Opera Omnia Luigi Einaudi

Dopo dodici anni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/07/1906

Dopo dodici anni

«Corriere della Sera», 31 giugno, 1[1],10[2], 21[3] e 25[4] luglio 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 382-405

 

 

I.

Ricordiamo: il 21 febbraio 1894 il ministro del tesoro del tempo, on. Sonnino, faceva una esposizione finanziaria che doveva rimanere celebre negli annali del parlamento italiano e doveva per lunghi anni suonare ammonimento salutare agli uomini di governo. Il conto consuntivo dell’esercizio 1892-93, ad onta della larga importazione di grano, per cui il dazio aveva superato di 15 milioni la somma prevista, si chiudeva con un indebitamento di circa 48 milioni per nuove passività create oltre quelle estinte e per consumo di attività patrimoniali. Peggiori le previsioni d’assestamento per l’esercizio in corso 1893-94: una deficienza a carico del tesoro di 6 milioni, ed un maggior indebitamento patrimoniale dello stato di 165 milioni. Pessime le prime previsioni per l’esercizio 1894-95: una deficienza di milioni 155,2 ed un indebitamento di circa 177 milioni. Frattanto il debito del conto del tesoro al 30 giugno 1894 saliva ad oltre 563 milioni, ed inceppava tutta l’opera finanziaria dello stato, sì da reclamare una sistemazione, resa non facile dalla difficoltà di emettere titoli di debito a buone condizioni. L’aggio dell’oro sulla carta oscillante fra un minimo dell’11,08 ed un massimo del 15,70%; la circolazione disordinata, come recenti gravissime inchieste bancarie avevano messo in luce; la moneta spicciola necessaria alle quotidiane contrattazioni ostinatamente deficiente; lo stato delle finanze degli enti locali cattivo al par di quello delle finanze dello stato, e reso anche più grave dacché la Cassa dei depositi e prestiti, istituita con la principale missione di sovvenire ai bisogni di quegli enti, nulla di serio poteva oramai fare per essi, in conseguenza delle sovvenzioni che doveva fare allo stato, ultima e più pericolosa delle altre quella per l’operazione sulle pensioni di 31 milioni di lire all’anno.

 

 

Alle depresse condizioni della finanza pubblica corrispondeva tristamente il quadro dell’economia privata. Per citare soltanto alcuni principalissimi indici il corso del consolidato 5%, che nel 1886 era pur giunto a 102,55 alla borsa di Parigi, scaduto fino al minimo di 72; le banche di emissione con un portafoglio al 31 dicembre di 309 milioni in confronto ai 743 del 1889, e con una cifra di anticipazione di 67 milioni invece di 126; mentre le sofferenze da 38 salivano a 55 milioni. Le società per azioni che nel 1890 erano 412 con un capitale di 1.016.106.403 lire ed una riserva di 68.022.945 lire ridotte a 358 con un capitale di appena lire 750.020.132 ed una riserva di lire 46.340.362. Le risultanze medie economiche delle società anonime da parecchi anni oscillanti fra una perdita dell’1,95 ed un guadagno del 3,57%. Il commercio coll’estero ridotto per le importazioni a lire 1.094.649.101, ossia a lire 35,21 per abitante, minimi che in cifre assolute non erano stati toccati se non nel 1871 e nel 1878 e in cifre relative non avevano riscontro; e per le esportazioni non superiore a lire 1.026.506.040 in totale ed a lire 33,02 per abitante. Il traffico ferroviario da alcuni anni in diminuzione sui massimi che si erano raggiunti; cosicché il prodotto lordo per chilometro esercitato che nel 1883 era di lire 22.073 e nel 1890 ancora di lire 19.635, era scaduto a lire 17.346, causa non ultima del disastroso risultato delle convenzioni ferroviarie del 1885. Conseguenza finale di queste cattive condizioni della finanza pubblica e privata i consumi medi per abitante in diminuzione; il frumento da 123 kg nel 1884-85 a 121 nel 1891-95, il granturco da 76 kg a 59, il vino da litri 98 nel 1886-90 a 91 nel 1891-95, lo zucchero da kg 3,17 nel 1881-85 a 2,37 nel 1891-95, il caffè da kg 0,58 nel 1881-85 a 0,42 nel 1891-95 e persino i tabacchi da kg 0,591 nel 1884-86 a 0,506 nel 1891-96.

 

 

È noto il grido d’allarme con, il quale l’on. Sonnino chiudeva la sua lugubre esposizione finanziaria:

 

 

L’orizzonte è carico di nubi e la situazione si può davvero, senza esagerazione, dire grave … Occorre, con un’azione energica e virile, salvare il nostro paese dalla rovina economica e finanziaria che gli sovrasta. Urge anzitutto pareggiare il bilancio ed arrestarci risolutamente sulla via del progressivo indebitamento dello stato.

 

 

Il monito solenne non cadde nel vuoto. Per un decennio circa fu virtù grande degli uomini di stato italiani l’aver resistito alle tendenze di espansione grandiosa e l’aver ostinatamente mirato al pareggio delle finanze dello stato. Primo il ministero Crispi-Sonnino, con la riduzione forzata del frutto della rendita da lire 4,34 a lire 4 salvò l’Italia dal pericolo di dover scendere a patti coi suoi creditori, a guisa d’un debitore fallito; ed i portatori della rendita sopportarono la riduzione, mascherata sotto il nome d’aumento dell’imposta di ricchezza mobile, pensando che altre classi di contribuenti venivano assoggettate a pesi pure gravissimi, in causa dell’aumento – operatosi allora o nell’anno susseguente – dalle tasse di successione, del dazio sul grano, del dazio sugli zuccheri, della tassa sugli spiriti e dell’istituzione di nuovi balzelli sui fiammiferi, il gas, l’energia elettrica, il cotone greggio, ecc. ecc.

 

 

Tutti i ministeri venuti di poi contribuirono in qualche misura a promuovere il rifiorire della pubblica finanza; ma qui va ricordato specialmente, a cagion d’onore, Luigi Luzzatti, che nella esposizione finanziaria del 7 dicembre 1896 tracciava maestrevolmente la via da seguire e subito si poneva a percorrerla: porgere mano soccorrevole agli enti locali che in tanta parte d’Italia gemevano sotto il peso di debiti usurai e risanare la circolazione. Data da allora la istituzione della sezione speciale per il credito comunale e provinciale presso la Cassa depositi e prestiti, che tanto bene recò ai municipi della Sicilia e della Sardegna prima, ed a tutti i italiani poi; e datano da allora le nuove provvidenze approvate, in aggiunta a quelle del 1893, per restringere la circolazione esuberante dei banchi di emissione, favorire la liquidazione delle partite immobilizzate e salvare dall’ultima rovina il Banco di Napoli.

 

 

Troppo lungi andremmo se volessimo ricordare l’opera di tutti coloro che in questi anni di prudente aspettativa contribuirono alla ricostituzione finanziaria dello stato italiano. Forse essi andarono troppo più in là, di quanto fosse assolutamente necessario, nella repugnanza ad ogni spesa straordinaria, contrastando persino quelle opportune accensioni di debiti che erano consigliate per il mantenimento e l’accrescimento del nostro demanio ferroviario; fors’anco essi furono e sono troppo timidi nel fare quelle riduzioni dei tributi più gravosi che in pochi anni avrebbero dato, per il crescere dei consumi, frutti opimi al tesoro dello stato. Ma chi giudichi in complesso dovrà dar loro merito grandissimo per avere saputo resistere sino a pochi anni fa a quella tendenza irrefrenata all’aumento delle spese che è il tarlo roditore della finanza di tutti gli stati moderni e per aver saputo insegnare a tutti, contribuenti e funzionari, la virtù del sacrificio.

 

 

Oggi – di quell’opera prudente ed insieme dello spirito di sacrificio dei contribuenti italiani e delle energie grandissime di lavoro di un paese che nel 1894 pareva rovinato ed era invece soltanto in un momento di sosta sulla via del progresso, – si raccolgono i frutti. Lasciando il potere, il ministro del tesoro Luzzatti poteva a giusta ragione dire al successore Majorana che mai il tesoro italiano si era trovato in condizioni più prospere e che nel momento attuale nessun paese del mondo poteva vantare una situazione così sinceramente forte come la nostra.

 

 

Un fondo di cassa presunto al 30 giugno 1906 – secondo il bilancio d’assestamento – di quasi 442 milioni, il saldo debiti di tesoreria ridotto a 347 milioni, il saldo passivo del conto residui a 270 milioni, la consistenza ordinaria dei buoni del tesoro aggirantesi sui 170 milioni, con un margine di 130 milioni in confronto del massimo consentito dalle leggi; nessuna anticipazione dalle banche d’emissione. Il bilancio dello stato da alcuni anni rallegrato da imponenti avanzi delle entrate sulle spese effettive e ferroviarie: 65 milioni nel 1900-901, 65 nel 1901-902, 86 nel 1902-903, 49 nel 1903-904, 64 nel 1904-905 e probabilmente non meno di 25-30 milioni nel 1905-906, malgrado le straordinarie spese occorse per circostanze varie in quest’anno. Il consolidato italiano giunto a 105 nelle borse estere ed interne; l’aggio scomparso ed anzi sostituito spesso da un premio di 15-20 centesimi per cento della carta italiana sull’oro. Le banche di emissione quasi interamente risanate e rese atte ad adempiere all’altissima loro funzione di tutrici della circolazione monetaria e di regolatrici dei mercati.

 

 

Le partite immobilizzate della Banca d’Italia ridotte da 449 nel 1894 a 83 milioni il 30 aprile 1906, del Banco di Napoli da 167 ad 81 milioni, del Banco di Sicilia da 19,3 a 3,6 milioni. Il rapporto fra riserva metallica e circolazione giunto al 74,58%. Le società anonime aumentate nel 1903 di nuovo a 492 con un capitale nominale di lire 1.404.733.427 più una riserva di lire 122.205.289, ed il saggio medio dei loro profitti giunto al 5,33%. E dopo il 1903 parecchie centinaia di nuove società anonime si costituiscono e portano il capitale nominale in azioni dell’Italia a più di 2 miliardi e mezzo ed il valore di borsa a 4 miliardi circa. Il commercio coll’estero a poco a poco da 2 miliardi nel 1894 sale ai 3 miliardi e mezzo nel 1905. Il consumo del frumento in rialzo da 121 (punto a cui l’avevamo lasciato) a 146 kg a testa, del granoturco da 59 a 72 kg, del vino da 91 a 125 litri, dello zucchero da kg 2,47 a 3,29, del caffè da kg 0,42 a 0,54; mentre il consumo del tabacco ribassava bensì da kg 0,506 a kg 0,489, dopo essersi ridotto nel 1897-98 ancor più in basso a 0,468; ma in compenso i prezzi erano stati rialzati e le qualità consumate a preferenza erano divenute più fini e più care.

 

 

Di questa rifiorente condizione economica d’Italia il frutto più splendido è oggi la annunciata conversione della rendita dal 4 per cento netto al 3,75% per cinque anni e al 3,50 dopo. Con questa grande conversione noi non imitiamo soltanto le maggiori nazioni straniere, che nel secolo XIX ci precedettero su questa via gloriosa; ma ci riattacchiamo alle nobili tradizioni italiane del secolo XVIII. In questo momento non è forse inutile ricordare che nel 1753 la Repubblica di Venezia e nel 1763 Carlo Emanuele III re di Sardegna convertirono il loro debito pubblico dal 4,5 e dal 4% al 3,5%. Dopo un secolo e mezzo noi ripigliamo l’avita tradizione. Auguriamo all’Italia che i suoi governanti non indulgano al vizio di sperperare i frutti della conversione in piccoli favori di cresciuti stipendi ed in aumenti di spese inutili; ma sappiano volgerli – con un piano meditato di prudenti e forti riforme tributarie e sociali – a pro dell’economia italiana. Dopo essere stati i contribuenti più pazienti del mondo – ricordiamo le parole del più valido propugnatore e cooperatore della conversione, Luigi Luzzatti, al quale va ora la riconoscenza della nazione – i contribuenti italiani hanno oggi il diritto di cominciare ad ottenere il guiderdone di quelle virtù che salvarono l’Italia.

 

 

II

La nota più spiccata della conversione odierna della rendita italiana è che essa vien fatta in due tempi: le cedolette del primo luglio 1906 e primo gennaio 1907 saranno pagate ancora al tasso antico del 4%; quelle dal primo luglio 1907 fino al gennaio 1912 in ragione del 3 75%; e solo quelle a partire del primo luglio 1912 saran pagate in ragione del 3,50%.

 

 

L’idea di addolcire il passaggio dal vecchio al nuovo saggio d’interesse con una sosta intermedia di parecchi anni non è nuova; e anzi si può dire sia stata la regola seguita sempre dai finanzieri inglesi, a cominciare dalla conversione del 1750 con cui si ridusse per un capitale di 1 miliardo di lire italiane l’interesse dal 4 al 3,5% dal 1751 al 1757; e dal 3,5 al 3% dal 1758 in poi; a venire alla conversione del 1844 per 6 miliardi e 218 milioni di lire italiane dal 3,5 al 3,25% subito ed al 3% dopo dieci anni; sino alla più colossale conversione dei tempi moderni, quella di 14 miliardi di lire italiane effettuata dal Goschen nel 1888 dal 3 al 2,75% subito ed al 2,5 dopo 14 anni e cioè dal primo aprile 1903.

 

 

La conversione in due tempi presenta, insieme con alcuni inconvenienti, pregi notevoli; e qui procureremo di chiarire gli uni e gli altri. È un inconveniente della riduzione in due tempi questo: che il tesoro avrà per cinque esercizi, dal 1907-908 al 1911-12, un’economia di soli 20 milioni circa l’anno; e solo a partire dal 1912-13 otterrà l’economia degli altri 20 milioni. Ora, se 40 milioni l’anno di margine nel bilancio sono vistosi e possono permettere di tentare con sicurezza una ardita riforma tributaria; l’economia di soli 20 milioni nel 1907-908 rischierà di venire smarrita in piccoli aumenti di spese o in ritocchi parziali di scarsa utilità; e lo stesso potrà accadere dei 20 milioni del 1912-13. L’inconveniente non è però assoluto; e, dipendendo dalla saviezza dei governanti, è da augurare e da chiedere fermamente che alla riduzione scalare degli oneri del debito pubblico si accompagni una riduzione scalare, preordinata sin d’ora, dei tributi più gravosi e più irrazionalmente alti, come sarebbero i dazi sul petrolio, sullo zucchero e sul grano o l’imposta sul sale. Il parlamento italiano, che ha dimostrato tanto slancio patriottico nell’approvare la conversione, sappia trattenersi sulla ripida china dello sperpero dei frutti della conversione in cose meno urgenti del concedere sollievo ai contribuenti. Qui si parrà anche l’abilità del governo; e come l’on. Majorana fu rapido nel dar seguito al piano maturato dal Luzzatti, sia rapido nell’incitare il suo collega delle finanze a proporre gli opportuni sgravi tributari, prima che si risveglino gli appetiti stimolati dai benefici della conversione.

 

 

Un altro inconveniente della riduzione in due tempi è il seguente. Oggi il consolidato 5 per cento lordo è intorno al 105 e di poco gli è inferiore il 3,5%. Si può prevedere che il nuovo 3,75% si terrà anch’esso di qualche lira superiore alla pari; cosicché la conversione si sarà compiuta senza scosse sensibili nelle borse e nella valutazione delle fortune private. Ma nel 1912, quando avrà luogo la riduzione dal 3,75 al 3,5% potrà darsi che la situazione monetaria sia mutata ed il costo del danaro cresciuto, aggirandosi, ad esempio, sul 3,75%. La riduzione automatica della rendita dal 3,75 al 3,5 potrà quindi ridurre il valore capitale del nuovo titolo in borsa al disotto della pari, con danno del credito italiano. È ciò che successe al consolidato inglese convertito, come dicemmo sopra, nel 1888 dal 3 al 2,75% subito e al 2,5 dopo 14 anni. Nel 1888 erano buone le condizioni del tesoro e del mercato, ed il titolo 2,75% mantenne i corsi del vecchio 3%; ma nel 1903, quando il 2,75 fu ridotto al 2,5%, la guerra del Transvaal aveva scosso il consolidato inglese, ed il nuovo 2,5% fu quotato appena 86 lire, ed oggi si aggira sulle 90 lire, tenendosi considerevolmente al disotto della pari.

 

 

Senonché l’obiezione non è decisiva. È vero che nel 1903 il consolidato inglese 2,5% fu quotato al disotto della pari; ma è anche vero che non vi è modo di impedire che una guerra prolungata e costosa deprima il credito pubblico di uno stato. Lasciando da parte gli avvenimenti internazionali, su cui non abbiamo presa, sarà compito dei governanti di amministrare la cosa pubblica per modo che la finanza italiana sia nel 1912 prospera così come è oggi e la riduzione al 3,5% possa operarsi senza scosse. In ogni caso lo stato direttamente non avrà a rimetterci nulla, anche se il corso del 3,5% avesse a discendere di qualche punto al disotto della pari; poiché la conversione è perfetta sin dal momento attuale; ed il danno sarà dei portatori di rendita, per i quali, del resto, le variazioni dei corsi del consolidato non sono una novità. Lo stato, se vorrà contrarre nel 1912 un prestito e se il corso del 3,5 sarà al disotto della pari, potrà sempre emettere dei titoli al 4 od al 3,75% alla pari.

 

 

La conversione in due tempi ha il pregio massimo di non scontentare troppo i portatori di rendita; e facilitare in tal guisa l’operazione grandiosa. È d’uopo tener presente che la buona riuscita di una conversione dipende anche, in non piccola parte, da fattori psicologici. Bisogna che i portatori di rendita siano convinti di non poter altrimenti impiegare in modo migliore i propri capitali; e se essi potevano, di fronte ad una immediata conversione al 3,5%, restare in dubbio, non vorranno darsi tanta briga solo per una diminuzione immediata di 25 centesimi per ogni cento lire del loro capitale. Quanto all’ulteriore riduzione al 3,50% da verificarsi nel 1912, oggi probabilmente penseranno che allora il saggio dell’interesse per gli altri impieghi sul mercato potrà essere ancora diminuito; e che dopo tutto la sicurezza di avere il reddito fisso del 3,50% dal 1912 al 1920 è una prospettiva abbastanza buona. Nel che nessuna persona ragionevole saprebbe dar loro torto, se si pensi alla discesa progressiva nel saggio dell’interesse.

 

 

Tutti gli stati usano dare un premio ai portatori di rendita al momento della conversione, quasi per indorare l’amara pillola.

 

 

Nel 1902 il signor Rouvier convertì bensì 6.790 milioni di rendita 5,5 in 3% – senza passare per l’intermezzo del 3,25% – ma diede ai portatori un premio per una volta tanto di franchi 1,62 per ogni 100 lire di capitale, aumentando di 68 milioni il debito pubblico. Tra due sistemi, quello Rouvier di dare subito un premio di lire 1,62%, e quello Luzzatti – Majorana di dare un premio di 25 centesimi l’anno per cinque anni, preferiamo il secondo, perché il sacrificio sopportato dallo stato è in tutto appena di lire 1,25, le quali, invece di aumentare il capitale del debito, come si fece in Francia, sono prelevate sulle entrate del bilancio. In Francia il signor Rouvier ebbe ragione di accendere un debito per pagare il premio di lire 1,62, avendo egli bisogno subito del vantaggio di 33 milioni l’anno derivante dalla conversione per colmare il disavanzo del bilancio. Noi, con un bilancio florido ed in notevole avanzo, possiamo per 5 anni rinunciare ad un maggior risparmio di 20 milioni di lire all’anno, pur di assicurare la riuscita della conversione. Forse se noi avessimo pagato subito un premio di lire 1,25 e ridotto senz’altro l’interesse al 3,5%, la conversione sarebbe riuscita lo stesso, perché i portatori di rendita si sarebbero compiaciuti nell’incassare il premio; ma era da temersi che, incasssato il premio, taluni vendessero il titolo 3,5% in borsa, determinando un ribasso spiacevole in un momento in cui l’Italia ha bisogno di dar mostra, agli occhi del mondo, della sua forza finanziaria. Col sistema adottato, costoro conserveranno la rendita per lucrare i 25 centesimi di maggior reddito per 5 anni; e nel 1912 altri fatti probabilmente saranno intervenuti per indurli a conservare ancora il 3,50%.

 

 

Un’altra nota simpatica della conversione odierna è che il capitale del debito, come non aumenta per dare un premio ai portatori della rendita, così neppure cresce per le spese inerenti alla grandiosa operazione: commissioni ai gruppi bancari garanti, spese di allestimento del nuovo titolo, rinnovazione dei bolli all’interno ed all’estero, interessi sui capitali di cui si chiederà il rimborso. Tutte queste spese si faranno con mezzi ordinari di tesoreria, utilizzando gli avanzi di bilancio dell’esercizio 1906-1907, in guisa da non lasciar nessuno strascico per l’avvenire.

 

 

Su un ultimo carattere della conversione vogliamo fermarci un momento: quello per cui essa sarà integrale e non comporterà eccezioni di sorta. Il ministro Majorana, rispondendo all’on. Agnini, che domandava al governo di tutelare il patrimonio delle opere pie investito in rendita dal 15 luglio 1903 in poi, rispose che la conversione odierna è per tutti, e non v’è, né poteva esservi eccezione. Gli enti i quali si ritenessero danneggiati, poter dimandare la trasformazione dei loro investimenti.

 

 

Per comprendere l’importanza del rilievo fatto dall’on. Agnini e che vediamo ripreso da parecchi giornali, è mestieri ricordare quale sia la composizione del nostro debito consolidato 5 e 4%. Secondo alcuni dati che troviamo riportati dal De Johannis[5] il consolidato 5% sarebbe così distribuito:

 

 

Rendita al portatore

all’estero

L. 700.000.000

all’interno:
Casse di risparmio

255.000.000

Istituti di credito ordinario

236.000.000

Società di assicurazioni

52.000.000

Privati

2.804.000.000

L. 4.047.000.000

L. 4.047.000.000

Rendita nominativa

Libera

2.432.080.000

Vincolata dai privati

956.348.000

Vincolata da comuni, provincie, opere pie ecc.

61.885.000

Vincolata a favore dello stato

491.986.000

L. 3.942.299.000

L. 3.942.299.000

L. 7.989.299.000

 

 

Qualche variazione deve essere intervenuta in seguito, ma di poco conto; e se a questa cifra aggiungiamo la rendita al 4%, pur essa convertita, giungiamo al totale del debito da convertire in 8 miliardi e 191 milioni di lire.

 

 

L’obiezione dell’on. Agnini voleva in sostanza dire; vi sono opere pie, le quali hanno dovuto investire i loro capitali in rendita 4%. La riduzione al 3,75 ed al 3,50 li metterà nella impossibilità di adempiere in tutto ai loro fini caritatevoli; e ciò per colpa delle leggi che hanno loro prescritto una determinata forma di investimento. Senonché l’obiezione – pure rispondente a sentimenti di umanità – urta contro parecchi ostacoli. Non sono le opere pie soltanto che saranno danneggiate da una conversione che di fatto per essi è forzata; anche le diverse amministrazioni dello stato (fondo per il culto, cassa depositi e prestiti, ecc.), che ne posseggono per quasi mezzo miliardo; ma anche i privati che, per una ragione o per l’altra, hanno i loro capitali vincolati in rendita per quasi un miliardo. Vi sono infine altri enti o privati i quali potrebbero invocare ragioni di umanità o di interesse pubblico per esimersi dalla conversione. Aperta la breccia, molti vi sarebbero passati; e la conversione avrebbe finito di fruttare allo stato non più 20 e 40 milioni all’anno; ma appena 15 e 30. Lo stato non può del resto garantire in perpetuo a nessuno – nemmeno agli enti di beneficenza – un interesse fisso dei capitali. L’investimento in rendita pubblica fu imposto, per ragioni che oggi forse non esistono più in tutti i casi, ma erano indipendenti dal saggio dell’interesse; il quale si sa essere soggetto alle vicende del mercato. Non si può imporre in perpetuo ai contribuenti l’onere di pagare il 4% sui capitali presi a prestito dallo stato, quando è possibile pagare solo il 3,50%; ed è naturale che si scindano i due fatti del pagamento dell’interesse sul debito pubblico – che deve essere uguale per tutti e conforme all’interesse corrente -; e la opportunità di aiutare le opere pie e gli enti che per una ragione o per l’altra (fra cui la conversione) possono trovarsi a disagio. Potrà magari lo stato, in sede di bilancio del ministero degli interni, provvedere a maggiori assegni per l’assistenza pubblica, quando ciò sia richiesto da doverose esigenze caritatevoli, in conformità alle leggi che regolano la materia. Il sussidio dovrà essere dato caso per caso, a ragione veduta, e non sotto la forma generica di una garanzia perpetua del 4% d’interesse. Nessun capitale in qualunque forma investito si sottrae alla legge naturale della decrescenza del saggio dell’interesse; o perché dovrebbe sottrarvisi il capitale investito in cartelle del debito pubblico?

 

 

III

Parecchi ufficiali ci scrivono manifestando le loro preoccupazioni a proposito della conversione della rendita. Procuriamo di rispondere partitamente ai loro dubbi.

 

 

La conversione è stata giustamente estesa alle rendite possedute dagli ufficiali col vincolo derivante dal matrimonio? Come è noto gli ufficiali, per ottenere il regio assentimento al matrimonio, devono provare di possedere una rendita annua di 4.000 lire, cumulativamente tra lo stipendio al lordo, compresi i sessenni ed una rendita lorda assicurata con vincolo ipotecario a favore della futura sposa e della prole nascitura sul debito pubblico consolidato o sopra beni stabili ovvero assicurata su titoli garantiti dallo stato.

 

 

Il reddito annuo è ridotto a 3.000 lire in certi casi speciali, come per gli ufficiali che abbiano superato i 40 anni di età. Facendo un esempio generale, un ufficiale che abbia un reddito lordo di 2.500 lire, deve dimostrare di possedere inoltre una rendita di 1.500 lire, la quale può essere anche la dote della moglie ecc., investita in stabili, in titoli garantiti dallo stato o in titoli di debito pubblico consolidato. Se quest’ultimo era il caso, la rendita da 1.500 lire in consolidato 5% lordo per il fatto della conversione diminuisce a 1.125 lire dal primo luglio 1907 al primo gennaio 1912 ed a 1050 lire dal primo luglio 1912 in poi.

 

 

Nessun dubbio che la conversione sia stata giustamente estesa anche al caso ora detto. Se lo stato avesse esentato gli ufficiali dalla conversione, avrebbe ad essi garantito, a spese dei contribuenti, un reddito del 4% che non è più consentito dalle condizioni del mercato. La riduzione può essere dolorosa per molte famiglie di ufficiali; ma è anche dolorosa per molte altre modeste famiglie borghesi; né di ciò lo stato poteva preoccuparsi.

 

 

Dicono gli ufficiali: noi siamo nella assoluta impossibilità di chiedere il rimborso della rendita 5% per il vincolo che ce lo impedisce. Perciò troviamo giusto che disposizioni di regolamento od, occorrendo, di legge, agevolino agli ufficiali la trasformazione della loro rendita in beni stabili od in altri titoli garantiti dallo stato. Dubitiamo però, per le cose che andiamo a dire, che molti abbiano a giovarsi della facoltà. Impieghi immobiliari che rendono con tutta sicurezza e senza fastidi più del 3,75 difficilmente si trovano e i titoli garantiti dallo stato rendono quasi tutti di meno.

 

 

La conversione avrà per conseguenza di obbligare gli ufficiali già ammogliati a completare di nuovo la loro rendita sino a 4.000 lire? è questo il timore più forte dei nostri corrispondenti. L’ufficiale che aveva 2.500 lire di stipendio più 1.500 lire di consolidato 5% avrà il primo luglio 1907 solo 2.500 lire di stipendio più lire 1.125 di rendita 3,75% ed al primo luglio 1912 2.500 lire di stipendio più 1.050 lire di rendita 3,50%.

 

 

Gli mancheranno prima 375 lire e poi 450 lire a raggiungere le 4.000 lorde richieste dalla legge. Dovrà egli comprare 375 lire di altra rendita 3,75% per completare le 4.000 lire? Sarebbe per molti impossibile disporre di 10.000 lire, quante occorrono per comprare 375 lire di rendita; donde conseguenze facilmente immaginabili.

 

 

Noi crediamo però che il timore sia infondato. L’articolo 2 della legge 24 dicembre 1896 dice: «Non può ottenere il regio assentimento l’ufficiale che non abbia provato di possedere un reddito annuo di lire 4000, ecc …» Gli ufficiali già ammogliati questa prova l’hanno già data ed hanno già ottenuto il regio assenso al matrimonio. La legge della conversione non può avere l’effetto retroattivo di costringere gli ufficiali a provare una seconda volta l’esistenza del reddito, ed a chiedere, quasi diremmo, un secondo assenso. Una legge di finanza non può distruggere la carriera degli ufficiali, basata su atti validissimi del potere esecutivo.

 

 

La questione si presenta diversamente per gli ufficiali che contrarranno matrimonio in avvenire. Fin adesso bastava, per chi avesse uno stipendio di 2.500 lire, possedere una rendita di 1.500 lire al 5% lordo, ossia un capitale di lire 30.000. Adesso, siccome il nuovo 3,75 è esente da imposte, per avere 1.500 lire di rendita bisognerà possedere 40.000 lire circa di capitale, ed anzi, a partire dal primo luglio 1912, circa 43.000 lire. È un nuovo ostacolo impreveduto posto al matrimonio degli ufficiali. Sarebbe equo si adottasse un qualche temperamento. Poiché la legge del 1896 ammetteva che per arrivare alle 4.000 lire si calcolassero le rendite al lordo dell’imposta di ricchezza mobile, e così si reputava che per avere un reddito di 1.500 lire bastasse una rendita netta di appena 1.200 lire; si calcoli anche ora quale reddito lordo corrisponderebbe a quello netto di lire 3,75 e lire 3,50, se il nuovo consolidato non fosse esente dall’imposta di ricchezza mobile; e si tenga conto dell’ipotetico reddito lordo e non del reddito netto. Se si fa il conto, lire 3,75 nette, coll’imposta al 20%, corrispondono a lire 4,6875 lorde; e lire 3,50 a lire 4,375; cosicché il capitale richiesto verrebbe, per il nostro ufficiale con 2.500 lire di stipendio, ad essere di 34.090 lire subito e 34.300 circa dopo il 1912. Certo è qualcosa di più d’adesso; ma, ripetiamo, in quale maniera sottrarsi alle leggi inesorabili della diminuzione del saggio dell’interesse? L’importante si è di non peggiorare la situazione attuale artificiosamente, richiedendo 1.500 lire nette, mentre ne bastano 1.500 lire lorde; ed il temperamento da noi proposto condurrebbe a richiedere 1.500 lire lorde anche in futuro, calcolate al nuovo saggio di interesse.

 

 

IV.

La conversione a mala pena è compiuta, che già da parecchie parti si avanzano richieste e si affacciano diritti, i quali, ove fossero accolti e riconosciuti validi, ne metterebbero in forse i risultati benefici per lo stato. Dopo le timide parole pronunciate dall’on. Agnini a pro delle opere pie, nella seduta memoranda in cui fu annunciata alla camera la conversione, sono venuti gli ufficiali, i quali si lagnano di non aver avuto libertà di accettare o respingere in tempo la conversione per le doti investite in rendita pubblica; ed alle lagnanze si associano tutte le persone e gli enti che hanno capitali vincolati. Sovratutto cominciano ad agitarsi gli investiti di benefizi parrocchiali e di cappellanie, le fabbricerie, i seminari, i capitoli cattedrali, le mense vescovili, le opere di esercizi spirituali per il clero e tutte le opere di culto in generale. La questione è assai interessante, sia dal punto di vista giuridico, sia per la massa di interessi religiosi e di stato che alla sua soluzione si collega.

 

 

Due sono in sostanza le argomentazioni con le quali si vorrebbe provare che certi enti non debbono sottostare alle conseguenze della conversione. La prima si è che quegli enti o persone non hanno la facoltà di chiedere il rimborso o non hanno potuto quella facoltà esercitare nel breve periodo dei sei giorni accordati dalla legge di conversione. In questo secondo caso debbono essere noverati gli ufficiali, i quali certo non potevano in così breve tempo compiere tutte le formalità legali per mutare l’investimento dei capitali dotali. Nel primo caso – ossia nella impossibilità assoluta di chiedere il rimborso – si trovano i benefizi ecclesiastici, a cui la legge del 7 luglio 1866 ha imposto la conversione dei loro beni ad opera dello stato, in rendita pubblica 5%. Ora, argomentano i loro patroni, è evidente che la offerta di rimborsare il capitale in 100 lire per chi non voglia contentarsi del reddito del 3,75% può essere fatta solo a chi abbia il diritto di accettare il rimborso; ed i titolari dei benefizi ecclesiastici, che quella facoltà non hanno, possono citare in tribunale lo stato a sentirsi condannato al pagamento dell’antica rendita 5% (proposta del marchese Crispolti sull’ «Avvenire d’Italia» e sull’ «Osservatore romano»).

 

 

Noi crediamo che i titolari dei benefizi ecclesiastici non vorranno mettersi allo sbaraglio di una lite mossa allo stato su tanto fragili basi. Chi ha proposto di seguire questa via, ha dimenticato che la conversione del debito pubblico riposa su un principio incontroverso di diritto pubblico finanziario: che lo stato non possa, salvo in casi espressi e per ragioni gravissime, rinunciare al diritto di convertibilità del proprio debito. Può lo stato talvolta rinunciare nel proprio interesse a questo diritto; ma, laddove non vi sia l’espressa eccezione, la facoltà del rimborso è sempre implicitamente ammessa. Altrimenti si verrebbe all’assurdo, che lo stato debba per secoli continuare a pagare un interesse che è superiore al saggio corrente sul mercato, con lesione manifesta della massa dei contribuenti. Ma, si osserva, il diritto dello stato di rimborsare i capitali a coloro che non accettano la conversione, trova un ostacolo nel fatto che vi son persone fisiche o enti morali i quali, neanche se lo volessero, potrebbero chiedere il rimborso dei loro capitali. L’obiezione è forte; ma non si risolve negando il diritto dello stato, sibbene studiando i motivi per i quali è negata ai privati la facoltà di chiedere il rimborso. Se si tratta di ufficiali per le doti o di contabili per le cauzioni prestate in rendita pubblica, non essendovi motivi di indole pubblica che impongano l’impiego in rendita dello stato, e non essendo d’altronde proibita la trasformazione degli investimenti, tutto consiglia – già lo dicemmo altra volta – a facilitare, per coloro che ne mostrino il desiderio, il mutamento dell’impiego dalla rendita in altri titoli od in terre o in case. Di questa facoltà – che già esiste – ben raramente si gioveranno gli interessati; ma giova rendere facile il servirsene, per evitare anche il sospetto che si sia voluto esercitare una coazione. Coloro i quali vorranno giovarsi di questa facoltà, otterranno il rimborso dei loro capitali investiti in rendita nel modo con cui l’ottennero i nove decimi delle persone sensate che non vollero sapere della conversione: vendendo i titoli in borsa.

 

 

Se invece si tratta di enti ecclesiastici, noi ci troviamo di fronte a un tutt’altro ordine d’idee. Lo stato imponendo colla legge del 1866 di soppressione delle corporazioni religiose la trasformazione dei beni di qualunque specie degli enti ecclesiastici conservati in rendita pubblica 5%, ha obbedito ad un concetto economico-sociale, che potrà da taluni essere discusso, ma che forma il principio informatore della nostra legislazione: impedire che si mantenesse la manomorta ecclesiastica, considerata, per parecchi motivi, che qui non mette conto riferire, dannosa al progresso economico. Si volle fare entrare nella circolazione una grande massa di beni che da secoli v’era sottratta; e siccome non si volevano spogliare gli enti ecclesiastici che ne erano proprietari, si indennizzarono con l’iscrizione di una rendita a debito dello stato. Anche questa è una manomorta; ma non produce effetti sociali perniciosi.

 

 

Ecco dunque il succo della questione: da un lato lo stato che non può rinunciare mai al diritto di rimborso del suo debito; dall’altra gli enti ecclesiastici, a cui, per ragioni politico – economiche, la legge impone lo investimento in titoli di debito pubblico soggetti a rimborso e quindi a conversione. A noi pare che qui tutto cospiri alla conclusione che gli enti ecclesiastici non possono sottrarsi alla conversione. È vero che essi non hanno libertà di chiedere il rimborso; ma non l’hanno perché alla loro si è sostituita la volontà della legge, la quale impone una determinata forma d’impiego – rendita pubblica – con tutte le conseguenze che dessa comporta: tributo di ricchezza mobile prima, conversione adesso. La nazione la quale poteva sopprimere senz’altro cotesti enti ecclesiastici, invece li ha conservati, obbligandoli ad una forma d’impiego dei loro capitali, soggetta a tutte le alee dipendenti dall’avversa o prospera situazione delle finanze pubbliche.

 

 

Qui non si fermano però gli oppositori della conversione, i quali soggiungono – secondo capitale argomento -: lo stato ha convertito ad opera sua i beni degli enti ecclesiastici in una rendita 5% uguale alla rendita accertata dei beni di cui esso si è impadronito in virtù della legge del 7 luglio 1866. Ciò che lo stato deve pagare non è l’interesse di un capitale investito in titoli di debito pubblico; è invece una rendita uguale a quella che gli enti possedevano in terre, case, ecc., prima del 1866. Che questa rendita sia stata inscritta sul gran libro del debito pubblico è un accessorio; risalendo all’origine di questa iscrizione si vede che lo stato ha promesso di pagare una somma uguale al reddito dei beni incamerati.

 

 

Anche a non volere notare che i quarant’anni decorsi dal 1866 sembrano sufficienti a togliere valore a questi ricordi storici ed a radicare, nelle iscrizioni di rendita 5% a favore di enti ecclesiastici, la natura di veri e propri titoli di debito pubblico, è ovvio l’osservare, che lo stato iscrisse nel 1866 una rendita 5% perché questo era il tipo di consolidato allora accolto; ma non pretese certo e non poteva pretendere di assicurare in perpetuo una rendita immutabile ai nuovi suoi creditori. La immutabilità del reddito non c’era quando i patrimoni degli enti ecclesiastici erano investiti in terreni, o in case, o in mutui; o perché mai sarebbe stata acquisita dopo per il solo fatto dell’investimento obbligatorio in rendita pubblica? Una legge, come quella del 1866, che non era certo di favore per quegli enti, si convertirebbe adesso in una legge di singolare privilegio, il che non è ammissibile. Gli investiti di benefizi ecclesiastici si lagnino – lagnanza oramai inutile – della legge del 1866; ma non di quella del 1906, che ne è la conseguenza implicita.

 

 

In fondo a tutta questa agitazione contro gli effetti della conversione sta un sentimento naturale, del quale però non spetta né a noi, né allo stato di farsi i sollecitatori: il sentimento di disagio in che si vengono a trovare i piccoli e medi redditi per fatto della conversione. I privati reagiscono contro la diminuzione del reddito, intensificando il loro lavoro, e cercando impieghi più produttivi del capitale. Gli investiti di benefizi ecclesiastici non possono fare altrettanto. Il Crispolti narra che la media dotazione dei canonici è di 600-650 lire e discende talvolta a 100 e persino 50 lire annue. Non è una situazione allegra codesta sicuramente; ma è da reputare che anche qui dal male nascerà il bene. Non sarà la conversione una spinta – la quale andrebbe secondata dal governo – affinché la Santa sede a poco a poco riduca il numero dei benefizi ecclesiastici e – facendo così agli investiti una situazione più decorosa – promuova l’elevazione materiale ed intellettuale del clero in Italia?

 

 

V.

L’Italia si trova in questo momento in un imbarazzo che di solito affligge soltanto i gran signori: cosa deve fare dei 20 milioni che la conversione della rendita frutterà l’anno venturo e dei 40 che darà tra cinque anni? Purtroppo però l’Italia non è nella medesima situazione di un gran signore che si trova imbarazzato nella scelta tra diversi capricci e divertimenti; ma piuttosto in quella di un lavoratore, ancora affaticato dal soverchio lavoro, il quale non sa se debba dedicare una sua maggiore attuale ampiezza di reddito a diminuire alquanto le ore eccessive di sua fatica od a cibarsi e vestirsi un po’ meglio, Attorno all’Italia stanno quindi molti consiglieri e medici; e tutti le consigliano un rimedio diverso. Procuriamo di riassumere questi consigli in un rapido quadro, prima di far la scelta.

 

 

I servizi pubblici in Italia sono insufficientemente dotati; e non rendono quanto i cittadini legittimamente debbono aspettarsi dai loro sacrifici finanziari.

 

 

Mentre la vita dello stato è vigorosa – scriveva qualche giorno fa la «Tribuna» – mentre la vita della nazione è in un periodo di magnifico rigoglio, gli organi primi, gli organi essenziali e fondamentali di questa vita sono in una condizione di assoluta anemia. Nessun ramo dei pubblici servizi va eccettuato: impianti ferroviari, materiale rotabile; strade ordinarie, porti, canali, bonifiche; materiale, locali e personale per le poste, i telegrafi, i telefoni; aule per la giustizia; edifizi e sovvenzioni per le scuole… insomma non vi è un solo dei servizi pubblici adeguato ai bisogni del paese. Questo lavora, produce, si muove e si agita; ma ad ogni passo si sente inceppato, paralizzato, asfissiato dall’insufficienza dei suoi apparati motori e respiratori.

 

 

Osservazioni in gran parte giuste; ma che non conducono ancora alla conseguenza che nel migliorare tutte queste cose debbano impiegarsi i milioni della conversione. O si parla invero di deficienze nelle industrie di carattere pubblico esercitate dallo stato: ferrovie, poste, telegrafi e telefoni; ed il servizio stesso deve provvedere ai propri bisogni. Se ai dirigenti le ferrovie di stato, ad esempio, si concede di provvedere normalmente – salvo i bisogni straordinari del momento a cui si è provveduto e si provvede con mezzi straordinari – all’incremento dei servizi con prestiti in obbligazioni ammortizzabili e garantite sull’aumento dei prodotti, è da credere che quei dirigenti si debbano dimostrare contenti. Lo stesso per i telegrafi, telefoni, ecc. Nelle industrie riproduttive, l’aumento annuo dei prodotti è sufficiente a permettere, come in ogni industria privata, le spese in conto capitale e in conto esercizio che valgono a stimolare ulteriormente i traffici. Occorrono, s’intende, buona direzione, ed audacia previdente.

 

 

Ai fondi del tesoro è necessario ricorrere solo per i servizi pubblici che non sono riproduttivi finanziariamente: esercito, marina, giustizia, scuole, bonifiche, strade, ecc. ecc. Anche per questi servizi va fatta però una fondamentale distinzione tra il significato che la opinione pubblica dà alla frase «miglioramento dei pubblici servizi» e il significato corrente in una certa sfera dell’amministrazione. L’opinione pubblica desidera che i servizi pubblici siano meglio organizzati, ottengano il massimo risultato col minimo di spesa. Ad essa non importa tanto, ad esempio, che i marinai siano 25 o 26.000, quanto che essi siano bene addestrati, ben disciplinati, al comando di ottimi ufficiali, imbarcati su navi potenti e perfette. Per molti appartenenti alla burocrazia, il miglioramento dei pubblici servizi vuol dire invece semplicemente: «aumento del numero e dello stipendio degli impiegati». Quando i due scopi sono raggiunti, e sono per la burocrazia inscindibili – perché l’aumento del numero serve a crescere i posti meglio retribuiti e l’aumento degli stipendi innalza il livello della classe intera – il miglioramento dei servizi è cosa fatta e non v’è più da occuparsi d’altro. Chi si occupa più della riforma della scuola media oggi che i professori hanno ottenuto i desiderati aumenti di stipendio? Una commissione reale, la quale studia e studierà per molti anni ancora, con relative medaglie di presenza.

 

 

Ad impiegare nel miglioramento dei servizi pubblici inteso in questo secondo modo – aumento del numero e dello stipendio degli impiegati – i proventi della conversione, noi crediamo che ci si debba opporre risolutamente. A soddisfare gli appetiti dei reclamanti, non basterebbero né 20, né 40, né 100 milioni, e dopo averli spesi, non si sarebbe ottenuto alcun risultato tangibile. Il miglioramento dei pubblici servizi non deve essere disposto per gli impiegati ma per il pubblico; e solo in quanto il pubblico possa esser meglio servito, si debbono migliorare le sorti degli impiegati.

 

 

Sorge una domanda: il miglioramento intrinseco e sostanziale dei pubblici servizi richiede sempre un aumento di spesa? O non si dovrà cominciare a spendere meglio la somma che si spende adesso, salvo ad aumentare gli stanziamenti quando essi si dimostrino assolutamente insufficienti? Chi deve essere giudice della spesa: la burocrazia, il cui giudizio spesso è viziato, od i politici? Poniamo le domande, senza per ora risolverle.

 

 

Vi sono altri i quali dicono: la cosa più urgente nel momento odierno non è di spendere i milioni della conversione; ma di non tirarli più fuori dalle tasche dei contribuenti, dove darebbero molto maggior frutto che nelle casse dello stato. Non dimentichiamo che il vero eroe della conversione è il contribuente italiano, il quale per quarant’anni ha seguitato a pagare senza lamentarsi alte imposte, che non hanno riscontro in nessun paese del mondo. Al contribuente da anni ed anni si andava dicendo che non era possibile concedere alcuna sensibile diminuzione d’imposte per non compromettere la solidità del bilancio e con essa la conversione della rendita; ed ora che questa è un fatto compiuto, quei milioni, che sono suoi, indubbiamente suoi, perché egli li ha versati nelle casse dello stato, si vorrebbero togliere al contribuente, per darli a Tizio ed a Caio col pretesto dell’aumento dei servizi pubblici? Un così inaudito mancamento alla parola data sarebbe incomportabile e dovrebbe provocare una viva reazione nel paese. Si aggiunga che l’Italia ha progredito assai negli ultimi anni; ma a guisa di uomo che salga un’erta ripida colla schiena ricurva sotto un pesantissimo fardello. Diminuite l’onere tributario che grava sulle spalle del lavoratore, dell’industriale italiano; e voi lo vedrete guadagnare la cima dell’erta in tempo e con fatica assai minore.

 

 

Questo dicono i fautori degli sgravi tributari ed hanno ragione. Senonché essi si dividono subito nella scelta dei tributi da diminuire. Alcuni – la vecchia guardia memore delle battaglie fervide di un giorno – preferisce ridurre il prezzo del sale. Altri osserva che la diminuzione di 10 centesimi sul sale assorbirebbe quasi tutto il vantaggio attuale della conversione e riuscirebbe quasi indifferente ai consumatori; ed addita il petrolio, il cui tributo opportunamente dovrebbe ridursi alla metà o ad un quarto con immenso vantaggio dei consumatori poveri e dell’industria. Vi sono poi i fautori della riduzione del dazio sul grano, dei tributi sullo zucchero; mentre altri ancora vorrebbero condonar qualcosa su tutti i principali consumi. Gioverà discutere partitamente le proposte; ma fin d’ora sembra opportuno stabilire un caposaldo: che gli sgravi non debbano essere fine a se stessi, e debbano possibilmente giovare ad una espansione notevole dei consumi che risarcisca la finanza della perdita del reddito e dimostri come gli sgravi abbiano avuto la virtù di recare un vero beneficio all’industria ed ai consumatori. L’aumento dei consumi, provocando un aumento delle entrate erariali, creerà in cinque anni, ad esempio, una nuova disponibilità di bilancio che unita agli altri 20 milioni della conversione permetterà nuovi e maggiori riduzioni di tributi. Non bisogna mai dimenticare che noi non solo paghiamo troppo, ma paghiamo male in modo che ci è impedito ogni movimento. Bisogna scegliere sgravi che non solo ci permettano di pagar meno, ma insieme ci consentano di consumar di più e di sviluppare energie che oggi sono latenti per l’eccessiva pressione tributaria.

 

 

L’ultima schiera è composta di coloro che vogliono giovarsi della conversione per compiere quella che essi chiamano una «traslazione» di tributi. Ridurre le imposte sui consumi non giova, dicono costoro, se non si cambia l’ordinamento attuale tributario, se la massa dei tributi seguiterà, anche dopo gli sgravi, a colpire le masse lavoratrici a preferenza dei ricchi.

 

 

Inspiriamoci all’esempio dell’Inghilterra che nel 1842, ad opera del Peel, ha foggiato la grande arma dell’imposta sul reddito (income tax), per avere i mezzi di colmare gli eventuali disavanzi di bilancio derivanti da una coraggiosa riforma nei tributi sui consumi. Senza un’imposta progressiva sui redditi che assicuri i finanzieri contro il ritorno dei disavanzi, noi seguiteremo a lasciar sussistere le attuali ingiustizie tributarie e faremo delle riforme piccole e monche. Un’annata cattiva e la nostra opera sarà interrotta. Niente di bene si può sperare finché sussiste l’attuale intrico di imposte e sovrimposte miste fra stato, provincie e comuni, finché l’Italia sarà divisa da cento barriere daziarie ostili allo sviluppo dei traffici, finché non si comincerà a dare coraggiosi colpi di scure nella selva selvaggia tributaria che ci affligge. Il Majorana aveva l’anno scorso proposto un’imposta generale progressiva sul reddito a favore dei comuni; bisogna riprendere il concetto, e, rendendo quell’imposta di stato, poggiarvi sopra tutto un piano di trasformazione radicale, se bene graduale, che dia libertà ai bilanci comunali, elasticità al bilancio dello stato e mezzi adatti a compiere una politica di sgravi in grande.

 

 

Questo dicono i fautori di una riforma tributaria inspirata a criteri di radicale trasformazione dei nostri ordinamenti finanziari. I venti milioni della conversione dovrebbero dare ai nostri finanzieri il coraggio di compiere quella grande riforma che Peel fece in Inghilterra nel 1842, che Scialoia vagheggiò in Italia nel 1866, che i radicali francesi al governo si apprestano ad attuare oggi coll’imposta sul reddito.

 

 

Altri – più modesti – si contentano di attirare l’attenzione degli uomini di stato sugli innegabili e non mai abbastanza lamentati difetti delle nostre leggi in materia di imposte dirette e di tasse sugli affari. Non sono soltanto i tributi sui consumi che comprimono lo smercio ed arrestano lo slancio delle industrie. Vi sono le tasse sugli affari, che un maI genio ha in Italia congegnato in modo da creare inciampi a tutti coloro che hanno un po’ di iniziativa, da impedire che gli affari si facciano, i traffici si avviino, le industrie sorgano. Vi è l’imposta sui fabbricati, che par costrutta in modo da ostacolare l’aumento delle case operaie; vi è l’imposta di ricchezza mobile, il cui intento precipuo sembra essere quello di impedire che si creino società anonime ed in accomandita per azioni, mettendo a tortura l’ingegno dei loro amministratori, che andrebbe molto più utilmente spiegato in altra maniera. Perché non si avrebbe adesso il coraggio di compiere alcune riforme, in apparenza piccole, e che senza recar in definitiva danno alle finanze, riuscirebbero utilissime per adattare questi congegni tributari alle nuove necessità economiche? Le imposte dirette e sugli affari gravano, è vero, le classi capitalistiche; ma un buono loro assetto gioverebbe moltissimo alle classi operaie; chi può infatti immaginare la massa di lavoro che potrebbe crearsi quando quelle imposte non impedissero l’impiego più adatto dei capitali? Anche queste domande sono la eco di bisogni profondamente sentiti e meritano perciò attento esame.

 

 


[1] Con il titolo Le modalità della conversione. [ndr]

[2] Con il titolo La conversione della rendita e gli ufficiali. [ndr]

[3] Con il titolo Gli enti ecclesiastici e la conversione. [ndr]

[4] Con il titolo Le vie da seguire. [ndr]

[5] De Johannis, La conversione della rendita, Firenze 1904.

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