Opera Omnia Luigi Einaudi

Di un problema che non è particolare all’Alto Adige

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Di un problema che non è particolare all’Alto Adige

Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1956, pp. 164-170

 

 

 

Dalle notizie dei giornali e dai comunicati alla stampa appare che gli altoatesini di lingua tedesca richieggono, fra l’altro, sia limitata nella provincia di Bolzano la immigrazione dei cittadini della Repubblica, dei quali la lingua materna non sia la tedesca. Si teme che l’aumento, che si afferma artificioso sia in passato che oggi, e che autorevolmente si ribatte essere oramai ridotto a misura assai modesta, dei cittadini di lingua italiana attenui o guasti la unità del gruppo etnico tedesco, sicché un po’ per volta la maggioranza della popolazione diventi italiana e sia messa in pericolo l’indole tedesca della provincia.

 

 

La richiesta non ha fondamento né nello statuto della regione Trentino-Alto Adige né nel testo dell’accordo De Gasperi-Gruber; ed è in netto contrasto con il chiaro precetto dell’art. 16 della Costituzione italiana: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per ragioni di sanità e sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche». Non esistono ragioni di sanità e sicurezza, le quali consentano di vietare la immigrazione nella provincia di Bolzano di italiani nati o residenti in altre provincie della Repubblica.

 

 

Le ragioni particolari di sanità e di sicurezza, le quali vieterebbero l’entrata nella provincia debbono essere constatate dalle autorità competenti in ogni caso singolo e la decisione deve essere presa a norma delle leggi vigenti. Nessuna legge dichiara o potrà mai dichiarare che i cittadini di lingua italiana siano incapaci in generale di risiedere per ragioni di sanità o di sicurezza nell’Alto Adige.

 

 

Se la richiesta, così come è formulata, è priva di qualsiasi fondamento, si deve riconoscere che a suo favore si possono addurre due ragioni.

 

 

La prima parmi sia stata formulata così: non hanno forse taluni comuni italiani il diritto di concedere o negare il permesso di residenza e quindi di lavoro ai cittadini italiani provenienti da altre parti del territorio nazionale? Le migrazioni interne non sono assoggettate a vincoli, a permessi, ad autorizzazioni dell’autorità pubblica? Se così è, perché le città di Bolzano, di Bressanone, di Brunico, ecc. ecc. non debbono avere la medesima potestà, che esse eserciteranno per ragioni ed entro limiti di convenienza economica o sociale non diversi da quelli invalsi nelle altre città italiane? Perché alle autorità regionali e provinciali della regione non deve essere riconosciuta la medesima facoltà di dar pareri, vincolanti o meno, che sia esercitata altrove dalle autorità locali?

 

 

Esposta così, la tesi degli altoatesini di lingua tedesca, è inoppugnabile. Non v’ha alcuna ragione che legittimi un diverso trattamento delle città altoatesine in confronto alle altre città italiane. Non v’ha motivo perché l’attuazione delle norme regolatrici delle migrazioni interne ad opera degli uffici statali avvenga in maniera diversa da una regione all’altra, da una provincia all’altra. Poiché le migrazioni interne sono vincolate a criteri di possibilità di accoglimento e di lavoro nelle città di immigrazione; e poiché l’opinione di queste ha di fatto dappertutto un peso spesso determinante, così nessuna facoltà può correttamente essere negata alla provincia di Bolzano che di diritto o di fatto sia invalsa nelle altre parti d’Italia; e se è opinione degli altoatesini che l’immigrazione di cittadini di lingua italiana debba essere ristretta o del tutto negata, di questa opinione deve essere tenuto conto, non ad arbitrio delle autorità statali, ma a norma delle regole osservate in generale nel territorio della Repubblica.

 

 

La richiesta non soffre obbiezioni. Le leggi del 9 aprile 1931 n. 358 per la disciplina e lo sviluppo delle migrazioni interne e del 6 luglio 1939 n. 1092 contro l’urbanesimo[1] che istituivano il domicilio coatto e la servitù della gleba nel nostro paese, devono essere applicate, finché durano, in ogni parte d’Italia. Tuttoché «nefande» e «caduche perché contrarie alla costituzione»[2] tutte le autorità locali le quali ritengono di avervi interesse hanno ragione di pretenderne l’applicazione. Non si può negare all’Alto Adige il diritto di porre limiti all’emigrazione dalle altre zone dello stato, se le due leggi non siano abrogate dalle ime fondamenta, senza lasciare traccia alcuna. Finché le due leggi – come è urgente si faccia – non siano tolte di mezzo, il divieto agli uni di far ciò che è consentito agli altri legittima la taccia di sepolcri imbiancati rivolta al legislatore nostrano, il quale si ostina a vietare all’interno quella libertà di movimento che ogni giorno invoca dagli stranieri a prò dei nostri emigrati.

 

 

La seconda ragione la quale può essere addotta a favore della restrizione contro i cittadini di lingua italiana non tocca anch’essa in particolare l’Alto Adige, sibbene in generale tutto il territorio nazionale. La situazione particolare dell’Alto Adige è stata solo per me l’occasione di ripensare ad un problema il quale, nonostante sia raramente o mai discusso, ha grande importanza nazionale.

 

 

Le leggi italiane non fanno distinzione fra l’elettorato attivo nazionale, e quello locale. Sono elettori in un comune, indistintamente per ogni specie di elezione, coloro che sono compresi nel registro della popolazione stabile del comune, a meno che: 1) l’elettore, iscritto nella lista elettorale di un comune, chiegga di rimanervi, nonostante abbia trasferito la propria residenza in altro comune ed abbia ivi ottenuto la iscrizione nel relativo registro della popolazione stabile; ovvero 2) intenda essere iscritto nelle liste elettorali del comune di nascita o del comune dove ha la sede principale dei suoi affari ed interessi, ed abbia rinunciato alla iscrizione nelle liste del comune di residenza (legge 7 ottobre 1947 n. 1058, artt. 3, 10 e 25 n. 4).

 

 

Nel sistema vigente il cittadino deve dunque di massima esercitare il diritto elettorale attivo nel comune di residenza. Egli può rinunciare a questo diritto solo quando opti volontariamente per l’iscrizione nel comune di precedente residenza, ovvero nel comune di nascita od in quello dove abbia la sede principale dei suoi affari ed interessi, a condizione, in ogni caso, che egli espressamente rinunci alla iscrizione nel comune di attuale residenza. La iscrizione ai fini elettorali nel comune di residenza è dunque obbligatoria, a meno che il cittadino preferisca essere iscritto nel comune di nascita, o della sede principale dei suoi affari ed interessi o di precedente residenza. Il comune non ha alcun potere di rifiutare la iscrizione nelle liste elettorali a chi risiede sul suo territorio; e soltanto può impedirla o ritardarla, ponendo ostacoli alla iscrizione del cittadino nel registro della popolazione stabile.

 

 

Il diritto del cittadino di chiedere ed ottenere nei casi sopra indicati la iscrizione nel registro elettorale di un comune diverso da quello di residenza, risponde ad esigenze reali. L’elettore può avere ragione di preferire di scegliere i suoi rappresentanti politici ed amministrativi nel luogo di nascita od in quelli dove ha la somma dei suoi affari ed interessi od anche in quello dove risiedeva prima, piuttosto che in quello della residenza attuale, che può essere accidentale o determinata da circostanze per lui irrilevanti al punto di vista amministrativo o politico. Se le sue preferenze vanno ai luoghi dove conosce candidati, dove ha vincoli di amicizia o di partito o di interessi, perché imporgli una scelta diversa?

 

 

Il comune ha un mezzo solo di ostacolare l’iscrizione di nuovi elettori immigrati dal di fuori; ed è di ostacolare l’iscrizione nel registro della popolazione per ragioni di lavoro, a norma delle leggi che sopra ho dette nefande. Operano male gli altoatesini i quali raccomandano la loro causa a cotal brutto arnese legislativo, che dovrebbe essere messo fuori uso in tutto il territorio nazionale. Non vale il dire: altri si giovano delle leggi nefande; ed anche noi abbiamo diritto di trarne partito. Poiché la morale pubblica sovrasta al diritto scritto, dico che l’argomento non è valido.

 

 

Ma dico altresì essere valida l’esigenza di dare ai comuni, a tutti i comuni italiani, il diritto di negare la iscrizione nel proprio registro elettorale, anche se il richiedente soddisfa al requisito della residenza. La residenza non può essere negata a nessuno ai fini di lavoro, se non vogliamo perpetuare gli istituti del domicilio coatto e della servitù della gleba, anzi un istituto peggiore di questi medesimi, ché al condannato al domicilio coatto si assicura un sussidio di sussistenza ed al servo della gleba si assicura il diritto a far proprii in parte i frutti del fondo; laddove il rifiuto del certificato di residenza equivale oggi, nei rispetti economici, al rifiuto del lavoro ossia alla condanna alla fame.

 

 

Scindiamo la residenza ai fini economici e civili, la quale è diritto inalienabile in ogni luogo di tutti i cittadini italiani, dalla residenza a fini elettorali. E diciamo che i comuni, ai quali affluiscano, per ragioni di lavoro, i disoccupati od i semioccupati di altre regioni, non debbono poter rifiutare la iscrizione nel registro della popolazione, ma hanno pienamente ragione non di negare, ma di rinviare, ai nuovi venuti la iscrizione elettorale.

 

 

A nessuno può essere precluso, ove non sia tolta per le ragioni elencate nella legge, di indegnità morale o di incapacità fisica, la iscrizione nel comune di nascita o in quello dove ha la somma dei suoi affari ed interessi o dove aveva già la residenza. Il cittadino sia sempre elettore; ma eserciti il diritto suo dove il suo esercizio può dare buon frutto; e cioè nei comuni elencati dianzi. È male, invece, che egli sia elettore, dove egli è un nuovo venuto, dove non ha radici, dove non ha ancora creato rapporti durevoli di affetto, di lavoro o di interessi. Una città, un comune non è un mero insieme di uomini viventi in un certo luogo. L’uomo, se anche ha ottenuto la residenza, non è ancora cittadino del comune dove è appena giunto. Una città, un borgo o un villaggio è anche un complesso di tradizioni, di eredità, di affetti, di legami; esso è un presente, ma è sovratutto un passato ed un avvenire. Chi sia vissuto per pochi anni in un luogo vi è in realtà forestiero e non ha ragione di decidere delle sorti del comune. Occorre passi un qualche tempo, perché da forestiero, da barbaro si muti in cittadino. La parola «barbaro» non ha nulla di offensivo. Il barbaro probabilmente è un uomo migliore, sotto molti aspetti, del vecchio cittadino. Ha più ardimento, più iniziativa; ed il fatto medesimo dell’avere abbandonato il luogo natio, i parenti, gli amici, la casa, il campo dimostra che egli ha corso rischi ed è fornito di doti giovevoli alla città dove è immigrato. Ma non è ancora radicato nel luogo; ma può essere facile preda di ciarlatani politici, pronti a profittare della miseria sua momentanea e delle difficoltà della nuova vita che egli deve intraprendere. Il comune non ha diritto di negargli il diritto al lavoro; poiché egli fa parte della patria italiana. Ma ha il diritto di dirgli: per ora vota ancora nel luogo dove sei nato o da cui provieni. Ivi conosci uomini e partiti e gruppi sociali; ivi sei un uomo, un cittadino. Col tempo diventerai anche qui non solo un «residente», ma un cittadino pieno; saprai chi noi siamo, donde siamo venuti; attraverso a quali vicende ed a quali esperienze siamo divenuti quei che siamo. Allora tu acquisterai la piena cittadinanza nostra e, fatto nostro, avrai diritto di decidere sulle nostre sorti, di partecipare alla vita amministrativa e politica nostra.

 

 

Quanti anni deve durare il tirocinio elettorale? Se sarebbe azzardato indicare un numero preciso di anni, in materia che non è nuova nei paesi di antica educazione politica come la Svizzera, che non era ignota nelle antiche costituzioni dei tempi dei liberi comuni italiani, ma è oggi da noi scarsamente considerata, si può affermare che quel numero non può ridursi ad uno o due anni, ma non può nemmeno essere troppo prolungato. L’immigrato, il barbaro, il forestiero diventa cittadino pieno quando è nato in lui l’interesse locale ai problemi della cosa pubblica. Se gli anni di attesa non possono ridursi all’unità, non pare d’altro canto possano andare oltre la decina.

 

 

Ecco quel che di vero, di vivo, di valido per tutta l’Italia c’è nella richiesta degli altoatesini di limitare la immigrazione dei cittadini di lingua italiana. Essi hanno sentito che la loro comunità di lingua e di costumi non deve essere trasformata per motivi occasionali e passeggeri. Essi hanno sentito che non si acquista la piena cittadinanza solo perché taluno è immigrato e lavora in un luogo; ma del passato di questo non sa nulla, ma dei costumi, degli interessi, materiali e spirituali dei figli di quel luogo non ha notizia. Solo col trascorrere di un certo tempo l’immigrato apprende che oltre ai vivi, ci sono i morti e che questi hanno diritto di chiedere ai nuovi venuti di conoscere e di apprezzare ciò che essi hanno fatto in passato e di contribuire, conoscendolo, ad innalzarlo; ed hanno diritto di vietare innovazioni frettolose grazie alla mera forza del numero. Un piccolo numero di immigrati nuovi può far volgere le sorti elettorali a prò di quella che è una minoranza tra i vecchi cittadini; e ciò, essendo socialmente distruttivo della compagine sociale, deve essere impedito.

 

 

Il male è stato, per ragioni particolari, sentito dapprima dai cittadini di lingua tedesca; ma è, forse inconsapevolmente, sentito da tutti gli italiani. Il problema della cittadinanza elettorale locale è posto; e non può essere ignorato.

 

 



[1] Commentate in una memoria del 15 dicembre 1951 pubblicata alle pp. 575-87 del mio «Lo scrittoio del presidente».

[2] Così le dichiaravo a carta 579 del ricordato volume.

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