Opera Omnia Luigi Einaudi

Di altri scatoloni pseudo-commerciali e pseudo-bancari

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1935

Di altri scatoloni pseudo-commerciali e pseudo-bancari

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1935, pp. 1-22

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 137-157

Origini e identità del credito speciale, Angeli, Milano, 1984, pp. 282-303

Luca Einaudi, Riccardo Faucci, Roberto Marchionatti, Selected economic essays, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2006, pp. 87-98

 

 

 

 

IL RAZIONALIZZATORE. – Troppi sono gli intermediari, troppi i parassiti, i quali allontanano il produttore dal consumatore. Bisogna avvicinare i due estremi della catena, riducendo al minimo il numero degli anelli intermedi. Bisogna far cessare la gazzarra degli improvvisati negozianti, i quali hanno d’uopo, per vivere, di taglieggiare il consumatore. In Italia i venditori al minuto sono oltre 542 mila, più di 1 ogni 77 abitanti. Tutta una razzamaglia di venditori ambulanti, di piccole imprese famigliari, di medi negozi, di doppioni male attrezzati, accanto ai grandi negozi specializzati, ai grandi magazzini di novità ed a prezzo unico, agli spacci cooperativi, alle provvide, agli spacci di fabbrica e agli spacci diretti dei produttori. Occorre sottoporre il commercio al minuto ad una disciplina unitaria, eliminare il superfluo ed organizzare, sotto l’egida di robusti organismi corporativi, quel che nel commercio esiste di vitale.

 

 

L’OSSERVATORE. – Grosso grossissimo problema quel che è posto dal critico degli intermediari parassiti. Converrebbe innanzi tutto precisare quel che si intende per parassitismo e se fra i tanti tipi di intermediari ve ne sia davvero uno che tenga fra tutti la palma. Mario Luporini, direttore centrale della Rinascente, pur trovandosi a capo di una delle maggiori organizzazioni italiane di vendita al minuto, energicamente nega[i] ai grandi magazzini simiglianti al suo ragione di esclusività rispetto agli altri. Rivenditori ambulanti, piccole imprese famigliari, grossi magazzini specializzati od a prezzo unico, cooperative, spacci di produttori hanno tutti un compito proprio, che gli altri non possono assolvere. Ognuno di essi giova, non nuoce, alla vita altrui. Ognuno di essi perisce se costa, vive se profitta altrui.

 

 

Il grossista?

 

 

Esso «non è né una fatalità né un peso. Quando esiste, esso non grava affatto sul ciclo produttivo. È un collaboratore e un consigliere del produttore. Quasi sempre è uno specialista che fa spendere molto meno di quello che spenderebbe il fabbricante se volesse avere filo diretto col dettagliante o viceversa».

 

 

Il merciaio ambulante?

 

 

«Ancora oggi, in pieno secolo novecentista, egli assolve una sua specifica importante e insostituibile funzione… Questo modesto commerciante, il quale gira tutte le vie d’Italia, si inerpica su tutte le montagne e, come sei o sette secoli or sono continua ad offrire la sua merce sulle piazzette dei più umili paeselli, svolge un attività essenziale alla completa espressione del commercio al minuto».

 

 

Le imprese famigliari, i piccoli e medî negozi?

 

 

Utilissimi tutti, anzi necessari. «Il compratore deve disporre della merce di cui ha bisogno, esclusivamente nel luogo, nel tempo, nella qualità e nella quantità che il consumatore desidera. È al consumatore che la produzione, attraverso al commercio, deve servire… Ciò sarebbe impossibile se il commercio al minuto dovesse essere esercitato attraverso un solo tipo di organismo. Occorre che, a seconda delle condizioni locali e di fatto prevalenti, l’organizzazione del commercio escogiti idonee forme di adattamento.

Poveri produttori e poveri consumatori se non fosse così! Il grande magazzino non potrebbe mai ramificare le sue filiazioni nei luoghi che oggi più economicamente, si badi bene a questo, sono serviti dal commercio ambulante o dalla piccola azienda famigliare. Altrettanto impossibile sarebbe la esistenza, nei grandi centri, d’una filiale del grande magazzino ad ogni angolo di strada, per sostituire la funzione ora svolta dalla piccola e dalla media azienda. Lo stato attuale di organizzazione distributiva risponde insomma a un principio economico fondamentale: quello del raggiungimento del massimo effetto (in questo caso la diffusione capillare della funzione distributiva) con il minimo mezzo.

L’organizzazione attuale è il risultato di un processo selettivo di ordine secolare, avvenuto in ossequio al criterio dell’adattamento dell’organismo alla funzione e all’ambiente. Come il grossista è necessario per sostituirsi nel rischio commerciale al produttore e per concedere il credito d’esercizio ai negozianti al minuto, così la varietà dei negozi di vendita è elemento indispensabile per la corretta e completa funzione distributiva. Il campo d’azione di ognuno di questi organismi coesistenti è limitato dal campo di azione di ogni altro. Perciò si è ristretto ai luoghi impervi o alle discontinuità cittadine il mercato di smercio degli ambulanti, ed alle località periferiche quello delle aziende famigliari, le quali dominano il mercato al minuto da secoli. Nel complesso però questi svariati organismi formano un insieme efficiente ed armonico, la cui potenza di penetrazione negli svariati ceti in cui si suddividono economicamente i milioni di consumatori, disseminati in tutta Italia, sarebbe distrutta se, in modo artificioso, vi si volesse porre mano, pur essendo vero che la cosiddetta razionalizzazione deve essere perseguita ed attuata anche dalle aziende commerciali, fino ai limiti del possibile e del ragionevole. Cioè: anche nelle attrezzature commerciali si può e si deve progredire se non si vuole restare indietro, con danno proprio ed altrui. Sarebbe fuori della realtà chi credesse che in questo campo non c’è più niente da fare».

 

 

IL RAZIONALIZZATORE. – E sia così rispetto alla necessità dei diversi tipi di imprese commerciali. Non potrete negar tuttavia che, in ogni tipo, il numero dei partecipanti al banchetto della provvigione sul prezzo ultimo pagato dal consumatore sia stravagamente alto. Che il distacco fra i prezzi al minuto e quelli all’ingrosso sia notabile e crescente niuno vorrà porre in dubbio. Né v’ha del pari niun dubbio cha la moltiplicazione nel numero degli spacci sia prima tra le cause del grave malanno.

 

 

«Data una certa massa di vendita al minuto del valore 100, la quale da’ un utile lordo di 30, se esistono 10 negozianti, ognuno venderà, in media, per 10 ed avrà un utile di 3, sufficiente a coprire tutte le spese valutate a 2 ed a lasciare un utile netto di 1. Se adesso si suppone che il numero dei negozianti salga a 20, il valore medio delle vendite scende a 5 per testa e l’utile lordo d’ogni negozio si abbassa a 1,5. Ma Poiché gli oneri d’esercizio non sono d’altrettanto diminuiti, l’utile lordo, oltre a non lasciare utile netto, non copre più nemmeno le spese. Di qui una difesa dei venditori rivolta all’aumento dei prezzi unitari, che assicuri lo stesso utile netto di prima».[ii]

 

 

La dimostrazione del 1934 riproduce querele antiche. Una commissione incaricata 25 anni addietro dal sindaco di Torino «di studiare i provvedimenti adatti a risolvere il problema del caro dei viveri» riferiva (giugno 1910) a mezzo del presidente e relatore Achille Loria:

 

 

«Una ragione forse anche più significante dell’attuale rincaro venne additata con grande lucidità dal testimone cav. Pia, con esclusivo riferimento, gli è vero, al mercato della carne, ma estendibile però senza tema di errore a qualsiasi altro prodotto. È questa causa, come egli ha osservato, “è il grande aumento nel numero degli spacci, dovuto all’uso invalso presso molti buoni operai, per ispirito di indipendenza, e coll’intento di migliorare le loro condizioni, di abbandonare il lavoro salariato per mettere su un proprio spaccio”. Gli è che i salari cresciuti negli ultimi tempi hanno consentito agli operai, od ai più sobrii ed economi, di accumulare un piccolo capitale, di cui essi intendono ragionevolmente valersi per assurgere a condizione indipendente. Ora poiché nell’industria prevale oggidì incontestata la grande azienda, mentre il commercio schiude tuttora qualche possibilità di esistenza alle piccole imprese, così gli operai non possono altrimenti valersi delle fatte economie che aprendo un negozio; di qui il forte incremento, da noi constatato, nel numero degli esercizi, relativamente alla popolazione ed agli affari. Ora, l’aumento nel numero degli spacci, scemando la massa di affari di ciascun esercente, fa che esso non possa conseguire il necessario profitto se non mediante una elevazione del prezzo unitario, la quale, in tali condizioni, non si accompagna ad alcun miglioramento nella condizione dell’esercente, anzi può accompagnarsi ad un peggioramento delle sue sorti, e talora è appena bastevole a preservarlo dal disavanzo altrimenti ineluttabile. Ed ecco come si spiega che l’aumento così sensibile nei prezzi nel mercato al minuto non si accompagni ad alcuna ascensione nella sorte dei nostri esercenti, anzi si compia frammezzo alle universali testimonianze del loro crescente travaglio. Con ciò si spiega perché i prezzi sono più alti precisamente nei mercati meno affollati; per esempio, il prezzo della verdura è più alto nel mercato del serraglio che nei negozi circostanti più affollati».

 

 

L’OSSERVATORE. – Già in seno alla commissione torinese del 1910 vi era stato chi, dal moltiplicato numero dei minuti esercenti non deduceva le illazioni dichiarate dall’amico e compaesano Pia, probo e peritissimo negoziante in carni, ed osservava «che l’aumento dei prezzi al minuto non è effetto ma causa del cresciuto numero dei rivenditori»;[iii] ed oggi, di nuovo, Luporini, peritissimo tra i dirigenti imprese commerciali, soggiunge che in un solo caso, quello di monopolio, possono i venditori di una data merce fissare il prezzo a quell’altezza che, in funzione di una determinata quantità di affari, assicuri loro il massimo utile.

 

 

«Come potrebbero i commercianti, così divisi ed accaniti l’uno contro l’altro nell’accaparrarsi il cliente, agire all’unisono in un indirizzo che danneggerebbe immediatamente la massa, a vantaggio degli immancabili dissenzienti? Come è possibile pensare ad un tacito accordo di centinaia di migliaia di individui, aventi i più svariati ceti di clientela, operanti nei più diversi luoghi e dotati essi stessi della più difforme mentalità?» (loc. cit., pag. 23).

 

 

In verità stravaganza logica più inverosimile non si può immaginare di questa:

 

 

  • nel tempo primo il prezzo del pane in una città, il numero dei panettieri essendo di 100 per ogni centomila abitanti, è di 1,80 lire per chilogrammo;

 

  • a tal prezzo i 100 panettieri lavorando, con una resa di chilogrammi di pane, 300 chili di farina al giorno in media pagano salari normali ai garzoni e vivono con la decenza propria a uomini del loro stato;

 

  • nel tempo secondo, 25 garzoni, avendo raggranellato un modesto risparmio, decidono di trasformarsi in panettieri. Poiché il consumo del pane per tal ragione non aumenta, ogni forno, invece di 300, lavora in media soltanto 240 chilogrammi di pane. Le spese generali – fitto del negozio, interesse ed ammortamento del capitale di impianto del forno, imposte, spese fisse di commessa alla vendita e ragazzo per le corse a casa dei clienti – si debbono ripartire su un numero minore di chilogrammi di pane. Il costo totale, compreso il salario al panettiere, cresce da 1,80 ad 1,90 al chilogrammo;

 

  • i consumatori di pane, adunati a comizio, decidono di essere ben lieti che sia loro porta occasione di far vivere decentemente 125 panettieri invece di 100 e si proclamano disposti a pagare lire 1,90 invece di 1,80 per ogni chilogrammo di pane acquistato.

 

 

Poiché tutto può accadere fuorché ad occasione dell’immaginario comizio i consumatori piglino la deliberazione enunciata; Poiché i consumatori resisteranno certissimamente, per quanto sta in loro, al desiderio dei 25 aspiranti panettieri; Poiché i consumatori avranno dalla loro opinione pubblica ed autorità; Poiché i 100 panettieri antichi non hanno alcun interesse ad aumentare il prezzo da 1,80 ad 1,90, restando col guadagno di prima e procacciandosi odio dai clienti, così è evidente che al ragionamento manca un anello.

 

 

Se la catena logica fosse solida, dovrebbe potere essere capovolta. Così:

 

 

  • nel tempo primo, essendo il numero dei panettieri in una città 125 per ogni centomila abitanti, la media lavorazione di farina 240 chilogrammi per forno, il prezzo del pane 1,90 lire per chilogrammo, si riconosce che il caro del pane è dovuto all’eccesso nel numero dei panettieri;

 

  • nel tempo secondo, per porre termine allo scandalo, il numero dei panettieri è sottoposto a regolamento e ridotto a 100 per ogni centomila abitanti. La media lavorazione di farina è cresciuta a 300 chilogrammi per forno.

 

 

Scema forse il prezzo del pane da 1,90 ad 1,80 lire per chilogrammo?

 

 

L’esperimento fu fatto; durò centinaia d’anni. I risultati furono descritti da Alessandro Manzoni nel capitolo sulla carestia de I promessi sposi e sono chiariti in tre scritti, mai abbastanza meditati, di Camillo Cavour (1851, ed in La Riforma Sociale, 1915, pag. 300 e seg.), Carlo Ignazio Giulio (Torino, 1851) e Federico Le Play (Parigi, 1860).

 

 

Con la mirabile sua capacità a vedere i fatti veri e rilevanti, ben diversi dai fatti apparenti e stupidi, il conte di Cavour così tranquillizzava coloro i quali, attaccati al regime dei regolamenti, paventavano che i panettieri profittassero della conquistata libertà per coalizzarsi ed aumentare il prezzo del pane:

 

 

«Le coalizioni sono talvolta possibili nelle industrie il di cui esercizio richiede lunga pratica, non comune abilità e alti capitali, ed ancora in queste l’esperienza ci dimostra che esse sono di breve durata: ma in un’arte come quella del panettiere, accessibile ad una infinità di persone, che esige pochi capitali e mezzi affatto volgari, i pericoli delle coalizioni sono veramente immaginari. … D’ora in avanti sarà possibile lo stabilire in questa città una panetteria con un capitale di sole lire 5.000. Ora ogni individuo di mediocre operosità e di bastevole onestà non durerà fatica a raccogliere questa tenue somma e ciò tanto più che, sia i proprietari di case per dar credito alle loro botteghe, sia i negozianti da grano e da farine per agevolare il loro negozio sono in generale disposti a somministrare fondi ai panettieri bisognosi» (loc. cit., 317-7).

 

 

Quando mai si vide che il minor numero dei produttori faccia ribassare i prezzi ed il numero cresciuto favorisca le coalizioni e inasprisca i prezzi? Come osservava il commissario torinese del 1910 questo è un supporre che la coda muova il gatto e non viceversa. A buon conto, salvo che in Russia, gatto o re del mercato sono ancor i consumatori, ed i produttori devono ballare così come è loro ordinato dai gusti e dai mezzi dei consumatori.

 

 

Per secoli (in Torino dal 1679 al 1851) i produttori erano riusciti, camuffandosi da consumatori, a persuadere costoro che, per avere pane buono ed a buon mercato, faceva d’uopo stabilire le piazze di forno (e cioè il numero dei panettieri) e la meta (calmiere) del pane. Il risultato fu pane cattivo e caro.

 

 

Federico Le Play, relatore nel 1860 al consiglio di stato di Francia, ricordava la teoria, fin d’allora corrente, che «il prezzo del pane deve diminuire a mano a mano che scema il numero dei forni ed aumenta la clientela forzata di ognuno di essi», ma soggiungeva subito che, fatte diligenti inchieste, il prezzo del pane era invece risultato più alto a

Parigi, città di regolamentazione e di numero ristretto di fornai, che a Londra ed a Bruxelles, città sotto cotal rispetto libere e provvedute perciò di più numerosi forni. Poiché un fatto in sé non conta, se non lo si spieghi, così il Le Play seguitava, esponendo le ragioni per le quali il prezzo del pane non solo capita ad essere, ma ragionevolmente deve essere più caro in regime di regolamentazione che in quello di libertà dei forni:

 

 

«Il privilegio attribuito ai forni da panettiere dà ad essi un valore fittizio il quale pesa sui consumatori. Le 601 piazze da forno privilegiate parigine del 1856 avevano un valore venale di 36 milioni, forse ridotto oggi (1860) a 25 milioni, destinati a ribassare forse ancora di 5 milioni in seguito alla concorrenza. La esagerazione del valore delle piazze assorbe improduttivamente i capitali dei fornai. Di qui un onere annuo, il quale deve essere prelevato sul pubblico, in aggiunta alle spese ed ai benefici proprii della fabbricazione del pane.

 

 

«Un confronto fra Parigi e Londra mette in luce sovrattutto la situazione inferiore del fornaio parigino per quanto riguarda la agiatezza, la capacità commerciale, l’attività e l’iniziativa ed in generale l’insieme delle condizioni dalle quali dipende il livello sociale. Questa inferiorità è la conseguenza fatale del regime regolamentare per indole sua limitatore e reagisce in modo pernicioso sui metodi produttivi parigini. L’agiatezza e la capacità degli esercenti sono elemento essenziale di prosperità per ogni industria e fattore decisivo di moderazione del prezzo dei suoi prodotti. L’abbassamento del livello sociale dei forni è ognor più notabile a mano a mano che la regolamentazione diventa più rigorosa.

 

 

«L’organizzazione parigina è viziata altresì dalla situazione fatta agli operai comuni. In un’epoca in cui l’industria si concentra sempre più in grandi officine, dirette da pochi imprenditori a capo di una moltitudine di salariati, non v’ha evidentemente alcun motivo per distruggere sistematicamente questi modesti organismi industriali, grazie ai quali l’operaio intelligente e laborioso può elevarsi alla condizione di padrone. Nel sistema di Londra, gli operai abili, i quali abbiano fatto qualche risparmio, creano, con poca spesa, un nuovo esercizio ed a poco a poco giungono nel loro mestiere, se non alle alte posizioni, le quali richieggono tradizione ed attitudini, almeno ad un posto medio capace di dare l’agiatezza e di far godere la stima dei vicini. Il principio della limitazione si oppone a Parigi sempre più a questa elevazione graduale degli operai scelti ed è perciò in contrasto formale con uno dei principali bisogni della nostra costituzione sociale.

 

 

«Ma il principale inconveniente del sistema è la riduzione medesima del numero dei fornai. Costoro in fatto adempiono per un certo numero di famiglie agglomerate i servizi che nella maggior parte d’Europa hanno luogo nel seno della famiglia. Il forno può essere invero considerato come il complemento della cucina domestica e per adempiere al suo ufficio precipuo deve essere intimamente mescolato con la popolazione. L’esigenza diventa ogni dì più imperiosa a Parigi, ove è desiderato, mattino e sera, il pane tratto un momento prima dal forno e son richieste svariate forme appropriate ad ogni pasto. Questi bisogni, già così complessi nel corso regolare della vita famigliare, si modificano spesso improvvisamente per numerosi incidenti derivanti da rapporti di parentela e di amicizia. Il panettiere non deve provvedere soltanto al servizio del pane; nell’organizzazione spontanea e normale serbata nella provincia e che è in pieno fiore a Londra, il forno offre un concorso più diretto alla alimentazione delle famiglie; facilitando, ad ogni momento, la cottura di certi particolari piatti e sostituendo interamente la cucina domestica in talune circostanze in cui la famiglia intera attende al lavoro quotidiano. Siffatti intimi rapporti facili a Londra e Bruxelles dove la proporzione dei forni è di 1 ogni 500 abitanti diventa difficile a Parigi, dove la proporzione è di 1 a 2.000. Poche famiglie sono in grado di cambiare il forno che non li soddisfa ed altre perdono gran tempo nelle corse fatte al forno. I novatori i quali vorrebbero rivoluzionare il commercio del pane riducendo indefinitamente il numero dei forni non tengono conto di questo pesante servizio imposto, collo scaricarne i fornai, alle famiglie; ed assimilano implicitamente i quartieri della città ad un ospedale, in cui il consumatore riceve alle ore prescritte, un cibo che egli non ha diritto di scegliere. Siffatte tendenze derivano in ultima analisi dall’idea comunistica…

 

 

«I contrasti fra pasticcieri e panettieri provano anch’essi l’incompatibilità del regime di limitazione con le idee del nostro tempo. I pasticcieri allegano giustamente non potere lottare contro i panettieri, i quali usurpano parte della loro industria, se ad essi non sia a sua volta consentita la fabbricazione del pane. Essi presentano le prove del ricatto subito da taluni panettieri i quali obbligano i pasticcieri vicini a pagare una taglia se vogliono evitare una concorrenza rovinosa. Essi, in poche parole, chiedono di essere autorizzati a fabbricar pane ovvero che ai fornai sia proibito di fabbricare pasticcerie. La pretesa, riconosciuta giusta dai sindaci dei fornai, è stata, dopo profonda discussione, fatta sua dal senato. Il governo è dunque obbligato, in pieno secolo XIX, a riprendere gli interminabili dibattiti delle corporazioni di antico regime; esso deve proibire ai panettieri la fabbricazione dei dolci perché, servendosi di un forno già riscaldato per altro scopo, essi potrebbero produrle a più basso costo dei pasticceri.

 

 

«L’errore fondamentale della limitazione è l’idea che il buon mercato possa risultare dalla attribuzione obbligatoria dei clienti ai produttori. In tutti i tempi ed in tutte le professioni la vendita a buon mercato è stata invece condizionata alla spontanea formazione della clientela.[iv] Dappertutto la produzione a basso costo è il frutto dell’iniziativa di padroni abili ed intelligenti, a cui la maggioranza deve tener dietro sotto pena di fallimento.

 

 

«I panettieri di Parigi si ingannano stranamente del resto, immaginando di rimediare in pieno ai loro mali coll’ottenere, in aggiunta alla limitazione del numero dei padroni e delle botteghe da forno, anche quella del numero dei forni per ogni bottega. Nonostante il nuovo ostacolo, gli uomini migliori riusciranno ad accrescere notabilmente i loro affari, aumentando le dimensioni dei forni ed organizzando i turni di giorno e di notte. Se ci poniamo per tale via, vi è un sol mezzo di neutralizzare le migliori capacità ed è di limitare la quantità di pane che il forno può ogni giorno produrre. Ma, perché un siffatto regolamento sia eseguito, la maggioranza non sospetta di abilità e di intelligenza dovrà evidentemente sorvegliare davvicino l’operato della minoranza. Ognuno dovrà, trascurando i proprii, occuparsi sovrattutto di frastornare gli affari dei colleghi. Non è difficile comprendere che un nuovo aumento sul prezzo del pane sarà la conseguenza pratica del nuovo progresso» (pag. 68-72).

 

 

Con le varianti dettate dai luoghi e dai tempi, le considerazioni esposte settantacinque anni or sono dal Le Play sono vere oggi. Se il numero dei forni da pane e delle pasticcerie – queste in particolar modo, anche ad occhio, vanno moltiplicandosi in modo singolare – delle rosticcerie, delle latterie, dei verdurai, dei fruttivendoli ed in genere dei venditori di tutte le cose necessarie all’alimentazione è cresciuto e tuttodì cresce, il fatto non è dovuto al caso, Né può dirsi un artificio. Non basta che ad uno scemo venga in mente di aprir nuova bottega perché il pubblico, non forzato, accorra a lui e gli paghi prezzi più alti per rimunerarlo della sua scemenza. Gli uomini non sono ancora così svaniti come pretenderebbero i dottrinari della teoria della limitazione che farebbe scemare i prezzi e della concorrenza che li farebbe aumentare. Fornai, pasticcieri, rosticcieri, se vogliono vivere, devono rendere qualche reale servizio ai clienti. Talvolta può darsi siano servizi di pura conoscenza personale con i singoli clienti: «pagherà domani» «questo è un dolce fatto apposta secondo il suo gusto» – «manderò il pane fresco appuntino alle otto del mattino, a mezzogiorno od alle sette di sera», se si tratta di clienti agiati, od «alle sette, dodici e mezza e otto» se si tratta di operai; e non c’è che da svoltar l’angolo della strada e il cliente sprovvisto di telefono trova quanto gli occorre ed il bambino può scendere a far la provvista, senza che la mamma abbia paura del tram o dell’automobile. Al banco sta un macellaio gioviale o una commessa di panettiere che sa dir la sua a tutte le madame e le tote che fanno il giro mattutino, ed il cliente non ha l’impressione di entrare in un ministero, con direttori impiegati commessi cassieri, tanti che ci si perde la testa a studiare le competenze. Ricordiamo le arie che si davano gli stessi panettieri e macellai quando, nel tempo della guerra, bisognava impetrare umilmente, tessera alla mano, ci dessero quel che spettava al prezzo dovuto! I servizi di comodità, di buone maniere, e quelli sostanziali ricordati dal Le Play di cucina privata e di forno (da panettiere, da pasticcere, da rosticcere, ecc.); devono essere pagati perché consentono di sostituire alla cucina privata, la quale del resto nelle case moderne va riducendosi ad un bugigattolo, ad un armadio, in cui non ci si può neppure rigirare, un’organizzazione che offre, purché vicina, purché “di fiducia”, agevolezze pronte e, in fondo, a miglior mercato della cucina individuale per chi ha bisogno di lavorare o non può prendersi il lusso della cuoca privata, la quale poi, se è alle prime armi e pagata come novizia, manda in malora qualunque cosiddetto piacere della tavola. Nessun panettiere, nessun pasticciere, nessun rosticciere è di troppo, se è capace a rendere servizio, a vendere roba buona ed a venderla bene, con bei sorrisi e belle parole, invece che con brutta maniera; tutti sono di troppo se pretendono che, solo perché esistono ed hanno speso gran denari in vetrine e banchi e lumi e commessi, il cliente sia entusiasta di comprare roba qualunque a prezzi alti. I carestiosi hanno sempre in bocca i diritti della categoria, conculcati da chi, senza avere la necessaria preparazione professionale, usurpa il loro mestiere. Le nuove corporazioni – appunto perché sono una cosa diversa da quelle di vecchio regime, ricordate dal Le Play, le quali infastidivano governi e giudici con i loro piati incessanti per violato territorio di caccia bandita, – devono star lontane come dalla peste da bottegai industriali artigiani i quali, in foja di querela contro la clientela, vorrebbero riformarne i gusti, insistono sulla necessità di prezzi equi, equi per tutti, tali da far vivere i produttori e nulla più; purché, si intende, i produttori siano in numero giusto e non si permetta l’accesso al primo venuto, senza preparazione, senza titoli. Il vero nerbo delle nuove corporazioni è composto della gente che lavora e che riesce; che, riuscendo, paga imposte allo stato e non chiede allo stato favori o sussidi.

Il criterio per distinguere i buoni dai cattivi membri delle corporazioni è il successo. Chi perde quattrini, suoi o dei creditori, nella propria impresa, colui è un falso commerciante, falso industriale, e dunque falso corporativista. Chi rende altrui sul serio servizio, guadagna; chi perde, salvo casi estremi di forza maggiore o di caso fortuito da provarsi rigorosissimamente, perde perché non è capace di rendere altrui effettivo servizio.

 

 

IL PRIMO SPECIALIZZATORE. – Le banche devono applicare i principii della scienza. Ognuno deve fare il proprio mestiere. Il pubblico deve imparare a conoscere dal nome medesimo dell’ente a cui si affida di che morte moriranno i suoi denari. Siano “banche” quelle le quali ricevono depositi a vista od a

breve scadenza e li impiegano in sconto di carta commerciale, in anticipazioni e riporti a fine mese su merci e su titoli ed in altre operazioni destinate a fornire il capitale di esercizio degli industriali e dei commercianti. Siano “istituti” quelli che ricevono depositi a lunga scadenza od emettono obbligazioni a 10, 20 o 50 anni e ne impiegano il ricavo in sovvenzioni a lunga scadenza per impianti industriali, acquisto di macchine, mutui di miglioria agricola o costruzioni edilizie. Si avrà sicurezza solo quando il breve deposito andrà a braccetto col breve impiego, il medio col medio, il lungo col lungo. Vi deve essere parallelismo temporale fra i due piatti della bilancia, cosicché il banchiere sia sempre pronto a restituire quanto ha ricevuto alla scadenza fissata.

 

 

IL SECONDO SPECIALIZZATORE. – Non basta. Fa d’uopo specializzare oltreché nel tempo, nella specie del credito. Il banchiere deve conoscere i suoi clienti. L’agricoltura ha esigenze diverse da quelle proprie dell’industria elettrica, e queste son differenti dalle altre proprie delle industrie pesanti della siderurgia, della metallurgia e della meccanica. Chi serve i tessili non conosce a fondo i chimici Né si può pretendere che gli edili siano ben serviti da chi conosce a fondo l’industria navale, dal cantiere all’armamento. Le banche devono specializzarsi a seconda dei grandi cicli e rami di produzione, con gli stessi criteri con i quali si sono costituite le corporazioni. Anzi la banca, secondando il processo generale di auto disciplina delle forze economiche, deve mettersi in grado di oggettivarsi sempre meglio, spogliandosi di quelle antiquate caratteristiche che la facevano una industria così rigidamente personale. Non più credito alla persona del cliente individuo; ma credito alla industria organizzata e disciplinata, epperciò sicura di vita operosa e continua.

 

 

IL TERZO SPECIALIZZATORE. – Non basta ancora. La distribuzione del credito non deve avvenire solo su basi temporali e funzionali. Essa deve anche essere spaziale. Non si risusciti la vecchia disputa dei pochi e dei molti. Le banche in Italia sono indiscutibilmente troppe. Tutte hanno voluto mietere nel medesimo campo; che è il risparmio dei veri risparmiatori, i quali sono i proprietari rustici, i fittabili, i contadini delle campagne, gli impiegati, i commercianti, i professionisti dei borghi e delle città piccole e grosse. Quindi migliaia di banche e banchette minori e migliaia di sedi succursali filiali agenzie delle banche e casse maggiori, sparse in ogni villaggio e in ogni rione cittadino, tutte intente a pompar denaro ed a riversarlo nei pochissimi grandi centri. La agricoltura, la industria e il commercio sparsi, locali e di modeste dimensioni son perciò lasciati all’asciutto; il capitale è offerto in abbondanza alle grosse imprese, per investimenti grossi e piccoli; e si ha eccesso di investimenti speculativi e conseguenti dissesti bancari. Importa sostituire alla concorrenza irrazionale dei molti aspiranti a pascolar sul medesimo terreno, una razionale distribuzione della banca nello spazio; così che si instauri un ben ordinato contemperamento fra piccole, medie e grosse banche, indipendenti l’una dall’altra, cosicché la piccola banca sia interessata entro i limiti del possibile ad utilizzare sul luogo i risparmi raccolti nel luogo medesimo, salvo a giovarsi della media banca regionale e l’impiego del sovrappiù eccedente ai bisogni locali ed a riceverne aiuto in caso di richieste anormali di rimborsi. Parimenti si deve comportare la banca media regionale rispetto alla grande banca di commercio e questa rispetto alla banca centrale di emissione; la quale, spoglia dal vincolo dei rapporti diretti colla clientela agricola commerciale ed industriale, potrà  adempiere esclusivamente e perciò perfettamente al suo compito di banca delle banche, suprema regolatrice del credito e della moneta del paese.

 

 

PARLA UN PRIMO TEORICO. – Esiste davvero una differenza fra impieghi lunghi e impieghi brevi? Che cosa è il tempo in banca? Se noi supponiamo, per un istante, un mercato chiuso, in cui lavori una sola banca, è difficile immaginare in che cosa possa consistere la differenza fra credito a 30 anni, a 5 anni, a 6 mesi, a 15 giorni. Vi è in quel paese, un fabbisogno, ad ipotesi, di un miliardo di lire di capitale, distribuito per 400 milioni in fabbricati, ferrovie, porti, canali, migliorie agricole ed altri impianti fissi della durata media di 30 anni, 300 milioni in macchinari ammortizzabili in 5 anni, 200 milioni in materie prime, semenze, arnesi, materie in lavorazione realizzabili in media in 6 mesi e 100 milioni in prodotti finiti nei magazzini dei produttori, grossisti e negozianti al minuto, destinati a raggiungere in media in 15 giorni il consumatore. Se questa, arbitrariamente scelta a puro scopo di esemplificazione, od un’altra qualsiasi più conforme a realtà, è la proporzione intercedente fra i varii tipi di impiego del capitale nell’immaginario mercato, è chiaro che i 100 milioni investiti in prodotti finiti pronti nei diversi magazzini per il consumo sono altrettanto “fissi” come i 400 milioni impiegati in fabbricati, i 300 in macchinari od i 200 in materie prime. Se noi supponiamo, come si suppone comunemente e si deve supporre dai teorici, che l’imprenditore unico o i molti imprenditori siano puri imprenditori ossia organizzatori del capitale e del lavoro altrui e lavorino con capitale assunto tutto a prestito presso l’unica banca, è chiaro che la pretesa brevità – 15 giorni – dell’impiego per sovvenzioni su prodotti finiti, in confronto della immaginata lunga durata – 30 anni – dell’impiego n fabbricati o porti o ferrovie o canali è una finzione puramente contabile. È tanto poco possibile disinvestire i 100 milioni investiti in prodotti finiti – per intenderci in pane, carne macellata, vino in fiaschi, vestiti fatti, scarpe, ombrelli, ecc., ecc. – quanto i 400 che hanno la forma di canali, fabbricati, ecc. Disinvestire equivarrebbe a non fornire all’imprenditore i mezzi per compiere l’ultimo anello della catena economica: non trasformare la farina in pane, i cuoiami in scarpe, il feltro in cappelli, i panni in vestiti. Si può, se si vuole, ciò fare. Ma bisogna ben ricordarsi che ciò significa arrestare nel tempo stesso la fabbricazione dei prodotti intermedi. Se la farina non può trasformarsi in pane, a che pro’ la farina? Ciò significa altresì inutilizzare i 300 milioni investiti in macchine ed i 400 in impianti fissi. Se i rapporti ottimi fra le diverse specie di investimento sono quaranta, trenta, venti e dieci per cento dell’investimento totale, la permanenza dell’ultimo dieci per cento è altrettanto necessaria quanto la permanenza delle altre quote parti. La banca non può rifiutarsi, sotto pena di arrestare l’intero meccanismo produttivo, di rinnovare indefinitamente lo sconto delle cambiali rappresentanti i 100 milioni di beni finiti, pronti al consumo. Questi 100 milioni sono immobilizzati né più né meno come tutti gli altri milioni facenti parte del miliardo totale. Il tratto differenziale fra quelli che comunemente vengono chiamati prestiti lunghi e prestiti brevi non è dunque la “durata”. Il problema non muta indole solo perché, invece di una sola, le banche sono cento o mille. Con molto andirivieni, il complesso delle banche deve trattare alla stessa stregua impieghi lunghi ed impieghi brevi; non immobilizzandosi mai cioè né in quelli lunghi né in quelli brevi. Devono “girare” tanto gli uni come gli altri. Una banca adatta, per la natura dei suoi depositi, agli impieghi lunghi si immobilizza se l’impiego non si ammortizza con la dovuta velocità e intensità; così come la banca adatta agli impieghi brevi si immobilizza se le cambiali sono rinnovate o decurtate invece che onorate alla scadenza. Una banca la quale immaginasse di salvarsi dalle immobilizzazioni, vulgo ora detti “congelamenti”, solo col fare prestiti “brevi” si sbaglierebbe di grosso; d’ogni teoria volta a differenziare tra banca e banca col criterio della durata è errata alla radice.

 

 

PARLA UN SECONDO TEORICO. – Il logico specializzar banche a seconda dell’industria servita? Mai non s’è visto nessun calzolaio appendere sulla bottega l’avviso: qui si vendono scarpe solo ai contadini. Il cittadino passerebbe oltre, sogghignando: scarpe buone per piedi rustici incalliti dai sassi e sporchi di terra! Il contadino sospettoso: costui crede di farmela, rivendendomi i rifiuti della città! Il commerciante accorto vende ad ogni cliente la merce a lui adatta, dopo averlo persuaso che quella è la merce migliore fabbricata a bellaposta per il migliore dei clienti, che è precisamente sempre quello a cui si parla. Nessun industriale e quindi neppure il banchiere ha interesse a limitar ad ogni costo la sua clientela ad un ceto particolare. Che cosa accadrà se gusti di quel ceto mutano? Che cosa accadrebbe al malavventurato banchiere, il quale si fosse specializzato nel far credito ai lanieri od ai cotonieri od ai setaioli od ai siderurgici e l’industria prediletta subisse una crisi? Purtroppo, in talune zone la specializzazione vien da sé, perché quel centro è tutta lana o tutto cappelli o tutto mobilio. Ma il banchiere, il quale abbia buon senso e prudenza, avrà imparato dall’esperienza passata a tener gran conto di quella che noi vilipesi teorici diciamo teoria della compensazione dei rischi; ed avrà cercato, per quanto sta in lui, clientela fuor del ramo dominante nella sua zona; avrà preso a riporto titoli sicuri nella borsa più vicina – un tempo i migliori direttori di casse di risparmio usavano assai di siffatto prezioso volante regolatore alla unilateralità dei loro investimenti; ma poi ebbero divieto di continuare, non si sa per qual misteriosa ragione, forse perché «riporto» è una parola che ha l’aria speculativa e la gente che sta negli uffici vede il diavolo dietro certe parole e non è mai andata a leggere nel dizionario che «speculare» vuol dire «guardare nel futuro», che a chi gli riesce è una delle più rare e felicissime virtù di cui gli uomini possono essere adorni -; od avrà ingrossato il suo conto corrente presso una banca consorella di altra regione. Più variati sono gli impieghi, ed a parità di altre circostanze, più oculato e tranquillo è il banchiere. Specializzazione funzionale è dunque una frase priva di senso. Il banchiere che la pigliasse sul serio, scaverebbe da sé la propria fossa.

 

 

INTERVIENE UNO STORICO DELL’ECONOMIA. – La tesi che le banche debbono essere poche, ciascuna al suo posto, le piccole nei luoghi piccoli, le medie nei medi centri, le grosse nei grandi e tutte insieme collegate e interdipendenti, su su fino alla banca centrale, fa il paio con quelle tante tesi di tendenze economiche che ogni tanto nascono, diventano di gran moda e poi, dopo un po’, nessuno ne parla più. Adesso, i fabbricanti di tesi storiche si attaccano al corporativismo, che è tutt’altra cosa ed ha scopo ben diverso e più alto da quello di servire di attaccapanni per codesti pseudo-storici delle fatalità economiche. Farebbero meglio, costoro, a non dimenticare l’infortunio accaduto al maggiore della compagnia dei profeti di fatalità economiche, Carlo Marx. Il quale, in combutta con Federico Engels, predisse un bel giorno la fine, per scoppio spontaneo di supercrescenza, del capitalismo. La fine doveva arrivare, anno più anno meno, verso il 1890. Era la storia dei pesci grossi che mangiano i piccoli. Marx ed Engels volevano dire che i grossi industriali stavano mangiando i piccoli, e poi i grossissimi li chiamarono in seguito cartelli, trust, ecc. – avrebbero mangiato i grossi; Finché un colosso avrebbe mangiato i grossissimi. Allora il proletariato avrebbe tagliato la testa, o, misericordiosamente, messo in pensione il colosso ed instaurato pacificamente il socialismo. Tutto ciò fondato su teorie, che ora si direbbero di razionalizzazione od economicità della grande intrapresa in confronto della piccola, ecc., ecc. Non ne fu nulla; e se qualcuno andò colle gambe all’aria furono i palloni gonfiati, i grossissimi, i colossi. Anche nel mare, del resto, pare corrano maggior pericolo di scomparire le balene che i pesciattoli. La dimensione e la distribuzione territoriale sono due soli tra i numerosissimi fattori i quali agiscono sulla sopravvivenza delle imprese; ed a seconda degli altri fattori con cui si combinano, essi agiscono da caso a caso in sensi diversi. Talora, anche nelle banche, sono più economiche le piccole e le medie banche, talora le grosse. Talora prospera la filiale locale di una grande banca cittadina, talaltra invece il banchiere indipendente del luogo. Non si può neppure dire che sia sconsigliabile la creazione di una nuova filiale in una città o in una zona di città o di campagna già servita da due o tre filiali di altre banche. Questo è uno dei più grossi scatoloni vuoti che abbiano mai preso onorevole luogo nei trattati di banca. Là dove i direttori di due o tre filiali non trovano tanto lavoro da pagar le spese e perciò mandano alle direzioni centrali rapporti sulla necessità di intese per ridurre le troppe filiali concorrenti ad una sola, cosicché ciascuna banca lavori organicamente e disciplinatamente in un particolare campo, senza rubarsi i clienti, ecco arrivare un banchiere locale nuovo od una filiale nuova di altra banca e prosperare. Il lavoro di banca, come qualunque altro lavoro, non è qualcosa di preesistente che si tratti semplicemente di occupare. Da un pezzo i giuristi, pure annoverando la “occupazione” tra i mezzi di acquisto della proprietà, hanno cura di avvertire che è mezzo andato giù di moda, non essendovi oramai nei paesi civili alcun terreno nuovo libero da occupare. I razionalizzatori bancari dovrebbero degnarsi di imparare qualcosa dalla prudenza dei giuristi e ficcarsi ben bene in mente che il lavoro bancario non è una torta da dividere, e che le fette non sono il risultato della divisione di una quantità fissa per un numero variabile di partecipanti al banchetto; sicché se le filiali sono tre, essendo l’importo trenta, il quoziente sia dieci, se due cresca a quindici, se una sola balzi a trenta. Gli affari bancari, come quelli di industria e di commercio, non vanno così. L’importo è il termine, non il punto di partenza dell’operazione aritmetica. Può ben darsi che se le filiali o banche che lavorano in un luogo ci riducano da 3 ad 1, il lavoro si riduca a 5 e quell’una rimasta stia peggio di prima; ed invece, se le filiali o banche crescono da 3 a 4, il lavoro totale cresca a 50, e pur accaparrando la nuova arrivata 17 per sé, le altre veggano la loro fetta crescere da 10 a 11. L’appetito fa trottare l’asino. Il lavoro è una continua creazione; ed è creato non dagli scatoloni vuoti del ripartire giustamente il lavoro che c’è; ma dall’emulazione che lascia creare al più capace il lavoro che non c’è. La sola regola buona insegnata dalla storia delle banche di tutti i tempi e di tutti i paesi è dunque di non attaccarsi rigidamente a nessuna regola.

 

 

IL BANCHIERE PRATICO. – Sì, qualche regola esiste; ma è vecchia come Abacucco e frusta come la barba di Noè. Forse forse le regole si potrebbero ridurre a due: «il banchiere conosce un solo dovere, quello verso i suoi depositanti» – «il banchiere piglia i denari di tutti, anche dei cattivi, ma li dà via solo ai buoni». Se il banchiere non dimentica questi due fondamentali precetti, egli può passare brutti giorni, giorni ansiosi, ma,

per quanto valgono le umane previsioni, egli passerà incolume attraverso la tormenta e giungerà sano e salvo in porto.

 

 

Se le due regole sono diventate carne della sua carne, il banchiere è in grado di dar corpo sostanzioso anche alle formule in sé stesse vuote del lungo e del breve, della specializzazione funzionale e territoriale, del grosso e del piccolo.

 

 

Se qualcuno dice al banchiere: tu devi fare operazioni lunghe, perché i tuoi depositi sono a lunga scadenza, ovvero devi fare operazioni brevi, perché i tuoi depositi sono a breve scadenza, egli non scambierà il consiglio, entro certi limiti saggio, per quell’altro: tu che hai depositi lunghi fa “solo” operazioni lunghe, perché queste “sono” per te sicure e tu che hai depositi brevi fa “solo” operazioni brevi, perché queste “sono” per te sicure. Egli sa che quel “solo” e quel “sono” sono fuor di posto, anzi son per lui parole pericolosissime.

 

 

Il banchiere o l’ente, che riceve depositi lunghi o si procaccia fondi con emissione di obbligazioni sa invece tante altre case, fra le quali sono forse degne di ricordo le seguenti:

 

 

  • che egli non può dare a mutuo il cento per cento dei suoi fondi anche se ricevuti a lunga scadenza; ma deve tenerne parte disponibile o investita a breve scadenza. Qualcuno dei suoi clienti non avrà bisogno di nuovi mutui in un momento nel quale al banchiere non giova fare nuove emissioni? Le annualità passive che egli deve certamente solvere a tempo debito sulle obbligazioni emesse non scadranno in un momento in cui i debitori suoi dovrebbero, ma non possono, pagare a lor volta equivalenti annualità di interessi e di ammortamento? Poiché a lui non conviene far fallire i debitori suoi che sa imbarazzati ma solidi e deve e vuol pagare, giova a lui tenere investita a breve termine una parte delle sue disponibilità;

 

  • che vi sono flussi di fondi lunghi i quali non si rinnovano a scadenza, o si rinnovano soltanto dopo un intervallo. Vi sono ondate nei depositi vincolati. Ad un certo momento si riducono, Poiché sono apparsi all’orizzonte dei depositanti impieghi attraenti. Guai al banchiere che, fidando nella rinnovazione dei depositi a un anno, a cinque anni, avesse fatto impieghi più lunghi!

 

  • che quella dei mutui che si ammortizzano entro x anni, dimodoché la banca alla fine ha avuto il rimborso dagli industriali ed ha estinto tutte le obbligazioni emesse in contropartita è osservazione la quale deve essere integrata dall’altra che l’industriale, il quale ha alla fine dell’anno rimborsato un ventesimo del suo debito, vede in quel momento medesimo logorato il suo macchinario per un valore equivalente al debito rimborsato, diguisaché egli deve contrarre un nuovo debito per rinnovare macchinari ed impianti. Il banchiere, per fornirgli i fondi necessari, se il momento non è propizio per nuove emissioni, deve attingere alle sue riserve liquide ossia investite a breve tempo.

 

 

A sua volta, il banchiere, il quale riceve depositi brevi, non può, come racconta la storia della specializzazione temporale, impiegarli tutti in impieghi brevi, che sarebbero il servizio di riscossioni e pagamenti per conto dei clienti, sconti di cambiali, aperture di crediti in conto corrente, crediti documentati e di corriere, riporti su titoli, servizi di cassa, crediti di accettazione, ecc., ecc. Non può, perché tutto questo è lavoro che rende solo a condizione che i saggi passivi di interesse siano nulli o bassissimi, le imposte tenui, le spese generali di amministrazione e quelle specifiche di manipolazione di ogni operazione ridotte al minimo per la massa cospicua di affari fatti. Se il lavoro cade al disotto della media, la grossa banca diventa passiva. Possono sostenersi le medie e le piccole, con poche filiali, gerarchia ridotta, occhio del padrone, ecc. Il banchiere avveduto non solo non può osservare la regola dell’astensione dagli impieghi lunghi, ma non è affatto necessario per lui o conveniente nell’interesse dei clienti attivi e passivi che egli vi obbedisca ciecamente, ad ogni costo. Nessuna regola sensata si può dare in generale. Se il banchiere riceve depositi grossi, di industriali o di commercianti, e sono il fondo di esercizio di questi, il quale accidentalmente riposa tra un acquisto e l’altro di materia prima, egli deve stare sul chi vive e fare impieghi liquidi, meglio se riscontabili a vista presso l’istituto di emissione. Per tutto il tempo che fu a capo del Credito mobiliare, il Balduino vide sempre con sospetto i depositi unitari grossi; e quando non era soddisfatto dei motivi del deposito e della persona del depositante, tanto faceva, racconta Pantaleoni (Scritti, terzo, 377), da arrivare a sbarazzarsi del deposito e del depositante. Se tanto sospetto non piace, certamente occorre sempre tenersi pronti al rimborso e quindi aborrire gli impieghi lunghi.

 

 

Chi oserebbe invece dire che le casse di risparmio debbono seguire la medesima regola? Eppure esse ricevono sovrattutto depositi a vista o, se vincolati, a breve scadenza. Ma son depositi unitariamente piccoli o modesti, di contadini, domestici, operai, pensionati, impiegati, redditieri, piccoli e medi artigiani, commercianti, industriali. In gran parte sono risparmi definitivi, ossia somme che, se si può, non si ha intenzione di toccare, salvo, in parte, quando sorpassino una certa cifra, per acquistare buoni del tesoro, consolidato, eventualmente un appartamento. Il grosso lo si tiene lì, pensando a malattie, ad acciacchi della vecchiaia, a nozze, a morti, ad eventi cioè che non capitano tutti i giorni e possono non capitare mai. Se capitano, accade poi non di rado che l’uomo assestato e previdente – e lo è, se è cliente della cassa di risparmio – vi provvede in altro modo, senza «toccare il capitale». Per fortuna, per questa brava gente «toccare il capitale» – capitale è, nella loro mente, quella qualunque somma di cui essi potrebbero, volendo, disporre ad ogni momento, ma non ne hanno disposto da un po’ di tempo, ad es. da un anno, ed allora essendo circondata da un alone sacro ha cessato, non si sa perché, di far parte del reddito disponibile ed è divenuta misteriosamente capitale, epperciò «intoccabile», che è definizione buona, almeno come tutte le altre offerte dagli economisti – è delitto vergognoso, peccato mortale, di cui sentirebbero il dovere di accusarsi in confessione. La cassa di risparmio che ha raccolto intorno a sé codeste perle di depositanti, perché dovrebbe osservare la regola della specializzazione temporale ed astenersi dagli impieghi lunghi? Per rendere ossequio ad un mito privo di senso, secondo cui, in fatto di depositi e di impieghi, il lungo va col lungo e il breve va col breve? Le regole sono osservabili se buone. Se no, è logico dimenticarsene. A parer mio, perciò, le casse federate di risparmio del Piemonte le quali al 31 dicembre 1933 avevano ricevuto 3.478 milioni di lire, avevano fatto benissimo, sebbene nessuna di esse avesse emesso obbligazioni a lunga scadenza ed il grosso delle loro disponibilità provenisse da depositi brevi o vincolati a tempo che alla comune dei mortali appare breve – l’anno è una unità di tempo breve -, ad investire il 25,39% delle loro disponibilità in mutui, cessione quinto stipendi, partecipazioni, che, ad occhio e croce, hanno tutta l’aria di investimenti lunghi, ed il 48,38% in titoli di proprietà, che sono impieghi brevi secondo un modo di dire che è verissimo Finché non se ne abusa. Si dice che l’impiego in titoli è breve, perché in un battibaleno i titoli si vendono in borsa. Ma è un battibaleno che corre per 100 milioni, per 200; ma se si volessero sul serio realizzare i 1.683 milioni di titoli di proprietà delle casse federate piemontesi bisognerebbe attendere che si sia fatto il mercato, ossia che gli acquirenti abbiano digerito i titoli delle emissioni precedenti o si siano formati nuovi strati di acquirenti. Ossia bisogna aspettare che si sia formato un nuovo risparmio, il che, anche in una regione vasta e operosa e risparmiatrice come è il Piemonte, non è impresa né di un giorno né di un mese. Con tutto ciò nessuno può avere nulla a ridire, se non per lodare i dirigenti delle casse piemontesi per la prevalenza data agli impieghi relativamente lunghi. Se il mercato non offre impieghi brevi sicuri a sufficienza, si dovrebbe forse ridurre, in ossequio al mito temporale, all’un per cento l’interesse offerto ai depositanti? A depositanti, notisi, i quali hanno il vezzo di non volersi impegnare né per dieci né per cinque anni a tenere i loro soldi fermi alla cassa ed i più vogliono “salvarsi” il diritto di farseli dare il giorno dopo; ma, in sostanza, sono attaccati come ostriche alla cassa, e, ben giustamente, tengono i denari depositati non per un giorno od un mese, o cinque o dieci anni, ma per tutta la vita. Quanti impiegati agli sportelli ed alla cassa non sono invecchiati insieme coi loro clienti, puntuali ogni anno a venirsi a far “marcare” gli interessi sul “libretto!”. “Marcare”, non “ritirare”; ed appena “marcato” l’interesse diventa capitale, sacro ed intoccabile. Con questa sorta benemerita di depositanti, sarebbe un non senso che la lettera uccidesse lo spirito e la cassa rinunciasse, come il bonzo davanti all’idolo, a ragionare con la sua testa.

 

 

Non vi è, economicamente, nessuna ragione di distinguere fra cassa e banca. Amendue devono osservare le due regole poste sopra: «il banchiere ha doveri solo verso i depositanti» «il denaro, preso da tutti, deve essere dato solo ai clienti buoni». Se il banchiere ha depositi brevi ed unitariamente grossi ed oscillanti, è bene per lui star lontano dagli impieghi lunghi; se egli ha depositi brevi, ma unitariamente piccoli e stabili, può e nell’interesse dei suoi depositanti deve impiegare una parte in impieghi di media e lunga durata. Quale a questa “parte” non si può dire in generale. Se il banchiere sa il suo mestiere, se è oculato e prudente, cadrà sulla proporzione giusta: 10, 20 o 30 o più per cento. Se non lo sa, se non ha fiuto, e se immagina sperar bene tenendosi al 10%, anche il 10 può essere molto troppo. Forseché si è sicuri che lo sconto di cambiali o l’apertura di conto corrente per il circolante di esercizio siano sul serio impieghi brevi? Come ricordò sopra il “teorico”, lo sconto è breve se la cambiale è ritirata alla scadenza, e se nuove cambiali vengono presentate allo sconto senza legame Né di tempo Né di causa con quella estinta. Ma se, con o senza identità di titolo, la cambiale viene rinnovata con detrazioni scalari, quello è un mutuo lungo bello e buono. Tocca al banchiere non lasciarcisi pigliare o, cadutovi, ritirarsene bel bello, con garbo, con espressioni di affetto verso il cliente, a cui si vuol dare addio prima che fallisca. L’apertura di conto corrente è breve, è commerciale, è di esercizio se il totale delle somme prelevate va a zig zag, toccando talvolta il massimo e cadendo talvolta al disotto dello zero, con un credito del cliente verso la banca. Se le variazioni coincidono con quelle verosimilmente proprie dell’esercizio del cliente, il banchiere si sente sicuro. Ma se il conto corrente ha una mala tendenza a salire sempre ed a non scendere mai, se toccato il massimo si ferma, il banchiere mastica amaro. È caduco nel pantano; e deve pensare a ritrarsene pian piano, senza scandalo, ma con fermezza. Per non incoraggiare i clienti all’immobilizzo, sono giustamente onorate talune classiche avvertenze, che si dicono delle commissioni e del bonifico. Facendo pagare, ad esempio, una commissione del 0,25% non sull’ammontare medio del saldo passivo del conto corrente durante il trimestre, ma sulla cifra di punta massima, si incoraggia il cliente a non toccare il soffitto dell’apertura di credito. Bonificando tutta la commissione se il cliente non sta in debito per più di dieci giorni consecutivi, il cinquanta per cento se la situazione debitoria si cambia in creditoria entro venti giorni – se il conto sta in debito per più di 20 giorni si paga la commissione intiera – si fa sentire al cliente che l’apertura di credito non equivale ad un mutuo, ma è una agevolezza di fisarmonica per potere far fronte agli impegni senza imbarazzo, e resta inteso che il cliente non solo può fare prelievi per pagamenti, ma anche, Poiché nel movimento del suo esercizio incassa, deve fare versamenti in banca.

 

 

Non bisogna del resto prendere sul serio neppure la regola dell’andare in credito una volta ogni dieci od ogni venti giorni o perlomeno una volta all’anno. Se il cliente per andare in credito presso la sua banca, pianta un chiodo da un’altra parte, non è meglio stia in debito permanente, più o meno, presso la solita banca? Almeno il banchiere lo potrà sorvegliare direttamente; Né si può costringere a far prestiti alla propria banca chi ha bisogno del denaro altrui.

 

 

Le regole della specializzazione temporale, funzionale e spaziale devono dunque accettarsi cum granu salis. Il vero essenziale è: non commettere errori. È un errore impiegare a lungo termine quel che sì deve restituire subito; ma sarebbe un errore non impiegare bene a lungo tempo e indursi ad impiegar male è improduttivamente per l’ubbia di volere impiegar corto i depositi a vista che si sa invece destinati di fatto a rimanere in banca vita natural durante dei depositanti. È un errore dar denari ad un’industria diversa da quella locale, non perché sia diversa, ma se e perché, essendo diversa o lontana, non è ben conosciuta. È un errore, per il banchiere specializzato nel conoscere contadini, far mutui al cittadino, non perché non sia ottima cosa far mutui ai cittadini solvibili ed ottimissima distribuire i rischi fra contadini e cittadini, ma perché egli, Tizio banchiere individuo, conosce a fondo i suoi polli contadini ma si lascerebbe imbrogliare dal primo filibustiere cittadino, capitato a tir di mano dei milioni dei suoi depositanti.

 

 

L’errore degli errori, l’errore pessimo e massimo è, in banca, di porsi una regola rigida; o, il che fa lo stesso, voler imporre un regolamento rigido alla condotta dei banchieri. Il regolamento, se regola sul serio, impedisce soltanto le operazioni buone e non vieta le cattive. L’unico regolamento accettabile sarebbe quello che ordinasse ai banchieri di far solo operazioni buone. Lunghe o brevi, a contadini o a cittadini, all’agricoltura od all’industria elettrica, in Lombardia ovvero in Sicilia, purché buone, ossia atte a consentire al banchiere di far fronte, al giusto momento, all’unico dovere che egli ha: restituire i depositi ai depositanti. Il banchiere non ha alcun altro dovere, non deve avere alcun altra preoccupazione. Egli serve il paese solo se sa e sente di non avere alcun altro dovere. Se qualcuno gli capita tra i piedi e gli ciancia di doveri della banca verso l’agricoltura o l’industria o il commercio o l’espansione della bandiera nazionale nei mari del mondo, lo lasci cianciare, ma non gli dia un soldo. Agricoltura, industrie, commerci e bandiere non restituiscono i denari persi in imprese sballate od improduttive. Se le iniziative sono buone, se il richiedente è persona seria ed onesta, sono queste qualità le quali parlano da sé e fanno cacciar fuori denari ai più diffidenti. Il paese si serve aprendo la borsa alle persone serie ed oneste, agli industriali che hanno sempre fatto onore ai loro impegni, hanno mangiato pane e cipolle pur di non lasciar cadere una cambiale in protesto; e chiudendola ermeticamente ai moratoriati, ai concordatari che non hanno neppure pagato la rata minima del 30%, ai falliti, a coloro che son disposti a pagare il 10% di interesse per ottenere denaro da impiegare all’uno per cento. Chi regala denaro a costoro, prepara disillusioni, rovine e disoccupazione, alleva clienti per gli ospedali ed i convalescenziari pubblici, aguzza chiodi da piantare nel bilancio dello stato. Chi è senza pietà per chi non merita credito e dà, entro i limiti della sanità, il denaro a lui affidato in sacro deposito soltanto alla gente sana, fa davvero prosperare agricoltura ed industria, moltiplicar commerci e sventolare gloriosa la bandiera nazionale nei mari più lontani.

 



[i] Mario Luporini, Costi di distribuzione e prezzi al minuto, alla vigilia delle corporazioni. Relazione destinata al congresso nazionale dei dirigenti aziende commerciali. Roma, 1934. A cura della Associazione nazionale fascista dirigenti aziende commerciali, p. 45.

[ii] A carta 22 della memoria sopra lodata così aveva riassunto il Luporini le argomentazioni in materia di prezzi dei razionalizzatori del commercio al minuto.

[iii] A carta 15 della ricordata Relazione. Torino, tip. Vassallo.

[iv] Nel 1851 il conte di Cavour così esponeva il vantaggio che i migliori panettieri traggono dalla formazione spontanea della clientela: «La massima parte dei panettieri, ed in ispecie i più in credito, smerciano gran parte dei loro prodotti a persone solite a provvedersi nelle loro botteghe, colle quali non regolano i conti che ad epoche più o meno lontane: secondo che un negozio ha un numero maggiore o minore di questi clienti, esso è reputato avere un maggiore o minore valore d’avviamento, ciò che costituisce un capitale reale. Ora egli è evidente che una biasimevole coalizione tra i panettieri avrebbe per inevitabile effetto di far perdere ai meglio avviati una gran parte della loro clientela, ciò che costituirebbe per loro una perdita molto maggiore del momentaneo beneficio che dall’accennata coalizione possono sperare (loc. cit., pag. 356)».

 

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