Opera Omnia Luigi Einaudi

Dove sono le terre incolte?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/12/1910

Dove sono le terre incolte?

«Corriere della Sera», 19 dicembre 1910[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 173-180

 

 

 

 

Quando nella state scorsa osai affermare che in Italia si coltivava (mai dissi si produceva) troppo grano e manifestai il mio invincibile scetticismo sull’esistenza delle terre incolte, «che nessuno ha mai veduto», ebbi subito alle calcagna assai contraddittori. Erano stati in tanti a vedere le terre incolte ed in tanti avevano ideato un progetto di colonizzazione interna, nell’intento di porre termine alla duplice vergogna dei disoccupati, romagnoli o non, e del tributo pagato dall’Italia all’estero per l’acquisto del grano mancante ai suoi bisogni, che parve sfrontatezza proterva quella di chi osava pronunciare il blasfema: in Italia si coltiva troppo grano e in Italia non esistono terre incolte. O non erano forse dolorosamente note le statistiche governative, le quali denunciavano 3.878.187 ettari di terreni di scarsa o nulla produzione, veri e propri terreni incolti? E non erano vaste le estensioni di terreno che nella Basilicata, nell’Agro romano, nella Sardegna aspettavano il bacio fecondatore del lavoro dell’uomo, costretto frattanto ad incrociar le braccia, per mancanza di terreno, nell’agro romagnolo? E non insegna forse la matematica (senza di cui, a parere di un amico pubblicista, è impossibile penetrare questi oscuri e complessi problemi) che la crisi delle terre senza braccia e delle braccia senza terra non si può superare senza l’intervento dello stato il quale dovrebbe, con un sapiente piano di colonizzazione interna, permettere agli uomini forti e organizzati di superare gli attriti temporanei che importa la messa a cultura delle terre incolte in un ambiente nuovo e difficile?

 

 

Di fronte all’incalzare delle obiezioni, tacqui. Per un verso mi parve inutile di dichiarare il mio consenso con tutti coloro i quali, equivocando, ritennero che io combattessi la intensificazione delle culture e la possibilità di produrre maggior copia di frumento sulle terre italiane, possibilità che a nessuno può venir in mente di negare, quando dessa spiega appunto gli alti rendimenti di talune piaghe cerealicole italiane, augurio e sprone ad alti rendimenti pure in altre regioni, ancora arretrate. Né volli rilevare l’ipocrisia di coloro che, da un ragionamento inteso a dimostrare come dei bassi rendimenti delle regioni del colle e della montagna fosse in parte responsabile il dazio sul grano, trassero la inaspettata deduzione che io volessi la conservazione del dazio stesso. Mentre è fermo in me il convincimento – manifestato ripetute volte su queste colonne – che il dazio sul grano debba essere a grado a grado fatto scomparire, sia per il mutato livello dei prezzi, troppo superiore a quello del tempo nel quale il dazio fu istituito, sia per limitare la cultura in quelle zone agrarie in cui la produzione cerealicola è naturalmente scarsa ed ottenuta ad altissimi costi, mentre il bosco, il prato stabile e il pascolo sarebbero culture tanto più convenienti dal punto di vista generale. Dico limitare e non sopprimere, perché la cultura cerealicola nei terreni disadatti è dovuta a troppe più cause, che non il dazio sul grano, cause che non è possibile qui accennare.

 

 

Tacqui sovratutto perché ero fermamente convinto che la dimostrazione della verità delle mie eretiche affermazioni non poteva venire da ragionamenti e polemiche fondate sul vuoto o da testimonianze di osservatori casuali, ma dalla sostituzione di una nuova seria statistica alle antiquate inattendibili statistiche ufficiali sinora correnti. Le nuove statistiche sono finalmente giunte; ed io debbo, ancora una volta, dare un plauso sentito al prof. Ghino Valenti, commissario generale per la statistica agraria, il quale nel quarto fascicolo delle sue notizie periodiche ha inserito in appendice un breve saggio sulla «ripartizione del territorio del regno nelle principali categorie di culture»; saggio che è una promettente anticipazione di quella mirabile impresa che sarà il catasto agrario.

 

 

I più di coloro che, memori delle querimonie rivolte alla vergogna italiana dei terreni incolti, piglieranno in mano la statistica del Valenti, riterranno sicuramente di trovarsi dinanzi ad un grossolano errore di stampa. Nella linea dei terreni incolti, il Maestri, il fondatore di quella statistica italiana, che fu poi condotta a gran fiore da Luigi Bodio, fin dal 1857 segnava 2.885.345 ettari; e la direzione generale dell’agricoltura segnava, nel 1984, ben 3.878.187 ettari. Nella statistica del Valenti su quella linea non si legge più nulla.

 

 

Si rassicurino i lettori. Non si tratta di un errore di stampa, e neppure di un giuoco di bussolotti per cui ai terreni incolti si sia dato, per nasconderli, un altro nome. La scomparsa delle terre incolte nella statistica nuova è dovuta a ben altre cause. Prima, la quantità delle terre incolte non era rilevata direttamente, bensì ottenuta per differenza. Non si cercarono quanti davvero fossero gli ettari di terre incolte; bensì si calcolò quanta fosse la superficie delle terre coltivate, dei terreni a bosco ed a castagneto, dei pascoli alpini e dei terreni improduttivi, se ne fece la somma e si vide che la cifra risultante era di gran lunga inferiore alla superficie totale, per altre vie nota, del regno. Quella differenza, non sapendo cosa farsene, gli statistici agricoli del 1894 l’attribuirono alle «terre incolte». Onde nacque e si radicò la leggenda dei quasi quattro milioni di ettari che attendono il bacio fecondatore, ecc. ecc., e si legittimarono le invettive contro i governi impotenti a promuovere un vasto e sapiente piano di colonizzazione interna.

 

 

Il Valenti non si contentò del facile metodo della differenza, la quale poteva spiegarsi tanto col fatto positivo della esistenza di vere terre incolte, quanto col fatto negativo della incapacità a conoscere la cultura dei terreni non censiti, ma volle indagare il fenomeno nella sua vera, effettiva realtà; e modestamente venne alla conclusione che in Italia terre incolte non ce ne sono. Badisi bene che questa è la prima indagine seria che in Italia si sia fatta sulla ripartizione delle culture, che la statistica pubblicata è il frutto di anni di lavoro di tecnici provetti, di agronomi, i quali conoscono palmo a palmo il territorio nostro e non sono sviati da nessuna preoccupazione partigiana. Orbene costoro, per bocca del loro capo, così parlano:

 

 

«La modificazione più notevole ed importante che la nuova statistica apporta alle ripartizioni precedenti riguarda le terre incolte, le quali si eliminano quasi del tutto, se, per incolte, si intendono terre naturalmente suscettive di essere coltivate, o per lo meno adibite alla cultura forestale e alla pastorizia, le quali, per mancanza di lavoro e di capitale, che ad esse si applichino, restano inutilizzate. In tal senso non vi sono terre incolte in Italia e non potrebbero esservi, data la elevata densità della popolazione in generale e della popolazione agricola in particolare. L’Italia non è il paese delle terre incolte. Al contrario è un paese in cui si sottoposero a cultura anche terreni che meglio era di lasciare a pascolo ed a bosco, ed in cui la cultura, in alcune regioni almeno, è esercitata troppo estensivamente. Il problema in tal modo si sposta, dacché non è questione di portar lavoro dove assolutamente manca, ma di portarvi il capitale affinché l’applicazione del lavoro divenga più produttiva».

 

 

Se sono scomparse, dileguandosi nella nebbia della rettorica italiana, le terre incolte, non è a dire che tutto il territorio italiano sia coltivato e possa essere bene coltivato. I tecnici, che stanno compilando il catasto agrario, così hanno ripartito il territorio italiano in ettari

 

 

Terreni seminativi 

13.684.935

Frumento 

4.758.600

Granoturco 

1.515.300

Riso

   142.860

Prati artificiali a vicenda

1.933.000

Altre colture

5.335.175

13.684.935

 

 

Terreni a coltura specializzata di piante legnose

 

1.507.900

Vigneti 

879.700

Oliveti 

577.840

Altre colture

  50.360

1.507.900

 

 

Prati stabili e pascoli permanenti 

5.580.057

Boschi e castagneti 

4.563.716

Incolto produttivo  

1.036.000

Terreni improduttivi (fabbricati, strade, acque e sterili per natura) 

2.296.615

Superficie geografica

28.669.223

 

 

La tabella ci dice dove sono andate a finire le famigerate terre incolte. Una parte si vide che erano prati, stabili e pascoli permanenti, i quali rappresentano una forma necessaria di utilizzazione della terra, spesso la più utile ed ancor più spesso una forma che, soltanto con non piccolo danno economico, potrebbe cedere il posto alla cerealicoltura. Un’altra parte sono veri e propri terreni improduttivi, sia perché sono aree edilizie o stradali o coperte da acque, sia perché sono sterili per natura. Secondo le norme catastali gli sterili per natura sono terreni assolutamente improduttivi e comprendono le rocce, i ghiacciai, le spiagge del mare, ecc.

 

 

Una parte di essi, come una parte dei terreni coperti dalle acque (alcuni laghi e paludi), sono suscettivi di essere bonificati e quindi mediante impiego di capitale possono essere in avvenire destinati all’agricoltura. Il problema che per questi terreni improduttivi – e per una parte soltanto e non la maggiore di essi – si tratta di risolvere non è quello della loro colonizzazione attuale (cosa che sarebbe assurda perché essi, come terreni adesso colonizzabili, non esistono), ma della loro progressiva bonifica. Dopo che saranno stati bonificati, ossia creati dal nulla – ed in questa opera specifica di bonificamento potrà essere utilissima una maestranza di romagnoli, specializzati nelle opere idrauliche – potranno essere, ed allora soltanto, colonizzati, mercé la mano d’opera locale, la quale accorrerà volontieri ai lavori sulle nuove terre.

 

 

Rimangono i 1.035.000 ettari di incolti produttivi. Che cosa sono? Secondo le disposizioni di massima del nuovo catasto geometrico estimativo, l’incolto produttivo è qualunque terreno che senza l’intervento dell’uomo dia un prodotto valutabile; e comprende le rupi boscate, i cosidetti zerbi, le brughiere, le valli da canne e da strame, i relitti marittimi, fluviali od anche stradali, insomma tutti i terreni allo stato naturale o lasciati alla vegetazione spontanea che sono in qualche modo utilizzati. Ognuno ha veduto, e stavolta sul serio, di questi incolti produttivi e sa che, nove volte su dieci, il miglior modo di utilizzarli è di non sprecarvi lavoro o capitale, contentandosi di ottenerne quei prodotti che essi naturalmente danno. Essi, come bene osserva la statistica ufficiale, «non debbono essere confusi con le terre incolte, e cioè con terreni che sarebbero suscettivi di cultura o potrebbero essere destinati alla pastorizia, ma che restano inutilizzati per mancanza di lavoro e di capitale che vi si applichino». Non è da escludere che, col progredire della popolazione e col progressivo frazionamento della proprietà, i contadini, che sanno trasformare le rocce nude in giardini, riescano a poco a poco a ridurre a coltura una parte delle rupi boscate, degli zerbi, delle brughiere, dei relitti stradali e fluviali che costituiscono il grosso degli incolti produttivi. Come pure non è da escludere che, impiegando, a scopi igienici, i capitali all’1 o al zero %, lo stato riesca a bonificare le valli da canna o da strame. Sarà una vittoria nuova dell’uomo sulla natura, in questa Italia che vide gli uomini, con millenni di sforzi, creare dall’acqua e dal fango la magnifica agricoltura padana. Ma sarebbe pazzia lo scambiare gli odierni incolti produttivi con terre incolte, su cui possa attuarsi un piano di colonizzazione interna. I contadini italiani, i quali, sia detto con sopportazione, conoscono la terra meglio dei legislatori e degli economisti, non hanno mai pensato che in Italia esistessero di fatto terre incolte ed, avendone bisogno, sono andati a cercarle nella Tunisia e nelle due Americhe.

 

 

Della alacrità con cui gli agricoltori italiani ridussero a cultura il territorio del paese e’ testimonianza l’elevata percentuale (92%) raggiunta dalla superficie agraria e forestale in rapporto alla totale superficie geografica, malgrado la grande copia di montagne, di laghi e di paludi. Anzi nell’Italia meridionale e nelle isole, il rapporto sale al 95%, mentre è dell’87% nell’Alta Italia, a cagione delle montagne più estese. La percentuale italiana è soltanto superata dall’Austria col 93,7%, dall’Ungheria col 94,5% e dalla Francia col 95,5%. Colpisce altresì la gran copia di seminativi che in media giungono al 51,6% della superficie agraria e forestale (Italia settentrionale 47,9, media 55, meridionale ed isole 53,3%), superando tutte le altre nazioni d’Europa, salvo la Danimarca, dove i seminativi si trovano nel rapporto del 63%. Si avvicinano a noi la Francia col 48,8% e la Germania col 48,6%. Non si ha forse ragione nel sostenere che il problema agricolo italiano è: come produrre di più, diminuendo la superficie destinata ai seminativi e crescendo quella dei boschi, prati e pascoli? Per fortuna sui 13.684.935 ettari di terreni seminativi ben 6.639.422 sono misti con piante legnose, viti, gelsi, frutta, ecc., e concorrono a rialzare in valore la media della produzione.

 

 

Un’ultima osservazione interessante a proposito della ripartizione delle colture. La coltura promiscua delle piante legnose (i 6.639.422 ettari compresi nei seminativi) raggiunge il 25% della superficie agraria, mentre la coltura specializzata (1.507.900 ettari) si limita al 5,1%. Nell’Italia meridionale e nelle isole la coltura specializzata raggiunge le proporzioni massime. Infatti essa tocca il 9,5% della totale superficie agraria, mentre la coltura promiscua comprende il 14,6%. Invece nell’Italia media la promiscua sale al 28,6% e la specializzata discende al 3,4; e nell’Italia settentrionale la promiscua tocca il 34,7% e la specializzata discende ancor più al 3%! Il mezzogiorno d’Italia ha applicato le massime – un giorno così di moda – della specializzazione ad oltranza delle colture e non si può dire davvero che ne abbia tratto grande profitto.

 

 

Quale è il prodotto lordo che si ricava dalla terra italiana? Corre anche qui una leggenda, che la produzione sia rimasta stazionaria; ed è leggenda che corre sulla fede di una lunga serie di annuari statistici, i quali avevano valutato quella produzione alla immutabile cifra di 5 miliardi.

 

 

Anche su questo oscuro fenomeno il bollettino del Valenti gitta un fascio di luce. Una valutazione approssimativa, quasi un primo sondaggio, lo farebbe incline ad ammettere come verosimili le seguenti cifre:

 

 

Divisioni geografiche

 e regioni agrarie

Superficie agraria

e forestale

ettari

 

Valore della

produzione

 

per ett.

lire

totale

mil. lire

Italia settentrionale 

 

 

Montagna

Collina

Pianura

3.510.196

2.078.897

3.538.147

145

373

593

509

775

2.109

9.127.240

371

3.393

 

Italia centrale 

 

 

Montagna

Collina

Pianura

3.117.439

3.245.762

   408.864

122

267

194

380

867

79

6.772.065

196

1.326

 

Italia meridionale e isole  

 

 

Montagna

Collina

Pianura

2.631.484

6.177.410

1.663.408

124

198

324

334

1.222

539

10.472.302

200

2.095

 

Riassunto 

 

 

Montagna

Collina

Pianura

9.259.119

11.502.009

5.610.419

132

249

486

1.224

2.865

2.727

 Regno

 

26.371.547

259

6.816

 

 

Se noi aggiungiamo i risultati di varie industrie secondarie, fra cui l’allevamento degli animali da cortile e la conseguente produzione del pollame e delle uova, che probabilmente raggiunge i 250 milioni, si può calcolare, in una prima approssimazione, che indagini ulteriori dovranno verificare e perfezionare, essere il valore odierno della produzione agricola italiana di circa 7 miliardi di lire. Dai 2 miliardi e 842 milioni calcolati dal Maestri nel 1864, ai 5 miliardi dell’annuario statistico nel 1894, ai 7 miliardi attuali del Valenti, il progresso è innegabile, sebbene forse non così rapido come possono desiderare coloro che la terra conoscono attraverso i finestrini dei direttissimi.



[1] Con il titolo Dove sono le terre incolte? La ripartizione delle culture in Italia. Da tre a sette miliardi di produzione agraria annua [1864-1910] [ndr].

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