Opera Omnia Luigi Einaudi

Edoardo Giretti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1941

Edoardo Giretti

«Rivista di storia economica», VI, n. 1, marzo 1941, pp. 66-69

 

 

 

Non dimenticherò mai le due immagini le quali restarono incise nella mia mente la prima volta che entrai nella casa ospitale di Bricherasio, dove erano sempre lietamente accolti studiosi d’ogni paese, apostoli dell’idea della pace e del libero scambio, compagni di fede e di lotte politiche.

 

 

L’una fu quando a capo tavola si assisero il padre Agostino e la mamma Giuseppina Coggiola, i quali avevano nel 1869 fondato il setificio, diretto poi sino alla morte dal figlio Edoardo. Attorno ad essi i figli, numerosi, forse i 12 necessari nel vecchio Piemonte alla esenzione delle imposte.

 

 

Tutti allora, secondo le età e le attitudini, addetti alla fabbrica.

 

 

Edoardo era i primogenito ed era, manifestamente e giustamente, l’orgoglio della famiglia, quegli che faceva accorrere nel borgo posto a piè delle prealpi uomini che, in quei primi anni del novecento, erano lustro degli studi e della politica. Ma quella era una famiglia patriarcale, e, qualunque fossero i meriti dei figli, ubbidienza e rispetto erano in primo luogo dovuti ai genitori, versatissimo il padre nell’arte della seta, e donna di alto sentire e di fine conversazione la madre. Coll’andar degli anni, Edoardo prese, a capo tavola, il luogo dei genitori ed a lui si volsero il rispetto e l’ubbidienza prima dovuti ai genitori. Questo era l’uso delle famiglie del medio ceto piemontese d’una volta; quando i figli, ricordava mia madre, non osavano ancora, all’ora dei pasti, star seduti a tavola a fianco dei genitori e dei nonni; ed era uso che faceva le famiglie stabili, assicurava la necessaria preminenza dei migliori e la assistenza di questi verso i meno fortunati non immeritevoli.

 

 

L’altra immagine di bene fu quando nel pomeriggio in piccola comitiva si andò ad un borgo della montagna, dove Edoardo doveva tenere un discorso elettorale. Era, credo, la seconda volta che egli si presentava candidato al parlamento (la prima fu nel 1897, ma solo nel 1913 riuscì vittorioso dalle urne, per cadere poscia, a collegio ampliato, nel 1919). Ero stato testimone di altre battaglie elettorali, in un collegio rurale piemontese, a base di discorsi sulle pubbliche piazze, di Viva l’Italia, Avanti Savoia, ordine e libertà, conservazione e progresso ecc., di contumelie personali, di promesse di strade, di appoggi, vantati o reali, governativi e prefettizi e di distribuzione di trippe e di vino ad amici e nemici. Mi parve di entrare in un altro mondo. Il collegio di Bricherasio era allora probabilmente il collegio rurale più colto d’Italia. L’emulazione fra la montagna valdese ed il piano cattolico (Edoardo Giretti apparteneva a quest’ultima sezione e la diffidenza dei valdesi fu per lui ostacolo duro da sormontare) aveva dato frutti che, a guardar bene, erano meravigliosi. La lettura della bibbia tra i “religionari”, il commercio epistolare e personale continuato fra i maggiorenti della tavola valdese e le chiese protestanti ginevrine, olandesi ed anglosassoni, avevano fatto le menti aperte ai problemi religiosi culturali e politici che si agitavano fuor del Piemonte e dell’Italia; ed il clero cattolico aveva dovuto porsi in grado, come accadeva, per altre ragioni, anche nel clero valdostano, di reggere al paragone dei pastori protestanti. Così fu che in quel giorno nella saletta comunale, dinanzi ad un pubblico attento di montanari, non sentii discorrere di strade promesse e non eseguite, di appoggi sottoprefettizi (tutti sapevano che se Edoardo Giretti doveva vincere nella montagna la diffidenza valdese verso un cattolico, nella piana egli doveva combattere l’onnipotente Giolitti, elettore nel grosso borgo di Cavour, che faceva parte del collegio ed ostile al Giretti, il quale non aveva mai curato di iscriversi tra i suoi fidi); ma di propaganda per la pace, di trattato di commercio colla Francia, di dazio sul grano confrontato col macinato e simili serii problemi. Parlò, dopo Giretti, Gaetano Mosca, allora professore di diritto costituzionale all’università di Torino, poi deputato ed ora senatore; ed il tono della adunanza fu quale avrebbe potuto essere quello di una riunione elettorale in un cantone svizzero, avvezzo a secoli di discussione civile e politica. Nonostante le sconfitte ripetute nel 1897, nel 1906, nel 1909, Edoardo persistette a condurre la “sua” propaganda a base di opuscoli, fogli volanti, conferenze su problemi economici, finché nel 1913 poté andare per tutta la legislatura di guerra – guerra a cui egli aderì pienamente e sperò foriera di lunga pace – a difendere in Parlamento le idee delle quali da un trentennio erasi eretto a sostenitore nel paese in genere e nel suo collegio in particolare. Commemorando Arcangelo Ghisleri, nobilissima figura di educatore, di studioso e di combattente politico, Edoardo Giretti riconosceva a lui il “pieno diritto di applicare a se stesso il motto sublime di Guglielmo il Taciturno: «Non vi è bisogno di sperare per intraprendere né di riuscire per perseverare». Quel motto ben poteva applicarsi al Giretti. Se in una parte soltanto dei collegi elettorali italiani un candidato, altrettanto ostinato nel non lasciarsi scoraggiare dell’insuccesso ed altrettanto persuaso della bontà delle proprie idee, avesse persistito nell’educare gli elettori ad elevarsi, al di là degli interessi particolari, all’idea dell’interesse generale, non sarebbero allora andati perduti in Piemonte i frutti dell’opera di educazione politica compiuta nel decennio cavourriano.

 

 

Giretti faceva opera di educatore non solo cogli scritti e colla parola, ma coll’esempio. Apostolo, oltrecché della pace e della libertà degli scambi, della cooperazione, istituì, ventiquattrenne, nel 1888, a Bricherasio un “Panificio cooperativo” del quale rimase presidente, amministratore, compilatore dei conti e delle relazioni sino a quando, insieme con tante altre istituzioni, anche questa dopo il 1926, seguì le sorti segnate dal mutare dei tempi. Ad un certo punto il presidente, invece delle consuete relazioni annuali, che nessuno storico della cooperazione in Italia potrà trascurare, riferisce a voce ed a stampa si leggono solo i rendiconti e la relazione dei sindaci. Ma i rendiconti non mutano: e sempre riferiscono i dati sulla farina panificata, sulle diverse qualità e quantità di pane prodotto per mese e per giorno, sul costo, in totale e per quintale, della farina panificata e del pane prodotto, con la specificazione del costo nei suoi elementi: sale, legna, salari ed assicurazioni sociali, manutenzione, fitto, assicurazione incendi, forza, luce elettrica e coke, cancelleria, posta e stampa, trasporti, imposte e tasse (distintamente per ogni imposta), spese diverse ed i dati sono così precisi e sistematicamente raccolti da collocare la raccolta dei 38 bilanci compilati da Giretti tra le fonti più preziose per la conoscenza dei costi di produzione del pane in un modesto forno cooperativo rurale nel tempo dal 1888 al 1926; così come gli studi pubblicati dal Giretti su “La riforma sociale” intorno ai prezzi ed ai costi dei filati di seta nel secolo scorso sino al 1930 rimangono ancora la sintesi migliore delle vicende dell’industria della seta in Italia. Quella sintesi egli l’aveva ricavata dai libri della impresa che egli diresse e fece durare superando, con pazienza e sforzi che a sentirli raccontare da lui sembravano indicibili, le difficoltà le quali nel nostro paese resero tormentosa la vita delle imprese di dimensioni medie, insidiate dal lento continuo decadere della bachicoltura, alla quale le donne delle famiglie agricole piemontesi, ognora più insofferenti del lavoro compiuto in comune ed a prò della comunità famigliare, non vogliono più attendere.

 

 

Quando il 27 dicembre del 1940 Edoardo Giretti mancò ai vivi, poté a lui sembrare che la luce della speranza nell’avveramento dei suoi ideali di pace e di cooperazione economica e spirituale fosse, in un mondo in guerra e diviso in piccoli campi gli uni agli altri chiusi, venuta meno. In un mondo organizzato per la guerra economica, nel quale le iniziative individuali debbono ubbidire agli ordini venuti dal centro, sembrò a lui anche che la sorte delle modeste imprese, come la sua, viventi grazie all’economia più rigida, al lavoro direttivo ed esecutivo dei membri di una famiglia, fosse segnata nigro lapillo. Come può un’impresa, di cui le spese generali debbono necessariamente contenersi nelle poche migliaia di lire, vivere in un’economia imperniata sulla necessità di condurre pratiche complesse e costose di licenze di importazione ed esportazione, concessioni di cambi e di premi, autorizzazioni varie ministeriali, corporative ed assicurative?

 

 

Le dimensioni dell’impresa debbono necessariamente crescere, sebbene non per fronteggiare le spese vive delle materie prime, dei combustibili, dei salari, della vendita, dell’amministrazione interna. A tenere questi costi entro i limiti dei prezzi correnti bastavano l’opera sua raffinata dall’esperienza e la collaborazione dei fratelli e delle sorelle; ma nessuna impresa famigliare, la quale non possa, per la natura stessa dell’industria esercitata, allargare grandemente il proprio giro d’affari, può reggere al costo di rappresentanze, nella capitale e nelle città sedi di uffici governativi e corporativi locali, esclusivamente occupate nella trattazione di affari tributari doganali e valutari. Ma a lui si potevano ricordare di nuovo le parole che egli aveva dettato per Arcangelo Ghisleri: “Gli uomini in generale hanno la tendenza a ragguagliare ed a considerare gli avvenimenti della storia alla loro breve vita. Non è così che la storia procede. Per essa gli anni sono secoli, e molte volte è avvenuto, e presumibilmente continuerà ad avvenire, che da una situazione giudicata in apparenza disperata, per l’intervento forse soltanto casuale di elementi e motivi insufficientemente prima valutati, si determini, come è il caso per i fenomeni naturali della fisica e della chimica, il definitivo trionfo di una causa a lungo ed aspramente combattuta fra le opposte forze della reazione e del progresso. Chi è colui che può dire oggi come sarà il mondo fra trenta o cinquanta anni? Di certo vi è soltanto il fatto che nessuno può contestare e mettere in dubbio: che tutte indistintamente le continue e meravigliose scoperte ed invenzioni scientifiche, tendono a diminuire ed a sopprimere sempre più le barriere e gli ostacoli naturali fra tutti i paesi e tutti i continenti del mondo, ed a fare così di tutto questo un solo mercato per lo scambio delle merci e delle idee di una umanità riunita sotto l’egida di una legge e di una tutela comune, e tutta intenta alle opere della produzione per il suo continuo ed illimitato miglioramento”.

 

 

Alle idee riassunte nel brano qui riprodotto si inspira tutto ciò che Giretti scrisse e pubblicò per mezzo secolo nel “Giornale degli economisti “, nel “Journal des economistes”, in “La riforma sociale”, in “Vita internazionale”, nella “Rivista d’Italia”, in “Critica politica”, nei congressi per la pace e per il libero scambio, negli opuscoli e volantini di propaganda elettorale, nei discorsi parlamentari, negli atti del “Cobden Club”, in articoli e lettere inviate a quotidiani e principalmente al “Sole”, al “Secolo” ed alla “Gazzetta del popolo”. Non tento la compilazione di una “bibliografia essenziale”, come quella che sarebbe appropriata ad un economista cattedratico; ché l’opera scritta di Edoardo Giretti sparsa in parecchie centinaia di numeri e scarsamente raccolta in volumi (ricordo solo “Per la libertà del pane”, Torino, Roux, 1901 di 234 pp.; “I danni e le ingiustizie della nuova tariffa doganale”, Torino, Lattes, 1922, di 110 pp. ed, in collaborazione col nipote Luciano, “Il protezionismo e la crisi”, Torino, Einaudi, 1935, di 170 pp.) era fatta viva dall’azione quotidiana di un uomo che nel tempo stesso attendeva alla industria serica, fondava leghe di contribuenti e per il libero scambio, fu per parecchi anni corrispondente italiano della “Carnegie Foundation for International Peace” di Washington e del “Cobden Club” di Londra e partecipò a tutte le battaglie condotte in Italia da quel piccolo gruppo di uomini che si chiamavano liberisti e non riuscirono mai a diventare un partito. Utopisti, forse. Tra essi teneva luogo singolare Edoardo Giretti che sino a ben oltre i settant’anni vidi sempre sorridente, ottimista, fisicamente e spiritualmente giovane, rassegnato a tutto fuorché a riconoscere di aver avuto torto nel mantener fede agli ideali di pace, di cooperazione, di libertà degli scambi di idee e di cose fra gli uomini.

 

 

Gli operai, donne per lo più, che lavoravano nella sua fabbrica, lo amavano e non pochi gli restavano fedeli per parecchi decenni sino alla morte: ed i compaesani, riconoscenti per il bene fatto calmierando il pane con il suo forno cooperativo, lo rielessero, sinché poterono, costantemente consigliere comunale.

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