Opera Omnia Luigi Einaudi

Di Ezio Vanoni e del suo piano

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Di Ezio Vanoni e del suo piano

Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1956, pp. 89-130

 

 

 

Questo non è un saggio su Ezio Vanoni studioso; né ha luogo qui una analisi dell’opera sua di ministro delle finanze e del bilancio. Intendo solo dire quale fu, a mio giudizio, il contributo più valido da lui recato all’avanzamento della finanza e dell’economia italiana.

 

 

Lascio volentieri ad altri dirlo riformatore del sistema tributario. Poiché non credo alle grandi riforme, l’elogio, appropriato nella penna altrui, suonerebbe falso nella mia. Sono persuaso che Vanoni si sarebbe compiaciuto assai più di essere detto, nel campo delle imposte sul reddito, «perfezionatore» invece che «riformatore» del sistema tributario italiano; ché sarebbe errore «riformare» un sistema il quale, nei suoi lineamenti essenziali, è perfetto. Le istituzioni buone si guastano riformandole, e solo si possono perfezionare. Le imposte italiane sul reddito (sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile) reggono assai bene il paragone con le (cosidette) moderne corrispondenti imposte che, essendo vigenti nei paesi anglosassoni, sono portate in palma di mano dai soliti scimmiottatori delle meraviglie forestiere. Anzi, sotto varii rispetti le superano. Vanoni resisté alla tentazione, che, forse, era originariamente la sua, di riformare l’imposta dominicale fondiaria e quella sui redditi agrari, e perciò non si decise ad imitare i metodi forestieri inglesi, americani e di altri paesi ancora del mondo, che Carlo Cattaneo aveva bollati come «barbari». Tenne invece fermo al metodo catastale, tanto migliore di quelli invocati dai riformatori, pronti sempre a sentenziare su quel che non conoscono e contribuì ad affrettarne l’applicazione all’imposta sui fabbricati, la sola la quale, nel sistema delle tre «reali», era rimasta arretrata. L’imposta sulla ricchezza mobile, uguale, ove si tenga conto delle sorelle sui terreni e sui fabbricati, a quella che altrove si dice «sul reddito» solo perché le due fondiarie, invece che imposte a sé, sono denominate «categorie» o «schedule» di essa, rimase a ragione immutata nelle sue linee essenziali, anch’esse chiaramente superiori a quelle, pur celebratissime, della income tax inglese; essendo la classificazione italiana dei redditi di capitale, misti e di lavoro tanto più logica di quella, deforme, dei redditi in guadagnati e non guadagnati corrente nei paesi anglosassoni.

 

 

Saggiamente, la riforma nel campo delle imposte sui redditi (le tre reali e la complementare progressiva sul reddito globale) si restringe al perfezionamento dei particolari. Vanoni vide che non occorreva mutare la sostanza, bensì perfezionare i particolari di applicazione. Il cosidetto modulo Vanoni per la denuncia annua dei redditi, che tanto fastidio dà ai contribuenti, è un perfezionamento non del concetto di quel che è reddito tassabile, ma dei criteri del suo accertamento. Il reddito tassabile è oggi quel che era ieri, ma, laddove ieri le denuncie, obbligatorie per legge, erano, col trascorrere del tempo, diventate facoltative per il contribuente, e sostituite di fatto dagli accertamenti dei procuratori alle imposte, oggi sono ridivenute obbligatorie sul serio. Il contribuente deve dire la sua, e gli uffici controlleranno. Purtroppo, dinnanzi al diluvio di milioni di dichiarazioni, gli uffici si sono trovati impreparati. I controlli sono lenti e alla vigilia della scadenza del periodo di prescrizione del diritto della finanza ad impugnare le dichiarazioni dei contribuenti, fioccano a centinaia di migliaia, ed a casaccio, le impugnative dei procuratori alle imposte, impugnative non serie, volte solo ad interrompere la prescrizione. Espediente condannabile, perché crea quella incertezza nel quantum dell’imposta dovuta, che è uno dei vizi massimi dell’imposta, biasimata in ogni tempo e luogo come grave remora all’iniziativa di chi, per produrre il reddito, deve sapere quale sarà la quota appropriata dallo stato. La prescrizione è istituto sacro, al pari e più della non retroattività delle leggi; e dovrebbe essere perentoriamente vietato di sorpassare di un giorno solo il termine fissato dalla legge vigente.

 

 

È vero che le dichiarazioni si noverano a milioni ed è impossibile controllarle tutte; ma il problema non si risolve rendendo biennale invece che annuo il periodo delle dichiarazioni, col rischio di rendere più arduo il controllo per il variare delle circostanze economiche dei contribuenti e più facile a costoro errare od imbrogliar le carte mercé il lungo tempo trascorso. Né gioverebbe crescere il numero dei controllori; anzi il danno dei ritardi, coll’infittirsi dei controllori, col disperdersi delle responsabilità e coll’ingrossare delle gerarchie, tenderebbe probabilmente ad aggravarsi. Il problema si risolve, come detta il buon senso: col rispettare rigorosamente i termini della prescrizione e coll’eseguire i controlli per campione, scegliendo, nel mazzo dei milioni di dichiarazioni, quel dato numero e non più, che i procuratori, all’uopo addestrati e nei singoli rami di attività economica divenuti periti, possono sul serio controllare. La scelta potrebbe convenientemente essere fatta a sorte, in parte nel gruppo dei sospetti ed in parte in gruppi oggettivamente determinati: per specie di attività, acciocché nessuna sia omessa, e per classi di reddito, modeste, mediocri ed alte. Tutti i contribuenti, piccoli, mediocri e grossi subiscono la tentazione di frodare il fisco e tutti occorre controllare. Non gioverebbe trascurare i dipendenti dello stato, il cui reddito è noto e non può sfuggire; perché, nonostante rischino di dimenticarsene, non pochi di essi posseggono qualcosa; l’appartamento, isolato od in cooperativa, finito o non finito di pagare, il pezzo di terra nel luogo natio, il libretto di risparmio, il titolo nominativo od al portatore; e le sanzioni devono essere uguali per tutti. La scelta, entro ogni gruppo, non può essere ad arbitrio del procuratore o del direttore dell’ufficio; ma, affidata alla sorte, deve mantenere in ogni contribuente l’apprensione che la sorte tocchi a lui; e tocchino a lui, se colto sul fatto, le sanzioni severe comminate dalla legge.

 

 

Non partecipo perciò affatto alle critiche mosse al modulo Vanoni, il quale potrà essere semplificato (perché, ad esempio, far eseguire moltipliche dei redditi dominicali fondiari o dei redditi agrari, prima per 12 e poi per 3 o per 4, invece che per 36 o 48, quando in effetto la scheda ha valore solo per i multipli 36 e 48?); ma non è più complicato, anzi più semplice, di quelli in uso nei paesi germanici ed anglosassoni. L’obbligo di riempire il modulo gioverà ai contribuenti medesimi, i quali non si lascino impressionare da inesistenti difficoltà di interpretazione di parole tecniche, che potrebbero essere rese più semplici o spiegate più alla buona nelle istruzioni; né consentano di essere sopraffatti da dubbi artatamente ingrossati da mezzani ed azzeccagarbugli ansiosi di aggiungere all’imposta dovuta allo stato una taglia a proprio vantaggio privato. Salvo i grossi, i quali per forza debbono ricorrere al proprio ragioniere, per non perder tempo, che essi possono meglio impiegare a dirigere la propria impresa, la gran maggioranza dei contribuenti trarrà profitto dal compilare essa stessa la dichiarazione; fare e rifare i conti, con le poche addizioni e sottrazioni e moltipliche a ciò necessarie. A far di conti si guadagna a sapere quel che si è incassato, quel che non si è riscosso o si è malamente speso. Chiedersi perché non si hanno i soldi per pagare l’imposta giova a mettere sull’avviso intorno alle proprie malefatte e può persuadere a benedire il modulo Vanoni il quale ha suonato il campanello d’allarme.

 

 

I perfezionamenti apportati dal compianto ministro al meccanismo delle imposte non si limitano al modulo conosciuto sotto il suo nome. Assai meno noto è un impianto detto meccanografico, creato, inizialmente per consiglio suo, per il controllo della imposta nota col nome di I.G.E. Si può criticare il nome dato all’«imposta generale sull’entrata»; la quale colpisce, invece, detto all’ingrosso, quel che si considera solitamente una spesa. Si può criticare il fatto che essa colpisce la materia prima, ad ipotesi il carbone o il minerale di ferro, all’atto del passaggio dal minatore al siderurgico; e poi l’acciaio direttamente uscito dall’alto forno nel passaggio dal siderurgico al meccanico; e poi il semi-lavorato nell’atto del passaggio dal meccanico al produttore di telai o di macchine da cucire; e di nuovo nel passaggio da questo al grossista e poi ancora al venditore al minuto; tassando e ritassando, per le imprese distinte per tipi di lavorazione, ogni volta la stessa materia; laddove invece la imposta cade una volta sola sul prodotto finito pronto al consumo se l’impresa è organizzata verticalmente dalla miniera alla macchina da cucire e all’automobile, cosicché non ci sono passaggi per vendita, salvo uno alla fine del ciclo produttivo. Cosicché sino dal 1400 alla progenitrice della moderna l.G.E., detta in Ispagna alcavala, si muoveva il rimprovero di favorire i grossi verticalmente organizzati a danno dei piccoli frastagliati e cioè di incoraggiare i monopoli e l’aumento dei prezzi. Si può rimproverare anche all’l.G.E. di essere una finzione o un doppione di altre imposte, come quando per i professionisti, e per talune specie di commercianti, per le quali è praticamente impossibile conoscere i passaggi di merci o di servigi, l’imposta è esatta per abbonamento e costituisce un doppione manifesto dell’imposta di ricchezza mobile. Con l’aggravante che, essendo esatta sul lordo invece che sul reddito netto, cresce il peso complessivo del tributo e cresce la spinta alla frode, la quale notoriamente aumenta coll’ingrossare dell’aliquota.

 

 

Le critiche possono essere reputate esatte e gravi; ma non tolgono il fatto che, sotto variabili denominazioni, l’imposta esiste, e diventa sempre più, in tutti i paesi, anche quelli citati ad esempio dai finanzieri modernisti – e non metto nel novero la Russia dove un’imposta di questo tipo è di gran lunga il capitolo più grosso del bilancio delle entrate statali; ma l’ordinamento collettivistico della produzione della Russia rende difficili i paragoni – un pilastro essenziale della pubblica finanza.

 

 

Pilastro, per avventura, soggetto ad essere riempito all’interno di rottami, ossia di frodi, ed a fruttare assai meno del dovuto. Come seguire, attraverso alle scritturazioni dei conti di magazzino, dei brogliassi quotidiani, del ricevuto e del pagato, le vendite di ogni partita e controllare quel che ha scritto il venditore con quel che scrisse il compratore? Di qui ispezioni, irruzioni improvvise delle guardie di finanza; di qui le dicerie di contribuenti onesti terrorizzati, e di quelli furbi pronti a connivenze transattive con gli ispettori e le guardie, ed un sussurro sospettoso di mance e bustarelle, di arricchimenti e dispendi stravaganti di impiegati che ieri stentavano la vita col solo stipendio.

 

 

Perciò merita attenzione, come opera veramente riformatrice, assai più delle nuove leggi proposte dai giustizieri – così si chiamano i propugnatori della giustizia tributaria improduttiva un impianto, inizialmente voluto dal Vanoni, detto meccanografico; che andai a visitare in Roma qualche mese addietro.

 

 

Di che cosa si tratta? Ogni vendita di un qualsiasi prodotto – chiedo venia della mia grossolana maniera di spiegare la faccenda – deve essere dal venditore e dal compratore registrata su certi moduli, di diverso colore e contenuto a seconda della specie dei contribuenti, dei quali una copia arriva a Roma all’ufficio meccanografico. Dove si riconosce senz’altro che i moduli per se stessi non possono essere utilizzati, perché occorrerebbe smistarli per regioni fiscali, per comuni, per industrie, per nominativi, allo scopo di conoscere quale è il gettito dell’imposta sotto i tanti aspetti sotto i quali è utile studiarli a scopo di controllo. Campa cavallo che l’erba cresca. A classificare foglietti spesso scritti su carta sottile passerebbero anni, assai di più, dato il numero tanto più grande, di quelli che occorsero per persuadersi che lo schedario centrale delle azioni non serviva a nulla ed occorreva ricominciare da capo. Il problema si risolve ogni giorno con facilità da banche, società industriali e commerciali, enti economici, acquistando certe macchine classificatrici e calcolatrici e mettendole in opera. In pochi minuti si sa quel che, usando le dita e conteggiando a mente, occorrerebbero settimane e mesi. Il guaio – piccolo guaio per una ditta bene attrezzata – è che le macchine calcolatrici non leggono moduli scritti a mano od a macchina e riprodotti in più copie a mezzo della solita carta colorata. Le macchine leggono buchi opportunamente disposti su cartoncini un po’ sostenuti. Chi trasforma le parole scritte in buchi, in attesa che le parole possano essere scritte, come si dice succeda già in qualche caso negli Stati uniti, in apposito inchiostro, simpatico alla calcolatrice e da questa leggibile? Per ora, la lettura dei moduli deve essere fatta da uomini vivi, che sappiano leggere le parole scritte sui moduli e trasformarle, si intende a mezzo di apposito congegno, in buchi ben disposti. Apparve subito un grosso inconveniente. Se si dava da fare i buchi ad impiegati di ruolo o non di ruolo, con orario ed ore straordinarie, tutelati dalle garanzie giuridiche proprie degli impiegati statali, sia pure avventizi, forniti di qualifiche e di gerarchia, poteva darsi si impiantasse una direzione generale e poi un sottosegretariato; ma era assurdo sperare che i cartoncini forati venissero fuori per tempo; anni ci sarebbero voluti, invece dei giorni o del mese, entro il quale importa eseguire controlli, fare sopraluoghi e richiedere spiegazioni. Convenne ripiegare sull’iniziativa privata o semi-privata, costituire una società anonima, forse parastatale, dotata di un succinto numero di avventizi, tutti giovani, discretamente pagati a cottimo e vogliosi di farsi valere. In tempo normale i buchi si fanno e i cartoncini sono pronti per essere immessi nelle calcolatrici. Dopo un po’ si riconobbe che il lavoro era troppo noioso e che gli avventizi non resistevano. L’anonima risolse il problema, creando una rapida rotazione di avventizi; procacciando altrove acconcia sistemazione a coloro che, con il ben servito per il buon lavoro compiuto, non se lo fossero trovato da sé; ed assoldando sempre nuovi avventizi disposti per un anno o due a compiere lavoro ben remunerato ed a fare un tirocinio non inutile per il loro collocamento futuro.

 

 

Neppure l’impianto meccanografico da sé legge buchi. Come accada che i cartoncini bucati si trasformino in tabelle a doppia od a tripla entrata, le quali dicono quel che si desiderava sapere, e cioè classifichino gli incassi e il loro numero e data per nominativi, per comuni, per regioni, per rami di attività, si capisce solo quando si guarda dietro al congegno e si contempla un intrico complicatissimo di fili, percorsi dalla corrente elettrica, i quali, incontrando i buchi, danno luogo alla giusta registrazione. Coloro che inventano le macchine calcolatrici sono per fermo uomini forniti di nozioni scientifiche precise, sempre all’erta per scoprire nuovi perfezionamenti, atti a tradurre i buchi in tabelle. La macchina non essendo tuttavia inventata appositamente ad uso dell’I.G.E., occorrono altri cervelli fini e pazienti, i quali dispongano i fili in modo che il macchinario lavori ai fini desiderati e produca le tabelle utili al controllo dell’imposta. Anche qui, la macchina non risponde spontaneamente alle richieste dei funzionari. Occorsero mesi di lavoro per persuadere il meccanismo a rispondere alle domande, e in qualche momento l’impresa parve dovesse essere abbandonata per disperata. Finalmente anche l’impianto meccanografico statale fu messo a punto e sta compiendo il suo lavoro, così come da anni fanno gli impianti di banche, di imprese industriali e commerciali bisognose di conoscere di giorno in giorno la loro situazione in generale e nei rispetti dei clienti, dei fornitori, dei creditori e dei debitori, della merce in partenza, in viaggio e in arrivo. Quel che l’impianto dice è già molto. Le ispezioni e le visite non e più necessario farle a caso, o per sospetti od in seguito a suggerimenti di lettere anonime. I rilievi statistici quotidiani dicono in quale città, regione, ramo di attività economica od impresa individuale si è verificato uno scarto dal normale; e se il motivo non ne appare a prima vista plausibile, il controllo è giustificato e non lascia luogo a sospetti di arbitrio o di sapiente persuasione al silenzio.

 

 

Fa d’uopo fare un passo ancora per toccare la perfezione: comprare nuovo macchinario, mettere al cimento altri cervelli fini e pazienti i quali dispongano un nuovo meraviglioso intrico di fili, sì che escano fuori una scheda nella quale Tizio si riscontra venditore a certe date, di queste e quelle partite di merci, di tale e tale peso o lunghezza o numero, di tale prezzo per unità e di tale importo complessivo, a Caio; e un’altra scheda, intestata a Caio, dichiari quali partite, a quella data, di quale peso o lunghezza o numero e di quale prezzo per unità e di quale importo complessivo egli ha ricevuto ed ha pagato a Tizio. Cosicché, se le cifre coincidono, non vi sarà nulla a ridire; ma se sono differenti appaia utile una richiesta di spiegazioni.

 

 

Il già fatto e quel che si spera di fare pare a me una gran riforma, assai più feconda per il tesoro e per la onestà tributaria di quel che non siano le riforme «radicali« – «di struttura» – «progressive» invocate dai giustizieri; e la benemerenza di Vanoni per avere dato l’avvio, seguitato poi dai ministri suoi successori, a questa «minima» riforma, poco vantata perche «tecnica», mi pare da mettere sopra quelle riferite a vistose leggi nuove e perciò meglio note al pubblico. Il metodo potrà essere, se si voglia, applicato all’attuazione dell’articolo 17 sui contratti di borsa; dove le difficoltà tecniche non sono maggiori e forse sono minori di quelle già superate e che si presume di superare per l’I.G.E. ma forti sono le tentazioni di farne uso pericoloso. Il rischio visibile è che l’articolo 17 sia fatto servire, senza frutto per l’erario, a soddisfare di quando in quando clamori persecutori di chi vuole multe e galera per i grandi speculatori inadempienti all’obbligo tributario. Se l’articolo 17 deve funzionare efficacemente al punto di vista tributario esso deve soddisfare a talune ovvie condizioni:

 

 

  • Per se stesso l’articolo 17 non dà luogo ad alcun accertamento e pagamento di imposta. Non esiste nella legge italiana alcuna norma la quale sancisca la tassazione dei lucri di borsa che fossero accertati dalle macchine calcolatrici all’uopo disposte. Quel che si può e si deve accertare è il totale algebrico dei lucri e delle perdite risultante durante l’anno fiscale al nome di ognuno di coloro i quali hanno operato in borsa. Né quell’importo è «per se stesso» suscettivo di tassazione. La cifra dovrà dal contribuente essere aggiunta, nella dichiarazione del reddito di cat. B dell’imposta di ricchezza mobile, agli altri redditi industriali o commerciali riscossi dal contribuente nel medesimo anno. Se la cifra è positiva, per esempio di 1 milione; e se gli altri redditi della stessa categoria sono di 4 milioni, il totale reddito tassabile con le aliquote proprie della imposta di ricchezza mobile risulterà di 5 milioni. Se la cifra fosse negativa, il totale risulterebbe di 4 meno 1, ossia 3, e 3 milioni sarebbero tassabili dall’imposta di ricchezza mobile. In seguito le stesse cifre di 5 e di 3, ridotte dell’importo delle imposte erariali e locali ed altre deducibili legalmente, dovrebbero essere trasportate nella pagina dell’imposta progressiva complementare e concorrerebbero a formare il totale reddito tassabile ai fini della progressiva.

 

 

  • Ecco tutto. L’articolo 17 non crea nessuna nuova imposta e giova soltanto a controllare la esattezza delle dichiarazioni ai fini delle imposte vigenti di ricchezza mobile e progressiva complementare. Frutterà esso qualcosa all’erario? La risposta dipende dalle previsioni che si possono fare sulla prevalenza delle cifre positive e di quelle negative al tirare complessivo dei conti fatto dall’impianto meccanografico a carico dei singoli operatori di borsa. A meno che si voglia tener conto solo delle cifre positive, il risultato è dubbio. I contratti di borsa, particolarmente quelli detti speculativi a termine, che si chiudono per lo più col pagamento delle differenze, sono utilissimi per l’economia nel suo insieme; perché essi si sostanziano in previsioni sull’avvenire e forniscono guide preziose a chi eserciti industrie e commerci; ma è assai dubbio diano luogo, salvo in tempi di svalutazione monetaria – ma allora esistono redditi veri? a risultati complessivamente positivi. Quando la tendenza o l’andazzo è al rialzo, tutti guadagnano e la finanza lucra l’imposta (definita come sopra) sulle differenze in più; quando la tendenza si volta, lucrano solo i pochi ribassisti dai nervi di ferro, ed i rialzisti scornati hanno diritto di dedurre le perdite subite in borsa dal totale degli altri loro redditi. Dubito assai che il guadagno netto di maggior tributo a favore della finanza, equivalga, anche lontanamente, al netto ricavo di una surrogatoria supplementare, esatta, senza quasi alcuna spesa e senza impianti meccanografici, a mezzo dei soliti foglietti bollati.

 

 

  • Il lucro della finanza crescerebbe una tantum per cifre grosse, se il controllo instaurato in virtù dell’articolo 17, mettesse in luce che un certo numero di operatori di borsa ha impiegato chi 10, chi 100, chi più milioni di lire in riporti o in altri investimenti rimasti sconosciuti alla finanza, ne ha ricavati redditi e né capitali né redditi furono mai denunciati ai fini delle imposte di ricchezza mobile, complementare e patrimoniale progressiva. Potrebbe essere una razzia mai più vista a pro dell’erario. La vedremo? Non oserei dare una risposta. Non mi pare facile che la finanza si decida, come probabilmente sarebbe nel suo interesse, a proclamare un indulto per il passato, a mettere una pietra tombale su quel che è stato e ad accettare, senza multe e tasse per il passato, le dichiarazioni nuove che i contribuenti facessero in tema di patrimoni e di redditi al momento dell’entrata in vigore dell’articolo 17. In Italia sono troppo numerosi coloro che sono pronti ad esclamare: «pereat mundus, sed fiat justitia». Sta bene che la «justitia» non darà il becco di un quattrino all’erario; e che i colpevoli troveranno od hanno già trovato modi di far emigrare i loro patrimoni là dove saranno soggetti ad imposte certe a prò di stati stranieri, ma si sottrarranno al non calcolabile rischio italiano di imposte incerte e di multe, rese spaventose dall’immaginazione e dalla lettura dei testi di legge. Ma sta bene anche che i «giustizieri» non si curino dell’erario e solo intendano a proclamare sulla carta l’avvento della giustizia.

 

 

  • Forse però il rischio maggiore dell’articolo 17 non è nella sua possibile improduttività fiscale.

 

 

Il capo dell’ufficio meccanografico per l’I.G.E. quando alla chiusura dei conti d’ogni sera conosce qualche notizia interessante, non saprei come se ne possa servire, eccetto che per proporre l’indomani al suo direttore generale una ispezione urgente. Chi sia sospettoso, può immaginare che egli profitti delle notizie apprese per mettere sull’avviso l’eventuale colpevole; ma è gioco che dura poco e sarebbe subito scoperto. Il capo dell’ufficio meccanografico per l’articolo 17 per i contratti di borsa avrebbe ben altro potere in mano. L’uomo non adamantino dinnanzi alle tentazioni, il quale conosca la «posizione» allo scoperto, al rialzo od al ribasso, della piazza o di tutte le piazze italiane, resisterebbe sempre al miraggio della fortuna, della grandissima fortuna da guadagnare, facendo la contropartita od in altro modo traendo vantaggio dalla privilegiata situazione in cui egli si trova? Uno o parecchi amici fidati egli sarebbe sicuro di aver sottomano ad agevolargli le operazioni necessarie per potersi ritirare a tempo giusto senza dare nell’occhio a nessuno.

 

 

Il problema dell’articolo 17 non è dunque di possibilità tecnica. E il solito problema morale della scelta dei capi e dei funzionari delle amministrazioni statali; che, se fosse risoluto, non farebbe d’uopo affidarsi sovratutto a leggi di sospetto, ad articoli 17, ad impianti meccanografici e altrettanti espedienti.

 

 

Frattanto, l’amministrazione finanziaria continua, in seguito all’impulso dato dal compianto ministro, nell’opera minuta, la sola feconda, di perfezionamento dei congegni tributari. Quante volte si è lamentata la difficoltà di controllare, non ai fini dell’imposta fondiaria, la quale non abbisogna di dichiarazioni, ma di quella complementare progressiva sul reddito totale, le dichiarazioni dei proprietari di terreni, i quali posseggono particelle catastali (unità di misura e di stima) in comuni e provincie diverse? Ecco che, grazie ad un impianto simile a quello dell’I.G.E., sarà presto possibile (sperimenti parziali sono già stati compiuti) possedere l’elenco delle particelle catastali con le cifre di superficie, di cultura, di qualità e di stima, possedute da Tizio in tutto lo stato.

 

 

Quale proprietario di terreni, il quale abbia comprato e venduto, per arrotondamento, anche minime superfici di terreno, non ha preso grosse arrabbiature per i ritardi nelle volture, per accelerare le quali e remunerare gli ufficiali addetti al lavoro aveva pagato fior di casuali? Sicché, per anni ed anni, egli ha dovuto rimborsare al venditore l’imposta e le sovrimposte sui terreni oramai suoi, ma non ancora intestati al suo nome; sottostando alla noia e talvolta al dispendio dei calcoli necessari per conoscere l’ammontare del rimborso dovuto. Ed uguale fastidio ha dovuto subire per calcolare quanto egli pagò su terreni non più suoi e per persuadere il compratore, diffidente come spesso sono i contadini, della correttezza del calcolo. Oggi si spera che le macchine alleviino e spiccino i calcoli dell’ufficio catastale, sicché in pochi mesi ad ognuno sia attribuito il debito suo d’imposta.

 

 

Non occorrono leggi nuove e riforme di fondo per perfezionare i metodi di accertamento delle imposte; né occorrono leggi nuove riformatrici per far sì che i funzionari tributari diventino sempre meglio capaci di applicare con serenità e con giustizia le imposte vigenti. Vanoni anche qui diede impulso alla elevazione intellettuale e morale dei procuratori alle imposte sugli affari, sui redditi e alle dogane con la istituzione di scuole speciali, nelle quali gli ufficiali tributari, ad imitazione di quel che da gran tempo si usava per gli ufficiali ed i sottufficiali delle forze armate, seguono corsi di applicazione e di perfezionamento nelle discipline teoriche e pratiche inerenti ai loro compiti. I soliti giustizieri non vedo abbiano dato gran peso alla istituzione delle scuole tributarie; ma, poiché è vano immaginare che le imposte siano bene applicate da chi non le conosce bene, nella lettera e nello spirito, così invece reputo che la istituzione di scuole tributarie sia uno di quei perfezionamenti, inavvertiti dalla opinione pubblica e politica, i quali valgono, per la buona distribuzione e la ragionevole produttività delle imposte, più di qualsiasi «grande» o «audace» o «moderna» riforma sia immaginabile.

 

 

E vengo al «piano» che, insieme all’«obbligo della dichiarazione annua» ha reso in Italia popolare il nome di Vanoni. In verità il suo autore ha preferito, invece che di piano, parlare di «schema o programma di sviluppo dell’occupazione e del reddito». La parola «piano», sospettata, come se necessariamente presupponesse o preludesse ad una abolizione o riduzione progressiva della economia di mercato o privata a prò di un progressivo incremento dell’economia statale disposta dall’alto. Non ho di questi scrupoli ed adopererò la parola «piano» invece delle più lunghe e meno comode espressioni «schema o programma di sviluppo».

 

 

Nella accezione ordinaria della parola «piano» è inteso che essa si riferisca a qualcosa che riguarda, invece che il presente, l’avvenire, sia pure il prossimo avvenire; e suppone che questo qualcosa non sia immobile ma si muova e muti, e cioè si sviluppi. Nessuno fa piani per l’attimo presente. Quel che accade oggi, accade già, è già visto e non occorre prevederlo. Si fanno piani per l’avvenire e non per il presente che, quando ne parliamo, è irrevocabile e sta diventando o è già diventato passato; per il passato e per il presente si fanno invece rendiconti o relazioni storiche.

 

 

Quanto all’avvenire, il concetto del «piano» non solo è ovvio, ma è di tutti. Tutti che viviamo, salvo i selvaggi veri, dei quali i viaggiatori che primi li frequentarono dicono la incapacità di concepire il «domani», sicché divorano subito tutta la selvaggina captata oggi e fruiscono perciò, invece di dispense, di ventri enormi destinati a ridursi nei tempi di magra; e salvo i selvaggi moderni, incapaci a pensare ed a provvedere all’indomani, tutti facciamo piani. Fa piani la moglie del salariato, quando riceve la busta-paga settimanale o quindicinale del marito e ne distribuisce l’importo fra l’assegno al marito medesimo, l’accantonamento per il fitto di casa, le tasse, i vestiti, il riscaldamento, l’illuminazione e le altre spese la cui scadenza non coincide con la settimana o la quindicina e poi fa il conto di quel che le rimane per le spese correnti di vitto e varie giorno per giorno e riparte la somma tra le diverse voci di spesa, in modo che i conti tornino e l’uscita bilanci l’entrata. Di questa madre di famiglia noi diciamo che essa ha la testa a segno; e siamo sicuri che, sorgendo la necessità, essa troverà sempre in qualche cassetto o buco o materasso il valsente necessario per far fronte alla spesa imprevista e imprevedibile. Senza darsi tante arie e senza mettere nulla per iscritto, costei ha un bilancio in testa, ha un piano di condotta; e noi siamo sicuri che, anche se il guadagno del marito è modesto o scarso, la concordia e la prosperità regneranno nella famiglia, i ragazzi saranno bene educati e faranno buona riuscita. Se invece la moglie non sa far piani e bilanci ed al venerdì mattina dovrà accattare a prestito le vivande dal bottegaio, la busta-paga sarà dimezzata subito per saldare i debiti, anzi, non si sa come, da se medesima rimpicciolirà, diventando sempre meno appropriata ai bisogni della famiglia; ed il come è noto, ché il marito, rivaleggiando con la moglie, sottrarrà in anticipo qualcosa per i suoi bisogni particolari, i litigi cresceranno, la miseria prenderà domicilio nella casa, che i bimbi ed i ragazzini abbandoneranno volentieri a prò della strada e di compagnie cattive o non buone.

 

 

Fare un piano è condizione necessaria in tutti i rami di attività. Artigiani, venditori ambulanti, bottegai, commercianti piccoli e grossi, industriali, capi di imprese, agricoltori, banchieri fanno piani, compilano bilanci, inventari, tengono conto del mutevole succedersi delle entrate ed in relazione alle condizioni accertate correggono continuamente i piani preventivi. Tutti, salvo gli imprevidenti e gli innocenti, fanno piani.

 

 

Perciò fa piani anche l’uomo di stato e di governo; e sempre li ha fatti e li farà. Che altro sono i bilanci che i ministri presentano al parlamento, se non previsioni o piani di quel che accadrà, per le entrate e le spese dello stato, nel prossimo esercizio finanziario?

 

 

Perciò, anche in Italia, da qualche anno, il ministro del bilancio presenta al parlamento un rapporto, sempre più grosso e più ricco di dati, intitolato «Relazione generale sulla situazione economica del paese», il cui contenuto risponde ad una esigenza che, già nel 1947, quando mi capitò di attendere all’ufficio di ministro del bilancio, avevo esposto alla costituente: quella di innestare il bilancio dello stato, ossia le previsioni delle entrate e delle spese pubbliche, sul tronco del maggior bilancio delle entrate e delle spese di tutta la collettività nazionale. L’idea era tutt’altro che nuova; che da anni gli inglesi e gli americani pubblicavano certe economic surveys, nelle quali appunto si dava notizia dei dati relativi alla parte (bilancio dello stato) ed al tutto (bilancio della intera nazione); e fu attuata nel nostro paese in ubbidienza ad una legge del 1949, promossa dall’iniziativa degli on. Ruini e Paratore. Come si può invero deliberare sul bilancio dello stato (e, si intende, delle regioni, delle provincie, dei comuni e degli altri enti aventi diritto di imposta); decidere che, ad esempio, le spese debbano aggirarsi sui duemila ovvero sui duemilacinquecento ovvero ancora sui tremila miliardi, se non si sa se il reddito nazionale, e cioè, all’ingrosso, la somma dei redditi di tutte le persone fisiche e giuridiche italiane, eliminati i doppi, sia di nove o di dieci o di dodici o più migliaia di miliardi? Una spesa statale di tremila miliardi che sarebbe intollerabile se il reddito nazionale fosse di novemila diventa tollerabile, se il medesimo reddito tocca i dodicimila miliardi. La spesa pubblica è condizionata dal reddito totale nazionale ed a sua volta questo è più o meno alto a seconda dell’uso fatto della porzione che di esso è appropriata dallo stato. L’arte del finanziere consiste nel cercare l’optimum nel rapporto fra spese pubbliche e spese (od entrate) totali, ed è certo che un optimum esiste; esiste cioè un cosifatto ammontare di spese pubbliche, dato il quale il reddito nazionale diventa un massimo. Suppongo che gli econometrici determinino abbastanza agevolmente l’equazione atta a legare le quantità entrate e spese pubbliche, reddito e spesa (consumi ed investimenti) della collettività nazionale, in modo si verifichi il massimo desiderato in qualcuna delle quantità considerate. Se però la soluzione teorica può essere agevole per i sempre più numerosi iniziati al calcolo matematico; è assai più ardua la soluzione concreta, nei varii paesi ed anni, tanti sono e tanto variabili i fattori dei quali si deve tener conto. Come, tuttavia, giungere ad una soluzione grossolanamente discreta, ottenuta e continuamente modificata per successive approssimazioni e tentativi ripetuti, se non cerchiamo di raccogliere i dati necessari alla stima, se non facciamo previsioni di spese e di incassi per il prossimo avvenire, se non provvediamo a mutare e perfezionare le previsioni tenendo conto della esperienza mutevole di ogni giorno?

 

 

La necessità di calcolare e di prevedere esiste qualunque sia il regime economico nel quale si vive. Debbono far piani i governanti nei regimi collettivistici; non foss’altro perché il governo deve esso stesso decidere quali attività debbono essere più o meno sviluppate o frenate le une in confronto delle altre, quali investimenti debbono essere compiuti, quali consumi debbono essere consentiti, ove si voglia consacrare una data proporzione del frutto totale del lavoro e del capitale (sociale) esistente a nuovi investimenti. Se si vuole dedicare il 20 per cento del reddito nazionale agli investimenti nuovi, rimarrà l’80 per cento per i consumi correnti; ché, se invece deve essere investito il 30 od il 40 per cento, i cittadini, in quanto consumatori, dovranno stringere la cintola e contentarsi di consumare il 70 od il 60 per cento del reddito totale.

 

 

In uno stato, nel quale abbia invece larga parte l’economia di mercato, i medesimi calcoli devono essere compiuti, e si devono fare previsioni analoghe. Come si fa a sapere quanto si investe se non si prevede e non si sa quanto si consuma? Come si fa, qualunque sia il regime economico, a conoscere ed a deliberare quel che deve essere speso per la difesa, per la sicurezza, per la giustizia, per l’istruzione, per i lavori pubblici ecc. ecc., se non si sa quanto si produce in totale e quanto deve essere destinato all’alimentazione, alla casa, ai vestiti ed alle altre spese correnti di consumo?

 

 

La differenza fra i due tipi di regime, collettivistico e di mercato, sta in ciò che nel regime collettivistico le previsioni e le decisioni, vengono dall’alto. Esiste al centro un ufficio del piano, il quale ricerca e conosce i dati intorno alle diverse quantità economiche, e, quando li abbia conosciuti ed apprezzati, costruisce un progetto di utilizzazione dei fattori di produzione per un certo periodo di tempo; di solito, oggi, un quinquennio o quadriennio. Quel che si è deliberato all’inizio del quadriennio non deve essere necessariamente attuato alla lettera. Le vicende delle stagioni, le ripercussioni degli avvenimenti internazionali, le scoperte scientifiche e le relative invenzioni ed innovazioni tecniche sono tenute presenti dall’ufficio centrale del piano; e questo è e deve essere dunque in continua diuturna modificazione.

 

 

Nei regimi dove domina l’economia di mercato, un piano esiste; ma non viene dall’alto. In parte si fa da sé, per l’azione di migliaia e milioni di imprenditori, minimi, mediocri, grossi e grossissimi; ed in parte, per quanto tocca il bilancio statale, si attua per decisioni dall’alto, del parlamento, del governo e delle amministrazioni pubbliche. Poiché tutti gli imprenditori, privati e pubblici, debbono necessariamente far piani, decidere ed attuare decisioni nel quadro in cui vivono ed operano, tenendo conto dei risultati dell’opera contemporanea altrui, un piano si attua. Il piano collettivistico appare più sistematico, più voluto, più coordinato perché dominato da una volontà centrale; il piano delle economie di mercato è determinato dai prezzi che di giorno in giorno regolano gli scambi, ed appare più casuale o meno coordinato; epperciò i suoi avversari lo dicono anarchico. Una volontà unica appare meglio logicamente intesa ad uno scopo; il re prezzo ha invece, dissi un giorno, il berretto un po’ per traverso e pare vada percorrendo la rada a tratti ed a zig zag, senza una direttiva precisa.

 

 

Il piano collettivistico, dall’alto, repugna sovratutto per ragioni spirituali e politiche; essendo necessariamente incompatibile con la libertà e con il rispetto della persona umana. I capi del piano sono i padroni della vita dei cittadini; e questi, quali si siano le parole scritte nelle costituzioni e nei codici, sono costretti o persuasi a uniformarsi alle idee ed ai modi di vita inculcati da coloro che hanno potere. Non occorrerebbe altra critica contro il piano dall’alto; ma, si può soggiungere che, essendo gli uomini soggetti ad errare, l’errore di impostazione, di variazione o di esecuzione del piano essendo opera di un uomo solo o di un collegio centrale, può essere cagione di perdite grosse, non riparabili se non con sforzi rilevantissimi. Laddove invece il piano dal basso, frutto dei tentativi e del disordine, cosidetto anarchico, del mercato è soggetto bensì ad errori, ma nessuno di essi è decisivo per l’insieme dell’economia della nazione e vi è una certa probabilità che gli errori di alcuni siano compensati dal successo dei più.

 

 

L’errore del piano dall’alto non dà luogo a quelle che si chiamano «crisi» non tanto perché nei regimi collettivistici necessariamente assoluti, i fatti sono scarsamente noti e noti soltanto nei limiti di convenienza del gruppo dominante, quanto perché le merci sbagliate non perciò difettano di mercato. Essendo le sole offerte, a prezzo fissato d’autorità ed essendo generalmente di tipo uniforme, i consumatori cosa altro possono fare se non rassegnarsi? Le crisi assumono nomi diversi da quelli consueti nei paesi dominati dall’economia di mercato, e dànno luogo, invece che a disoccupazione e sottooccupazione, a salari bassi per le moltitudini, con eccezioni per i privilegiati, a necessità di lavoro per le donne, le quali rimarrebbero volentieri a casa, ed a consumi uniformi, praticamente imposti da decisioni dall’alto.

 

 

L’«anarchia» nei piani dal basso, ad opera delle forze messe spontaneamente in azione dal mercato, non è affatto anarchica; perché l’operare economico è determinato dalle variazioni dei prezzi. Il ribasso dei prezzi segnala diminuzione delle quantità domandate od eccesso di quantità prodotte; e col suo medesimo verificarsi, sprona la domanda e consiglia a ridurre la produzione; e il contrario accade se i prezzi aumentino.

 

 

Il piano, che si attua per tentativi e correzioni in seguito al comando del signor prezzo è preferibile al piano attuato per il comando del signor capo dell’ufficio piani? Forse, il solo persuaso della superiorità del piano dall’alto, è il suo capo. Del resto, la anarchia o cecità dei piani attuati in seguito ai consigli cosidetti accidentali del prezzo, può essere a sua volta, indirizzata da chi ha il potere politico. Da che vivo, ho sempre letto, nei trattati di economia, che a controbilanciare lo avallamento della domanda e perciò dei prezzi e quindi della produzione ed il crescere della disoccupazione nei tempi detti di crisi, importa che lo stato riservi la domanda sua prorogabile a quei momenti del ciclo economico, in cui si riduce la domanda privata, ai ben noti anni delle vacche magre; ed in quei momenti intensifichi i lavori pubblici, le bonifiche, i rimboschimenti. importa invece che negli anni attivi, quando la domanda privata assorbe i fattori di lavoro e di capitale disponibili, lo stato prepari i progetti di massima e quelli particolareggiati da attuarsi nell’ora della bufera. Purtroppo, governanti ed amministrazioni si sono sempre infischiati dell’antichissimo consiglio; sia perché non del tutto a torto ritengono vano e costoso apparecchiare nei tempi di bonaccia progetti che poi, quando si dovranno attuare, parranno superati dal progresso della tecnica; sia perché si può ben insegnare, come si insegna ab immemorabile, che lo stato deve avere sempre pronti i quadri, lo stato maggiore e qualche sottufficiale, da riempire nell’ora del bisogno, ma di fatto i quadri non vivono a sé e creano, sia che i tempi volgano a bonaccia o ad uragano, i proprii soldati e li devono far lavorare. L’opinione pubblica, rappresentata da parlamentari, da giornali, da consigli provinciali e comunali penserebbe: perché pagare costoro a vuoto, quando urgono la costruzione di strade, il riattamento di ponti, l’arginatura dei fiumi, i rimboschimenti? Forseché le alluvioni, i terremoti, le siccità, gli scoscendimenti dei terreni sfatti delle montagne e delle colline nude attendono a far danni che sia giunta l’ora della crisi e sono rispettosi dei tempi prosperi? Gli edifici scolastici si devono fare, non quando piaccia al piano di lotta contro le crisi e la disoccupazione, ma quando cresce la popolazione scolastica e si elevano giuste querele contro l’analfabetismo dovuto all’incuria verso la scuola.

 

 

Giova sperare che l’antico precetto, perfezionato da nuovissime raffinate teorizzazioni e da laboriose esercitazioni scolastiche, possa oggi essere applicato ad oggetti nuovi, a scopi aggiunti a quelli che sono il compito normale – in tempi buoni e in tempi cattivi – dello stato; giova sperare che le difficoltà vecchie e da tempo immemorabile chiarite nascenti dal fatto che spesso ponti e strade e bonifiche e rimboschimenti e edifici scolastici e porti si debbono intraprendere in certe località e non in certe altre e che, manco a farlo apposta, in quelle località non esistono disoccupati e bisogna trasportarli, inviti, d’altrove, e costruire case o baracche per alloggiarli e provvedere a tutto ciò che occorre ad una popolazione improvvisata e fluttuante; mentre spesso i disoccupati insistono per trovar lavoro là dove hanno casa e famiglia e dove i lavori pubblici possibili sono assai meno redditizi di quel che il piano richiede e darebbero luogo ad uno spreco dello scarso risparmio che in paese si produce.

 

 

Il piano Vanoni risponde alla necessità di fare intervenire lo stato a fare nel decennio 1955-64 ciò che è necessario affinché il reddito nazionale, il risparmio e gli investimenti crescano in modo che al finir del decennio siano assorbiti i quattro milioni di disoccupati che nel decennio si produrranno.

 

 

Il problema da lui posto non è quindi di intervento dello stato per smussare le punte all’insù ed dei cicli economici; ma di previsione delle variazioni le quali dovrebbero verificarsi nelle quantità economiche se si intende assorbire i 4 milioni di unità di lavoro che si prevede saranno offerte, nel decennio dal 1955 al 1964, sul mercato in più di quelle che nel 1954 erano occupate. Non si discute come provvedere ad una disoccupazione temporanea; sibbene come crescere permanentemente la occupazione dal tempo attuale al tempo futuro. I 4 milioni di unità, che dovrebbero nel decennio trovare occupazione, traggono origine:

 

 

  • per 2 milioni dalle nuove leve di lavoro che si presenteranno sul mercato nei successivi anni del decennio (in quantità decrescente nei primi cinque anni a causa della scarsa natalità degli anni bellici, crescente dopo per un tre anni, per l’impulso dato alla natalità nell’immediato dopo guerra e decrescente poi per il ritorno della natalità al normale) al netto delle uscite per mortalità, vecchiaia, malattie;
  • per 1 milione e 300 mila unità dalla incapacità dell’agricoltura ad assorbire non solo i disoccupati, ed i semi-occupati attuali, ma inoltre i già occupati che i progressi tecnici agricoli elimineranno nel decennio dal lavoro;
  • per 2 milioni e 220 mila unità dai disoccupati attuali dell’industria e da quelli che i perfezionamenti tecnici (grottescamente detti «automazione» per il brutto verso di imitare nel suono una parimenti orribile parola inventata all’estero, ecc. ecc.) espelleranno dall’industria lungo il decennio.

 

 

Il totale farebbe 5 milioni e mezzo; ma si debbono dedurre le 700 mila unità di coloro, che in media sono e rimarranno disoccupati temporanei perché in cerca di primo lavoro o desiderosi di cambiare mestiere. Si usa chiamare «frizionale» questo tipo di disoccupazione, con una parola derivata, anch’essa dall’inglese friction, che sembra abbia un passabile equivalente nell’italiano «attrito»; ma i vocabolaristi economici lo guardano con sospetto perché facilmente comprensibile e preferiscono usare la misteriosa parola forestiera, rubandola ai medici ed ai massaggiatori, che da assai tempo sembra che appropriatamente la adoperino. Si deducono altresì le 800 mila unità le quali si prevede, in osservanza della esperienza passata, saranno richieste dall’emigrazione all’estero. Risultano netti i 4 milioni e sono questi il problema dei dieci anni.

 

 

Le condizioni poste perché il problema possa essere risoluto sono parecchie. In primo luogo occorre che il reddito nazionale aumenti. Se non aumentasse, il problema rimarrebbe chiaramente irresoluto e nel 1964 i disoccupati diventerebbero 4, invece del milione ed 800 mila calcolati nello schema che sono il tormento attuale del nostro paese. A reddito immutato come potrebbero essere occupati? Perciò lo schema, parte dall’ipotesi che il saggio medio annuo di incremento del reddito nazionale sia in avvenire uguale a quello che di fatto si verificò nel quadriennio 1951-54, e cioè del 5 per cento. Non sembra vi siano obbiezioni di principio all’ipotesi; e del resto, il ragionamento non muta, se anche si suppone che il saggio di incremento sia maggiore o minore del 5 per cento.

 

 

Condizione necessaria perché si verifichi l’incremento di reddito, indispensabile per offrire i mezzi di vita ai 4 milioni di disoccupati, è a sua volta l’aumento del capitale investito. Se le terre non sono bonificate, se le strade non sono migliorate, se gli impianti industriali non sono ampliati e perfezionati, se non sono apprestate nuove case, il prodotto nazionale totale non cresce e il problema dei quattro milioni di unità da occupare resta in aria. Lo schema calcola in 35.107 miliardi di lire l’ammontare degli investimenti necessari nel decennio; dei quali 10.770 miliardi sono destinati a ricostituire il logorio fisico ed economico degli impianti esistenti e cioè a impedire semplicemente la riduzione del reddito attuale e 24.337 miliardi ad aumentare il patrimonio produttivo italiano.

 

 

Come si possano investire nel decennio circa 35.000 miliardi di lire è chiarito da alcune cifre illuminanti contenute nel testo dello schema, cifre le quali ci dicono altresì che cosa bisognerebbe fare per ottenere il risultato dell’aumento del reddito nazionale, rinunciando nel tempo stesso alla necessità, oggi ancora esistente, di ricorrere all’aiuto straniero. Se gli stranieri vorranno in avvenire farci prestiti, tanto meglio. I progressi della nostra economia saranno ancora maggiori; ma sembra prudente supporre di poterne fare a meno. Ecco le cifre (pp. 55-56):

 

 

 

1954

1964

Incremento tra il 1954 ed il 1964
 

miliardi di lire

%

miliardi di lire

%

 
Dall’estero

Da reddito prodotto nel paese e risparmiato per investimento a scopo di

170

1,4

a) conservare

850

7,3

1315

7,2

55

b) incrementare l’attrezzatura produttiva

1.500

12,9

3.337

18,2

122

Da reddito prodotto nel paese e destinato a consumi pubblici e privati

9.120

78,4

13.663

74,6

50

Totale delle disponibilità

11.640

100

18.315

100

57

di cui prodotti allo interno

11.470

100

18.315

100

60

 

 

Chieggo venia se prego i lettori di tollerare questa unica tabellina inserita nel testo. So che nove decimi dei lettori non specialisti saltano di piè pari le tabelle; ma poiché è la sola, essi vorranno cortesemente osservarla.

 

 

Gli aiuti netti provenienti attualmente dall’estero sono nella tabella calcolati in 170 miliardi, e sono calcolati in questa cifra, perché si suppongono uguali alla eccedenza delle importazioni sulle esportazioni di beni e servizi. Infatti le esportazioni di beni e servizi sono perdute per l’utilizzazione all’interno; è roba che è consumata da stranieri o da italiani residenti o dimoranti all’estero e può quindi essere considerata sottratta al nostro godimento. Alla perdita secca subita mandando fuor del paese beni e servigi si contrappone il godimento ricavato dalle importazioni. I beni ed i servigi (suppongasi le rimesse degli emigranti) importati ce li consumiamo e ne godiamo noi. Se le due quantità sono uguali, la perdita fa pari e patta con i godimenti e si può dire che i beni ed i servigi importati e che ci godiamo sono pagati con i beni ed i servigi esportati e a cui rinunciamo. Non ci dobbiamo cavare il cappello a nessuno, se ci godiamo i beni importati invece di quelli esportati. Abbiamo semplicemente fatto uno scambio utile a noi ed anche agli altri; dando, in lire, tanto quanto abbiamo ricevuto; ma è chiaro che abbiamo preferito, per qualche buona ragione, rinunciare a quel che abbiamo dato, pur di avere quel che a noi non conveniva o non riuscivamo con ugual fatica a produrre. Se invece importiamo più di quel che esportiamo; è segno che abbiamo ricevuto dall’estero più di quel che abbiamo dato: nel 1954 circa 170 miliardi in più. Sia che i 170 miliardi ce li abbiano regalati ovvero dati a prestito, noi li possiamo consumare od investire. Non è, come si vede, una gran cosa: appena l’1,4 per cento del totale importo che avevamo nel 1954 a nostra disposizione e non occorre perciò un grande sforzo perché si compia il voto di Vanoni di poterne fare a meno nel 1964. Monta sovratutto che, rinunciando ad ogni aiuto dall’estero, noi riusciamo ad aumentare il reddito totale dagli 11.470 (11.640 meno i 170 venuti dall’estero) miliardi prodotti nel 1954 ai 18.315 miliardi che si dovrebbero produrre nel 1964.

 

 

Tutti, immagino, sono d’accordo nel pensare che un aumento nel reddito nazionale prodotto, da 11.470 a 18.315 miliardi, sarà una gran bella cosa: quattro milioni di disoccupati attuali e futuri per cui il lavoro e il guadagno diventa possibile; aumentati i guadagni di coloro che lavoravano già; cresciuto il reddito del capitale esistente. Tutti contenti.

 

 

Il prodotto lordo totale nazionale non ha però il costume di crescere da sé, come un albero in una foresta vergine. Fa d’uopo, con un certo vellicamento persuasivo, persuaderlo a crescere. Le condizioni sono ovvie e sono fatte palesi dalla tabella.

 

 

Bisogna innanzitutto conservare l’attrezzatura esistente: terre in cultura, fabbriche, impianti, macchinari, ferrovie, porti, strade, case. Lasciata a sé l’attrezzatura esistente va in malora in pochi anni. Anche senza guerre, né terremoti, né inondazioni, l’acqua penetra attraverso tetti e rovina murature ed infissi, i macchinari arrugginiscono e si incantano. Anni fa, se ricordo bene nel 1948, capitai a passare attraverso a quel complesso di edifici abbandonati, che a Roma si chiamava l’E.U.R. : strade piene di buchi, la pavimentazione sconnessa, attraverso a cui spuntava l’erba, statue rovesciate con i nasi rotti, le finestre aperte affinché i venti e la piova liberamente entrassero rendendo inabitabili gli ambienti. Eravamo a Roma; e mi parve di riandare alla Storia di Roma nel medioevo del Gregorovius ed alla sua descrizione della progressiva decadenza fisica della capitale del mondo. Da poco erano cessate all’E.U.R. le asportazioni delle cose meglio trasportabili, frequenti negli anni dal 1944 al 1945; e non si poteva più contemplare in atto la verità del «quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini». Non occorrono barbari, né vandali per vedere in un decennio l’Italia rimbarbarire e la sua attrezzatura ridursi a poco più di niente. Vanoni suppone che sia necessario impiegare in media circa il 7,3 per cento del prodotto nazionale lordo soltanto per conservare quel che esiste. C’è chi destina di più e chi di meno alla conservazione; ed è evidente che la percentuale varia moltissimo a seconda della cosa che si tratta di proteggere dalla distruzione. C’è però anche chi rinvia di giorno in giorno la fatica del destinare il giusto alla conservazione della cosa sua, rincrescendogli di rinunciare al consumo anche solo del sette per cento del suo reddito: dal mobilio di casa, ai materassi, ai vestiti sino alla fabbrica, al podere ed all’avito palazzo. Costoro sono destinati a vedere crescere la propria miseria; laddove altri potrà perlomeno dire di avere tenuto in piedi quel che possedeva. Supponiamo che gli italiani abbiano buon senso e che in media, a seconda di quel che ognuno possiede, continuino a dedicare in media, chi più e chi meno, il sette per cento del loro reddito a far fronte alla tendenza delle cose a deperire. Vanoni però constata che il sette per cento di una attrezzatura crescente vorrà dire nel 1964 accantonare ed investire in ricostituzioni 1315 miliardi invece degli 850 miliardi impiegati ora alla medesima bisogna.

 

 

Esigenza più vistosa è quella del prelievo dal reddito necessario per dare incremento alla attrezzatura esistente. Non basta dire: combattiamo la disoccupazione, costituiamo cantieri di lavoro, reclutiamo eserciti del lavoro; non basta far decreti per obbligare questo o quel datore di lavoro ad impiegare questo o quel minimo di disoccupati. Con i decreti e con le orazioni non si impiega sul serio neppure un disoccupato. Nel testo dello schema il Vanoni calcola (p. 35) che per creare 100.000 posti di lavoro in industrie con rilevante fabbisogno di capitale occorre investire 10 milioni di capitale per ogni nuovo operaio occupato; in altre industrie meno capitalizzate basta invece investire un milione e mezzo a testa e nelle attività terziarie (commerci, divertimenti, servizi professionali ecc.) occorre solo un milione. Altri criticò le cifre, tacciandole di troppa modestia, e ci fu chi, per non mettere innanzi cifre spaventose, opinò che in Italia occorra sviluppare, invece delle industrie pesanti, le quali richiedono enormi capitali, quelle più leggere, per la produzione di beni di consumo, meno esigenti in capitali ed atte a dar lavoro a molti lavoratori. Il quesito è rilevante e merita di essere discusso; non qui però, dove si vuole soltanto richiamare l’attenzione sulla logica del problema. Se si vogliono impiegare i quattro milioni di disoccupati attuali e futuri, è chiaro che non basta investire ogni anno i 1.500 miliardi che si investirono nel 1954 per occupare coloro che in quell’anno lavoravano; ma occorre investire di più. Vanoni suppone che nel 1964 l’investimento giunga a 3.337 miliardi l’anno; che invece del 12,9 per cento dello scarso reddito prodotto nel 1954 si investa il 18,2 per cento del cresciuto medesimo prodotto annuo che si otterrà nel 1964. Si può preferire un’altra percentuale: il 16 od il 20 od altra ancora a piacimento. Se vogliamo imitare i paesi stazionari o sottosviluppati ci possiamo contentare anche solo del 5 per cento; se vogliamo imitare i russi andremo al 30 per cento. Certo e che, se vogliamo far star meglio i già occupati e dare un reddito, da essi guadagnato, ai non occupati, occorre fare uno sforzo di risparmio e quindi di investimento maggiore di quello odierno.

 

 

Aumentare la percentuale del reddito nazionale prodotto all’interno destinato ad investimenti (netti o nuovi o per incremento) dal 12,9 al 18,2 per cento vuol dire tuttavia diminuire la percentuale destinata al consumo; nell’ipotesi dello schema Vanoni, dal 78,4 al 74,6 per cento. Non si può gridare ogni giorno che importa investire, investire, che gli investimenti devono essere «massicci» e poi strillare che bisogna anche consumare di più, star meglio, dare salari migliori agli occupati e salari invece di sussidi ai disoccupati. Bisogna scegliere; o una proporzione maggiore al risparmio e una proporzione minore al consumo; ovvero una proporzione minore al, primo ed una maggiore al secondo; ma non si può aumentare ambe le proporzioni; ché i conti non tornerebbero. Trascuro l’ipotesi che la proporzione rimanga invariata; perché ciò non solo sarebbe un caso inverosimile, ma vorrebbe dire stazionarietà e disoccupazione.

 

 

Del resto, che cosa vuol dire aumentare la quota del risparmio-investimento? Nello schema Vanoni, che è lo schema del buon senso, vuol dire contentarsi di crescere la somma destinata al consumo un po’ meno della somma destinata al risparmio. I consumatori nel 1964 consumerebbero, nonostante la riduzione della loro quota percentuale, 13.663 miliardi invece di 9.120, ossia il 50 per cento in più di prima. Si consuma un po’ meno in percentuale allo scopo di consumar di più in assoluto; e poiché non si è mai visto che gli uomini consumino «percentuali», bisogna rallegrarsi che essi possano, a così buon mercato, consumare in sostanza di più. L’invidia dei consumatori verso gli investimenti sarebbe mal posta; ché se i consumatori riesciranno a consumare il 50 per cento di più di prima, ciò può accadere solo se è soddisfatta la condizione che i risparmi-investimenti, con ritmo più veloce, crescano del 122 per cento. Se tutti i problemi sociali potessero essere risoluti in maniera così amabile: rinunciare (risparmiando) a quel che oggi non si ha e da sé non si otterrebbe in avvenire, alla sola condizione di lasciar prelevare, per gli investimenti, una quota maggiore di prima su quel che oggi non si produce, allo scopo di potere destinare quantità crescenti al consumo futuro: cominciando dall’anno prossimo e crescendo di anno in anno senza limite; non è in verità una rinuncia, un sacrificio; è semplicemente elementare antiveggenza e calcolo ben condotto.

 

 

Se il totale reddito disponibile deve crescere del 57 per cento, condizione necessaria perché ciò accada è che i consumatori si contentino di consumare il 50 per cento di più, invece del 57 che sarebbe disponibile in più, affinché l’attrezzatura produttiva possa crescere del 122 per cento.

 

 

Le cifre 57, 50 e 122 non sono sacre e sicure. Sono risultati esatti di certe ipotesi su quel che bisognerebbe fare se si vogliono ottenere certi risultati e su quel che si suppone accada se in avvenire continui la tendenza riscontrata di fatto negli anni recenti. E certo solo che quelli sono all’ingrosso i rapporti tra le tre quantità. Possiamo scrivere 45 o 60 invece di 57; ma, così scrivendo, siamo costretti a scrivere 40 e 100 ovvero 55 e 130 o cifre consimili per le altre due quantità. Non importa tenersi religiosamente a certe cifre o percentuali; importa solo che si risparmi e si investa una proporzione maggiore e si consumi una proporzione minore del «maggior» reddito prodotto, se si vuole che il reddito cresca nel modo desiderato. Sta bene occupare i disoccupati, ma per occuparli non basta investire il risparmio che si investiva prima. I macchinari moderni, i sistemi produttivi moderni, nell’industria e nell’agricoltura divorano milioni a tutto andare; e i popoli che non si tengono al corrente vanno indietro come i gamberi ed impoveriscono.

 

 

Per fortuna, non tutte le branche dell’attività economica divorano, per crescere, capitali nella stessa misura. L’Italia non si sottrae alla tendenza generale, in virtù della quale l’agricoltura abbisogna di una percentuale decrescente delle forze di lavoro disponibili nel paese. Oggi l’agricoltura assorbe in Italia il 41 per cento della popolazione attiva ed è la percentuale più alta che si osservi nei paesi economicamente progrediti: 31 per cento in Francia, 26 per cento nel Canadà, 19 per cento nei Paesi Bassi, 18 per cento nella Germania occidentale e negli Stati uniti, 6 per cento in Inghilterra. Lasciamo star da parte l’Inghilterra, dove l’agricoltura è artificiosamente mantenuta dallo stato; e non guardiamo ai paesi arretrati, russi, asiatici, sud e centro americani, dove l’agricoltura occupa ancora il 60, l’80 e fin il 90 per cento della popolazione attiva e questa vive perciò miseramente; ma pare certo che il 41 per cento italiano sia eccessivo e sia causa o condizione principalissima del basso reddito pro capite degli agricoltori. Lo schema Vanoni suppone che gli occupati agricoli si riducano numericamente, tra il 1954 ed il 1964, da 7 milioni e 600 mila a 6 milioni e 500 mila ed, in percentuale sul totale degli occupati, dal 41 al 33 per cento, pur aumentando nel frattempo il reddito netto agricolo del 20 per cento. Gli occupati nell’industria dovrebbero aumentare in assoluto da 5 a 6 milioni e 550 mila, ossia dal 29 al 33 per cento, con un balzo all’insù nel reddito dell’82 per cento; e gli occupati nei servizi (commercio, professioni, arti, impiegati pubblici ecc.) da 5 milioni e 300 mila a 6 milioni e 950 mila, ossia dal 30 al 34 per cento, con un aumento nel reddito della rispettiva branca di attività del 74 per cento. Le previsioni sono tendenzialmente plausibili e rispondono ai fatti accaduti nelle nazioni economicamente progredite. Grazie alla diminuzione assoluta e relativa della popolazione agricola, sarà possibile agli agricoltori avvicinare il loro reddito a quello degli occupati nell’industria e nei servizi. Che se i redditi agricoli dovranno in un futuro più lontano uguagliare quelli degli altri ceti sociali, converrà rassegnarsi a vedere applicare su scala ancor più vasta mezzi meccanici di cultura, diminuire ancor più il numero degli agricoltori e smetterla con i rimpianti per l’abbandono della montagna in specie e della terra in genere e con i panegirici di leggi antiquate in difesa di frammentazioni antieconomiche della proprietà e di regolamenti giuridici inspirati ai principî dell’impero romano decadente.

 

 

Diminuzione della popolazione agricola del 12 per cento, aumento di quella occupata nell’industria e nei servizi del 31 per cento sono condizioni necessarie perché i disoccupati diminuiscano, tra il 1954 ed il 1964, da 1 milione ed 800 mila a 700 mila, e gli occupati crescano da 17 milioni e 900 mila a 20 milioni e 200 mila, ossia del 13 per cento. Anche qui, quel che monta, nello spirito dello schema Vanoni, non sono le cifre assolute, che, trattandosi di previsioni sull’avvenire, possono essere tirate in su o in giù. Monta il ragionamento, il quale dice che se ci devono essere aumenti nel reddito nazionale totale ed in quello individuale, giocoforza è che i lavoratori abbandonino in parte la terra, poco suscettibile di perfezionamenti tecnici illimitati, affinché i rimasti, meglio provveduti di attrezzature produttive, producano più di prima. Né tarderà molto che anche l’industria vedrà scemare i suoi adepti, scacciati dal prevalere della macchina, destinata ad operare sempre più automaticamente. Da gran tempo le centrali elettriche, in cui i capitali investiti sono veramente colossali, lavorano con pochissimi addetti, i quali non possono neppure più dirsi lavoratori ordinari, essendo tecnici di vaglia, occupati a tener d’occhio quadri e bottoni stupefacenti, a toccare i quali si mettono in moto o si arrestano meccanismi meravigliosi. Verrà anche in Italia il giorno nel quale una percentuale crescente delle forze di lavoro dovrà trovare occupazione nei servizi, e la percentuale odierna, che è del 30 per cento, salirà non solo, come prevede Vanoni pel 1964 al 34 per cento, ma dovrà dopo il 1964 spingersi ancor più su, al 40, al 45, al 51 per cento – come accade già oggi negli Stati uniti -; e non si sa dove l’incremento del peso proporzionale dei servizi avrà termine. In quel giorno è probabile che le solite mosche cocchiere si metteranno le mani nei capelli e vorranno inventare rimedi contro la disoccupazione nell’agricoltura e nell’industria; ossia nei lunghi dove i rimedi non potranno agire se non nel senso di ridurre la produzione, aumentandone i costi. La mosca di Esopo dirà ancora, pavoneggiandosi sulla sua testa, al bue paziente: «laboremus»; quando già i buoi nei campi saranno rari come le mosche bianche. In quel giorno i soliti sfaccendati, abituati ad insegnare altrui i mestieri che essi non conoscono, imperverseranno ancora contro i troppi commercianti al minuto, i troppi professionisti, i troppi artisti, i troppi cantanti, i troppi mediatori, dimentichi della verità che i progressi della tecnica riducono fatalmente il numero degli uomini occupati a produrre i beni materiali agricoli e industriali ed a soddisfare i bisogni elementari fondamentali dei consumatori; sicché per dar lavoro alla parte maggiore degli uomini, conviene e converrà sempre di più si inventino sempre nuovi bisogni da soddisfare, gli uni diversi dagli altri e tali che nessuna macchina potrà mai soddisfare, ma solo l’uomo, colla sua intelligenza, con la sua parola, la sua voce, la sua mano. Buon per noi se i servizi preferiti saranno siffatti da elevare materialmente e spiritualmente l’uomo invece che atti ad abbassarlo; se saranno i servigi della Atene di Pericle, della Firenze dal dugento al quattrocento e non quelli della Venezia dell’ultimo settecento. Frattanto constatiamo che nello schema Vanoni l’incremento dei servizi è calcolato già alla pari di quello dell’industria. Non ha rilievo la cifra precisa d’aumento del 31 per cento; basti osservare che essa oggi segue la medesima tendenza di quella dell’industria e si contrappone ad una riduzione della cifra degli occupati agricoli. Il legame fra le tre cifre è plausibile ed in ogni ragionamento sull’avvenire importa prenderne atto.

 

 

Naturalmente, le tendenze ed i legami fin qui messi in evidenza non sono i soli sui quali ci intrattiene lo «schema di sviluppo». I collaboratori del Vanoni hanno chiarito come i progressi scientifici compiuti dal 1930 in poi hanno consentito di passare dal campo delle incerte previsioni sull’avvenire in quello di valutazioni quantitative fornite di bastevole attendibilità. Preferisco non inoltrarmi in un territorio nel quale, per la incertezza di molti dati primi, troppe ipotesi dovrebbero essere sottoposte a critica attenta; e mi limito a riconoscere che le ipotesi fondamentali sinora considerate: numero probabile dei disoccupati e dei semi-occupati da occupare, dei disoccupati a turno in cerca di nuovo impiego o di impiego mutato, diminuzione dei lavoratori agricoli, aumento dei lavoratori nell’industria e nei servizi, quantità di risparmio necessario allo scopo di effettuare gli investimenti occorrenti per impiegare i quattro milioni di lavoratori che si renderanno disponibili nel decennio, distribuzione degli investimenti nelle tre categorie di «regolatori» (edilizia e rimboschimenti) atti a smussare le punte della domanda in rapporto alla offerta di lavoro, di «propulsori» (lavori pubblici, bonifiche, strade, porti, ferrovie ecc.) utili a creare l’ambiente propizio alle iniziative pubbliche e private e di «produttivi» intesi ad aumentare quella produzione di beni e di servizi dalla quale dipende in definitiva la possibilità di crear lavoro per i disoccupati, sono ipotesi plausibili dalle quali è possibile derivino i risultati previsti.

 

 

I risultati saranno conseguiti ? Nulla si attua spontaneamente; la storia, neppure quella economica, non si fa da sé; non esistono meccanismi i quali si muovano automaticamente per necessità interiore fatale. Taluno racconta di fasi storiche, attraverso a cui necessariamente passerebbero gli uomini, trascorrendo, ad esempio, da un tipo di organizzazione schiavistica a un tipo feudale e da questo a tipi designati con le successive denominazioni di precapitalismo, capitalismo proprio e post-capitalismo. Ma sono racconti, i quali lasciano grandemente dubbiosi gli studiosi, increduli verso la scienza tipologica; e dai quali, nel limitato campo qui considerato, possiamo fare astrazione.

 

 

Nelle elaborazioni successive dello schema, i collaboratori, vecchi e nuovi, del Vanoni, dovranno chiarire, come fanno gli ingegneri nei progetti esecutivi i quali seguono sempre ai progetti di massima in qualunque impresa pubblica e privata, quali siano i compiti rispettivi dello stato e dei privati nell’attuazione dei programmi di investimento regolatori, propulsivi e produttivi. Gli ostacoli da superare per definire con bastevole chiarezza i limiti fra i compiti dello stato e quelli dei privati, non saranno pochi. Eppure, di chiarimenti discretamente precisi vi è urgenza, se si vuole che l’iniziativa privata conosca il campo in cui può muoversi senza correre il rischio, se il successo arrida in qualche caso, di vedere distrutta l’opera sua da una concorrenza, la quale sarebbe sleale, se lo stato, condiscendendo al clamore pubblico, intervenisse, visti i buoni risultati di talune imprese private, a nazionalizzarle, tratto) dall’ingordigia di far suoi i profitti ottenuti dai primi imprenditori; profitti, i quali, nell’impresa divenuta statale, forse si manterrebbero soltanto grazie ad espedienti di imposte non pagate, di clientele forzose, di costi accollati ai contribuenti. In Italia, dove le nazionalizzazioni furono per lo più, salvo pochissime antiche eccezioni, dovute al caso, fa d’uopo aggiungere al piano un capitolo sui limiti razionali segnati all’iniziativa pubblica ed a quella privata.

 

 

Nei territori, nei quali l’azione dello stato non attiene alla produzione, ma è semplicemente regolativa o propulsiva, il pericolo dell’operare a vuoto è grave.

 

 

Non v’ha dubbio che l’edilizia non sia una efficace industria regolatrice; atta cioè, quant’altra mai, a creare occasioni di lavoro quando le altre attività economiche sono insufficienti ad assorbire i lavoratori capaci di maneggiar calce e mattoni. Ma essa deve anche essere «produttiva» oltrecché «regolatrice»; deve cioè creare case le quali rispondano ad esigenze effettive di abitazione degli uomini. Costruir case che nessuno andrà ad abitare, o costruir case à dove le case esistenti soddisfano già alle esigenze dei viventi, può essere reputata opera atta a «regolare» la domanda di lavoro, soltanto da chi ritenga che il far buchi per riempirli di nuovo, come si fece a Parigi durante i moti del 1848, sia un rimedio efficace alla disoccupazione. Qualcosa di simile si fa oggi da noi quando si costruiscono case per soddisfare alla mancanza artificiosa di abitazioni creata dal vincolo degli affitti. Costruir case per soddisfare alla domanda delle famiglie nuove emigrate dalla campagna, delle famiglie vecchie, taluni membri delle quali vogliono fare casa a sé, delle famiglie le quali aspirano a vivere in un appartamento decente invece che in topaie malsane è un costruire ragionato, perché regola la domanda e la offerta del lavoro e nel tempo stesso produce nuovi beni, nuovi servigi a prò degli uomini. Ma costruir case nuove solo perché i vincoli degli affitti consentono ad una piccola famiglia di tenere, a prezzo basso, in una casa antica un appartamento di dieci camere, le quali basterebbero alle esigenze di tre famiglie, non crea nulla ed è un buttar danaro dalla finestra. Rimboschire montagne e colline dilavate e franose è qualcosa che regola e crea. Ma si videro disoccupati tratti a caso dai campi di lavoro ficcar piantine in terreni piani, i quali potevano servire ad altro; o ficcarle alla disperata, sicché subito seccarono in piedi.

 

 

Nei progetti esecutivi del piano Vanoni occorrerà tener conto delle perdite inevitabili per lavori inutili, deliberati per soddisfare alle richieste umane della gente disoccupata, ed a quelle meno rispettabili, di grossi nuclei di elettori o di gruppi di interessi organizzati; ovvero dovuti alla disorganizzazione ed alla rivalità fra ministeri, amministrazioni centrali, regionali o locali ed enti diversi preposti alla bisogna. Ministeri, enti, casse lavoreranno con una perita secca del dieci per cento? Sarebbe risultato meraviglioso, quasi incredibile. Forse gioverà dirsi contenti se le perdite giungessero solo al venti od al trenta per cento dello speso. Allo stato non si può chiedere l’assurdo, che del resto nessuna macchina perfetta offre, di lavorare col cento per cento di rendimento. Lo stato, del resto, compenserebbe amplissimamente ogni più grossa perdita di rendimento si verificasse nella sua opera, ove si decidesse a ridurre alquanto gli ostacoli alla produzione, e quindi alla occupazione, che derivano dal suo intervento nelle faccende altrui.

 

 

Quando lo stato, mosso dal buon cuore, ordina agli agricoltori di occupare dieci lavoratori dove basterebbero otto, od ai datori di lavoro di usare preferenze a mutilati, ex combattenti, reduci, non è forse cagione di incremento di costi e quindi di limitazione nelle vendite e perciò nella produzione e nella occupazione? Quando, con dazi protettivi, incoraggia le imprese le quali lavorano a costi alti; quando con i vincoli alle migrazioni interne falsa i livelli dei salari, tenendoli qua più bassi e là più alti di quello che sarebbe il livello corrente normale, forseché non limita la produzione e non cresce la disoccupazione? Sono disposto a perdonare sfridi e perdite anche del trenta per cento, negli interventi regolatori e propulsivi direttamente compiuti dallo stato, in cambio di un minore incoraggiamento da parte sua al mal fare dei privati.

 

 

Nei progetti esecutivi dovranno essere chiarite con precisione le maniere che lo stato dovrà adottare per indurre i privati imprenditori (nella terminologia odierna diventati, non si sa perché, «operatori» economici) a far ciò che ad essi spetta per l’attuazione del piano. Nei convegni, nelle adunanze, nelle discussioni e nelle scritture si sente molto parlare del «dovere» di risparmiare e di investire; della «necessità» di investire in questa o quella maniera, reputata conveniente da chi spiega quelle che si chiamano le «direttive» del piano. Giova dire senza perifrasi che in questa materia le parole «dovere» o «necessità» sono prive di contenuto e usate volentieri sovratutto da chi né risparmia né investe e si affatica principalmente a dare altrui consigli gratuiti.

 

 

Si risparmia bensì, e spesso, per dovere; ma son doveri verso i figli, verso la moglie, verso i genitori od i parenti; si investe per necessità di riparare la casa posseduta, di migliorare il campo o la vigna, di abbellire la bottega o la trattoria minacciate dal concorrente, di ampliare il laboratorio o la fabbrica e ridurre i costi; ma doveri e necessità ed urgenze non hanno nessuna relazione con le quantità di risparmio o i tipi di investimento considerati nel piano. Risparmi ed investimenti doverosi o necessari si verificano in quantità e qualità date, di cui i piani altro non possono fare se non prendere atto. Doveri e necessità preesistono ai consigli degli economisti ed ai piani dei politici; rispondono con ogni probabilità ad esigenze universali degli uomini risparmiatori ed investitori, e non possono essere mutati senza danno di gran lunga maggiore dell’immaginario vantaggio che si potrebbe sperare dall’osservanza dei consigli e degli ordini provenienti dall’alto.

 

 

Resta una quota di risparmio e di investimento che non è frutto di dovere e di necessità. Sarebbe illusione stravagante immaginare che gli uomini si adattino, per questa parte, a risparmiare e ad investire per far piacere ai compilatori di un qualunque piano. Tutto ciò che lo stato può fare è di collaborare alla creazione di quell’interesse a risparmiare e ad investire, che è la vera molla la quale fa agire l’uomo nel senso desiderato dal piano. Se esiste l’interesse a risparmiare, il risparmio verrà fabbricato; se esiste l’interesse comparativo a compiere quegli investimenti che il piano contempla, gli investimenti avranno luogo. Se l’interesse non c’è, inutile illudersi; accadranno fatti diversi da quelli previsti e voluti.

 

 

Nel piano si suppone si investano tanti e tanti miliardi ad incrementare la produzione foraggera ed il patrimonio zootecnico? Talun futuro elaboratore del piano od altri stimerà sovrabbondante la produzione del vino e vorrà «disciplinare» la piantagione delle viti, sottoponendola a vincoli ed a permessi? I propositi non incontreranno ostacoli nel loro attuarsi se coincideranno coll’interesse degli agricoltori; se davvero il rendimento dell’industria zootecnica sarà più e quello della vitivinicoltura meno remunerativo del compenso medio degli impieghi di capitale. Il profitto differenziale della zootecnica consentirà risparmi ed investimenti; e le perdite nel campo vitivinicolo consiglieranno rallentamento nei rinnovi e riduzione progressiva negli impianti di vigne. Se, invece, l’esperienza effettuale degli agricoltori sarà diversa dalla ipotesi del piano; se essi, per ragioni buone o cattive, riterranno oscuro l’orizzonte per l’allevamento del bestiame, e, nonostante le querele dei dottori in economia agraria, in cuor loro reputeranno conveniente piantar viti, non foss’altro per avere la soddisfazione di bersi il proprio vinello, aspretto, ma fatto in casa, le previsioni del piano andranno a farsi benedire.

 

 

Può darsi che a lunga scadenza l’allevamento dei suini in collegamento con le imprese produttrici di sottoprodotti del latte sia consigliabile; ma ho visto troppe volte i contadini rifiutarsi a guardare al di là della punta del naso e se nell’anno passato il porco s’era, a Natale, venduto bene, affrettarsi l’anno dopo a comprare allievi; salvo a disgustarsene subito se questi, divenuti maturi, furono dovuti vendere in perdita; e disprezzare quindi i nuovi nati, che avrebbero potuto acquistare al prezzo 1, dimenticando di aver fatto a gara, l’anno prima, per accaparrarli a 100. Vidi anche accusare una disgraziata scrofa di essere divenuta «matta», quel che noi diremmo pazza in senso proprio, sol perché i prezzi erano calati e bisognava mantenerla ancora per venderla a tempo opportuno. Un piano a dieci anni deve tener conto dei ragionamenti, corretti o sbagliati, che gli imprenditori fanno a un anno, od a sei o tre mesi data.

 

 

Tutto sommato, l’istinto naturale dell’uomo in cerca del profitto ha ragion di prevalere sulle prediche del dovere verso il bene della nazione, verso l’interesse collettivo. Nessuno sa che cosa siano i beni e gli interessi nazionali o collettivi; e sarebbe ora di finirla con l’affettato disprezzo per la ricerca del profitto come cosa repugnante e dannanda. E venuto di moda commiserare e quasi lodare chi perde e guardare con sospetto chi guadagna; laddove la perdita è indizio di imperizia od avventatezza ed il profitto di capacità e di inventività. Chi perde deve essere eliminato e chi guadagna esaltato. Può darsi che il profitto sia dovuto a latrocinio legale; ed è dovere dello stato togliere di mezzo le condizioni, per lo più create dalle sue leggi o, meno frequentemente, dalla assenza di possibili norme legislative; leggi e non-leggi, da cui nascono i profitti detti da latrocinio legale. Fa d’uopo però non condiscendere all’andazzo di guardare di massima al profitto con ribrezzo, quasi si trattasse sempre di roba rubata. Volesse il cielo fossero molti coloro i quali, dopo aver pagato i salari normali ai lavoratori, l’interesse corrente ai fornitori di capitale, le remunerazioni dovute ai dirigenti ed a se stessi come organizzatori dell’impresa, ancora si trovano in mano un profitto! Vorrebbe dire che molti sono coloro i quali sanno vedere quali e quanti siano i bisogni degli uomini e li sanno soddisfare al costo minimo. Purtroppo la razza di cotali uomini è troppo poco prolifica, e non è tanto numerosa quanto occorrerebbe perché i profitti scompaiano presto a causa della moltiplicazione dei beni prodotti a costi e prezzi ribassati.

 

 

Non è escluso del tutto che il numero degli uomini capaci a lucrar profitti cresca in seguito ai consigli od ai piani dello stato; ma la probabilità del verificarsi del miracolo sembra di gran lunga minore di quella che l’opera dello stato sia congegnata invece in modo da favorire l’incremento dei profitti da latrocinio legale.

 

 

Tutto sommato, in fatto di risparmi e di investimenti privati, il più che può chiedersi allo stato, oltre all’astenersi dall’incoraggiare il male (profitti da latrocinio legale), sembra ridursi all’osservanza delle antiche tradizionali regole: moneta stabile, imposte note e certe, legislazione mutabile solo in seguito a seria pubblica discussione, irretroattività delle leggi, libertà di associazione per lavoratori e datori di lavoro, sistemi di assicurazione, di assistenza sociale, e di istruzione i quali garantiscano a tutti uguaglianza nei punti di partenza e non distruggano gli incentivi per i singoli ad elevarsi; e si potrebbe seguitare nell’elenco di ciò che lo stato può e deve fare per creare l’ambiente, il quadro nel quale l’avanzamento spirituale e materiale degli uomini è massimamente rapido. Trattasi di principî ovvi ed universalmente accettati, per cui non occorrono piani di massima, né progetti esecutivi. Basta, come per i dieci comandamenti, osservarli.

 

 

I soli veramente essenziali, fra i progetti esecutivi del piano, sono quelli i quali daranno corpo all’azione che si vuole sia compiuta direttamente dallo stato a conseguire nel decennio 1955-64 il fine della piena occupazione; ché, quanto all’opera la quale dovrebbe essere compiuta ad iniziativa dei privati contentiamoci, e sarà gran mercé, si aboliscano le norme vigenti le quali sono di remora a quelle iniziative e si rafforzino le condizioni di sicurezza e di certezza dalle quali quelle iniziative possano meglio essere incoraggiate.

 

 

Qui si è voluto invece esaminare quel che a me sembra essere la sostanza del piano Vanoni e cioè la sua attitudine logica a divenire realtà.

 

 

Questa sostanza si riduce ad una sola: ricordarsi del proverbio della botte piena e della moglie ubriaca. Quando ci si sia bene ficcato in testa che con gli stessi mezzi non si possono nel tempo stesso raggiungere due fini diversi, abbiamo sormontato la difficoltà maggiore, forse l’unica, alla attuazione di un qualsiasi piano.

 

 

Ad illustrazione della saviezza dell’insegnamento del «la botte piena e la moglie ubriaca» ripetiamo ancora una volta che, se vogliamo far da noi e rinunciare ai 170 miliardi o più o meno di aiuti esteri, fa d’uopo faticar maggiormente e produrre all’interno beni e servigi equivalenti a quelli che l’estero non ci regalerà od impresterà più. Non possiamo godere della soddisfazione di far da noi ed insieme del piacere di non faticare quanto basta per pagarci la non piccola soddisfazione.

 

 

Se vogliamo anche solo continuare a produrre i medesimi 11.470 milioni di reddito del 1954, senza l’aumento di un soldo, occorre destinare 850 miliardi all’anno alla conservazione del patrimonio esistente, sostituendo, modificando, tacconando l’attrezzatura di case, piantagioni, irrigazioni, fabbriche, macchinari, strade, porti, ferrovie ecc. ecc. che esistono. Altrimenti, in dieci anni e forse meno il paese ritornerà allo stato selvaggio e gli uomini al cannibalismo. Non si può lasciar correre nei rinnovi e pretendere al tempo stesso di stare come prima. Sono due esigenze incompatibili.

 

 

Se poi noi vogliamo vivere meglio di prima ed aumentare il reddito repartibile da 11.470 a 18.315 miliardi, come ragionevolmente prevede il piano Vanoni od a un numero di migliaia di miliardi ancor più grande, come suppongono inconsapevolmente tutti coloro i quali affermano il diritto sacrosanto ad una elevazione del tenor di vita delle moltitudini, bisogna aumentare il prelievo dal reddito per nuovi investimenti dai 1.500 miliardi annui attuali a 3.337 miliardi; e naturalmente, per tener dietro all’incremento dell’attrezzatura, aumentare anche il prelievo, necessario per «conservare» quel patrimonio di anno in anno così cresciuto, da 850 a 1.315 miliardi. Non si può ripetere ogni giorno: investire, investire, investire! Investire è certo necessarium; ma non è il porro unum; il porro unum et necessarium è un unicum visto da due facce diverse non si dà l’investimento senza che prima ci sia stato il risparmio. Prima bisogna tirar la cinghia e poi investire. Pare un concetto semplice, ovvio; eppure è quasi sempre dimenticato, e se non ci fosse l’articolo 81, il quale si ostina a ricordare il buon senso a coloro che vorrebbero e troppo spesso riescono a girarci attorno per eluderlo, le proposte di spese, non solo per investimento, ma anche per consumo, sarebbero presentate senza preoccuparsi dei mezzi di fronteggiarle. La spesa è il bene e non si può non fare e subito il bene; dimenticando che nessun bene si ottiene senza costo; e che se si vuole ottenere il bene, bisogna sopportare il costo; ed il costo si chiama rinuncia a qualcosa altro, rinuncia ai consumi presenti, ossia risparmio.

 

 

Per lo più, chi propone il bene di investimento pensa: al costo del risparmio ci deve pensar qualcun altro; ed il qualcun altro, nella più parte dei casi è un mitico personaggio, detto tesoro. Il quale è il signor nessuno, una buca delle lettere, dalla quale escono mandati di pagamento solo se prima ci sono entrati i ricavi di imposte o di prestiti. Poiché il legame indissolubile del bene e del costo è troppo evidente, perché vi sia chi osi negarlo, ci si gira attorno dicendo che l’investimento si deve fare e che al costo provvederanno quelli che hanno i danari: facendo così appello ad una specie di pozzo di san Patrizio, dove i danari, non si sa perché, devono trovarsi sempre. Le spese le godiamo noi e le imposte le pagate voi. Ragionamento troppo comodo per stare in piedi, essendoché il noi e il voi sono le stesse persone; ed è pura follia immaginare che le migliaia di miliardi (tra conservare e incrementare 2.350 nel 1954 e 4562 nel 1964) si trovino pescando nelle tasche dei ricchi. Quelle migliaia di miliardi sono un’ipoteca, un peso che grava sul reddito lordo; e senza pagare lo scotto sul lordo non si ottiene alcun reddito né lordo né netto e non ci nulla da dividere tra poveri, mediocri e ricchi. Al legame: tanto risparmio, tanto investimento e non un soldo di più, non si sfugge. Nei paesi di mercato libero, al risparmio pensano un po’ i singoli individui, con quel che si dice risparmio in senso stretto, un po’ gli enti, con una sotto specie del risparmio, detta di autofinanziamento, e un po’ lo stato, con imposte e con appelli a prestiti rivolti alle altre due specie di risparmiatori. Nei paesi a tipo collettivistico, al risparmio provvede unicamente lo stato, eseguendo prelievi forzati sul prodotto delle cooperative agricole, rialzando il prezzo, in confronto al costo calcolato, delle merci prodotte dalle imprese statali industriali ovvero deliberando prestiti praticamente forzati sugli stipendi e paghe degli impiegati statali, che sono poi tutti i cittadini. Varia il metodo; ma il sugo è sempre lo stesso non si può avere la botte piena (investimenti) e la moglie ubriaca (niente rinuncia a consumare parte del reddito).

 

 

La filastrocca delle contraddizioni piacevoli, ma assurde, non finisce qui: non si può investire una proporzione crescente del prodotto e nel tempo stesso consumarne una proporzione costante. La contraddizione non è possibile. Se si vuole consumare 13.663 invece di 9.120 miliardi di lire, che è un beI largo consumare (il 50 per cento in più) bisogna investire il 18,2 invece del 12,9 per cento del reddito. Trovar lavoro per i 4 milioni di disoccupati presenti e futuri significa produrre tanto di più quanto occorre per fornire ad essi beni e servizi in quantità superiore a quella che i disoccupati attuali ricevono oggi a titolo di sussidio o di elemosina.

 

 

Se il reddito disponibile per consumi pubblici e privati aumenterà dal 1954 al 1964 del 50 per cento; è chiaro che la remunerazione di coloro che oggi sono già occupati non può aumentare nella stessa misura. Bisogna prima far posto ai quattro milioni di nuovi occupati. Lo schema Vanoni calcola (p. 57) che se ci contentiamo di prelevare in un primo momento dal reddito netto futuro in 18.315 miliardi quel che basta per pagare agli attuali disoccupati e sottooccupati ed alle nuove leve di lavoro un salario uguale a quello che gli occupati attuali guadagnano oggi, quel che resta sarà sufficiente ad assicurare a tutti, occupati attuali e futuri, un aumento di disponibilità di consumo del 30 per cento.

 

 

Come! diranno subito, e mi pare abbiano già detto, coloro a cui i legami e i dilemmi dan fastidio, aumentiamo nel decennio del 122 per cento gli investimenti, ed aumentiamo solo del 50 per cento i consumi; e passi, dato che ci avete intronati la testa della necessità di risparmiare ed investire prima e godere dopo; ma che poi l’aumento dei consumi si riduca, per un gioco di bussolotti, dal 50 per cento teorico ad un 30 per cento effettivo, non è lecito davvero!

 

 

Eppure; non possiamo pretendere di avere quattro milioni di occupati in più e distribuire al tempo stesso il reddito totale netto esistente nel 1964 solo tra gli occupati antichi. Aumenta il divisore; ed anche se il dividendo o reddito nazionale cresce, il quoziente individuale non può crescere del 50 per cento. La contraddizione non consente se non di dare quel che risulta dalla divisione del prodotto, che ci sarà, per un numero di occupati cresciuto in misura maggiore. Se si vuol far posto a milioni di disoccupati, bisogna rassegnarsi a dare anche ad essi una fetta della torta cresciuta. È importante che la torta cresca; ma è altrettanto e forse più importante che gli uomini si persuadano delle esigenze a cui sono sottoposte le operazioni di addizione, sottrazione e divisione.

 

 

In qualunque piano, questa di persuadere l’opinione pubblica della necessità di fare i conti razionalmente è la difficoltà massima. Lo scoglio contro cui si rompono i piani non è tanto la difficoltà di trovare i mezzi; quanto la volontà di produrli e sovratutto, quando siano stati conseguiti, di usarli bene. Nel 1945 e negli anni immediatamente successivi, senza aiuti esteri non saremmo vissuti od almeno il sacrificio di vite e di tranquillità sociale non sarebbe stato sopportabile. Oggi, con un piccolo sforzo di rinuncia a godimenti non essenziali, possiamo ridurre i consumi al livello consentito dalla produzione nazionale. Ad ascoltare le invocazioni ai prestiti esteri, non pare che noi si sia risoluti a compiere lo sforzo modesto; e sarebbe uno sforzo il quale ci eviterebbe ogni necessità di «chiedere» prestiti esteri; i quali ci sarebbero invece volontieri «offerti» in quantità superiore agli attuali nostri desideri ed atti a crescere la produzione interna bene al di là di quanto non sia previsto dal piano Vanoni; a consentirci anzi, con investimenti all’estero, di crescere la nostra influenza economica nel mondo. Si fanno smorfie a chi richiede prestiti e si fanno a gara offerte a chi dimostra di poterne fare a meno e di saperli bene investire.

 

 

Il resto dipende ancor più dalla nostra volontà. Siamo noi che dobbiamo riconoscere la follia di parlar sempre e solo di investimenti e non preoccuparci del risparmio e della condizione necessaria affinché la creazione del risparmio nuovo sia, se non incoraggiata, almeno non ostacolata. Siamo noi che vogliamo occupare i disoccupati; ma frattanto vietiamo la libera circolazione delle unità di lavoro all’interno e poniamo obblighi di impiegar disoccupati, obblighi i quali creano quella disoccupazione che a parole combattiamo. Siamo noi che, con provvedimenti restrittivi, favoriamo monopoli di industriali e di lavoratori e poniamo limiti alla produzione. Il problema dei piani, ossia dell’avanzamento economico, non è di mezzi materiali. Non occorrono tesori del sottosuolo né ricchezze naturali abbondanti per risolvere i problemi della vita economica. Paesi senza miniere e senza visibili larghezze offerte dalla natura hanno conquistato livelli di vita non uguagliati altrove; e la conquista fu dovuta all’ubbidienza ai venerabili comandamenti scritti nei libri sacri dei popoli. A guardar bene in fondo, accanto al comando morale, quei libri venerandi insegnano semplicemente a ragionare per diritto e non per istorto.

 

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