Opera Omnia Luigi Einaudi

È possibile frenare il rincaro della vita ed il ribasso delle rendite pubbliche?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/02/1912

È possibile frenare il rincaro della vita ed il ribasso delle rendite pubbliche?

«Corriere della sera», 27 febbraio 1912

 

 

 

Il quadro delle cause che furono addotte all’estero per spiegare il ribasso delle rendite di Stato non sarebbe compiuto se non si facesse un breve riassunto dei metodi che furono proposti, pure all’estero, per aumentare i corsi. Trattasi di rimedi quasi sempre artificiosi, i quali non possono approdare a nulla, essendoché è assurdo voler contrastare alle ondate periodiche che spingono all’insù od all’ingiù l’interesse.

 

 

Di due proposte, l’una praticamente già dimostratasi efficace e l’altra teoricamente possibile, dirò dopo. Prima giova accennare ai mezzi manifestamente inutili.

 

 

In Inghilterra, dove c’è molta gente che si preoccupa dell’essere il Consolidato caduto dal corso di 112 a quello di 78, sono specialmente numerosi i progettisti. Di essi ride il Signor Lloyd George, il quale si ostina nel non preoccuparsi affatto del ribasso della rendita. È forse dice il geniale Cancelliere dello Scacchiere, meno ricca, meno florida l’Inghilterra d’oggi colla rendita a 78 dell’Inghilterra di 15 anni fa con la rendita a 112? Tutt’altro. Anzi tutte le statistiche dimostrano che l’industria da profitti maggiori che i salari sono cresciuti, che la disoccupazione è diminuita, che è scomparsa perfino la crisi agraria, di sempiterna durata, ecc.. A che preoccuparsi dunque di ciò che è perfettamente compatibile con la massima floridezza economica? E come è possibile costringere l’interesse, salito al 3,20 per cento a ritornare al 2,50 per cento, così da consentire al titolo che rende 2,50% di vendersi a 100?

 

 

Pure sono molti che vorrebbero ad ogni costo vedere la rendita inglese a 100. Costoro se la prendono sovrattutto col Goschen, il celebre ministro che convertì il consolidato nel 1888 dal 3% al 2,75 per cento, con successiva automatica riduzione al 2,50% nel 1903. Se Goschen, dicono, non avesse compiuta la sua malaugurata conversione, oggi il Consolidato frutterebbe il 3% e varrebbe circa 97-98. Onde propongono, con mille espedienti diversi, che il Governo ritorni a pagare il 3% per far aumentare i corsi dei Consolidati. È chiaro perché Mr. Lloyd George rida di simili critiche e delle relative proposte. La critica contro Goschen è ingiusta – come sarebbe ingiusta una analoga critica contro gli autori della Conversione italiana – perché il Governo di un paese ha il dovere di profittare dei momenti in cui l’interesse è basso per offrire ai portatori di rendita il rimborso del capitale o la riduzione dell’interesse. Se i creditori accettano quest’ultima alternativa, la conversione ha avuto successo e non c’è più bisogno di parlarne. I portatori di rendita inglese hanno liberamente accettato un titolo nuovo 2,50% in luogo del vecchio 3 per cento; lo Stato ha il vantaggio di risparmiare 65 milioni di lire l’anno.

 

 

Né l’uno né l’altro ha il diritto ed il dovere di ritornare su una transazione già conchiusa. È vero che, in seguito, il tasso dell’interesse sul mercato è di nuovo risalito al 3% e più; ma qual diritto hanno i portatori di rendita di vedere aumentato il cupone? Non hanno forse essi consentito ad accettare un 2,50% in perpetuo? E che interesse avrebbe lo Stato ad aumentare il 2,50 al 3 per cento? Nessuno. Ciò non gli gioverebbe il giorno che dovesse emettere nuova rendita, perché è sempre libero, per le nuove emissioni, di scegliere il tasso di interesse meglio corrispondente alle condizioni del mercato – 3, 3,25, 3,50 per cento – e troverà quanti capitali desideri. Ciò gli nuocerebbe positivamente perché oggi lo Stato, quando voglia diminuire il suo debito, può comprare in borsa cartelle di rendita a 78, mentre se i corsi vanno alla pari, dovrà spendere 100.

 

 

Un’altra schiera di scrittori e di uomini politici vorrebbe che lo Stato trovasse speciali sbocchi al Consolidato, in altri termini, obbligasse talune categorie di capitalisti a comprare Consolidato. Se i titoli pubblici avranno, si dice, una clientela obbligatoria, questa non potrà non sostenerne i corsi. Il metodo è riuscito negli Stati Uniti, dove i titoli 2% hanno dei prezzi fantastici, molto superiori alla pari, perché le banche d’emissione che sono, oltre Atlantico, parecchie migliaia, sono obbligate a comprarli come riserva dei biglietti.

 

 

Il metodo può riuscire; ma a patto che i clienti, chiamiamoli così, obbligatori possano essere costretti ad acquistare la totalità od una parte rilevantissima del Consolidato. In questo caso il resto del pubblico risparmiatore, abituato a comprar rendita e deliberatamente ignaro di ogni altro impiego, si disputa a caro prezzo quel poco di Consolidato lasciato libero dai clienti obbligatori. Può darsi che il metodo sia riuscito in qualche altro caso oltre che negli Stati Uniti; ma fu certamente un successo effimero. I debiti pubblici hanno oramai assunto tali dimensioni – nei grandi Stati hanno superato dappertutto la diecina di miliardi ed ogni anno è qualche nuovo centinaio di milioni che viene sul mercato – che è vana la speranza di poter trovare clienti obbligatori per più di una modesta frazione di essi. In Germania fu calcolato che, se anche si obbligassero le società di assicurazione, le casse di risparmio ad investire una notevole parte delle loro disponibilità nuove nella compra di titoli di debito pubblico, l’influenza sui corsi sarebbe nulla. La dimostrazione è semplice ed irrefutabile. Supponiamo si creino clienti obbligatori costretti a comprare 200 milioni di marchi all’anno di rendita pubblica. Nell’atto in cui la comprano, il corso potrà crescere di qualche punto. Ma poi? Se le casse di risparmio e le società di assicurazione tedesche (parlo di queste, perché la questione è oggidì discussa in Germania) dovranno impiegare i 200 milioni in tal modo non potranno più fare gli impieghi che erano prima solite fare, specialmente mutui ipotecari. Non per questo cesserà la domanda di mutui ipotecari; anzi i bisognosi di credito, non trovando aperte le solite vie cercheranno di trovar denaro offrendo il 4,50 invece del 4,25 per cento che erano usi a pagar fin qui. Che cosa accadrà? Che i portatori di consolidato germanico 4% che lo tenevano a 100,40, perché il maggior reddito di 25 centesimi dei mutui ipotecari non li allettava abbastanza, lo venderanno ora che potranno lucrare in quei mutui il 4,50 per cento. I duecento milioni di consolidato, che si sperava d’aver tolto di mezzo, ritornano sul mercato e premono essi sui corsi, anche se non premono più i 200 comprati dai clienti obbligatori.

 

 

La conclusione è una sola: con le leggi non si creano i capitali; e, non creandosi, è inutile sperare di agire efficacemente in tal maniera sul tasso dell’interesse.

 

 

Passo ad un altro metodo, che in Inghilterra è stato propugnato dal Wollff, grande amico nostro ed ammiratore di parecchie istituzioni italiane. Egli da anni insiste sull’Economist – e questa rivista ha fatto la sua tesi – essere necessario imitare in Inghilterra ciò che da cent’anni si opera in Francia e da 50 in Italia. Importa cioè popolarizzare il consolidato. In Inghilterra questo è un titolo aristocratico, posseduto dai ricchi ed ignoto alle borse modeste. Le iscrizioni sono nominative ed essendo necessario eseguire tutte le operazioni a Londra ed a Dublino, vi sono fastidi infiniti per comprare, vendere, trasferire. Se un tale muore, siccome il debito pubblico non rilascia certificati, può darsi che gli eredi nemmeno sappiano dell’esistenza del titolo. Importa perciò imitare la Francia e l’Italia, dove le formalità per i titoli nominativi sono ridotte al minimo, dove i titoli sono al netto da imposte, dove sovrattutto esistono i titoli al portatore di qualunque minimo taglio, persino di 3 e 3,50 lire di rendita e di 100 lire di capitale, dove i titoli si possono acquistare in ogni più piccolo ufficio postale, dove il risparmiatore, geloso del suo avere, può acquistare rendita senza che nessuno ne sappia nulla. Stavolta, il signor Lloyd George non ha più riso. Ha cominciato a diminuire le formalità per le iscrizioni nominative: ed ha promesso di studiare in altre questioni relative ai titoli al portatore, che pare esistano anche lassù, ma siano sconosciuti al gran pubblico, per alcune incomprensibili difficoltà di procurarseli.

 

 

Il desiderio diffuso nell’Inghilterra di imitare noialtri deve essere meditato anche quaggiù:

 

 

  • 1) in primo luogo per tenerci ben caro il titolo al portatore, a torto ritenuto come dannoso al fisco, mentre è uno dei più forti baluardi del credito pubblico e privato. Guai se i titoli fossero tutti nominativi! Innumeri risparmiatori cercherebbero altre vie, e Stato, comuni, società anonime dovrebbero pagare un interesse più elevato per ottenere capitali. Per lucrare, si e no, un’imposta di successione del 3% ogni 35 anni, bisognerebbe pagare lo 0,50% ogni anno di più d’interesse. Stupendo affare, in verità, e bene a ragione deprecato dai sommi che, nel 1860, posero i capisaldi della legislazione sul debito pubblico!
  • 2) Per cercare nuovi strati di compratori di titoli di debito pubblico. Molto s’è fatto, in passato, talché si propone altrove di imitarci. Ma non quanto s’è fatto in Francia. Da noi la rendita pubblica è il titolo delle classi medie; in Francia dei contadini e degli artigiani. Sono i bas de laine dei contadini francesi che hanno permesso nel 1871 di pagare, con furia stupenda i 5 miliardi di indennità alla Prussia. Ora, in Italia, i contadini e il ceto operaio superiore – e vi sono tra i contadini, affittavoli e piccoli proprietari, e tra gli operai, dei sovrastanti e degli artigiani ben pagati – non conoscono abbastanza la rendita. Non la conosce nemmeno il piccolo negoziante che talvolta è infastidito al pensiero di impiegare i risparmi non investibili nell’azienda. Costoro badano poco all’interesse; e molto di più alla sicurezza del capitale. Allo Stato ed agli Enti pubblici converrebbe di trovare il modo di far presa su costoro.

 

 

Questa è una via che potrà dar frutti. Ma conviene di scegliere il modo di far presa sulla fantasia di questi risparmiatori in erba. In Francia vi sono riusciti, ancor meglio dello Stato, il credit foncier e la città di Parigi, coi loro prestiti a premio. Mentre riescono solo discretamente certi prestiti tedeschi ed austriaci a tassi elevati, una emissione recentissima del credit foncier francese fu coperta 19 volte, sebbene desse solo il 3 per cento. Ma, oltre che dal 3 per cento, i risparmiatori sono eccitati a comprare dall’estrazione mensile di premi da 100.000, 50.000, 20.000, 10.000 lire. Costano poco al debitore, questi premi, popolarizzano straordinariamente il prestito e spingono a risparmiare anche chi non vi avrebbe mai pensato. Conviene, in un’epoca di rincaro generale, dell’interesse, rifletterci sopra.

 

 

Non è possibile, dirà taluno, andare in fondo a pigliar di fronte il problema: e poiché la caduta dei consolidati è dovuta al rialzo del tasso dell’interesse, non v’e` proprio nessun mezzo per frenare questo rialzo?

 

 

Problema grave, e che può sembrare quello della quadratura del circolo. Si può dire soltanto che il rialzo cesserà quando scompariranno le cause che vi hanno dato origine. Quando i Governi non aumenteranno più i loro debiti pubblici, quando i paesi nuovi saranno messi in valore, quando saranno costruite le principali ferrovie transasiatiche, transafricane, transandine, transaustraliane, quando la febbre di impianti e di invenzioni nuove che esagita il mondo nel momento presente si sarà calmato, allora potrà darsi che gli imprenditori pubblici e privati cessino dal correre dietro ai risparmiatori, ed allora il tasso dell’interesse tornerà a scemare.

 

 

È chiaro che i Governi su di ciò non possono agire con leggi, se non in quanto essi si astengano da quel programma di espansione che sembra essere divenuto una loro caratteristica nel momento presente. Ma vi è un punto, dove una legge, purché sia una legge internazionale, può agire. Almeno è questo l’insegnamento che si ricava dagli scritti di quelle eminente economista americano Irving Fisher, che ho citato nel precedente mio articolo. Si segua il seguente ragionamento:

 

 

  • 1) il ribasso delle rendite di Stato è tutt’uno col rialzo del tasso dell’interesse. Se l’interesse del mercato è 2,50 per cento, una rendita pubblica di annue lire 2,50 vale in capitale 100 lire; se l’interesse del mercato va a 3,20% la stessa rendita pubblica di annue lire 2,50 vale in capitale solo 78 lire.
  • 2) il rialzo del tasso dell’interesse è contemporaneo ed è probabilmente una conseguenza del rialzo del livello generale dei prezzi delle merci, dei servizi degli uomini ecc.. Ricordo la dimostrazione già data.
  • 3) il rialzo nel livello generale dei prezzi delle merci, eccetera, è dovuto all’aumento della produzione dell’oro.

 

 

È la vecchia teoria quantitativa della moneta, rielaborata da Fisher con insuperata maestria. L’ora che si estrae dalle miniere viene in notevole parte destinato alla monetazione. Poiché dal 1883 al 1911 la quantità di oro prodotta ogni anno è cresciuta, in cifre tonde, da 500 a 2.500 milioni di lire, è chiaro che siano minacciati da una inondazione di oro. Minacciati, bisogna dire, perché se c’è più oro, c’è più moneta; e se c’è più moneta questa rinvilisce, come rinvilisce il grano, quando il raccolto è abbondante. Or che cosa vuol dire deprezzamento della moneta? Semplicemente questo: che per avere 1 chilogrammo di pane bisognerà dare 50 centesimi di oro invece di 40 centesimi; e così per tutte le merci e tutti i servizi di cui si ha bisogno. È il caro della vita spiegato. La vita rincara perché si produce troppo oro. C’e` pericolo che rincari vieppiù, perché si inventano ogni giorno metodi tecnici più perfezionati per trarre l’oro dalle gonghe più ingrate. Che cosa accadrà quando si inventerà la maniera di fabbricare artificialmente l’oro a buon mercato? A quali volate dei prezzi assisteremo? Fa spavento soltanto a pensarci.

 

 

Qui viene la proposta del Fisher. Mi guarderò bene dall’esporla nei particolari, perché riuscirebbe astrusissima. Del resto è inutile farlo, perché egli per ora propone soltanto che sia nominata una Commissione internazionale per lo studio delle cause del rincaro dei prezzi. La sua idea ha già dato dei progressi. Egli è già riuscito a far presentare al Senato americano un disegno di legge che autorizza il Presidente degli Stati Uniti a nominare i membri americani della Commissione. A quanto egli mi scrive, il Presidente Taft è favorevolissimo alla sua iniziativa. Molti fra i maggiori economisti d’Europa e d’America hanno risposto aderendo. In Italia nelle sfere ufficiali sono già persuasi dell’utilità della iniziativa.

 

 

Nell’incartamento trasmessomi dal Fisher si leggono invero una lettera del ministro Nitti al Prof. Montemartini, direttore generale della Statistica e del lavoro, in cui lo incarica di dar opera allo studio statistico delle variazioni dei prezzi, ed una altra lettera del Montemartini al Fisher nella quale si plaude al concetto dell’indagine internazionale. Gli on. Nitti e Montemartini sono degni di ogni lode per avere subito accolto e cominciato ad attuare, in parte almeno, il concetto del Fisher; e ritengo necessario che l’opinione pubblica li appoggi. Il rincaro della vita è problema tormentoso dell’Italia e di tutto il mondo; e il rincaro dell’interesse è un problema tormentoso di quanti, privati ed Enti pubblici debbono trovar denari a prestito. Immaginiamo ora per un momento che si riuscisse a concretare una convenzione internazionale che mettesse un freno, se non direttamente alla produzione, alla monetazione dell’oro, o meglio che regolasse la monetazione in guisa da mantenere costante il livello generale dei prezzi. I prezzi, pur continuando a variare individualmente, cesserebbero, nella loro media generale, di aumentare. Nemmeno diminuirebbero più. Il rincaro della vita diventerebbe un fenomeno del passato. Anche il rialzo del tasso dell’interesse, in quella parte in cui è determinato dal rialzo del livello generale dei prezzi, cesserebbe di aver ragione d’essere. Sarebbe arrestato il ribasso nelle rendite di Stato; il consolidato inglese da 78 tenderebbe di nuovo alla pari; il 3,50% italiano andrebbe forse a 105-106 e dopo il 1920 si potrebbe forse pensare ad una conversione al 3 per cento.

 

 

Si pensi che tutto questo ed altro ancora accadrebbe in virtù di una semplice convenzione internazionale! Il guaio si è che tale risultato, sebbene razionalmente possibile, si può ottenere solo attraverso difficoltà pratiche straordinarie, forse invincibili per ora. Gli economisti non sono tra di loro d’accordo nemmeno sul concetto fondamentale, che cioè il rialzo dei prezzi deriva dall’aumento della produzione dell’oro; e molti vi assegnano infinite cause diverse. Ad ogni modo, l’indagine è meritevole di essere compiuta. Vi sono interessati popoli sofferenti e Governi desiderosi di credito a buon mercato.

 

 

 

 

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