Dove si discorre di Pareto, di Mosca ed anche di De Viti
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/11/1934
Dove si discorre di Pareto, di Mosca ed anche di De Viti
«La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1934, pp. 707-711
Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 367-371
A. De Viti De Marco, Principii di economia finanziaria, in «Collezione di opere scientifiche» a cura della rivista «La Riforma Sociale». (Torino, Giulio Einaudi, editore, 1934. Un volume in 8° di pagg. 32-452. Prezzo L. 40).
Parmi di aver già scritto qui che una tra le maniere di far recensioni di libri si chiama metodo dell’attaccapanni e consiste nello sbarazzarsi in poche battute del libro, traendone argomento a discutere uno o parecchi punti posti dall’autore. Il metodo, a tratti, mi piace assai; me ne giovo e mi guardo perciò bene dal parlar male di chi l’adopera. È lecito però, in tal caso, discutere le teorie esposte per conto suo dal recensente. Mi capita ora sott’occhio, a cagion d’esempio, una recensione pubblicata dal prof. Alfonso De Pietri-Tonelli intorno ai Principii del De Viti, nel fascicolo del 30 giugno scorso della «Rivista di politica economica», nella quale come egli aveva pieno diritto di fare, nulla si dice sostanzialmente del libro recensito, pigliandone invece occasione per uno sfogo intorno ad uno schizzo comparativo fra Pantaleoni, Pareto, De Viti e Barone, da me inserito nella prefazione al volume del De Viti. Come sempre in occasioni simili gli accade, il De Pietri-Tonelli fortemente si turba perché io avrei detto male di Pareto. Il che non pare vada d’accordo con la mia dichiarazione avere quei quattro dato «contributi così alti alla teoria pura economica da far rivaleggiare il tempo, che fu detto della scuola di Losanna ma doveva dirsi della scuola italiana, con i periodi più splendidi della storia della nostra scienza».
Il turbamento del De Pietri pare proceda sovratutto dal ricordo, che io feci, dell’ingiusta ostinazione del Pareto «a non voler riconoscere al Mosca la priorità non solo nella dichiarazione, che potrebbe essere semplice frutto spontaneo del genio, ma, quel che attribuisce veramente pregio scientifico di scoperta, nella meditata consapevolezza della formulazione delle idee di classe e di formula politica, da lui diversamente chiamate, ma rimaste sostanzialmente invariate».
«Ci vuol ben altro» – esclama a questo punto il De Pietri – «della storiella del plagio a Mosca (autore degnissimo e certo non abbastanza fortunato), per scalfire la fama di Pareto, ognora crescente oltre i confini dell’Italia. E perché la favoletta non si diffonda sarà bene ricordare, e non possiamo ammettere che lo abbia dimenticato l’Einaudi, che fino dalla pubblicazione del “Manuale”, il Pareto, a pagg. 403 e 404, testo e nota (3), rilevando che le società sono sempre state governate da una minoranza e la cosa è sempre stata risaputa, scriveva scherzosamente: «Il prof. Mosca si rammarica e si turba fortemente se non lo si cita quando si rammenta il fatto, che nella società è sempre un piccolo numero che governa e pare credere di avere lui scoperto ciò. Per contentarlo trascrivo qui i titoli delle sue opere, di cui conosco solo l’ultima: Teorica dei governi e governi parlamentari, 1884; Le costituzioni moderne, 1887; Elementi di scienza politica, 1896. Ma il principio che è la minoranza che governa è noto da gran tempo; ed è luogo comune, che si trova non solo in opere scientifiche, ma persino in produzioni esclusivamente letterarie, e cita poi il Pareto brani di letterati e di sociologi anteriori al Mosca, e tuttavia ben consci del carattere oligarchico di ogni governo».
Ecco, a chiosare lo sfogo del De Pietri, la successione cronologica dei fatti:
- 1884 (ma aprile 1883). Gaetano Mosca pubblica il volume Sulla teoria dei governi e sul governo parlamentare (Roma, Loescher, 316 pp.), nel quale espone la teoria della classe e della formula politica e ne fa applicazione larghissima all’Italia.
- 1896. Lo stesso pubblica (Torino, Bocca, un vol. di 400 pp.) l’opera Elementi di scienza politica, nella quale la teoria medesima viene sistematicamente svolta. Di ambe le opere uscirono, or non è molto, nuove edizioni, facilmente reperibili, presso la Società editrice libraria di Milano ed i F.li Bocca di Torino.
- 1900. Il Pareto pubblica nel fascicolo dell’agosto 1900 della «Rivista italiana di sociologia» un articolo Un’applicazione di teorie sociologiche, nel quale, largamente applicando a fatti contemporanei le due teorie della classe e della formula politica, non menziona il Mosca.
- 1902. Il Pareto pubblica Les systèmes socialistes (presso Giard et Brière, Paris, 406-492 pp.), nel secondo volume del quale a pag. 433 gli Elementi del Mosca sono ricordati a proposito dei gravi problemi che nella società moderna sono suscitati dalla costituzione e dal compito sociale dei corpi armati dello Stato. Ma del contributo essenziale del Mosca, il quale sostituisce ai principi aristotelici della monarchia, della democrazia e della aristocrazia il principio della classe e della formula politica, il Pareto non fa cenno, nonostante che nella introduzione ai sistemi quella teoria sotto il nome di élites e di sentiments sia posta a fondamento della trattazione susseguente.
- Novembre 1902. Gaetano Mosca, nel discorso inaugurale letto nell’aula magna dell’Università di Torino su Il Principio aristocratico ed il democratico nel passato e nell’avvenire, fa un discreto accenno alla «strana dimenticanza» con la quale «il chiarissimo professore dell’università di Losanna non fece menzione dello scrittore italiano che per il primo ebbe la fortuna di formulare la dottrina ora dal Pareto strenuamente propugnata».
- 1906. Il Pareto pubblica Il Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale, nel quale si legge, a carte 403, la nota terza che il De Pietri Tonelli ristampa ora, quasi avesse chiuso definitivamente la cosidetta storiella del plagio.
- 1907. Il dibattito invece aveva avuto seguito in una nota pubblicata col titolo Piccola Polemica a carte 329-31 de «La Riforma Sociale» del 1907 da Gaetano Mosca. Questi, dopo aver ricordato che il principio «essere le società umane sempre governate dalle minoranze» è così istintivo che prima dei filosofi, dei politici e dei poeti era stato in ogni tempo e in ogni luogo affermato dalla sapienza popolare, dichiara serenamente il suo rammarico perché il Pareto non abbia sentito il dovere di ricordare l’opera di chi aveva fin dal 1883 esposto e in seguito elaborato la dottrina chiamata dal Pareto delle élites. Aver lui, Mosca, ricordato tutti gli scrittori da lui conosciuti, che avevano contribuito alla formazione della dottrina, essere legittimo il rammarico che il Pareto non avesse ricordato lo studio suo, pur a lui noto, ed esser convinzione sua e di altri parecchi che la teoria paretiana delle élites non fosse nella sua formazione indipendente da quella sua della classe politica.
Il dibattito non ebbe, che io sappia, altro seguito; né si chiude ora con la qualifica di “storiella” appiccicata dal De Pietri Tonelli al fatto della dipendenza di Pareto da Mosca per quanto ha tratto alla teoria della classe politica. Non si giova alla fama dei grandi attribuendo ad essi anche la roba altrui. Vilfredo Pareto è una figura troppo alta nella storia della scienza economica perché la sua vera gloria sia sminuita dal mettere le cose a posto rispetto a qualche parte dell’opera sua. Anzi è cresciuta. È canone indiscutibile di critica storica non attribuire la paternità di una teoria a chi la intuì o la espose accidentalmente o, pur chiarendola, non vi diede importanza o la usò come strumento per la interpretazione o la esposizione di altre teorie e di altri fatti. Questi si chiamano precursori e non autori della teoria. Orbene; non Machiavelli, non Bodin e non Taine, al quale pure Mosca professa tanta riconoscenza, possono chiamarsi autori delle teorie della classe e della formula politica. Ad altro intendevano. Altre verità fondamentali scopersero o quella verità usarono ad altri fini. Mosca invece esplicitamente assunse quelle teorie a capisaldi della sua trattazione, e quelle illustrò largamente e sistematicamente; contrapponendole ad altre che avevano avuto fin allora corso (ad es., sovranità popolare) ed avevano di sé informato la filosofia politica e la legislazione costituzionale del secolo diciannovesimo. Le date sono certe: Mosca 1883 e 1896, Pareto 1900, 1902, 1906 e 1916; ed è certo altresì, per dichiarazione del Pareto, che tra il 1896 ed il 1907 (vedi sopra i n. IV e VI) il Pareto conobbe l’opera principale del Mosca. Non occorre parlare di plagio; né io avevo accennato a plagio quando nella prefazione ai Principii del De Viti avevo lamentato che Pareto non avesse mai voluto riconoscere al Mosca la paternità di quello che era suo. Vi è una ingiustizia contro cui, finché lui sarà dato, non cesserò dal protestare, ingiustizia i cui effetti diventano via via più gravi a mano a mano che giustamente la fama del Pareto va ingrandendo ed ora, dopo aver persuaso gli esclusivisti circoli accademici insulari d’Inghilterra, sta conquistando quelli nord americani. La teoria delle élites va ormai correntemente sotto il nome di Pareto. Questa è l’ingiustizia. Invece di inquietarsi contro chi intende attribuire a ciascuno il suo, compito degli allievi del Pareto dovrebbe essere quello di scernere nella sua opera sociologica – parlo di questa soltanto, perché di essa ora si tratta – il suo vero originale apporto. Se si vuole studiare scienza politica o sociologia, ognuno è libero di leggere o consigliare Pareto piuttosto che Mosca a seconda delle sue preferenze o dei risultati didattici che si vogliono ottenere. Ma quando invece si fa storia di dottrina e si debbono perciò inquadrare gli autori considerati nel luogo che ad essi spetta nella storia della scienza, fa d’uopo precisare quel che l’uno ha aggiunto all’altro. Solo così la grandezza scientifica ha fondamento incrollabile. Pareto ha indubbiamente aggiunto, ritengo solo o principalmente nel Trattato di sociologia (1916), al Mosca del 1883 e del 1896. Che cosa? Ecco il vero problema storico, quello che nessuno meglio di qualcuno dei devoti allievi del Pareto potrebbe illuminare. Ecco il vero modo di rendere onore al maestro, evitando il pericolo che altri commetta l’ingiustizia di negargli, su questo punto, qualsiasi originalità.
Frattanto, mi accorgo di avere io stesso commessa una grossa ingiustizia contro l’autore del libro, che doveva fornire argomento alla presente recensione. Che la mia opinione sul libro del De Viti sia ben diversa da quella del De Pietri Tonelli – egli, occupato a difendere Pareto da immaginari detrattori, ha l’aria di considerare il De Viti quasi soltanto uno che «coltiva con amore gli studi e copre con dignità una cattedra», autore di uno di quei tanti trattati di finanza che son «mescolanza di ricerche scientifiche, di descrizioni storiche e di consigli pratici, di idee preconcette e di desiderata» – risulta chiaro dalla mia prefazione alla traduzione tedesca ed alla presente definitiva edizione italiana. Appunto perché non è quella tale mescolanza, anzi è un libro di teoria pura della finanza, i Principii di De Viti sono degni di stare a lato dei gran libri di Pareto e di Pantaleoni.
Grazie ai Principii del De Viti, la scienza italiana della finanza pura entra nel mondo scientifico contemporaneo. Nel quaderno dell’agosto 1934 di «Economica», la nota rivista economica trimestrale dell’università di Londra, si leggono alcuni apprezzamenti del libro del De Viti, che riproduco al luogo di una mia superflua ripetizione del già detto altrove:
«Questo è probabilmente il miglior trattato sulla pubblica finanza che mai sia stato scritto. Nella sua sfera più ristretta, esso è paragonabile ai Principles di Marshall. Come i Principles, esso è il prodotto di molti anni di meditazione; alla pari dei Principles, può essere letto riletto ed ogni volta reca nuova luce al lettore; ma, a differenza dei Principles non ha avuto l’influenza che esso meritava, eccetto in Italia, dove l’influenza è stata profonda, e forse nella Svezia. La grandezza dei risultati ottenuti dal De Viti si scorge meglio mettendola sullo sfondo del trattamento riservato alla scienza della finanza pubblica in Inghilterra e nella maggior parte degli altri paesi».
[Segue uno schizzo delle deplorevoli condizioni della scienza della finanza, trascurata dagli economisti, i quali suppongono dato lo stato, quando discutono l’equilibrio economico; ovvero si contentano di affermare, negandone l’applicazione, il principio del minimo sacrificio; o trattano la spesa pubblica come fatta a fondo perduto, ecc.].
«I più degli scritti sulla pubblica finanza sono un guazzabuglio di opinioni politiche ed etiche, di discussioni di leggi e di espedienti amministrativi, di fatti e di cifre, di applicazioni, spesso errate, di principî economici o pseudo-economici. I migliori sono un insieme di saggi indipendenti.
«Passare da tutto ciò alle pagine del presente volume val quanto passare da una esposizione miscellanea di artisti nelle sale della reale accademia ad una galleria di Cézannes. De Viti De Marco ci fornisce una teoria logica e sistematica del compito dello stato nella attività umana. Egli non trae alcun principio dalla sua propria intima coscienza. Non fa alcuna ipotesi circa la utilità assoluta. Le sue critiche alle comuni dottrine della
imposta progressiva sono definitive. Egli analizza problemi, della cui esistenza gli scrittori precedenti non si erano accorti, come quello dell’autofagia della imposta progressiva o l’altro del sorgere dal debito pubblico in una collettività in cui lo stato agisca in conformità alle scelte volontarie dei cittadini. Egli mostra come l’attività dello stato può essere fatta rientrare nello schema della teoria dell’equilibrio. Le linee principali di ciò furono pensate e costruite più di trent’anni fa, anzi, esse in embrione esistevano già nel saggio Il carattere teorico dell’economia finanziaria, pubblicato nel 1888».
Dopo alcune osservazioni critiche su punti di teoria l’autore della recensione, F. Benham della London School of Economics, conchiude: «L’opera nel suo complesso è un monumento. La traduzione tedesca è eccellente. L’assenza di una traduzione inglese è una grande mancanza, una vera disgrazia per tutti gli studiosi della finanza pubblica nei paesi anglo-sassoni».