Opera Omnia Luigi Einaudi

Di taluni insegnamenti della Svizzera nel momento presente

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 30/12/1943

«Svizzera italiana», 30 dicembre 1943, pp. 485-498

 

Agli Svizzeri non è stato in un momento o nell’altro della loro varia e lunga storia, insegnato a proclamarsi un grande popolo. Se non erro, uno dei loro maggiori scrittori, Jacob Burckhardt, si è fatto anzi teorico dei piccoli popoli. Ma io vorrei che gli italiani, ai quali si è insegnato per venti anni che essi, eredi degli antichi romani, dovevano muovere alla conquista di un impero sempre più vasto, per diventare un popolo sempre più grande, leggessero l’articolo che Fulvio Bolla ha pubblicato nel quaderno di aprile di questa rivista e nel quale si chiarisce come anche i piccoli popoli possano essere economicamente grandi.

 

«La Svizzera non ha materie prime, né carbone, né petrolio, né ferro, né altri preziosi metalli usuali, non ha sbocchi al mare e non possiede colonie opulenti da cui trarre ricchezze abbondanti, non ha uno spazio ampio a sua disposizione, tanto meno terre di una fertilità eccezionale, non possiede in fondo uno spazio vitale perché i suoi abitanti non sono in grado di vivere autarchicamente sul loro territorio… Eppure la Svizzera è prospera per non dire ricca e il suo popolo ha raggiunto un livello di esistenza elevato ed invidiato da paesi ricchi di territorio, di mare, di materie prime nel sottosuolo e di altro ancora… La Svizzera dimostra che l’adattamento degli uomini alle esigenze del loro paese può rendere sufficiente un territorio inizialmente insufficiente, può rendere inutili certi fattori descritti dai teorici come indispensabili… Si può avere un’industria metallurgica senza avere né ferro né carbone, si può avere un’industria di macchine elettriche senza avere il rame per fare i fili, si può avere l’industria tessile senza avere colonie che forniscano cotone, si può avere un’industria della cioccolata senza avere colonie che diano cacao. Come è possibile questo? Non occorre saperlo teoricamente: in Isvizzera tutto ciò esiste, segno che è possibile».

 

 

Contro il filosofo seguace di Zenone, il quale dimostrava teoricamente l’impossibilità del moto, Diogene non rispose con un ragionamento teorico: continuava ad andare su e giù per il portico. Se Diogene si muove, il movimento esiste, il movimento è possibile.

 

 

«La Svizzera – continua il Bolla – realtà viva ed operante si presenta con caratteri tali che non è possibile farla entrare negli schemi teorici dei novatori. La sua prosperità è inspiegabile se valgono i ragionamenti di chi predica intorno agli spazi vitali. Ma la sua prosperità è. Epperò la Svizzera appare nell’Europa di oggi nella posizione beffarda e pericolosa di Diogene che va sotto ai portici silenziosamente mentre l’altro filosofo prosegue la sua dimostrazione. Le parole di questo si sono perse nel nulla, vinte dai silenziosi passi del cinico. Così le parole dei novatori si perdono di fronte alla Svizzera silenziosa».

 

 

Perché Fulvio Bolla non è andato innanzi nel suo ragionamento calzante ed invece di manifestare i suoi dubbi, non ha concluso che le teorie dei novatori dello spazio vitale non solo «non convincono» ma sono anche false e bugiarde?

 

 

Miti e non teorie, le direbbe Pareto, formule politiche, correggerebbe forse Gaetano Mosca. Tedeschi ed italiani sono stati condotti alla guerra col miraggio della conquista dello spazio vitale, delle materie prime, delle colonie. Ad essi è stato detto che i popoli giovani hanno diritto di prendere il posto dei popoli vecchi, che i paesi dinamici i quali salgono devono succedere nell’impero del mondo ai paesi decadenti, che gli have nots, i popoli poveri non possono tollerare la sopraffazione degli have, dei popoli beati possidentes. La Svizzera, che non ha spazio vitale, che non ha colonie, che non ha materie prime, che è prospera, nonostante sia naturalmente povera, che è spiritualmente grande nonostante sia geograficamente piccola è una lezione vivente per tutti coloro i quali sono ansiosi di scovrire, attraverso l’esperienza del passato, le verità le quali possono salvare il mondo da una nuova guerra e dalla distruzione totale.

 

 

Si cominci ad affermare un principio fondamentale. In un mondo nel quale gli stati siano molti ed ognuno di essi sia privo del così detto spazio vitale, i pretesti di guerra sono meno numerosi e meno decisivi di quelli che si offrirebbero in un mondo che fosse diviso in pochi grandissimi spazi vitali. Oggi, che gli stati indipendenti sono ancora nel mondo una sessantina, nessuno di essi ha la possibilità di procurarsi nel suo territorio tutte le materie prime di cui ha bisogno. Ogni stato sa inoltre che, per conquistare uno spazio vitale veramente autosufficiente, gli converrebbe proporsi pressoché la conquista dell’intero mondo; impresa così vasta che persona sennata non può immaginare. Ogni stato sa che nessun altro stato monopolizza esclusivamente la materia prima che in quel momento gli fa difetto, sa che potrà sempre procurarsi quella materia prima dal territorio di uno dei tanti stati, i quali la producono. La coesistenza di molti stati è favorevole, nei limiti nei quali gli uomini sono capaci di compiere atti razionali, all’attuazione della sola politica delle materie prime la quale sia conforme alle esigenze della giusta loro ripartizione. Che cosa è il giusto in proposito? Un ordinamento nel quale le materie prime siano utilizzate da coloro i quali ne sanno trarre il miglior partito possibile. Tra due compratori, l’uno dei quali è atto a ricavare dallo stesso chilogrammo del medesimo cotone greggio un prodotto del valore dieci mentre un altro ne ricava un prodotto del valore undici è preferibile il secondo.

 

 

Questi invero è colui il quale fornisce, a parità di consumo di materia prima, un prodotto finito il quale è volontariamente preferito dai consumatori per la sua maggiore utilità, maggior utilità di cui il più alto prezzo è appunto l’indice. Per ottenere il prodotto di più alto pregio quell’imprenditore ha dovuto utilizzare la materia prima con procedimenti più raffinati, ha dovuto ricorrere ad una maestranza più esperta, ha dovuto cioè pagare direttamente ed indirettamente salari più elevati ed ha dovuto perciò promuovere un’accurata selezione ed un’elevazione tecnica delle maestranze medesime. Quale il mezzo per far sì che la materia prima vada a finire nello stabilimento dell’industriale svizzero che produce tessuti di qualità alta e non in quello dell’industriale della Carolina del Nord che produce tessuti correnti per i negri degli stati del sud? È la possibilità che ambedue possano concorrere all’acquisto del cotone americano sul mercato della Nuova Orleans. Se il mercato del cotone è libero, se tutti possono concorrere alle medesime condizioni, che cosa vuol dire che il prezzo in un dato giorno e per una determinata qualità di cotone è di 10,45 centesimi e non 10,44 e non 10,46 per libbra? Vuol dire che al prezzo di 10,45 centesimi e non agli altri prezzi la quantità domandata fu uguale in quel giorno e per quella qualità e su quel mercato alla quantità offerta. Vuol dire che, se il prezzo fosse stato di 10,46 una parte della merce offerta sarebbe rimasta invenduta e, premendo sul prezzo, l’avrebbe fatto discendere a 10.45, laddove, se il prezzo fosse stato di 10,44 la quantità domandata sarebbe stata maggiore dell’offerta e la domanda insoddisfatta premendo sul prezzo l’avrebbe fatto salire a 10,45.

 

 

Ma, a questo livello, hanno potuto acquistare solo quei compratori i quali potevano pagare 10,45 a causa della buona utilizzazione che essi si proponevano di fare del cotone. Poterono comprare gli industriali svizzeri, che producono tessuti di qualità e di prezzo relativamente alto e possono sopportare costi alti. Dovettero farne a meno alcuni tra gli industriali della Carolina del Nord, i quali producono tessuti andanti buoni per i paesi dei paesi caldi. Se vollero lavorare, costoro dovettero contentarsi di cotone con fibre più corte e scadenti.

 

 

Forseché esiste un altro criterio il quale sia atto a ripartire più giustamente le materie prime nei vari paesi del mondo? Sarebbe forse conveniente – giusto nel linguaggio giuridico e morale – che i cotoni migliori andassero a finire negli stabilimenti dove si fabbricano tessuti grossolani e quelli scadenti fossero dati a quegli industriali i quali, dovendo pagare salari alti ad operai specializzati e valenti, debbono necessariamente fabbricare merce fina di prezzo relativamente alto? All’attuazione della regola economica – e perciò giusta – basta una condizione: che tutti possano acquistare le materie prime su qualunque mercato alle stesse condizioni di ogni altro compratore, che cioè non esistano condizioni di favore per nessuno, né per i connazionali dei produttori né per gli appartenenti a stati amici o alleati. La condizione necessaria e sufficiente è che nelle relazioni internazionali viga la medesima regola che vale nell’interno di ogni stato, per gli abitanti di ogni cantone in ogni altro cantone della Svizzera, per i piemontesi, lombardi ecc. in ogni altra regione d’Italia. Non è facile per fermo che la condizione possa attuarsi nei rapporti internazionali così ovviamente come pare ovvio si avveri nell’interno di ogni stato, ma è certo più facile si avveri quando esistono, tra piccoli e grossi, 60 stati indipendenti che non quando il mondo sia diviso, come sarebbe la pretesa della teoria dello spazio vitale, tra quattro o cinque grandi imperi mondiali. La concorrenza nel comprare e nel vendere che tende ad attuarsi nel primo caso e che spinge i tanti stati ad accettare, non avendo nessuno la possibilità di dominare gli altri, la regola dell’uguale trattamento, del fair play, della clausola della nazione più favorita, non esisterebbe più quando il mondo fosse diviso fra quattro o cinque grandi spazi vitali. Ogni grande impero disporrebbe di quasi tutte le materie prime e difetterebbe solo di alcune di esse e per procacciarsele dipenderebbe solo da uno o da due altre grandi aggregazioni politiche.

 

 

Ma se la teoria dello spazio vitale ha un senso, essa vuol dire che ogni grandissimo stato vorrebbe riservare per sé, per i propri industriali le materie prime nate sul suo territorio ed escludere gli industriali stranieri dall’usarne od almeno dal procacciarsele a condizioni ugualmente favorevoli. Qual senso avrebbe invero sopportare i costi delle guerre necessarie a conquistare lo spazio vitale se si dovessero poi spalancare le porte agli stranieri e lasciare che essi si provvedessero nel territorio detto «spazio vitale» alle medesime condizioni dei nazionali?

 

 

Ma sarebbe l’esclusivismo pretesto a nuova guerra. L’unico o prevalente possessore della materia prima mancante agli altri cercherebbe naturalmente di profittare della propria situazione monopolistica, ed in contrapposto, ed altrettanto naturalmente, gli imperi bisognosi tenterebbero, coalizzandosi tra di loro, di imporgli colla forza la concessione di forniture a prezzi soddisfacenti. Il ricorso alla guerra da parte del più forte per procacciarsi il prezioso anello mancante di una compiuta catena economica è il risultato fatale della teoria. La conquista dello spazio vitale non contenta mai il conquistatore, anzi rende più acuta la sete della conquista.

 

 

I cittadini di uno stato, come la Svizzera, i quali da secoli hanno posto un limite alle proprie aspirazioni territoriali, ben presto si avvedono che «spazio vitale» e «mancanza di materie prime» sono frasi prive di contenuto e che l’uomo può vivere e prosperare anche senza soddisfare quelle aspirazioni astratte. Non esiste nessun paese del mondo, nel quale l’oro e le gemme, la gomma elastica e il petrolio, la lana ed il cotone, il ferro ed il carbone, si trovino in abbondanza per i cantoni delle strade, pronti ad essere appropriati dal primo venuto. Dappertutto le materie prime hanno un costo di produzione, dappertutto occorre fatica per estrarle dalle viscere della terra, o per farle crescere dopo averle seminate, e dappertutto, se non ci si mettono di mezzo le teorie dello spazio vitale e i relativi tentativi monopolistici ed antimonopolistici dei paesi produttori e di quelli consumatori, il prezzo di quelle materie prime tende verso il livello del costo di produzione marginale, ossia verso il livello del costo di produzione di quell’ultima più costosa dose della merce che occorre produrre per soddisfare, ai prezzi correnti, la domanda del mercato.

 

 

Accadde talvolta che taluna merce, come il caffè e la gomma elastica, sia caduta al di sotto di quel livello, infliggendo perdite fortissime ai produttori, ed accadde tal altra che, per un aumento improvviso della domanda, i prezzi superassero quel livello e sembrassero prezzi di monopolio. Ma normalmente in tempi di pace, i prezzi tendono verso il livello del costo così come fu definito sopra.

 

 

Ed allora, si chiede l’uomo di buon senso: val la pena di partire in guerra per ottenere con la forza e con un dispendio spaventevole di vite umane e di ricchezze preziose quel che posso procacciarmi col lavoro? La scelta fra l’ideale del grandissimo spazio vitale nel quale si produce gran parte delle materie prime necessarie all’industria moderna e quello ristretto al piccolo territorio svizzero insufficiente a far vivere i suoi abitanti, è la stessa scelta che ogni popolo ad un certo punto della sua storia deve fare fra la guerra e la pace, fra l’economia della rapina e quella del lavoro. Dormono nel profondo dell’animo umano gli istinti del selvaggio, del barbaro, che, unico mezzo per procacciarsi quel che non ha, conosce l’uccisione, la rapina ed il furto a danno di chi possiede. Ma anche se lo si ammanta con il linguaggio figurato dello spazio vitale, del diritto dei popoli giovani contro i popoli vecchi, dei paesi poveri contro i paesi ricchi, il metodo bellico rimane pur sempre un mezzo antieconomico di procurarsi quel che desidera. Se si sommano le perdite delle vite umane cagionate dalle guerre di conquista, gli interessi e l’ammortamento dei capitali impiegati a fondo perduto nel valorizzare i territori occupati, il minor ricavo del lavoro dei popoli assoggettati e sfruttati economicamente, ben presto si vede che il prezzo delle materie prime che paiono gratuite ai teorici imperialistici, perché ottenute con la guerra, è assai più alto di quello che si pagherebbe normalmente nella concorrenza degli acquirenti e dei venditori su mercati liberi.

 

 

Il problema si riduce a rispondere alla domanda che l’industriale svizzero pone a sé stesso: «per produrre le macchine elettriche in cui intendo specializzarmi, che cosa mi conviene di più, aggregarmi od associarmi od in altro modo partecipare ad una grande costellazione politica, capace di estendere il suo dominio su territori abbondanti di carbone, di ferro e degli altri metalli dei quali ho bisogno per fabbricare le mie macchine elettriche, ovvero non imbrogliare le due questioni, dell’appartenenza o fede politica e della convenienza economica e, standomene contento al mio piccolo stato, cercare di procacciarmi carbone e ferro e metallo dove meglio mi sarà possibile?».

 

 

L’uomo di buon senso subito si avvede che la seconda alternativa gli è assai più conveniente. Innanzi tutto perché le sue forze fisiche, la sua intelligenza nativa e le sue abilità acquisite possono essere consacrate in misura maggiore, senza distrazioni eccessive per preparazioni a guerre e ad armamenti aventi lo scopo di assalire altrui, allo studio dei mezzi migliori per ottenere macchine elettriche perfette con un minimo impiego di materiali. In secondo luogo egli non è obbligato a vendere a preferenza le sue macchine dentro la grande costellazione politica della quale fa parte, ma può scegliere quello o quelli tra i tanti mercati che è o sono disposti a pagarle al più alto prezzo. Finalmente, egli non è obbligato ad acquistare il ferro e il carbone e i metalli nel territorio del grande spazio vitale di cui qualche tentatrice sirena lo invita a far parte, dove i prezzi possono essere più alti di quelli che corrono altrove, ma può scegliere con indifferenza il mercato produttore nel quale egli li può acquistare al minimo prezzo. Sicché, se egli è davvero esperto nel produrre buone macchine elettriche – ma ciò dipende da lui, dall’essere egli davvero un uomo moderno, agguerrito negli studi teorici e nelle loro applicazioni pratiche, buon commerciante di prodotti finiti e buon intenditore di materie prime, buon organizzatore di operai pagati bene è probabile ch’egli riesca a vendere più e meglio dei concorrenti del grande spazio vitale, appunto perché egli non ha mai posseduto né aspirato a possedere territori sconfinati ed a gloriarsi di colonie. L’appartenenza ad un paese non imperialistico fu per lui cagione di ricchezza e non di povertà, perché lo indusse a perfezionare le qualità di lavoro e di industria, che son poi quelle con le quali si riesce a produrre ed a vendere buone materie prime e buoni prodotti finiti.

 

 

Non dico che i liguri od i biellesi della mia Italia non abbiano imparato altrettanto bene degli svizzeri la lezione del buon senso, essi che dai sassi cavano o cavavano fiori ed ortaggi venduti in tutta Europa; o dal mare sapevano trarre commerci lucrosi, sfruttando nel ‘600 e nel ‘700 la vanagloria dei signori spagnuoli, i quali traevano a rovina il loro paese per l’albagia di possedere le miniere d’oro e d’argento nello spazio vitale più ampio che allora esistesse, essi che, utilizzando i salti d’acqua delle loro montagne, seppero nel biellese creare una solida industria laniera.

 

 

Tuttavia l’esempio della Svizzera va additato agli italiani come quello del paese, che, riponendo tutta la propria forza economica nell’eccellenza del lavoro compiuto, ha raggiunto uno dei livelli più alti che nel mondo si conoscono non solo di ricchezza, ma anche di larga diffusa sua distribuzione, aliena ugualmente dagli eccessi della miseria e della opulenza.

 

 

La rinuncia svizzera alla gloria dei possessi coloniali ed a quella di vedere pitturati nel proprio colore vasti territori asiatici, africani od australiani, è davvero una rinuncia? Qui si pone uno dei più gravi problemi del momento attuale. Non basta dimostrare che la conquista di una colonia non è economicamente un buon affare. Si può essere persuasi che il provento netto della colonia non potrà remunerare il capitale impiegato dallo stato colonizzatore nelle spese della conquista militare e nell’apprestamento dell’attrezzatura stradale, ferroviaria, amministrativa, igienica, scolastica del territorio conquistato, che probabilmente il capitale impiegato dallo stato non solo non otterrà alcuna remunerazione, ma sarà cagione di oneri ragguardevoli per lunghissimo periodo di tempo alla madrepatria. Si può essere persuasi che il capitale impiegato da imprenditori privati e da società nella bonifica e nella coltivazione dei terreni adatti alla colonizzazione europea avrebbe forse, assai alla lunga, dato qualche reddito agli imprenditori solo se questi avessero profittato di larghi sussidi statali a fondo perduto per la costruzione di edifici rurali, di strade secondarie e poderali e per le opere di bonifica e di irrigazione. Si può essere convinti che, anche fatte queste ipotesi di larghissimi sacrifici della madrepatria, questa non avrebbe probabilmente potuto avviare verso la colonia una emigrazione di milioni di contadini piccoli e medi proprietari autonomi, perché le condizioni di vita delle contrade non ancora costituite in stati indipendenti liberi non sono generalmente favorevoli alla popolazione bianca, la quale debba vivere continuamente sul podere, ma impongono al bianco di trascorrere ogni tre o quattro anni un lungo periodo di vacanza in clima diverso europeo, cosicché quei territori si palesano propizi soltanto a quella che si chiama colonizzazione da parte di grandi imprenditori, dirigenti di aziende capitalistiche coltivate manualmente da indigeni adusati al clima, colonie cioè di sfruttamento e non di popolamento, colonie vantaggiose, sì, ad un numero ristretto di ardimentosi grandi agricoltori ed insieme agli indigeni, di cui l’iniziativa bianca sarebbe capace di innalzare il tenor di vita, ma inette a raggiungere il risultato di apprestare uno sbocco ad una esuberante popolazione agricola metropolitana.

 

 

Si può essere persuasi di tutto ciò e d’altro ancora: della non convenienza economica di strappare ai beati possidenti colle armi, giacché colle buone non sarebbe mai possibile, colonie antiche e già assestate come la Tunisia ed il Marocco o qualche ampia fetta dell’Africa tropicale francese, o britannica o belga. Anche qui, se si tenga conto dell’investimento di capitali nella condotta della guerra di conquista, e di quelli grandiosi per la riattrezzatura distrutta o danneggiata nelle operazioni belliche, del moto di indipendenza che spinge il mondo arabo e, a quel che si sa, anche le popolazioni indigene nere dell’Africa, a sottrarsi allo sfruttamento da parte dei bianchi, a pretendere autonomie politiche ed economiche, ad esigere la cessazione di quelle forme di colonizzazione europea che implicano semplice sfruttamento della mano d’opera indigena e l’instaurazione di tipi di governo economico, nei quali ai bianchi spettino solo quei guiderdoni che siano il compenso normale di funzioni effettivamente compiute, è probabilissimo si debba giungere alla conclusione che le imprese coloniali, anche se si tratti di territori cosidetti ricchi e non di zone sterili o malariche trascurate dai primi giunti nell’arringo coloniale, sono imprese economicamente improduttive, se non sterili. La quale conclusione si rafforza riflettendo alla difficoltà somma di instaurare, a vantaggio della madrepatria, nei tempi moderni, un qualche sistema di preferenze doganali, i cui danni Adamo Smith aveva già dimostrato per i tempi suoi. Gli accordi di Ottawa sono una palla di piombo al piede dell’Inghilterra, indotta ad acquistare dalle colonie derrate agricole e materie prime anche quando sarebbe ad essa più conveniente farne acquisto altrove ed a danneggiare se stessa nella vendita dei prodotti finiti in confronto ai paesi liberi da siffatte pastoie, e sono fonte di attriti interimperiali quando essa, per ricambio, incerto e sempre sospettato, richiegga favori alle sue esportazioni nelle colonie.

 

 

Tutto ciò discusso e concluso, il problema non è risoluto. I popoli poveri, giovani, combattivi vogliono forse ottenere ricchezza quando si decidono a combattere? O la ricchezza non è un miraggio vano che i capi additano ai popoli, quando invece la meta vera è unicamente quella della conquista della gloria, del prestigio, della potenza militare e politica? Con ragionamenti economici non si distrugge la volontà di potenza e di espansione di popoli i quali vogliono conquistare un posto al sole. Il problema, che non è economico, deve essere posto politicamente e storicamente. Orbene, l’esperienza dimostra che la forza sola non basta. Non basta dire, anche quando è vero: noi siamo un popolo numeroso, crescente di numero, desideroso e bisognoso di espansione, provvisto delle armi necessarie affinché all’aspirazione segua l’effetto. La forza scompagnata dall’idea non è vera forza e da essa non seguono ricchezza e potenza, sì bene miseria ed umiliazione.

 

 

Sull’impero spagnuolo non tramontò il sole, finché, agli avventurieri in cerca d’oro e d’argento si accompagnavano missionari intesi a convertire gli indiani alla parola di Cristo. Quando rimasero soli gli aguzzini decisi ad arricchire, l’oro e l’argento delle nuove Indie recarono alla Spagna solo ozio, miseria e decadenza economica morale e politica. L’antico impero britannico si sfasciò e le 13 colonie, ribellandosi, dimostrarono che la forza, messa al servizio esclusivamente della volontà di potenza e del privilegio economico, non bastava a conservare quel che non la forza, ma il lavoro dei coloni in cerca di libertà religiosa aveva creato nell’America settentrionale. Il nuovo impero britannico risorse e crebbe e non pare sia giunto al termine della sua lunga vita non perché l’Inghilterra del XIX secolo sia stata capace di maggior forza che nel XVIII secolo, ma perché nel decennio tra il 1830 ed il 1840 un gruppo di uomini si fece banditore di un’idea e quell’idea trovò un uomo di stato, Lord Durham, che la consacrò nel celebre rapporto che da lui prese il nome. La tavola della legge del nuovo impero fu: le colonie non sono fatte per la madrepatria, ma la madrepatria ha la missione di fondare a sue spese le colonie, di educarle a governo libero e di assicurare la loro indipendenza politica ed economica anche e sovrattutto di fronte a se stessa. Solo la nuova idea, messa al servizio della forza, rinsaldò il rinnovato impero britannico. Arricchita di sempre crescente contenuto, essa fu codificata nel cosidetto Statuto di Westminster, in virtù del quale ai Dominions del Canada, dell’Africa del sud, dell’Australia, della Nuova Zelanda fu riconosciuta la compiuta indipendenza economica, politica, militare, diplomatica di cui godevano di fatto già prima, fu attribuito il diritto di secessione dal complesso della Comunità britannica delle nazioni, al quale sono legati solo dal vincolo ideale della persona del Re, e fu persino devoluto al governo elettivo dei singoli stati il diritto di proporre direttamente al Re, senza passare attraverso il governo britannico, il nome del viceré rappresentante della persona del Re. Verso questo tipo di indipendenza assoluta stanno orientandosi l’India e le altre colonie, ancora amministrate direttamente dalla corona con la cooperazione larghissima e crescente di parlamenti locali. Ed è grazie all’idea della graduale ascesa verso l’indipendenza politica compiuta, che le antiche colonie, diventate stati indipendenti, combatterono e combattono accanto alla madrepatria durante la passata e la presente grandi guerre. Solo grazie alla consapevolezza di potere, volendo, rimanere neutrali, come fece e fa, senza contrasto con l’Inghilterra, l’Irlanda, i dominions e le colonie fanno sacrifici di sangue e di danaro in difesa di una causa che, perciò, essi considerano comune. Dalla convinzione profonda di dover difendere l’idea della convivenza in una libera comunità di nazioni indipendenti trae forza l’impero britannico. Oggi è diventato storicamente assurdo che la forza pura, la mera volontà di potenza e di dominio riesca ad acquistare capacità maggiore di espansione di una forza la quale acquista ognor nuovo alimento dalla propria superiorità morale e spirituale. Oggi, se si vuole partecipare alla colonizzazione, al popolamento ed allo sfruttamento dei paesi nuovi e di quelli semi inciviliti bisogna porre al servizio della forza non meri interessi egoistici materiali della madrepatria, ma un’idea la quale uguagli e superi l’idea che ha fatto e conserva la grandezza dell’Impero britannico. Di crear qualcosa di meno alto non solo non vale moralmente la pena, ma, quel che monta, non ci si riesce. Le forze materiali le quali stanno dietro all’idea dello spazio vitale, della grande Asia e simiglianti concezioni puramente economiche materialistiche razzistiche fisiologiche (sangue, gioventù) demografiche si sono ripetutamente dimostrate inferiori a quelle che, forse più lentamente, sono chiamate a raccolta dalla necessità di difendere altre idee: della libera convivenza dei popoli, della loro cooperazione volontaria, dell’emancipazione progressiva dei popoli meno inciviliti e della loro elevazione a dignità uguale a quella dei popoli che oggi guidano i destini del mondo. Poiché questa è la realtà, non resta che inchinarsi ad essa. Poiché colla guerra non si riesce a sostituire un tipo inferiore di conquista ad uno superiore di conservazione, giuocoforza è, se si vuole conquistare un posto nel mondo superiore a quello fin qui raggiunto, rassegnarsi a mettersi al servizio di un’idea più alta di quella che ha fatto la fortuna dei grandi imperi che si sono succeduti nella storia.

 

 

Quale possa essere un’idea più alta di quella della comunità britannica delle nazioni non è compito di un semplice studioso dire. L’idea verrà fuori dalla necessità della convivenza di tanti diversi popoli tutti decisi a difendere, a rischio della vita, la propria individualità nazionale.

 

 

L’idea dello spazio vitale ossia della esclusività del possesso di vasti territori da parte di un popolo egemone si è dimostrata sterile. Comunque volgano le sorti della guerra presente, dinnanzi alla resistenza disperata dei popoli, la teoria degli spazi vitali ha dimostrato la propria inettitudine a creare un nuovo mondo migliore dell’antico.

 

 

Qui, di nuovo, può soccorrere l’insegnamento svizzero. Come ripetutamente ha chiarito nelle pagine di questa rivista lo Janner, l’idea che rende viva e vitale la Svizzera, che ha trasformato un paese diverso per lingue, per religioni, per costumi, per razze, in una vera nazione, non è un’idea materiale geografica od economica. Se queste fossero le forze che tengono insieme la Svizzera, da lungo tempo essa non esisterebbe più. La Svizzera vive ed è una nazione perché è decisa a far convivere d’accordo popoli diversi. L’idea che ha creato la nazione svizzera è la stessa che fa combattere il boero, vinto, accanto all’Inghilterra vincitrice, che dà al boero vinto il governo del paese nel quale i due popoli convivono, che persuade il francese del Canada a lottare insieme ai discendenti dei conquistatori britannici, che pone i pochi figli dei maori neozelandesi fianco a fianco degli inglesi che avevano quasi sterminati i loro antenati: l’idea della convivenza pacifica di popoli, di razze, di lingue, di religioni, di costumi diversi. Ma la Svizzera ha spinto l’attuazione dell’idea ad un grado più elevato di quanto non abbia fatto la Comunità britannica delle nazioni. Questa, dopo avere distrutto l’egemonia inglese, dopo aver ridotto la Gran Bretagna allo stato onorifico di «primus inter pares» fra stati ugualmente sovrani, non ha ancora saputo tra essi creare l’organo coordinatore. Nel momento supremo della successione del Re per l’abdicazione di Edoardo VIII, hanno funzionato il telefono e gli accordi verbali dei governi degli stati indipendenti legati dalla persona del Re, affinché la successione si verificasse nel medesimo istante. E fu un trionfo -amareggiato solo dal ritardo di un giorno da parte dell’Irlanda del sud, desiderosa di accentuare in tal modo e con l’uso di una formula singolare la propria indipendenza assoluta ed il proprio stato legale di repubblica – fu un trionfo dell’empirismo tradizionale britannico, il quale non pone mai problemi astratti ma risolve volta per volta i singoli problemi concreti con compromessi, ripugnanti bensì allo spirito logico francese ed italiano, ma suscettivi di funzionare con efficacia. Non è però astratto, sì bene concreto il problema della coordinazione dell’azione comune, quello della sostituzione al metodo lento della fornitura, ad occasione di una guerra improvvisa, di contingenti di uomini e di denaro, da parte di ogni stato facente parte della comunità britannica delle nazioni, di un metodo rapido efficace atto a guarentire la pace e la difesa. Certo, fu magnifico lo spettacolo dell’adesione volontaria, operata in misura e con modalità diverse, con o senza coscrizione obbligatoria, dei cinque stati all’impresa comune. Tuttavia se fu moralmente superbo, il metodo fu pericoloso rispetto alla consecuzione dello scopo, perché l’impresa non poté non essere condotta con una qualche lentezza e superando attriti faticosi. Manca alla Comunità britannica delle nazioni quel che per la Svizzera sono il Parlamento ed il Consiglio federale, quel che per gli Stati Uniti sono il Congresso ed il Presidente.

 

 

Avranno gli uomini di stato chiamati a deliberare dopo la fine della guerra sulle sorti dei popoli la fantasia e la volontà di imitare e di emulare l’esempio svizzero? Il quale, si badi, è superiore a quello medesimo nordamericano, perché negli Stati Uniti si fondono, come in un crogiuolo, dopo qualche generazione i discendenti degli inglesi, degli irlandesi, dei tedeschi, degli scandinavi, degli italiani e degli slavi e danno origine ad una nazione nuova, diversa da quelle componenti e fornita di propria individualità, laddove nella Svizzera le tre o quattro stirpi confederate conservano la propria lingua ed i proprii caratteri e tuttavia sono decise a convivere e perciò costituiscono una nazione sola, una e trina.

 

 

Probabilmente no, e sarà grande sciagura perché essi non avranno saputo perciò spegnere i germi di una prossima futura guerra più spaventevole di quella odierna, destinata finalmente a sradicare del tutto dalla terra attraverso un bagno di sangue l’idea nefasta dello stato sovrano perfetto in se stesso, dotato di piena autonomia di fronte agli stati sovrani ugualmente perfetti ed indipendenti. Finché l’idea dello stato sovrano perfetto, padrone assoluto, sia pure per volontà della maggior parte dei consociati, delle sorti di questi, non sia interamente sradicata dalla mente e dal cuore degli uomini, è impossibile che il mondo possa aver pace. Sinché non diventi pacifica la persuasione che la sovranità non esiste perfetta in nessun tipo di stato, ma essa è diffusa e distribuita fra tanti tipi di stato (lo stato federale, gli stati confederati, i comuni, le corporazioni, le chiese, le associazioni, gli individui ecc.) e nessuno può usurpare il terreno altrui e, per decidere delle cose supreme della guerra e della pace, occorre il consenso, dato nelle forme più diverse, di tutti i tipi coesistenti di stato, il mondo non potrà avere pace.

 

 

Occorre perciò spogliare a poco a poco dei suoi attributi il nemico numero uno, che è l’idea dello stato sovrano perfetto. Occorre trasportare dallo Stato sovrano ad organi diversi, internazionali, alcuni degli attributi che oggi appaiono proprii dello stato, cosicché la sovranità non risieda più intiera nello stato ma sia variamente attribuita ad organi superstatali, dotati di vita, di finanza e di organi proprii, organi non denunciabili dagli stati singoli se non con atti destinati col tempo a parere assurdi agli occhi degli uomini e quindi impossibili.

 

 

La creazione o, meglio, la moltiplicazione di organi comuni di governo di taluni aspetti della vita, particolarmente economica, dei popoli, si impone se si vuole diminuire la superficie di attrito dalla quale nascono le guerre, organi grazie ai quali i rappresentanti dei diversi stati imparino a conoscersi, a tollerarsi, a stimarsi ed a lavorare in comune per una causa comune a tutti. L’insuccesso, che fin dal 1918 e 1919 ebbi facilmente a prevedere, della Società delle Nazioni, organo privo di forza militare, di entrate finanziarie e di rappresentanza propria, e la convinzione della immaturità dell’idea della federazione vera e propria, spingono oggi ad invocare la moltiplicazione di «Unioni» economiche simili alla Unione postale internazionale, alla Unione internazionale per le privative industriali ed i marchi di fabbrica od alla Banca dei pagamenti internazionali, le quali hanno tutte sede in Svizzera. È forse utopistico sperare che anche il sistema dei mandati coloniali possa essere trasformato e generalizzato seguendo la medesima linea direttiva?

 

 

Quando si riconosca che le conquiste coloniali non possono avere, nell’interesse stesso della nazione colonizzatrice, fini economici egoistici, ma debbono invece avere lo scopo del benessere dei popoli meno inciviliti e la loro progressiva educazione a compiuta autonomia di governo, quando, durante il periodo intermedio di educazione, lo stato protettore non rivendichi, reputandolo a se medesimo dannoso, alcun privilegio economico, quando cioè si generalizzi il principio della porta aperta e questo sia in buona fede applicato alle merci ed agli uomini provenienti e indirizzati da e a tutti gli stati stranieri, quale interesse può avere lo stato protettore a riservare a sé l’amministrazione esclusiva del paese di mandato? Perché accollarsi l’onere esclusivo degli investimenti a fondo perduto nell’attrezzatura di strade, ferrovie, porti, canali, scuole, ospedali, chiese ecc. ecc. necessaria a rendere quel paese degno di piena autonomia di governo? Agli stati protettori odierni gioverebbe attribuire una partecipazione relativamente elevata nei consigli di governo e nell’onere dell’amministrazione, ma non tale da escludere una partecipazione attiva e passiva di tutti gli altri stati. Se agli inglesi, ai francesi, ai belgi, agli italiani, agli egiziani, ai sudafricani potranno essere riconosciute particolari maggioranze nei consigli di governo dei paesi di colonia diretta, dei protettorati, dei mandati e delle zone di influenza finora appartenuti a ciascuno di quei popoli, la costituzione di una o di parecchie «Unioni coloniali» aperte agli stati originari ed a tutti gli altri che potessero in seguito essere ammessi (Stati Uniti, Germania, Russia, Svizzera, Paesi scandinavi ecc. ecc.) inizierebbe lo smantellamento dell’idea dello stato sovrano perfetto e preparerebbe la futura federazione europea od occidentale. All’amministrazione comune federativa del grande territorio coloniale africano parteciperebbero in varia misura, a seconda del rispettivo grado di attitudine e di organizzazione politica, anche i popoli amministrati. Col progredire del tempo, un numero crescente di compiti sarebbe devoluto dall’amministrazione federale a quella delle ex colonie o protettorati, ritornati a piena dignità di stati autonomi, a somiglianza di quanto accade, in forme diverse, nel passaggio dalla situazione di «territori» a quella di «stati» nella federazione degli Stati Uniti d’America. Ma taluni compiti – difesa, grandi ferrovie continentali, poste e telegrafi, dogane, rappresentanza diplomatica – non dovranno mai essere trasferite dall’unione ai singoli territori. La diminuita partecipazione degli stati colonizzatori e quella cresciuta dei popoli coloniali alla gestione della cosa comune dovranno significare rafforzamento e non indebolimento dell’organo comune di governo.

 

 

I vantaggi economici maggiori della nuova politica coloniale sarebbero principalmente goduti dai cosidetti paesi poveri e giovani. Ove non si faccia questione di mero prestigio e si consenta che le carte geografiche rimangano colorate così come sono presentemente, coi colori delle rispettive potenze dominanti o protettrici o mandatarie, ma si osservi rigorosamente, grazie al controllo dell’«Unione coloniale» il principio della porta aperta a tutti i cittadini degli stati appartenenti alla Unione, sarebbero i popoli europei capaci di più larga emigrazione, meglio atti ad esportare risparmi ed a farli fruttificare con impieghi giudiziosi, quelli che trarrebbero maggior profitto dalla pace instaurata nel grande territorio africano. Tutti avendo le medesime opportunità di riuscita, nessuno potrebbe lagnarsi della migliore riuscita altrui, ché questa non potrebbe essere attribuita ad altra causa che al merito. La diversità nei punti di partenza rispetto al possesso di capitali non avrebbe gran peso.

 

 

Il ritorno della pace, se questa non sia una semplice tregua d’armi, darebbe un siffatto impulso alla formazione di capitali nuovi, che questi diverrebbero presto quel che in certi momenti furono il caffè, la gomma elastica, il cotone, il carbone: a drug in the market, una merce venduta sotto costo, ossia in compenso di un interesse nominale. Se oggi il saggio di interesse per lunghi investimenti non è del 0,50 o dell’1 per cento, la colpa è esclusivamente delle guerre e delle rivoluzioni. In Isvizzera dove da lunghi anni le une e le altre sono conosciute solo per le loro dannose ripercussioni, il saggio d’interesse per i prestiti pubblici e privati è tra i più bassi del mondo. Di gran lunga più importante del possesso del capitale, diventerebbe l’attitudine ad usarlo. Non i capitalisti sarebbero i padroni degli imprenditori, non i lavoratori, dotati di qualche iniziativa, dovrebbero chiedere in ginocchio l’aiuto dei capitalisti, ma viceversa. Ora, se un popolo è veramente giovane, il che vuol dire fornito di energia e di capacità di lavoro, esso non corre alcun pericolo di rimanere indietro nella gara della colonizzazione, ove questa sia veramente aperta a tutti.

 

 

Ecco perciò l’ideale che deve trionfare alla fine della guerra attuale, se questa deve essere davvero, se non l’ultima guerra, almeno il preludio ad un lungo periodo di pace: il riconoscimento dell’uguale diritto di tutti i popoli ad utilizzare i beni della terra. Ideale conciliabile colla permanenza delle attuali sovranità politiche, ove il concetto di sovranità sia svuotato del contenuto di assolutezza e di esclusivismo che ora lo rende cagione di odi e di guerre, e sottoposto, insieme ad altri vincoli, a quello fondamentale dell’uguale trattamento economico e giuridico di tutti gli uomini, qualunque sia la loro razza, la loro religione, la loro lingua. Non è questo l’ideale che dà oggi alla Svizzera la caratteristica vera di nazione?

 

 

Al disopra dei confini materiali, al di sopra dei limiti segnati dalle montagne, dai fiumi e dai mari, e di quelli ereditati dalle sorti varie delle lotte passate, gli uomini si sentono concittadini, parte della medesima nazione, quando essi inseguono un medesimo ideale di vita. La nazione è un atto morale e non fisico e non fisiologico. Non la terra e non il sangue creano le nazioni, ma la volontà di vivere insieme secondo norme comuni e per raggiungere un comune ideale. La guerra odierna è la prova della necessità in cui si trovano gli europei di creare metodi di vita comune. Se i mezzi voluti da taluno per raggiungere il fine devono essere riprovati, il fine della cooperazione i tutti i popoli è pur necessario.

 

 

Ferrovie, navigazione, telegrafo, telefono, radio hanno resa assurda la vita chiusa nell’ambito di ogni stato separato. È necessario, se si vogliono evitare guerre future, se non si vuole che fra un quarto di secolo l’Europa sia messa nuovamente a fuoco ed a sangue, inventare qualche nuova forma di convivenza pacifica. Se la forma più perfetta della federazione tra popoli di stirpi, di lingua e di religioni diverse, appare oggi prematura ai più, uopo è tuttavia avvicinarsi gradatamente a quell’ideale e creare vincoli siffatti all’operare indipendente separato degli stati che un’azione di guerra appaia ognora più rischiosa nell’attuazione e incerta nei risultati. Quando le ferrovie siano governate da un ente superstatale esse saranno strumento meno agile in mano di quello degli stati che volesse muovere guerra agli altri. Quando le colonie fossero governate da «Unioni», nel governo delle quali ogni stato avesse solo una partecipazione, sarebbe scarsamente possibile ad uno stato fazioso trarne uomini e mezzi per la condotta di una guerra. Quando l’emissione della moneta e dei suoi surrogati cartacei fosse riservata ad un Istituto internazionale, la fabbricazione di carta moneta falsa, questa suprema risorsa degli stati belligeranti, sarebbe meno comoda per chi volesse turbare la pace. Quando l’Unione postale universale non fosse soltanto, come è oggi, una camera di compensazione, ma gerisse direttamente le poste i telegrafi ed i telefoni, un ostacolo, almeno momentaneo, sarebbe frapposto ai perturbatori della pace internazionale e di quella interna. Ritardo ostacolo remora, non certo impedimento assoluto; ma quando si dice ritardo ostacolo remora si dice anche possibilità di compromessi, di trattative, di accordi o di interventi repressivi degli istinti belluini atavici che spingono a risolvere i problemi con la violenza invece che colla persuasione. Le limitazioni internazionali ai poteri dei singoli stati sovrani gioverebbero a togliere valore al nemico numero due della civiltà contemporanea, ossia all’idea che basti e convenga impadronirsi del potere per procacciare la felicità di questa o quella classe sociale. La «dittatura del proletariato», la conquista del potere da parte di qualche gruppo eletto di uomini persuasi di possedere il segreto della rinnovazione della società, ecco il nemico numero due, logica conseguenza dell’idea dello stato sovrano perfetto, il quale tutto può fare per crescere la somma della felicità umana. Dopo secoli di guerre atroci gli uomini si sono finalmente persuasi che lo stato è impotente ad agire nel campo della religione e del pensiero. Occorre si persuadano che all’operare dello stato debbono essere posti vincoli numerosi di altra specie, sicché ai suoi temporanei governanti desiderosi di attuare un qualunque loro proposito, sia richiesto il consenso di tanti altri stati, di tanti altri organi di governo superstatale, da rendere difficilissimo il mal fare, il fare rapidamente, il mutare e il rimutare che nelle cose di governo sono quel che il male ed il peccato sono nelle cose della morale e della religione.

 

 


[1] In calce la data: «15 agosto 1943» [Ndr.].

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