Opera Omnia Luigi Einaudi

Di taluni relitti fiscali assunti a strumento di supremazia politica

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1932

Di taluni relitti fiscali assunti a strumento di supremazia politica

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1932, pp. 321-325

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 489-495

 

 

 

 

Salvatore Pugliese: Le prime strette dell’Austria in Italia. (Edizioni Fratelli Treves, Milano, 1932, un vol. in-8° di pag. VIII-340. Prezzo L. 30).

 

 

Salvatore Pugliese ha scritto tre opere capitali per la storia economica italiana: due attinenti alla storia della produzione agricola, del valore dei terreni, dei contratti agrari, dei salari e dei prezzi nel vercellese dal 1700 al 1925 (Due secoli – XVIII e XIX – di vita agricola, Torino, Bocca, 1908 e Produzione, salari e redditi in una regione risicola italiana dal 1900 al 1925, Milano, Annali dell’Università Commerciale Bocconi, 1926), ed uno alla storia della Lombardia (Condizioni economiche e finanziarie della Lombardia nella prima metà del secolo XVIII, in tomo 52 della Miscellanea di storia italiana, Torino 1924). A scrivere quei tre volumi il Pugliese faticò trent’anni, tutti consacrati, senza preoccupazioni di insegnamento, di concorsi a cattedre, di collaborazioni a giornali e riviste, all’opera intrapresa. La gente perita nell’arte formale dello scrivere libri può forse rimproverare al Pugliese mancanza di indici alfabetici di nomi e di cose e qualche citazione non compiuta (non sempre sono citate le pagine dei libri e delle fonti manoscritte, anche quando forse si poteva). Altra gente peritissima nell’arte di fabbricar libri con poca spesa, inventando interpretazioni storiche, sputando nel piatto offerto dai predecessori saccheggiati a man salva e citati in luoghi secondari, dirà che in Pugliese non ci sono visioni nuove della storia economica, non ci sono interpretazioni di contrasto di classe, superamenti dialettici di principi informatori della vita sociale, ecc., ecc. Certo non vi sono cabale di –ismi – mercantilismi, industrialismi, capitalismi – rincorrentisi l’un l’altro; non si rivedono i soliti motivi fastidiosi che ci troviamo tra i piedi a prima aperta di tanti libri di storia, solo perché lo scrittore, avendone la testa piena, si crede in dovere di cacciarveli dentro per dimostrare abilità a far risolvere i problemi nostri contemporanei dagli uomini di una volta. No gli uomini di Pugliese sono davvero quelli di una volta: contadini, mezzadri, amministratori del secolo XVIII, occupati a discutere dei problemi che assillavano essi e non di quelli che inquietano noi. Dati di prezzi, di salari, di rendite, di produzioni sono di prima mano, frescamente ricavati da fonti archivistiche, maneggiate con perizia consumata, conosciute e valutate attraverso consuetudini di anni. Li fa parlare non un economista né uno storico di professione; ma un uomo il quale possiede per dono naturale il senso economico, il che, in ricerche di questa fatta, vuol dire buon senso, avvedutezza, attitudine nel chiarire per il loro verso più semplice i fatti ordinari della vita. Perciò i tre volumi di Pugliese sono tre macigni che resisteranno al logorio del tempo.

 

 

Reputo una fortuna che nessuna università e nessun istituto superiore di scienze economiche abbia ubbidito al dovere di chiamare il Pugliese, senza dubbio facile princeps nel suo campo, ad insegnare storia economica. È pur bello che esista ancora qualche campione superstite della specie, un tempo comune, di studiosi, contenti di studiare seriamente, per anni, senza ambizioni universitarie, anzi angosciati se taluno li voglia chiamare in un arringo nel quale meriterebbero di stare tra i primi. È bello; ma tanto più doveroso è perciò il rendere ad essi l’onore del plauso.

 

 

Al Pugliese, mentre pazientemente negli archivi torinesi e milanesi studiava documenti attinenti a bilanci, ad imposte ed a spese, devono probabilmente essere passati sotto gli occhi carte che discorrevano di contribuzioni, sussidi, mesi romani pretesi dalla dieta dell’impero o pagati alla camera imperiale. A somiglianza di un altro innamorato di terreni abbandonati, Irenée Lameire, il quale nel primo decennio del nostro secolo percorse palmo a palmo le campagne del Piemonte, del Milanese, e della Liguria occidentale per scoprirvi le tracce degli spostamenti di sovranità durante le guerre di Luigi XV, della successione di Polonia e della prammatica sanzione, il Pugliese fu incuriosito da quei documenti che gli parlavano il linguaggio dei fossili e si mise a scavare in profondità. Ne è venuto fuori il libro del quale qui si fa l’annuncio e che per molti sarà una rivelazione. Abbiamo letto tutti il Sacro romano impero del Bryce, libro ben costrutto e stupendo; e ci era rimasta l’impressione che l’impero rinovellato da Carlomagno, l’impero romano di nazione germanica, fosse bensì morto formalmente solo il 6 agosto 1806 per la rinuncia di Francesco II, ma in realtà fosse già da secoli un fantasma vano, incapace di gittar ombra sugli stati vivi che si erano andati formando dopo il ‘400. Qualche dubbio era a tratti balenato contemplando le schiene di certi libracci in folio De libertate civitatis Florentiae, che anche oggi i librai antiquari danno via, con dispregio, per vil moneta ed in cui, annusando, si intuivano intricate rivendicazioni di indipendenza contro vecchie pretese imperiali; o leggendo il succoso libretto del Lameire su Les dernières survivances de la souveraineté du Saint Empire sur les États de la Monarchie piémontaise, Paris 1909; ma da quegli assaggi era stata radicata l’impressione di controversie cancelleresche, dibattute fra libracci e scartoffie, prive di sostanziale contenuto.

 

 

Oggi il Pugliese, attraverso pazientissimo intarsio di sbrindoli di fonti sparpagliate in annotazioni di bilanci, in carteggi di corti italiane con ministri a Vienna, in deliberazioni della dieta dell’impero, in messaggi or oltracotanti ed or remissivi dei plenipotenziari imperiali in Italia, dimostra che il sacro romano impero fu una realtà pur nell’evo moderno. Realtà mutevole; talvolta quasi umbratile, non mai intieramente venuta meno. All’incirca 20 milioni di lire milanesi durante la guerra di successione spagnuola prelevate su Toscana, Genova, Roma, Modena, Lucca, Guastalla, Massa Carrara e feudi imperiali delle Langhe e della Lunigiana e di altri paesi dell’appennino ligure, ossia su una popolazione di non più di due milioni e mezzo di abitanti (pag. 220); 5 milioni e mezzo tra il 1717 e il 1719 a titolo di sussidio turcico e per la guerra di Sicilia; laddove invece durante la guerra di successione spagnuola i grandi vassalli, il re di Sardegna (a cui nel 1738 erano stati chiesti L. m. 618.750), il granduca di Toscana (495.000); il duca di Parma e Piacenza (311.250); il doge e i signori di Genova (297.000) non pagano un soldo; a Mantova nulla si chiede; a Modena, Massa e Novellara si consente compensazione e solo i minori feudatari di Lucca, Guastalla, delle Langhe, di Val Scrivia e Trebbia e di Lunigiana sono indotti a pagare 121.800 lire milanesi. Contribuzioni imperiali furono chieste per l’ultima volta per condurre la guerra contro Francia e Napoleone. Risparmiata la casa di Savoia, alleata nella dura guerra, furono chieste, sulla base del riparto dal 1738, 25.000 doppie da 24 lire milanesi l’una a Toscana, ridotte poi a 20.000; 20.000 a Parma e Piacenza (ridotte a 15.000); 12.000 a Modena (10.000); 15.000 a Genova (12.000); 3.000 a Lucca (2.000); 1.200 a Massa (1.000); 700 al principe Doria per i feudi di Val Pregola (700); 150 ai conti di Vescovado (100); 150 a quelli di Gazoldo (100); uno scudo d’oro per fuoco ai feudi minori, riducibile a mezzo od anche a meno. Ma nonostante le grosse pretese, a tutto il 1796 si riscossero soltanto 547.631 lire milanesi, di cui 364.600 pagate dal duca di Modena; 36.000 dal principe Doria; 14.400 dal duca di Massa; e 36.000 dalla repubblica di Lucca. I feudatari pagavano o non a seconda della loro forza e di quella dell’imperatore regnante. Quasi sempre, durante l’evo moderno, della dignità imperiale, legalmente elettiva, era insignito il capo del ramo tedesco della casa d’Austria; anche perché venute meno e non solo in Italia le rendite proprie dell’impero, era d’uopo fosse nominato imperatore chi potesse coi mezzi suoi dar lustro e forza alla dignità altissima. Quando l’austriaco era in basse acque militari e politiche, i vassalli facevano, i sordi o rivendicavano libertà dai vincoli imperiali. Nel 1656 al commissario imperiale, mandato in Val di Magra ed in Lunigiana ad esigere uno scudo d’oro per fuoco e per ogni anno durasse la guerra, i feudatari Malaspina protestano fedeltà ma non vogliono aprire il riscritto imperiale sino a che non fosse presente la maggioranza della loro famiglia, facendo intanto esposizione delle miserie dei siti e degli abitanti; altri non si lasciarono trovare; e quello di Olivola, uno dei più ricchi, benché in casa, non permise gli si parlasse e neppure si avesse comunicazione coi suoi e gli si rimettesse la carta cesarea, col pretesto del timore della peste. Instando il commissario con l’uomo che gli vietava l’ingresso, lo si minaccia di armare la gente della terra e di farlo cacciar a forza; sicché gli convenne andarsene, benché annottasse. A Ponte Bosio il servo del castellano gli sbatte l’uscio in faccia; ed i bravi di guardia lo avvertono di non consegnar carta, ché l’avrebbero buttata nel rio. Sicché il rappresentante di sua maestà cesarea deve far passare il messaggio traverso la fessura della porta e partirsene. Ove invece cresca la potenza di casa d’Austria, il linguaggio si fa tracotante; non più umili commissari in giro a chiedere elemosina di sussidi; ma inviti imperiosi ai vassalli di mandare a Milano a trattare con un impiegato subalterno del ministro plenipotenziario: «Per concordare le medesime (contribuzioni) si è riconosciuto per luogo più comodo la città di Milano, dove non potendo io ritrovarmi per essere impiegato in altri affari importanti… benignamente mi ha graziato S.M. Cesarea di permettere che sostituisca alle mie veci il sig. barone Zummingen … restami per pieno adempimento dei suoi sovrani comandi il dirle che nel termine di giorni quattordici dalla ricevuta della presente servasi [titolo del vassallo] d’inviare persona a Milano per intendere dallo stesso signore per la pura tangente delle contribuzioni che le spetterà per l’anno venturo». Il duca di Savoia, a cui nel 1709 la circolare era stata, come agli altri, inviata, arse di sdegno per l’affronto e non pagò; ma altri, più deboli, si rassegnarono. Le interminabili controversie erano arruffate dall’intrico dei rapporti di feudalità, diversissimi da luogo a luogo, non universali per tutto il territorio dei vassalli, ma talora, come per Toscana, riguardanti pochi luoghi sparsi e di poco conto. La corte imperiale tentava di ottener dapprima sussidio per quei soli luoghi, salvo, pretestando i primi pagamenti, estendere a poco a poco il rapporto e l’obbligo allo stato intiero. Savoia, pur vantando pretese di principe dell’impero e godendo dignità di vicario imperiale, si maneggiò in modo di non pagare se non rarissimamente e quasi mai in denaro; laddove invece Toscana, nonostante nobili resistenze medicee, aveva finito col cadere da stato franco in condizione umiliante di vassallaggio.

 

 

Il turbine rivoluzionario francese e napoleonico spazzò via la mascherata medioevalistica; ma il libro del Pugliese ha, parmi, un gran merito dal punto di vista storico: d’aver dimostrato che la nuova potenza di casa d’Austria, pur nel secolo XVIII, non era stata senza pericolo per l’Italia. Illuministica, riformistica sì, ma anche ambiziosa di dominio e decisa a far fuoco d’ogni legna, persino dei diritti del sacro romano impero i quali le davano buon gioco nel pretendere supremazia giuridica su tanta parte della penisola. Dal punto di vista più ristretto finanziario, il merito è quello di aver richiamato l’attenzione su forme antiche di contribuzioni da stato a stato, intorno alle quali i libri di storia della finanza sono muti o quasi. Contribuzioni, intorno alla cui natura, se imposta per servigi resi o tributo senza corrispettivo da soggetto a dominante, si potrebbe discutere. Per non pagare, i Savoia affermavano di contribuire abbastanza alla difesa dei confini ideali di quell’ente misterioso che nomavasi sacro romano impero, colle armi in pugno; altri, imbelle, piagnucolava dicendo non essere l’impero interessato alla riconquista della Sicilia, non stata mai terra imperiale. I sussidi imperiali sono ad ogni modo singolare figura di contribuzione, anche per chi studia teoria d’imposte; e per averne informato i futuri trattatisti il Pugliese ha acquistato non piccola benemerenza.

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