma fu nella state del 1889, quasi settanta anni addietro. Non presumo che la nostra lieta brigata di allievi liceali del convitto nazionale Umberto I di Torino sapesse vedere quel che era allora la terra della maremma e della campagna romana; ma il ricordo di quel deserto di pascoli malarici è tuttora vivo dinnanzi ai miei occhi; ed il confronto con l’aspetto odierno di terre coltivate, liete di case e di abitatori, affida per futuri fecondi avanzamenti. Quelli mirabili avvenuti nel secolo presente e quelli che io auguro e confido più meravigliosi nell’avvenire ebbero ed avranno fondamento nell’azione, non so se concorde ma certo contemporanea, dello stato e dei privati. Lo stato contribuì nei limiti nei quali l’opera sua si tenne nei confini suoi proprii, di garanzia di sicurezza, di promuovimento della istruzione, di compimento delle opere pubbliche di strade, bonifiche, di lotta contro la malaria, contro le inondazioni. I privati contribuirono con le migliorie agrarie, con i più perfetti metodi di coltivazione ed a migliorare sé e la terra furono avventurosamente costretti dalla urgenza di crescere salari e migliorare le condizioni di vita di contadini, assurti a dignità umana grazie all’unione in leghe, decise a crescere la quota spettante ai lavoratori anche al di là di quel che fosse consentito dallo scarso prodotto che la terra male coltivata fruttava.

 

 

Giovò, a crescere oltre ogni speranza il prodotto della terra in Italia, l’avvento di mostri meccanici mai più veduti i quali, d’accordo ed in concorso con esplosivi, catapultarono e frantumarono e resero coltivabili e fertili terreni durissimi che, al par del cappellaccio romano, sembravano, anche agli occhi di economisti agrari insigni, quale fu Ghino Valenti, vietare per sempre, sì come avevano fatto per millenni, la trasformazione di amplissime zone agrarie nostre. Altre invenzioni quasi diaboliche ed altri mostri spaventosi verranno ad agevolare la fatica dell’uomo ed a scemare avventuratamente la mano d’opera necessaria ed a crescerne il compenso.

 

 

Nel tentativo, pure umano, di rallentare l’impeto, talora brutale, delle rivoluzioni tecniche, commetteremo in avvenire, come facemmo in passato, errori non piccoli e non pochi. Irrimediabili quelli che ognuna delle parti commette per voler fare quel che non deve e per frastornare l’opera altrui. Fecondi invece quelli commessi dallo stato e dai privati nei tentativi di attendere, ognuno, sempre meglio ai proprii fini. Gli insuccessi sono la premessa e la condizione dell’avanzamento economico e politico. Trial and error; sperimenti ed errori, sono la divisa dei regimi di libertà. I regimi di tirannia non fanno sperimenti e non commettono errori; fanno piani e vantano vittorie.

 

 

Chi vuole la libertà, teme, sovra ogni altra cosa, il sopravvento di coloro che sono sicuri di possedere la vera, l’unica verità. Il solo fondamento della verità è la possibilità di negarla. Il giorno che la verità o quella che noi riteniamo tale fosse accettata da tutti senza contrasto, dovremmo cominciare a temere di essere caduti in errore, tanto più pericoloso quanto più inavvertito. Le accademie, e prima fra le altre questa nostra dei georgofili, non sono nate e non vivono per insegnare luoghi comuni atti ad essere iscritti ed accettati nei programmi delle più diverse parti politiche, ma per cercare la verità. Cercarla, sapendo che essa non è una parola ultima, ma un breve avanzamento sulla via, che non consente mai soste, della scoperta del vero.

 

 



[1]Discorso inaugurale tenuto il 3 febbraio 1957. Anche in estratto Firenze, Vallecchi, 1957, pp. 14. Ristampato nello stesso anno parzialmente col titolo Le parole magiche, in «Il Resto del carlino», 8 febbraio 1957 e in «La Tribuna», 17 febbraio 1957 [ndr]

[2] Con il titolo Di alcuni problemi odierni dell’economia agraria italiana [ndr]

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