Opera Omnia Luigi Einaudi

Disoccupazione e navi di stato

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 10/08/1921

Disoccupazione e navi di stato

«Corriere della Sera», 10 agosto 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 286-292

 

 

 

La lettura del disegno di legge Belotti sui «provvedimenti per la flotta delle linee sovvenzionate» (documento n. 833 della camera dei deputati) lascia in chi lo legge dubbi numerosi.

 

 

Intanto notisi come anche un governo – il quale ha il merito di aver resistito alle intemperanti richieste dei partiti più popolareggianti della camera per crescere a centinaia di milioni l’onere portato dal disegno per la burocrazia ad un tesoro in disavanzo per 5 miliardi – sente quasi il bisogno di scusarsi per non aver proposto di spendere per la flotta sovvenzionata più di 200 milioni di lire. Ecco le parole sovvertitrici di quello che dovrebbe essere almeno il rispetto formale al compito supremo della camera dei deputati:

 

 

«Ché, se la somma stanziata per questo scopo, per provvedere a un servizio indispensabile, sembrasse a taluni limitata, è appena il caso di far presenti le attuali condizioni dell’erario dello stato, il quale anzi ha calcolato che della somma anzidetta una parte sarà ricuperata quando si regoleranno i rapporti dello stato con le società sovvenzionate, ecc. ecc».

 

 

Il che, tradotto dall’aulico linguaggio burocratico in lingua italiana volgare, suona così:

 

 

«Sappiamo, on. colleghi della camera, che se voi ricordaste l’origine storica della vostra istituzione, ci dovreste chiedere strettissimo conto della somma enorme che noi vi proponiamo di spendere. Enorme in se stessa, come è palese dalla cifra di 200 milioni, sebbene spezzettata in quattro esercizi; ma sovratutto enorme quando si pensi che questi 200 milioni li vogliamo far spendere ad un erario, il quale non sa come rigirarsi per far fronte ai suoi impegni passati, il quale dovrà quest’anno prendere a prestito nientemeno che 5.000 di questi miserabili milioni per tirare avanti alla peggio. Dunque, noi vi proponiamo di far fare a questo disgraziato erario altri 200 milioni di debiti; e mentre vi presentiamo una enormità cosiffatta, la nostra maggiore preoccupazione non è che ci gridiate il crucifige per la nostra inconsideratezza nell’ammontare debiti su debiti; ma anzi il contrario. Noi sappiamo bene che nessuno di voi si alzerà a dire che i 200 milioni sono molti, ma anzi tutti vocifererete che sono troppo pochi, e che bisognava far di più. E di non far peggio ci scusiamo subito. Se potessimo, saremmo d’accordo con voi nel sostenere che lo stato non spende mai abbastanza; ma, sventuratamente, i debiti che dobbiamo fare sono tanti, che proprio non possiamo farne di più».

 

 

La colpa maggiore di questo linguaggio straordinario – traduzione fedelissima della compassata prosa governativa – non è del governo; è in primo luogo della mancanza nella camera di un gruppo di uomini decisi a compiere il dovere fondamentale, che hanno i deputati, di tutori del denaro dei contribuenti; e in secondo e forse principalissimo luogo della mancanza nel paese di una corrente di opinione pubblica decisa a mettere un fermo alle spese pubbliche e ad impedire che l’erario si aggravi di oneri non assolutamente necessari per la vita dello stato.

 

 

Poiché la relazione – col solito linguaggio neutro che è divenuto una singolare prerogativa dei documenti ufficiali – finisce di confessarlo: i 200 milioni non sono destinati ad un fine di stato. Essi hanno per iscopo di alleviare per quanto è possibile il gravissimo danno della disoccupazione «anche per le masse operaie che sono impiegate nei vari cantieri in efficienza», fine a cui si provvede altresì permettendo lo scambio dei materiali da cantiere a cantiere e provvedendo alla continuità e regolarità dei lavori.

 

 

Quando si afferma e si dimostra che una certa spesa è necessaria alla vita stessa dello stato, alla sua esistenza, bisogna tacere. Ma quando il fine è bensì un fine politico, un fine, se così vuolsi, pubblico, come la lotta contro la disoccupazione, si può e si deve parlare. La discussione è il solo modo utile per vedere se i denari siano bene spesi.

 

 

Intanto pare certo che in generale con il sistema di lavori pubblici deliberati sotto l’urgenza della richiesta, non si cresce di un’ora l’occupazione operaia. Basti riflettere che i 200 milioni lo stato li piglia a prestito, ossia se li fa dare da persone che vogliono fare un risparmio. Quelle persone, se non potessero, come ora faranno, comperare 200 milioni di buoni del tesoro al 6 per cento per dar modo allo stato di far costruire altrettante navi, avrebbero ugualmente risparmiato gli stessi 200 milioni. E poiché è da escludersi che li sotterrassero sotto il fico, alla maniera di Don Abbondio e di Perpetua, è certo che li avrebbero depositati alla cassa di risparmio, alla banca, od impiegati direttamente in titoli industriali, in aziende agricole, industriali o commerciali. Quindi avrebbero fatto, direttamente od indirettamente, la stessa precisa domanda complessiva di 200 milioni di lire di lavoro. Quindi, resta dimostrato che in complesso, lo stato non cresce di un’ora la occupazione operaia.

 

 

La sposta, ecco tutto. Forse, quella domanda di lavoro si sarebbe verificata un po’ dappertutto, in campagna e in città, al nord e al sud. Gli operai dei cantieri, per trovar lavoro, avrebbero probabilmente dovuto in parte abbandonare Monfalcone e Trieste, la Riviera Ligure e Palermo. Ci sarebbe stato un rivolo di quel riflusso alla campagna, che tanti invocano. Col sistema di assorbire a Roma, coi buoni del tesoro, i 200 milioni e ridarli ai cantieri navali, gli operai sono tenuti fermi. Le leghe non si indeboliscono, gli organizzatori non debbono cominciare un nuovo lavoro, i deputati socialisti e comunisti rimangono sicuri dei loro collegi, i prefetti non vedono dimostrazioni di disoccupati sotto le proprie finestre. Ma altrove, in altre città e in campagna, non vi è lavoro e la vita langue. Ma che cosa importa di ciò ai deputati, quando chi langue non è organizzato, non strilla, non rifiuta il voto al momento delle elezioni generali?

 

 

Se tutto ciò significa «alleviare il gravissimo danno della disoccupazione» i 200 milioni sono bene spesi. Chi si contenta gode. Perché al compilatore della relazione non è accaduto di pensare che per «alleviare la disoccupazione» con i lavori pubblici, bisogna soddisfare a certe condizioni, in parte alternative ed in parte cumulative?

 

 

Ad esempio: 1) che il fondo dei lavori sia prelevato con imposte sulle somme che i contribuenti avrebbero altrimenti speso per fini leggeri, fatui e volgari; ciò che nel caso nostro non è, essendo indubbio che si provvede con i risparmi dei compratori dei buoni del tesoro; 2) che al fondo dei lavori si può provvedere anche con debiti, quando con un piano preordinato e ben calcolato, vi siano molte probabilità che i lavori pubblici fatti siano, subito od alla lunga, più fecondi di quei lavori privati che si sarebbero fatti, se lo stato non ne avesse assorbito il valsente per i suoi fini.

 

 

In amendue questi casi, un sollievo alla disoccupazione ci sarebbe stato: nel primo caso perché si occupa più gente facendo fare una nave anche mediocre, che gettando fiori ad una ballerina in voga o bevendo vino nelle taverne; nel secondo caso perché si sostituisce, ad un lavoro privato produttivo del 3 per cento, un altro pubblico produttivo del 10 o del 20 per cento. Certe bonifiche, certe sistemazioni di montagna, anche certe ferrovie rientrano in questa categoria: purché bene progettate ed ordinate. Ma nel caso attuale, vi è gran dubbio se la costruzione di navi miste adatte al trasporto di passeggeri e di merci per le linee sovvenzionate sia una lavorazione così interessante da meritare la preferenza in confronto a quelle che indubbiamente si farebbero se lo stato non pompasse al 6 od al 7 per cento i risparmi che in ogni modo un’altra occupazione sarebbero costretti a cercare ed a trovare. Innanzi tutto, si noti che i 200 milioni possono essere anche destinati a comprare navi da carico già in costruzione al 30 giugno 1921, da trasformare in miste, ossia adatte a passeggeri e merci. Navi di ripiego, dunque; navi che essendo costruite per uno scopo, solo alla men peggio possono essere rabberciate per un altro scopo. Anni fa, un armatore di gran merito mi diceva che, per fare prosperare un’impresa di navigazione, tra i parecchi fattori importantissimo era quello che la nave fosse costrutta in maniera adatta al suo scopo. Se male costrutta, ossia senza perfetto adattamento tra mezzo e fine, si era certi di perdere. Uno dei segreti della vittoria marittima essere lì. Nel caso nostro, noi avremo molte probabilità che lo stato abbia speso, ossia fatto spendere ai contribuenti, l’enorme somma di 200 milioni per avere delle navi atte a far perdere degli altri soldi all’erario. Il che, come ognuno intende, è un elegantissimo modo di «alleviare» i ripetuti «gravissimi danni» della disoccupazione.

 

 

Ma, si dice – e così dice la relazione – questo malo impiego del pubblico denaro è fatto per «alleviare anche – quanti alleviamenti! – talune conseguenze della, sia pure equitativa, applicazione del decreto luogotenenziale 30 marzo 1921». Trattasi, è noto, del lodevole rifiuto dell’on. Belotti a regalare 1.100 milioni alle 71 navi che non avevano diritto a percepire un centesimo dallo stato, ma vantavano una legittima aspettativa a percepire qualcosa, perché cause di forza maggiore avevano impedito loro di trovarsi finite al 30 giugno 1921. Ora si dice: «Alcune di queste navi da carico, che non avrebbero diritto a nulla, le comprerà lo stato, dopo averle trasformate in navi miste». Un’elemosina, insomma, innestata su un rabberciamento. Anche qui, pare che, in politica, le cose comprate per compassione e per levare dagli imbarazzi il detentore, valgano di più e siano più atte a dar lavoro delle cose ben costrutte ed ordinate da chi sa che, se fa costruire male, perde i proprii lavori.

 

 

Ma, si conclude, queste navi miste saranno fra breve necessarie per le linee sovvenzionate. Prima della guerra, ne avevamo 127 con cui si esercitavano 83 linee regolari per un percorso di 4 milioni di miglia. Adesso, ne possediamo soltanto 73 con cui si esercitano 55 linee già sovvenzionate, per un percorso di 2 milioni di miglia.

 

 

Ma la giustificazione finale di tutto questo pasticcio pietoso è irta di formidabili punti interrogativi.

 

 

Quali sono i risultati dell’esercizio delle linee già sovvenzionate? Se, come pare, si tratta di un esercizio di stato, possiamo con tranquilla coscienza dare altre navi ad una tendenza, di cui si ignorano i risultati?

 

 

Se, come sembrò risultare dalle vaghe espressioni dei ministri del tesoro nelle loro esposizioni finanziarie, ed ultimissima quella De Nava, «il traffico marittimo» costò allo stato miliardi di perdite, come si giustifica dare altre navi ad un siffatto mostro divoratore?

 

 

Come si spiega il fatto che prima della guerra 127 navi facevano 4 milioni di miglia di percorso, ed ora 73 navi ne fanno solo 2 milioni, ossia quello che proporzionalmente, prima si faceva con 63 o 64 navi?

 

 

Vogliamo, sì o no, mantenere questa incognita paurosa del «traffico marittimo» di stato? Se no, perché lo stato vuole ora costruire navi, senza sapere se se ne servirà direttamente? Se le linee sovvenzionate saranno nuovamente affidate a concessionari o se, meglio, le linee sovvenzionate saranno grandemente ridotte, che cosa se ne farà lo stato dei piroscafi che si troverà sulle braccia? Li venderà? A nuove cooperative Garibaldi, con i bei sistemi in uso, od all’incanto? Non è probabile che le compagnie sovvenzionate, per decidersi ad acquistare navi di rabbercio, affibbiate allo stato come al padre eterno misericordioso che riconosce tutti i derelitti come suoi figli prediletti, vorranno mettere le loro condizioni? Ossia, qualunque sia la cifra apparente di acquisto, non solo averle per niente, ma farsi pagare, in un aumento della sovvenzione, le perdite di esercizio?

 

 

Su tutti questi interrogativi, la relazione conserva un profondo, religiosissimo silenzio.

 

 

PS. – Avevo già scritto questo articolo, quando, per le vacanze prese dalla camera, il governo s’è trovato innanzi al quesito di che cosa fare in merito ai provvedimenti per la marina mercantile. Pare che, per il progetto dei 125 milioni a favore delle costruzioni navali arretrate, il governo si senta confortato ad emanare un decreto legge dal fatto che ha ottenuto il parere della commissione di finanza e tesoro e di quella per i trasporti, mentre eviterebbe di fare altrettanto per il progetto dei 200 milioni, che è precisamente quello criticato nell’articolo, nonostante il voto favorevole della commissione di finanza, di fronte all’impossibilità in cui la commissione per i trasporti si è trovata di pronunciarsi.

 

 

Non vi è dubbio che un decreto legge su questo secondo progetto sarebbe del tutto ingiustificato, mancando perfino il fumus boni juris di un’approvazione preliminare delle commissioni della camera. Ma occorre fare le più espresse e precise riserve sulla costituzionalità e opportunità e necessità di un decreto legge anche sul primo progetto dei 125 milioni.

 

 

È incredibile la leggerezza con cui si passa sopra alle garanzie costituzionali contro le deliberazioni di spese. Fa d’uopo ricordare che il voto pure pienamente favorevole di quante commissioni parlamentari si vogliano conta meno che nulla, e che occorre il voto favorevole di ambedue le camere? La spesa è urgente? Falsissimo pretesto. Perché giudici dell’urgenza di una spesa sono solo le camere. Queste vogliono andare in vacanza senza discutere una data spesa? Segno è che esse la considerano di gran lunga meno importante delle loro vacanze. Se un governo considera veramente urgente una data spesa, deve avere il coraggio di opporsi alle vacanze. Se non lo fa, vuol dire che esso teme un giudizio sfavorevole e che la spesa non deve essere fatta. Altro che motivo per un decreto legge! L’urgenza sorta dopo che sono state prese le vacanze ha il valore di una presunzione che l’approvazione del parlamento sarebbe mancata.

 

 

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