Opera Omnia Luigi Einaudi

Di un inesistente paradosso economico

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1934

Di un inesistente paradosso economico

«La Cultura», marzo 1934, pp. 9-10

 

 

 

Ottimi frutti potranno dare le gare fra studenti per il miglior saggio nelle discipline da essi coltivate nelle facoltà o scuole universitarie. Ad eccezione, forse, della facoltà di lettere e filosofia, lo studente universitario perde infatti, dopo superato lo scoglio dell’esame di maturità classica, l’abitudine dello scrivere, anche semplicemente dello scrivere con ossequio alla grammatica ed alla sintassi. Se ne vedono i frutti al momento del compilare la dissertazione di laurea e, peggio, quando il laureato in legge o in ingegneria deve stendere un rapportino, compilare un memoriale, redigere una conclusionale. Chiarezza, ordine, semplicità, oltreché non di rado grammatica e sintassi, lasciano il luogo alla retorica, al rigiro complicato del discorso, al ragionamento faticosamente impelagato fra parentesi e digressioni.

 

 

La bontà della forma, che è bontà di sostanza, si consegue collo studio bene condotto e con l’assiduità dell’esercizio, a cui gioverà che le gare odierne lodevolmente incitino. Gioverà altresì porre gran cura nella scelta dei quesiti posti ai concorrenti. In altri paesi, dove l’insegnamento universitario è organizzato diversamente che da noi, sono numerosi i libri di quesiti, di «casi», ai quali gli studenti sono addestrati a rispondere; e non possono rispondere senza adeguata preparazione. In Italia possediamo, per le materie economiche, il manuale di Temi, tesi, problemi e quesiti di economia politica teorica ed applicata (Bari, Laterza, 1923) di Pantaleoni e Broglio d’Ajano. Un gioiello, come tutte le cose alle quali pose mano Pantaleoni ed a cui manca solo il promesso secondo volumetto di «indicazioni bibliografiche», il quale doveva seguire «quasi subito» al primo e non venne mai alla luce. Sono 1018 quesiti, forse troppi, che Pantaleoni si riprometteva di rivedere in future edizioni, e che, se fossero messi in ordine logico-cronologico, con rinvii ai testi da consultare, sarebbero forse la migliore guida immaginabile per lo approfondimento dei problemi economici e sociali. Gli studenti, prendendo in mano un siffatto prontuario di temi, tutti serii, tutti precisi, tutti aborrenti dal consentire risposte vaghe e magniloquenti, sono forse tratti a lamentare, più che la mancanza dei rinvii bibliografici, quella delle «soluzioni» ai quesiti medesimi. Dice la fama che le «soluzioni» esistano, compilate dallo stesso Pantaleoni; forse, più che soluzioni offerte ai pigri ed agli idioti, che egli odiava, suggerimenti a seguire tale o tal altra via per la ricerca della soluzione. Sarebbe, venendo da tale e tanta mente, una preziosissima cosa, da aggiungersi alle molte altre (annotazioni ai Principii, stesure provvisorie di corsi universitari o del promesso e tanto aspettato volume di nuovi Principi, relazioni ed articoli mai pubblicati, o sparsi su giornali, pareri individuali stesi da lui con sincerità indiavolata quando era chiamato commissario in concorsi universitari, epistolario) che la pietà della figlia, custode devota dell’ultima volontà di lui, contende al rispettoso desiderio ed alla attesa vivissima degli studiosi italiani e forestieri. Nell’aspettazione di quello che sarebbe, se esistesse, il capolavoro della sua specie, l’occhio corre ad uno dei volumi forestieri, forse il più suggestivo tra quelli da me conosciuti. L’autore lo scrisse in aiuto dei giovani, i quali desiderano prender parte ai dibattiti condotti nei circoli e nelle associazioni di cultura e vogliono prepararsi sui libri dei più reputati scrittori che di ogni problema trattarono. Posto il quesito, il compilatore ricorda le fonti principali, riassume l’opinione degli scrittori, riportandone talvolta testualmente i brani significativi ed aggiunge, in qualche caso, la propria opinione.

 

 

I quesiti sono scelti con riguardo al loro interesse attuale. Ne ricordo alcuni:

 

 

  • È realmente la scienza economica importante in pratica?

 

  • È vera o falsa la teoria malthusiana della popolazione?

 

  • Il commercio internazionale è realmente vantaggioso dal punto di vista nazionale?

 

  • Le invenzioni tecniche, coll’eccessiva sostituzione delle macchine al lavoro umano, sono causa di disoccupazione permanente?

 

  • La crisi è veramente dovuta alla sovraproduzione?

 

  • Il risparmio avvantaggia o danneggia la ricchezza nazionale, scema oppure no il consumo?

 

  • Il sistema della carta moneta inconvertibile in oro è permanentemente vantaggioso?

 

  • L’inflazione tende a stimolare e la deflazione a deprimere la produzione?

 

 

I quesiti sono tutti di attualità vivissima; di quelli che non possono non venire spontanei in punta di penna, quando l’esaminatore, invece di andar ricercando temi su testi scolastici, badi alle voci che gli giungono dal mondo circostante, alle voci di coloro i quali proclamano che la guerra ed il dopo guerra hanno dimostrato il fallimento della scienza economica, sanzionano (Russia) o combattono (Italia e Germania) le pratiche abortive, sono favorevoli o contrari al nazionalismo economico, si preoccupano del paradosso della abbondanza generatrice di miseria, del progresso tecnico che partorisce disoccupazione, si entusiasmano della nuova veste Keynesiana data alle critiche mandevilliane delle api industriose e danno al troppo risparmio la colpa della crisi o con Fisher e Roosevelt vogliono la riflazione non per fare dell’inflazione ma per fornire un leggero tonico eccitante al mondo languente per morbo deflazionistico. Su tutti questi attualissimi quesiti il libro fornisce bibliografie, citazione di brani appropriati e commento.

 

 

Sentiamo la risposta che il manuale dà ad uno dei più tormentosi quesiti del tempo odierno, a quello che bene si chiama il paradosso della abbondanza, del mondo in crisi per eccessiva produzione, delle moltitudini disoccupate e perciò assetate affamate e nude, mentre sulle banchine del porto di Santos nel Brasile si brucia il caffè, nel Canadà si fa combustibile del frumento e negli Stati Uniti meridionali si abbandona il cotone nei campi. Naturalmente, siccome gli economisti hanno l’abitudine di dire il contrario di quel che la comune degli uomini istintivamente pensa e dice, il manuale risolve il paradosso, affermando che la crisi e la disoccupazione non sono dovute alla abbondanza, bensì alla scarsità della produzione.

 

 

«La produzione delle merci crea ed è la causa unica ed universale capace di creare un mercato per le merci prodotte. Si pensi per un istante che cosa sia un mercato. Forsechè possiamo intendere per mercato, ossia potenza di acquisto, qualcosa che non sia permutabile colla merce di cui noi ci vogliamo sbarazzare? Chi porta una merce al mercato, desidera un compratore. Ma, se si vuol comprare, bisogna aver qualcosa con cui pagare. Il mercato della nazione è perciò costituito dai mezzi collettivi di pagamento esistenti nella nazione. In che cosa consistono essi? Non forse nell’annuo prodotto, nell’annuo reddito della massa generale dei suoi abitanti? Se dunque è indubitato che la capacità di acquisto di una nazione è esattamente misurata dalla sua capacità di acquisto, è evidente che, più cresce la produzione annua più si estendono il mercato nazionale, il potere d’acquisto e le compre effettive della nazione. Qualunque quantità addizionale di merci si crei in qualsiasi momento in un paese, ecco nel medesimo istante crearsi per ciò stesso una quantità esattamente equivalente di potenza d’acquisto… Siano le merci componenti il prodotto annuo poche o molte, sia cioè il paese ricco o povero, una metà delle merci non bilancia forse in ogni caso l’altra metà?, non forse la metà dei beni di un paese forma universalmente il mercato per l’altra metà e viceversa? Può in siffatto mercato immaginarsi sovrabbondanza? Perché non nasca crisi, basta che i beni siano gli uni più adatti agli altri; basta cioè che ogni uomo il quale ha qualcosa da vendere trovi sempre tutte le differenti specie di beni di cui egli desidera approvvigionarsi. Che cosa importa che i beni siano molti o pochi? Importa certo molto, perché nel primo caso gli uomini hanno larghezza e nel secondo scarsità di beni a propria disposizione; nel primo caso il paese è ricco, nell’altro è povero. In amendue i casi però, l’intiera massa dei beni sarà scambiata, gli uni contro gli altri… In ogni caso la domanda di una nazione è uguale alla sua produzione… La quantità prodotta di una merce può certamente essere in eccedenza alla giusta proporzione; ma ciò significa necessariamente che qualche altra merce si produce in quantità insufficiente. Dire che una merce è sovrabbondante non è dire che per una parte di essa non si ottiene nulla in cambio? Ossia non è dire che si produce troppo poca altra merce da dare in cambio di essa?».

 

 

Dalla stretta del ragionamento non si esce. Al paradosso dell’abbondanza si risponde affermando che non di abbondanza si può parlare ma di scarsità, non di troppo risparmio e troppo capitale impiegato, ma di troppo poco risparmio prodotto e troppo poco capitale impiegato e quel poco male indirizzato. La miseria deriva dalla scarsità e non dalla abbondanza. Il giovane, desideroso di esporre una tesi non volgare e di sciogliere con il buon senso il paradosso dell’abbondanza generatrice di miseria ha la via tracciata dal ragionamento ora letto.

 

 

Ecco, per chi voglia farne acquisto, il titolo del manuale: Questions in Political Economy, Politics, Morals, Metaphysics, Polite Literature and Other Branches of Knowledge; for discussion in Literary Societies or for private study, with remarks under each question, original and selected. Come fa presentire la lunghezza arcaica del titolo, la data di pubblicazione non è recente: 1823. Il libro-prontuario era stato in quell’anno compilato da Samuel Bailey, uno dei più penetranti critici avanti lettera dei numeri indici e degli spedienti usati per misurare le variazioni di valore nel tempo. L’autore fu riscoperto nel 1903 dallo Seligman in un memorabile articolo On some neglected British Economists; il suo principale libro (1825) fu ristampato nel 1931 nella serie dei testi della London School of Economics. Ma l’aveva scoperto e voltato in italiano fin dal 1856 Francesco Ferrara (Biblioteca dell’Economista, I, XI) che altri gran libri e saggi aveva presentato agli studiosi nostri innanzi che fossero adeguatamente apprezzati nella loro contrada originaria. Il Bailey dal canto suo aveva cavato il brano sopra riprodotto da un più antico libretto che il Mill, padre, aveva scritto nel 1808 per confutare le erronee dottrine, similissime a talune che oggi hanno voga nel mondo, esposte l’anno precedente da William Spence in Britain independent of Commerce e recensite con lode nel Political Register da William Cobbett per dimostrare i vantaggi che la Gran Bretagna avrebbe derivato e derivava dal nazionalismo economico: James Mill, Commerce defended, an answer to the arguments by which W. Spence, W. Cobbett and others have attempted to prove that Commerce is not a source of national Wealth. Ahimè! che dopo oltre un secolo le fruste e trite tesi e le elementari risposte appaiono fresche e paradossali al lettore moderno!

 

 

Chiniamo il capo umilmente e confessiamo che la nostra non è una scienza atta a persuadere le genti. Di quando in quando pare che uno spiraglio si apra e che la verità si faccia strada. Ma subito le tenebre oscurano l’orizzonte. Fra un secolo, banditori di quesiti attuali e studenti in cerca di soluzioni paradossalmente vere e credibilmente nuove sfoglieranno ancora le pagine del prontuario di Bailey.

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