Opera Omnia Luigi Einaudi

Divagazioni moderne a proposito di un libro sul Trecento

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1931

Divagazioni moderne a proposito di un libro sul Trecento

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1931, pp. 172-186

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 257-273

 

 

 

Bernardino Barbadoro: Le finanze della repubblica fiorentina. Imposta diretta e debito pubblico fino alla istituzione del Monte (vol. V della «Biblioteca storica toscana», a cura della «R. Deputazione toscana di storia patria». (Firenze, Leo S. Olschki, editore, 1820, in-8° di pag. XI-738 ed 1 c. n. n. Prezzo L. 100).

 

 

1. – La «Biblioteca storica toscana», che la «Deputazione toscana di storia patria» viene alacremente pubblicando, si arricchisce, dopo quelli del Sapori sulla «crisi delle compagnie mercantili dei Bardi e dei Peruzzi» e del Ciasca su «l’arte dei medici e speziali nella storia e nel commercio fiorentino dal sec. XII al XV», di un altro volume di storia economica medioevale.

 

 

2. – I recensenti di libri seri di storia appartengono a due categorie distinte: o ne sanno altrettanto e forse più dello scrittore del volume recensito e le recensioni assumono valore di aggiunte e correzioni o di contributi propri destinati a prendere posto accanto all’opera principale talvolta a sopravanzarla; o non sanno nulla di specifico in argomento, non hanno fatto né intendono fare ricerche e controlli, e la recensione può, forse, più no che si, valere ad offrire un riassunto del tema trattato dal libro od essere pretesto a riflessioni extravaganti occasionate dalla lettura. Appartengo, rispetto al B., alla seconda specie di recensenti, con l’aggravante che non ho pazienza di fare il riassunto desiderabile. Non ho pazienza, perché anche a fare un riassunto occorrerebbe piena padronanza della storia fiorentina dal 1261 al 1347. Il Barbadoro, in quella storia, si muove a suo agio; conosce e fa manovrare gli uomini di parte ghibellina e di parte guelfa, i bianchi e i neri, i magnati ed i popolani, il Duca di Calabria e quello d’Atene; classifica ognuno che incontra, a prima vista, nella parte sua ed in quel quadro politico inserisce i provvedimenti di estimo, di imposte, di gabelle e di prestanze che quegli uomini attuarono. Come fare un riassunto di quella storia, senza incappare nel pericolo di qualche sproposito? Sarebbe errore involontario, ma non perciò meno da pigliar con le molle.

 

 

3. – Fortunatamente, il libro del B., oltrecché un libro di storia, è anche un’altra cosa: che io definirei come un trattato di ordinamento tributario e finanziario dello stato fiorentino di quel tempo. Difatti egli tratta, come farebbe un trattato moderno, prima la finanza ordinaria delle entrate demaniali e delle imposte sui redditi e sui patrimoni, studiando di queste da un lato la base imponibile ed i metodi di accertamento (estimo), e dall’altro la struttura e la pressione, e poscia la finanza straordinaria (prestanze). Quindi, anche noi laici in storia fiorentina possiamo, in ragione dell’abitudine presa di foraggiare nei non fioriti campi delle imposte e dei debiti pubblici, azzardarci a discorrere di questo libro.

 

 

4. – Prima di tutto, leviamoci il cappello. Siamo totalmente abituati noi, studiosi di problemi contemporanei, a discorrere di cose, intorno a cui si sa tutto, leggi, regolamenti, commenti, sentenze, decisioni, statistiche, bilanci e nonostante questa dovizia di materiale, ci accade non tanto di rado di scrivere o di leggere inesattezze intorno ad imposte conosciutissime, sofferte personalmente, che duriamo fatica ad apprezzare la fatica, la diligenza, la penetrazione di cui devono dar prova gli storici, come il B., i quali si travagliano intorno ad un’epoca lontana. Per lo più, quel che avanza è un pezzo di deliberazione di un qualche consiglio del capitano del popolo o del podestà; ovvero appena la ricevuta di una rata di imposta, salvata dal naufragio delle carte antiche perché prodotta in un qualche giudizio posteriore; ovvero un accenno vago ed inesatto in una cronaca del tempo. Bisogna, per ricostruire, la storia e più il sistema, trascrivere, elencare e datare questi brandelli di testimonianze. Nel trascrivere, certe parole bisogna indovinarle, perché la scrittura è stinta; nel datare bisogna andare guardinghi, perché gli usi cambiavano e perché i notai ed i cancellieri talvolta lasciavano nella penna anno, mese e giorno. Elencati e datati i brandelli, bisogna fare ipotesi intorno al loro collegamento. Chi ci dice che quella tale ricevuta si riferisce davvero a quella tale libra (od imposta) o prestanza e non a tale altra? Per potere assodare una ipotesi plausibile, bisogna padroneggiare non solo quei brandelli, ma tanti altri e conoscere uomini ed avvenimenti e saperli collegare. È il mestiere dello storico, sento dire dagli economisti di professione, e sotto sotto pare di cogliere a volo una certa aria di compatimento per questa abilità reputata di genere inferiore alla capacità di astrazione propria dei teorici. D’accordo che le compilazioni storiche di seconda mano, e le architetture sistematiche dei pseudo storici o, perché più lunghe a leggersi, più fastidio dei ragionamenti sbagliati o inutili dei teorici di second’ordine. Dico solo che anche gli economisti ed i finanzieri teorici dovrebbero decidersi a riconoscere di buon grado che occorre almeno tanta finezza di ragionamento, tanta perizia logica nel ricucire insieme minutissimi pezzi di stoffa archivistica e cronicistica e ricomporli in un vestito aderente al corpo politico di cui si vuole presentare la figura quanto nel cavar fuori dalla mente una bella dimostrazione filata di un nuovo teorema. Con questa differenza: che il teorema lo dimostriamo sulla base delle ipotesi poste da noi arbitrariamente e abbandonate per altre se le prime sono infeconde; mentre quei pezzettini di stoffa sono quel che sono e se non se ne cava nulla, bisogna pazientemente riempire i buchi cercandone altri, che se non si trovano, il lavoro di anni è perduto.

 

 

5. – Il lavoro di B. non è andato perduto, perché egli ha ricomposto un vestito il quale, ad un laico armato solo dei canoni di interpretazione dedotti dalla conoscenza dei comuni fatti storici di tempi più noti e di quelli moderni, appare logico e coerente. Un demanio scarso e nudrito prevalentemente dei redditi dei beni confiscati ai ribelli, una finanza alimentata sovrattutto dalle entrate delle gabelle sui consumi e sugli affari, ma a tratti, sovrattutto nei tempi di guerra, aiutata potentemente da imposte dirette sui redditi. Il B., con un calcolo pazientissimo, concluderebbe che la pressione dell’imposta diretta, mite nel periodo dal 1269 sino al 1287, durante il quale il prelievo più alto fu del 4,75% del reddito nel 1285, sale poi, giungendo all’8% nel 1288, al 15% in città e al 13,75% nel contado nel 1289, all’11,25% nel 1290, per ribassare al 5% nel 1291, ma riprendere al 16,25% nel 1292 e rimanere al 7,50% nel 1293. Di qui, fino al 1301, ci sono alcuni anni di tregua per i contribuenti; ma nel 1302, riprendendosi la guerra esterna, fino al 1315 si hanno aliquote che del 1306 giungono al 27,50%, nel 1311 al 43% (città), e nel 1312 e 1313 a 29 e 39 fiorini rispettivamente per cento. Ma le imposte vere e proprie, dette libre, se generali, od imposite, cavallate, ecc., se particolari a talune classi di contribuenti, non bastano; e bisogna ricorrere alle prestanze. Le quali sono di varie specie: talune semplici anticipi su imposte prossime non ancora ripartite come quando non essendo ancora pronti, come ora diremmo, i ruoli nuovi per il riparto dell’imposta, si esigono prestiti sulla base dei ruoli vecchi, salvo ai contribuenti di imputarne la somma sul dovuto in forza dei ruoli nuovi. Possono, le prestanze, essere obbligatorie ed in questo caso non fruttano quasi mai interessi, se sono generali su tutti i contribuenti, essendo fruttifere invece per lo più, ove siano particolari su taluni gruppi più facoltosi; ovvero volontarie ed in tal caso recano interessi, non di rado assai alti, del 15 per cento e più. Le prestanze cominciano ad essere a brevissima scadenza e sono subito restituite col provento di tale o tale altra imposta o gabella; ma non di rado la restituzione va per le lunghe, creando una confusione di uffici e di vincoli a pubbliche entrate grandemente impacciante; sicché a poco a poco si avverte una tendenza al consolidamento (allungamento del periodo di rimborso) e alla unificazione del debito, sinché, con le tre provvisioni fondamentali del 29 dicembre 1343, del 22 febbraio 1345 e del 20 giugno 1347, tutti i debiti, giunti ad una somma variamente stimata da 570 a 600 mila fiorini, che la Repubblica non spera più di potere rimborsare, ma «purga» riducendoli a 504.000 fiorini, si uniscono in un solo monte di titoli non più rimborsabili, e quindi simili ad una rendita perpetua, ad interesse unificato e ridotto al 5% per cento, e trasferibili, contrariamente ai precedenti assoluti divieti, da un possessore all’altro.

 

 

6. – In questo schema semplificato, quanti problemi interessanti! Taluni sono di pura nomenclatura. Esiste una tecnica terminologica la quale fa risparmiare tempo e parole e credo si potrebbe applicare utilmente anche alle epoche passate. Il B. (pag. 79 e 142) considera, ad es., misto di reale e personale l’estimo del primo periodo (1280-1315): «reale» perché l’imposta era proporzionale alle sostanze dei contribuenti; «personale», perché soggetto di essa era la persona del contribuente, o meglio il fuoco o unità famigliare. Ora, questa non è la terminologia normale che oggi s’usa, dicendosi «personale» una imposta non solo perché al pagamento suo è obbligata la persona, ma anche perché base imponibile è l’insieme dei redditi o del patrimonio del contribuente. Sempre una imposta, eccetto i casi rarissimi di testatici, poggia su che di reale, perché deve essere commisurata a redditi di cose o a patrimoni. Ciò non vale a dichiararla reale. Come non vale a dichiarare personale un’imposta, ad es., sul reddito dei terreni il fatto ovvio, che qualche persona deve pur pagarla. Sembra a me che le libre accertato per estimi di cui così bene discorre B., chiarendone alla perfezione le caratteristiche, appartengano in tutto alla categoria delle imposte personali, perché contribuenti sono i capi famiglia, perché questi pagano in ragione della loro sostanza complessiva, perché talvolta c’è qualche esenzione alla base, perché talaltra gli allibratori tengono conto dei carichi di famiglia. Non cade la personalità perché la libra (pag. 436) segue, entro certi limiti di tempo, che allora eran quelli della durata dell’estimo, i beni del contribuente presso gli acquirenti od eredi. Anche modernamente l’imposta patrimoniale aveva quest’effetto, anzi più lato; e se esso era nocivo alle contrattazioni, non trasformava l’imposta da personale in reale, trattandosi di una mera garanzia di esazione da parte dello stato, il quale non può apprendere le persone – e, nonostante minacce, nemmeno allora le apprendeva – ma le cose delle persone. Nell’imposta reale, la garanzia si ha direttamente sulla cosa, come tale, senza badare alla persona; nell’imposta personale, la garanzia si ha sulle cose che appartenevano alla persona nel periodo di tempo a cui si riferiva il debito d’imposta della persona. Invece è nettamente «reale» la gabella delle possessioni sostituita nel 1315 all’abolita libra per estimo, perché colpiva i redditi delle terre, delle case, delle industrie, delle gualchiere, dei mulini come cose, nel luogo dove le cose erano situate ed astrazione fatta dal complesso dei redditi e del patrimonio posseduti dal contribuente.

 

 

7. – Anche il B. contrappone (pag. 156 e seg.) all’estimo, usato fino al 1315, del complesso del reddito, e che egli qua e là qualifica di arbitrario, un’altra maniera di estimo, proposta il 19 marzo 1285 da Borgo Rinaldi, e attuata in parte nel 1325, in cui, pur tassandosi l’intiera fortuna del contribuente, si fa prima l’estimo separatamente delle terre, delle case, dei beni mobili e anche dei redditi dell’industria personale, chiamando quest’ultima tassazione «induttiva e graduata» secondo la terminologia nostra corrente, l’aggettivo «induttivo» si applica a tutt’altro oggetto. Non ha riguardo alla base imponibile, ma al metodo di accertamento. Dicesi così che nell’attuale vigente imposta complementare sul reddito è escluso l’accertamento «induttivo», perché ai funzionari delle imposte è fatta proibizione di tener conto, nella valutazione del reddito, di elementi non tratti da dati certi: ruoli delle imposte, contratti, dichiarazioni del contribuente o di enti pagatori di reddito, ecc. Diventerebbe induttiva la tassazione, se il procuratore alle imposte, moralmente convinto di non essere riuscito ad apprezzare tutto il reddito di Tizio da documenti certi, potesse «indurre» o «presumere» una cifra di reddito da elementi indiziari, come tenor di vita, pigione pagata, vettura, automobile, ville, servitori, testimonianza fede degna della pubblica fama e simili. Il che è escluso, oggi, espressamente dalla legge; epperciò la tassazione non è induttiva. Il B. invece pare attribuire all’aggettivo il significato contrario, ossia di tassazione che esclude l’arbitrio della induzione del fiuto fiscale, della conoscenza personale, e si fonda sull’accertamento preciso dei singoli redditi. Ognuno può attribuire, nelle scienze astratte, alle parole il significato da lui ritenuto migliore. Fatta la convenzione, nessun equivoco può sorgere. Epperciò, io non muovo critica al B. per avere dato all’aggettivo «induttivo» il significato da lui preferito. Dico, che, possibilmente, è bene attenersi alla terminologia comune, per evitare sforzi mentali ai lettori.

 

 

Il B. chiama «graduata» la tassazione del 1325, perché si tassarono all’1% le case e all’1,66% le altre forme di ricchezza. Altre volte si diversificarono le aliquote ancor più minutamente. Per l’appunto noi diciamo questa «diversificazione» – gli inglesi la dicono «discriminazione» – e non «graduazione» della base imponibile o dell’aliquota. La parola graduazione è riservata, non senza qualche incertezza, ad indicare altri fatti. Taluno chiama imposta graduata quella che colpisce con somme assolute diverse i gruppi successivi di redditi o di patrimoni; come quando si dividono i negozi di una città in cinque classi, colpendoli con imposte da 50 a 1000 lire. Ma io direi questa imposta «classificata»; riservando l’aggettivo «graduata», secondo la terminologia italiana, a quei tipi di imposte, come le nostre di bollo, che non sono fisse in una cifra unica, ma sono di importo diverso per gruppi di valori. Non sono a proporzione costante, per es. 10%, né a proporzione variabile crescente, comunemente detta progressiva; perché se si fanno i calcoli, si vede che i valori massimi pagano percentualmente di meno dei valori medi e minimi. Sono graduate ossia di importi diversi per valori successivi. Ma i valori considerati sono omogenei. Invece si ha diversificazione, come nel caso considerato dal B. pel 1325, quando a parità di valore, si applicano aliquote diverse su oggetti eterogenei.

 

 

8. – Né io direi «qualificate» la gabella delle possessioni del 1315 (pag. 378) o quelle sui terreni e sui fabbricati del 1339 (pag. 391) in contrapposto alla libra, detta tributo «globale» sul reddito, od alla taxatio familiarum seu focholarium, specie di imposta di famiglia. La «qualificazione» è una delle operazioni catastali, per cui si distribuiscono i terreni per «qualità» di cultura. È proprio delle imposte «reali» come erano le gabelle delle possessioni o dei terreni e case di essere distribuite distintamente su cose accertate separatamente l’una dall’altra, e non in monte al nome del contribuente; ma il concetto della «qualità» pare diverso da quello della sua individuazione, come cosa a sé, tassabile come tale, astrazione fatta dalle caratteristiche di ricchezza o povertà, celibato o figliuolanza, ecc., del contribuente.

 

 

9. – L’uso della terminologia moderna ha un vantaggio: di rappresentare subito il fenomeno alla mente del lettore, senza bisogno di lunghe spiegazioni od almeno riducendole a quel minimo che occorre per avvertirlo di non credere che quei fatti vecchi siano in tutto uguale ai moderni. Il che è singolarmente notabile a proposito della bella ricostruzione fatta dal B. dei significati, spesso male interpretati da storici estranei alle materie, economiche, degli istituti dell’estimo, della libra, della lira, e del catasto. Non erano costanti ed univoci nella terminologia quei vecchi notari e cancellieri e cronisti. Specialmente la parola «libra» balla una ridda di significazioni diverse; che il B. ad una ad una estrae, analizza e chiarifica. Alla mia volta ripeterò le sue dimostrazioni con la terminologia che mi è famigliare; e nell’essere questa terminologia perfettamente adattabile alla dimostrazione io trovo la prova, la sola accessibile ad un laico in istoria fiorentina, del carattere definitivo delle conclusioni del B.

 

 

10. – Dunque, l’«estimo», come ancora si usa dire adesso, è la determinazione o stima della base imponibile.

 

 

Ma questa stima si faceva in due maniere: in quella che noi diciamo «per contingente», e nell’altra che ora si direbbe per dichiarazione del contribuente, controllata dalla finanza, delle singole separate cose componenti il suo reddito o il suo patrimonio. In questa seconda maniera, l’operazione continuò a dirsi, nel periodo considerato dal B., di estimo; fu detta «catasto»; in un secondo e più celebre periodo spettante al ‘400.

 

 

Nel sistema per contingente, che fu il dominante, non si cercava la conoscenza di valori effettivi: non si pretendeva di appurare quale fosse, in lire correnti o in fiorini, il valore di mercato del patrimonio o del reddito del contribuente. Si volevano semplicemente appurare «proporzioni» fra Tizio e Caio e Sempronio e Mevio. Supposto che Tizio valesse 100 lire, quante lire doveva valere Caio, perché l’imposta fosse ripartita equamente? È chiaro che, posto il problema così, la parola «lira» non aveva nessun significato monetario. Non erano né lire effettive, né lire di conto. Erano valori ideali usati per la ripartizione di un contingente d’imposta. Non erano neppure lire d’imposta.

 

 

Supponiamo che si dovessero ripartire 1000 lire effettive d’imposta fra i quattro contribuenti sopranominati. Nelle provvisioni capita di trovare scritto che in quel giorno si era deliberato di ripartire una «libra» di 1000 lire. Ecco un significato, diverso da quello ora detto, della parola «libra»: contingente di imposta di tot lire (1000) effettive.

 

 

Per il riparto, si procedeva all’estimo. Non esistendo ancora una vera stima delle sostanze o dei redditi dei cittadini, si procedeva ad un estimo che qui, sì, dovrebbe dirsi «induttivo». Le 1000 lire si ripartivano dal collegio dei priori o da altri corpi appositamente creati, fra i quartieri od i sesti della città ; ottenendosi così in contingente del sesto. Nel sesto, si faceva da un altro corpo il riparto fra i popoli del sesto. In ogni «popolo» si nominavano una o parecchie commissioni per ripartire tra i singoli il contingente del popolo. Supponiamo, come accadde, che le commissioni, in ogni popolo, fossero cinque di cinque «buoni uomini» ciascuna. Su schede segrete ognuno dei cinque di ogni commissione scriveva quanto dovesse attribuirsi di estimo ad ogni contribuente da lui conosciuto. Le schede erano, distintamente per commissione, scrutate poscia da delegati appositi, non di rado pii frati di qualche convento. Si mettevano insieme le schede relative ad ogni contribuente, le quali al massimo erano cinque se il contribuente era noto ad ognuno dei cinque commissari, ma potevano essere meno, se il suo nome o il suo ricordo era sfuggito a qualcuno. Se erano cinque, si scartavano le stime estreme e si faceva la media delle tre intermedie; se erano meno di cinque, si provvedeva ugualmente, con avvedimenti vari, a scartare le stime estreme. Così, separatamente, si otteneva la stima media di ciascuna delle cinque commissioni per ogni contribuente; paragonate le cinque medie, di nuovo si scartavano la più alta e la più bassa e si faceva la media delle tre medie intermedie. Questa era la cifra d’estimo per ogni contribuente, espressa in lire ideali od immaginarie, utili solo a far proporzioni.

 

 

Suppongasi che di queste lire d’estimo, ne fossero toccate 2000 a Tizio, 3000 a Caio, 1500 a Sempronio e 3500 a Mevio, con una massa di estimo totale di 10.000 lire. Ciò non voleva dire che i quattro dovessero pagare quelle somme in lire effettive; ma soltanto che essi dovessero contribuire al pagamento della libra od imposta deliberata – nell’ipotesi fatta 1000 lire – nella proporzione: Tizio dei 2000, Caio dei 3000, Sempronio dei 1500 e Mevio dei 3500 diecimillesimi. Il che anche si esprimeva dicendo che si era deliberata una libra od imposta di dieci lire per centinaio.

 

 

Nel sistema del contingente, è noto, le cose non vanno sempre così liscie; essendo ben difficile che a priori si possa stabilire l’aliquota dell’imposta, dieci per cento, e che poi la massa d’estimo risulti precisamente di quelle 10.000 lire immaginarie, occorrenti a fruttare le necessarie 1000 lire effettive. La massa di estimo, risultando da valutazioni induttive dei buoni viri tassatori, e da calcoli di medie, poteva essere in definitiva maggiore o minore di quella occorrente a gittare, all’aliquota determinata del 10 per cento, l’importo necessario. Epperciò, o ci si contentava di un gettito minore, salvo a supplire poi con altre libre, ovvero si aumentava l’aliquota, ovvero ancora si crescevano le cifre d’estimo. A quale ultimo partito ci si poteva appigliare tanto più facilmente, in quanto le lire d’estimo erano, si disse, immaginarie ed utili solo a stabilire proporzioni fra contribuente e contribuente.

 

 

11. – Contro il metodo dell’estimo si muovevano obbiezioni che in parte erano tecniche ed in parte psicologico sociali. Mi pare di scorgere una diffidenza tecnica nelle parole di Borgo Rinaldi, di Segna Orlandini e di Ugo Altoviti quando consultarono il 19 marzo 1285: quoad summa extimi non declaretur – boni homines… eligantur qui scribant omnes massaricias populorum – primo inveniantur et in scriptis reducantur homines et massaricie civitatis et comitatus Florentie, …ante quam procedatur ad extimum faciendum. Dico diffidenza tecnica, come quella di chi sente tutta la difficoltà di valutare, induttivamente, in blocco la capacità contributiva dei singoli e vuole che, prima si proceda ad un rilievo esatto, analitico dei singoli cespiti di reddito o voci di patrimonio. È l’eterna contesa fra coloro che, si vogliono fondare sull’insieme, sulla fama pubblica, sulle presunzioni induttive tratte dal modo di vita e gli altri che si vogliono attenere al sodo, non andare al di là di quanto è inventariabile, accertabile singolarmente, il contrasto tra l’estimo e il catasto a Firenze, tra la prima income tax, di Pitt (1799) che fu un insuccesso perché fondata sull’estimo del reddito complessivo e la seconda di Addington (1803), che fu un successo perché dimenticò «il» reddito e si attaccò «ai» redditi singoli, distinti in schedules o categorie.

 

 

12. – Oltre quella tecnica, che lamenta l’incapacità della finanza a distribuir bene, senza errori, ma attribuisce gli errori alla imperfezione tecnica dello strumento usato, c’è un’altra obbiezione più invidiosa contro l’estimo costrutto in blocco, induttivamente. La espose il duca di Calabria nel decreto del 31 ottobre 1326 con cui egli nomina una commissione di dodici cittadini, due per sesto, con l’ufficio adiuveniendi et tradendi ordinem extime. Sane – egli dice – post felicem nostrum ad civitatem predictam accessum illa de presumptis illicite hactenus querimonia gravior auribus nostris insonuit, quoad in taxationibus prestantiarum, impositarum et allibrationum quarumlibet, pro agendis communibus, nullus ordo, nullusque modus aut equalitas servabatur, ut, amore et odio circa hoc vendicantibus sibi locum, impotentes et pauperes cogebantur indebite potentiorum et divitum onere supportare (pag. 162) Il B. da questi ed altri paesi ricava una teoria di causalità storica, per cui le variazioni tributarie avvenute nel periodo considerato a Firenze siano state determinate dall’alternarsi al potere delle classi ricche, mercantesche, favorevoli ai prestiti e nemiche in generale delle imposte sul reddito complessivo (pag. 130) e in via subordinata più favorevoli all’estimo arbitrario che a quello analitico. Il duca di Calabria ordinando che i suoi stimatori diligenter et secrete inquirant et extiment de valore cuiuslibet dictorum hominum in terris, domis et mobilibus, lucris personarum etc. (pag. 165), avrebbe fatto opera contraria alle oligarchie cittadine e favorevole alle genti minori. Su questa filosofia tributaria, che risente, assai moderatamente del resto, di quella spiegazione economica della storia, venuta di moda da tempo tra gli storici di Firenze e delle città medievali italiane, non oso dir nulla. Le prove fornite dal B. intorno all’esistenza di una finanza di classe sono poche e lasciano perplessi. A me piace piuttosto di insistere su ciò che il difetto di invidia, di senso, vero o finto, di sperequazione è insito nel sistema dell’estimo ossia della stima induttiva, e più è insito quando l’estimo, come accadeva a Firenze, si accoppia con la solidarietà del contingente.

 

 

13. – Poiché il contingente oggi ritorna, sotto le nuove spoglie di una ripartizione d’imposta ad opera delle associazioni di industriali, od agricoltori od operai o professionisti rivolte, da chi le creò, a tutt’altro scopo (l’ordinamento corporativo del lavoro e dello Stato, creato dalla legge 21 aprile 1926 ed integrato da leggi successive), non è inopportuno ricordare gli effetti prodotti in tempi antichi e nuovi dalla distribuzione solidaria dell’imposta. A primo aspetto, essa è fatta per assicurare giustizia; poiché non pagando l’uno il suo dovuto, deve l’altro pagare per lui. Ma chi distribuisce è, altresì, la collettività dei contribuenti; oggi si direbbe l’associazione professionale degli interessati. In essa prevalgono i potentiores ed i divites? Ed ecco gli impotentes ed i pauperes essere costretti a subire indebite gli onera dei primi. Hanno il sopravvento gli impotentes ed i pauperes? Quella fiscale diventa un’arma terribile di espropriazione contro i potentiores ed i divites. Infieriscono le ire di parte? Ecco la parte guelfa tassare i ghibellini, i neri taglieggiare i bianchi. È vana utopia cercare nell’interno del gruppo un metodo selettivo che dia il potere di ripartire imposte a gente imparziale, proba che giudichi remotis odio, amore, timore, precibus et qualibet humana gratia (pag. 170). Ai contribuenti ed alle loro rappresentanze elette non deve essere vietato di intervenire durante il processo di accertamento; ma il giudice deve essere scelto fuor di essi, deve essere un tecnico magistrato, indipendente da classi, da governi, da partiti, inamovibile o non rieleggibile. Ed il magistrato deve giudicare su cose, su valori medi indipendenti dalle persone singole. L’invidia è connaturata nei rapporti tra impotentes e potentiores, tra pauperes e divites; ma è cresciuta a dismisura dalla solidarietà del contingente, che li arma gli uni contro gli altri. A ridurre al minimo questo faziosissimo e sovra ogni altro fiscalmente distruttivo tra i sentimenti umani, i nostri vecchi avevano inventato il catasto, la cui sostanza feconda non stava nella tassazione complessiva con aliquota crescente, che fu temibile arma di dominazione in mano ai Medici, ma nell’accertamento analitico delle singole cose, per criteri medi applicabili a gruppi simili di beni. L’invidia spinge talvolta i pauperes a reclamare metodi arbitrari contro i divites; ma l’esperienza persuade pauperes, impotentes e divites a chiedere il ritorno a metodi oggettivi, certi, medi, per non essere ridotti tutti alla estrema miseria a profitto dei potentiores.

 

 

14. – Squisita per eleganza e consumata perizia di interprete di carte slegate è la narrazione del modo con cui si venne alla costituzione del monte delle prestanze.

 

 

I vani tentativi della repubblica di rimborsare il debito; la perdita nei creditori di ogni speranza di rimborso; l’acquiescenza di essi alla trasformazione del loro titolo di credito in una rendita perpetua; i vantaggi ottenuti: interesse del 5 per cento modesto, ma pagato con certezza e sovrattutto diritto alla trasmissibilità del titolo da una persona all’altra.

 

 

15. – Come è interessante assistere alla faticosa nascita del concetto di libera trasmissibilità da persona a persona dei titoli di debito pubblico! Pareva illecita speculazione quella di chi acquistasse per 30 lire un titolo di credito verso il comune per cui l’originario creditore aveva, forzosamente e spontaneamente, versato 100 lire; epperciò i priori il 14 dicembre 1327 statuivano quod omnes et singuli, qui hactenus emerunt … iura ab aliquibus singularibus personis, seu artibus, collegio vel universitatis, aliquarum impositarum aut prestantiarum factarum Comuni … intelligantur emisse … dicta jura pro Comune Florentie, et nihil ultra veram sortem quam solverunt … possint deinceps percipere vel habere (pag. 606). I priori, cioè, insofferenti che altri, con acquisti al disotto della pari, lucrasse saggi di interesse di fatto superiori a quello nominale, vogliono avocare al comune il supposto vantaggio dell’acquisto e dichiarano che il comune pagherà al cessionario solo le 30 lire da lui versate. Gli acquirenti girano le norme, rendendosi non cessionari, ma semplici procuratori ad esigere la sorte capitale e gli interessi dei titoli ceduti (cfr. l’interessantissima procura al Vecchietti a pag. 606-608); ed il comune replica che poiché taluni tacite quaesiverunt jura contra ipsum comune, et solverunt quartam partem, et minorem (pag. 614), aspettino la settimana dei tre giovedì ad essere rimborsati. Ma alla fine, quegli accorti mercanti che reggevano le sorti del comune, s’accorgono che è privo di buon senso volere impedire la cosidetta «speculazione» degli acquirenti; e che il divieto di vendere o il che fa lo stesso la minaccia di indagini inquisitive per conoscere il prezzo di vendita e ridurre a quello il debito del comune, è dannoso sovrattutto ai venditori ed al comune. Ai venditori, perché tanto minore era il prezzo che si poteva ricavare dalla vendita del titolo, quanto maggiore era il rischio dell’acquirente di vederselo svalutato in mano. Al comune, perché un prestito tanto meglio si colloca e a prezzo più alto quanto più il sottoscrittore è sicuro di potere rivendere il titolo acquistato senza impedimento. Di qui il regolamento del 29 dicembre 1343, il quale solennemente sancisce il principio della cedibilità dei titoli di credito verso il comune: Item quod omnes et singuli, qui ab ipso Comuni habere vel recipere debent aliquam pecunie quantitatem vigore alicuius mutui vel assignationis vel deputationis eisdem factis, possint eisque liceat, vigore et auctoritate presentis provisionis, sua jura permutare et in alium Florentinum transferre; et quod ille, in quem translata essent talia jura, poni et scribi possit … in libris Comunis Florentie ubi sunt descripti tales creditores …, loco illius qui talia jura transtulerit; et eidem cui sic translata fuerint fieri possit et debeat solutio, prout fieri poterat dicto primo jus habenti (pag. 642/643). Da quel giorno data, a Firenze, il titolo di debito pubblico moderno.

 

 

16. – Il B., anche qui, manifesta una predilezione verso un certo causalismo capitalistico della riforma; quasi che il principio della trasferibilità fosse stato voluto od avesse avuto per conseguenza di favorire l’acquisto dei titoli a basso prezzo da parte dei grossi mercanti a danno degli artigiani; i quali preferiscono perdere, vendendo, la differenza rispetto al prezzo di acquisto. Cosicché gli artigiani sarebbero fautori dell’imposta diretta ed i capitalisti delle prestanze (pag. 653/654). Teoria che, di nuovo, non giudico dal punto di vista storico; ma amerei fosse stata illuminata alla luce dei ragionamenti svolti in proposito dagli economisti. Questi osservano, innanzitutto, che a favorire gli acquisti a sottoprezzo avrebbe giovato più il divieto della trasferibilità, come quello che svalutava il titolo in mano dei sottoscrittori, forzati o volontari che fossero. Non reputando perciò necessario, per spiegare la cedibilità dei titoli di debito pubblico, argomentare dall’interesse di una classe capitalistica in agguato per acquistare titoli svenduti al di sotto del corso di emissione, quando essa è fondamentalmente imposta dall’interesse preminente del comune venditore e dei risparmiatori sottoscrittori dei titoli, gli economisti difficilmente riescono a convincersi che il fattore dominante nella scelta fra debito ed imposta sia una differenza di interesse fra le due classi dei capitalisti e degli artigiani. Innanzitutto, gli artigiani preferiscono pagare, ad es., 2 fiorini d’imposta a fondo perduto piuttosto che 4 fiorini a titolo di prestanza di cui la restituzione è incerta? Ciò significa che se il titolo di prestanza avesse avuto il valore corrente di 4 lire, l’avrebbero certamente preferito. Chi non preferirebbe di pagare 4 colla certezza di poterle quando che sia ricuperare tutte intiere, al pagar 2 colla certezza di versarle a fondo perduto? Preferire di pagare 2 d’imposta sicura al rischio di perdere più di 2 su un investimento di 4 è proprio non dell’artigiano solo, ma degli uomini in genere, i quali non desiderano o non possono prendersi il lusso di rischiar molto. Vedo infatti (pag. 655) che anche le compagnie bancarie allora (1343) in crisi avevano bisogno di realizzare i loro crediti verso il comune e presumibilmente li avranno realizzati, al par degli artigiani, al disotto della pari. Mi pare cioè di intravvedere negli storici i quali narrano storia economica una tendenza – nel B. prudentissima, del resto – a dare a interessi di gruppi o di classi una importanza causale, che dovrebbe essere più largamente dimostrata. L’interesse di taluni singoli capitalisti diventa spesso l’interesse della classe; quando può darsi che i più della stessa classe avessero interessi contrari. Ragionando di prestiti, è noto che gli interessi dei diversi gruppi ed individui di quella che, molto grossolanamente, si chiama la classe capitalistica, sono tutt’altro che identici. Per parlare in linguaggio forse non dissonante dai tempi d’allora, suppongo che padroni di botteghe e mercanti non avessero interesse né a pagare imposta, né ad acquistare titoli di debito pubblico, perché nel primo caso si sarebbero privati di 100 lire a fondo perduto e nel secondo avrebbero investito le 100 lire ad un 15% incerto (che si vide poi ridursi ad un 5% meglio certo), laddove, tenendole impiegate nel negozio proprio, il reddito probabilmente era superiore. L’interesse di quelle classi, che costituivano il fiore o la parte attiva della classe cosidetta capitalistica, era che il comune facesse debiti, di cui esse erano pronte a pagare gli interessi, ma li contraesse con altri. Con chi? Probabilmente ho torto a porre una domanda a cui le carte non danno risposta. In storia, bisogna contentarsi delle notizie che i documenti del tempo ci tramandano e non di quelli che noi avremmo desiderato. L’economista desidererebbe certo, se dati od indizi ci fossero, che il B., con la conoscenza quasi personale che egli ha degli uomini del tempo, ci dicesse chi erano i sottoscrittori ai prestiti liberi (quelli forzati non contano) o gli acquirenti volontari dei titoli vecchi, quando i titoli di monte divennero negoziabili. Mercanti in esercizio del loro negozio o mercanti ritirati dagli affari? Gente che si sta arricchendo o vecchi ricchi? Uomini attivi oppure vedove, pupilli, conventi, corpi collettivi? A lume di logica economica, dovrebbero essere i secondi (cfr. per la teoria il Contributo – fondamentale in materia – alla teoria del prestito pubblico di A. De Viti De Marco in Saggi di economia e di finanza, editore il «Giornale degli Economisti», Roma, 1898); ma sarebbe ugualmente interessante una verificazione storica, sia negativa che positiva. Se dallo spoglio dei registri del monte si riuscisse a qualche conclusione in proposito, sarebbe illuminata di viva luce la composizione, probabilmente varia e ricca anche allora, di quella classe che si suole chiamare capitalistica. Qualificativo che non dice quasi nulla oggi e forse dice ancor meno per quei tempi.

 

 

17. – A tanta distanza di tempo, gli storici sono portati a drammatizzare incidenti usuali nella pratica delle emissioni di titoli pubblici. A me pare non necessario parlare, ad es., «di politica democratica» che non vale «a debellare il capitale come ausilio interessato della finanza» (pag. 665) a proposito di un fatto così banale come la svalutazione dei titoli di credito avvenuta quando il comune riunì e consolidò in un monte le diverse partite di debito riducendone per talune l’interesse dal 15 al 5 per cento. Bisognerebbe anzitutto sapere se la svalutazione non preesistesse, essendo ovvio che non occorre nessuna scesa in campo del «capitale» per far rinvilire un titolo a cui si promette un frutto del 15% ad anno e questo non si paga; e potrebbe essere che il 5% unificato e pagato fosse invece cresciuto, in confronto, di prezzo; cosa che accadde le tante volte ed, a ricordo dei viventi, in Italia nel 1894 dopoché Sonnino ridusse forzosamente l’interesse del vecchio consolidato dal 4,34 al 4 per cento. Se il nuovo 5% non crebbe di più e più velocemente, la causa ne sarà stato il rischio che fossero ascoltati certi canonisti, i quali pretendevano che, se un compratore aveva acquistato i nuovi titoli 5% al di sotto della pari, ad es., per 30 lire ogni 100 nominali, l’acquisto non fosse lecito per la differenza fra 30 e 100 ed il comune dovesse ridurre il valor nominale del titolo a 30 lire. (Ma non tutti i canonisti erano così asini; ché contro maestro Pietro Strozzi dei Domenicani, il quale dicea «che non era lecito contratto e predicavalo, senza dimostrarne le ragioni chiare … maestro Francesco da Empoli, de’ minori … predicò, e scrisse ch’era lecito e senza tenimento di restituzione» al comune della differenza. Cfr. pag. 667). L’unico effetto sarebbe stato che i titoli sarebbero divenuti invendibili. Non occorre immaginare offensive democratiche e difese capitalistiche per capire che, se il saggio corrente di interesse era il 15% e se un titolo fruttava solo 5 lire, il valor capitale di esso non poteva superare all’incirca il terzo di 100 lire. Per evitare un effetto inerente alla natura umana, occorreva che il comune tenesse fede ai suoi impegni, che in tempi di pace il risparmio crescesse e il saggio di interesse diminuisse. Questo solo si può dire: che il pregio di tener fede agli impegni e di non ostacolare la formazione del risparmio è meglio sentito da taluni ceti che da altri, da quelli che già posseggono qualcosa che dai nullatenenti, dai mercanti ritirati, dai viventi di rendita, dalle vedove e dai pupilli che dai mercanti, i quali non bazzicano coi titoli di stato, perché scarsamente redditizi. Prevalendo gli interessi ed i sentimenti di questo tipo, anche il comune prospera; e viceversa. Perciò quel che è utile nella storia economica non è la cosidetta interpretazione economica della storia che è applicazione di schemi generici e rappresentazione di battaglie inventate da astrattisti i quali discorrono di rendita, di capitale, di proletariato, di artigianato, come se fossero persone viventi le une contro le altre schierate – spettacolo grottesco che oggi pare esistente solo perché ne parlano politici e giornalisti -; ma è la ricostruzione viva delle persone realmente esistite, di quei tali mercanti grossi e piccoli, di quei tali magnati, di quelle tali vedove, di Beni Bencivenni o di Bindaccio del fu Consiglio dei Cerchi, con i loro sentimenti veri, con i loro interessi specifici trapelanti dalle vecchie carte, con le loro fondamentali passioni umane, buone e cattive.

 

 

18. – Tra i sentimenti più radicati nel cuore degli uomini dovevano essere, allora come oggi, la furberia, l’avidità e l’invidia. A proposito di una emissione che oggi si direbbe al disotto della pari, scriveva Matteo Villani sotto la data del 1358: «Quelli che reggevano il Comune cercavano novo modo, provvedendo per legge che chi spontaneamente prestasse al Comune fosse iscritto a suo creditore nuovamente nell’uno tre, e cioè in fiorini trecento prestandone cento …, dando al detto Monte nuovo e a’ suoi creditori tutti i privilegi e immunità del Monte vecchio. Per questa via il Comune senza altra gravezza ebbe al suo bisogno soccorso; e bene si misura, non per carità o affezione ch’avessero i cittadini alla sua repubblica, ma per la cupidigia del largo profitto; il quale fuori del buono e antico costume de’ nostri maggiori molti n’ha tirati dalla mercatanzia in su l’usura» (pag. 667-668). Ecco gli amministratori del comune, che in stretta di denaro, non potendone accattare al 5% che era il saggio di frutto dei debiti del primo o vecchio monte e non volendo violare i divieti canonici d’usura, immaginano con furbizia di girare le difficoltà vendendo titoli del valore nominale di 300 lire, fruttanti, al saggio legale del 5%, 15 lire, per sole 100 lire; ossia iscrivendo invece di una tre lire sul libro del monte. Ecco, avidi del frutto del 15%, molti mercanti trasformarsi in portatori di titoli di debito pubblico (la frase di Villani «n’ha tirati dalla mercatanzia in su l’usura» non è forse un indizio che la ipotesi formulata sopra sulla maggior propensione di certuni cosidetti capitalisti in confronto di altri ad investire in titoli è fondata sui fatti, se occorre al par d’oggi, crescere il saggio di interesse per persuadere i mercanti a stornare i capitali dal negozio per investirli nel monte ossia a cessare, nei limiti del fatto prestito, di mercatare?); ed ecco poi, passata la festa, ossia il bisogno del comune, gli amministratori pentirsi di aver promesso, sotto colore di un 5% sul triplo del versato, un 15% di fatto; ed apprestarsi a gabbare il santo ossia il creditore pubblico, sempiterna vittima; ed i soliti azzeccagarbugli, giuristi della repubblica, dimostrare che la fatta promessa non valeva, perché contraria ai provvedimenti istituiti del monte che statuiva l’interesse fosse fissato per tutti al 5% ed un Simone di Biagio consultare il 5 novembre 1380 quod denarii Montis reducantur ad quinque pro centenario, sicut fuit intentio (pag. 673). Hanno sempre usato modi ed accorgimenti siffatti gli stati dominati dagli invidiosi e dai bancarottieri; e se andarono impuniti, ciò accade anche sempre perché i creditori pubblici appartengono alla razza di coloro che più li batti e più ti vogliono bene. Corti di memoria per giunta, ché dimenticano dopo pochi mesi ed anni le battiture ricevute e tornano a credere alle promesse e a offrir denaro. Il che non toglie che, alla fin fine, godano credito migliore quegli stati che da un pezzo non giocano tiri mancini; e pagano le 5 lire per cento su tutte le 300 lire; e dal pagare puntualmente per secoli cotali interessi presto divenuti esorbitanti, traggono forza per non ricadere più nello stesso sproposito, oggi da tutti i trattatisti conclamato, riconoscendo nei nuovi prestiti come dovute solo le 100 lire effettivamente riscosse.

 

 

19. Non finirei più, se ascoltassi la voglia di estrarre dal libro del B. esempi di casi consimili ai moderni, di soluzioni antiche a problemi ognora rinascenti. Questo libro, con pochi altri, Pagnini e Canestrini, in parecchi punti dal B. corretti, per la stessa Firenze, Bianchini per Napoli, Sieveking per Genova, Besta, Cessi e Luzzatto per Venezia, merita di diventare di uso corrente tra economisti e finanzieri. Che c’è bisogno, nel far lezioni e nello scrivere trattati di finanza, di andar raccattando esempi da tutte le parti del mondo, dalle solite income tax ed Einkommensteuern e patenti e contingenti francesi e tedeschi ed inglesi, quando abbiamo, lì a portata di mano, una ricca documentazione ed una abbondante casistica, raccolta con critica rigorosa, illustrata con sapienza, inquadrata con bell’ordine nell’ambiente storico? Grato al Barbadoro per le belle ore fattemi trascorrere nell’apprendere fatti nuovi e nel provocare accostamenti a fatti noti, auguro che il successo ottenuto con questo suo primo volume lo incoraggi a durare la fatica lunga necessaria per continuare la sua storia oltre il mezzo del trecento, fino al cominciamento ed al progresso del «catasto» e delle istituzioni finanziarie col catasto collegate. Periodo stupendo e vivo, che attende nel Barbadoro il suo storico.

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