Opera Omnia Luigi Einaudi

Epilogo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1933

Epilogo

La Condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Laterza, Bari – Yale University Press, New Haven, 1933, pp. 397-416

 

 

 

172. L’incapacità dell’Italia a superare la crisi del dopoguerra non fu economica bensì morale. – 173. La classe politica aristocratica vagheggiata dal conte di Cavour non poté formarsi nel periodo della costruzione economica del paese. – 174. Essa invece si recluta sempre più tra professionisti e burocrati. L’on. Giolitti ne è il tipico rappresentante. Liberale diventa colui che rinuncia ai propri ideali a pro degli altrui. – 175. I due germi di fioritura sociale e politica osservati verso il 1900: la formazione di un’opinione pubblica ed il contrasto di classi. Come non abbiano condotto alla formazione di un nuovo stato. – 176. La guerra indebolisce le classi economiche indipendenti e vieppiù cresce la dipendenza dell’economia dallo stato. – 177. Le condizioni di vita dello stato liberale. – 178. L’esperienza negativa del dopoguerra riapriva la strada all’avverarsi di quelle condizioni, di cui esistevano non pochi elementi. – 179. Le due vie: la confusione fra stato e società, col regresso di ambedue: ed il ritorno alla separazione dei rispettivi compiti. – 180. è scelta la seconda, più aspra e lunga, da chi vuole camminare veloce alla meta.

 

 

172. – Nell’atto di chiudere questa indagine intorno alla condotta economica ed agli effetti sociali della guerra italiana giova ricordare ancora una volta le ragioni, quali apparvero al narratore, della incapacità dell’Italia a superare, entro gli schemi tradizionali della sua costituzione politica, la crisi del dopo guerra. Non, s’intende, tutte le ragioni di questa incapacità, ché ben più compiuto quadro militare politico morale spirituale avrebbe dovuto essere delineato; ma quelle sole le quali necessariamente furono viste da chi si ristrinse a studiare gli avvenimenti economici.

 

173. – Il rivolgimento sociale della guerra e della conseguente inflazione monetaria diede alimento alla crisi coll’accentuare il prepotere dell’istinto egoistico e col rivolgere gli uomini, ancor più di quanto non accadesse già prima, dalla contemplazione del cielo alle faccende acquisitive terrene. Venuta meno da tempo l’antica classe dirigente, la guerra, pur gittando il seme di nuove rigogliose formazioni, aveva stremato le nuove classi che faticosamente si erano costituite nell’ultimo cinquantennio.

 

 

Camillo di Cavour si era illuso che la nuova grande Italia potesse essere governata da quel ceto indipendente, al quale egli apparteneva per nascita e volle, con sforzo grande di lavoro e di iniziativa, appartenere di fatto, allo scopo di essere libero poscia di dedicarsi tutto alla cosa pubblica. Pur essendo profondamente radicato al suolo, alla famiglia ed all’aristocrazia militare e governante, di cui faceva parte per ragion di nascita, Camillo di Cavour era un cadetto. In Piemonte i cadetti di famiglie nobili si facevano soldati o preti. Egli non volle essere né l’una cosa né l’altra. L’amore del paese, la coscienza dei servizi che era chiamato a rendere alla patria, la piccolezza dello stato piemontese, privo di possessi coloniali, gli impedirono di andare a cercar fortuna, come talvolta facevano e fanno i cadetti inglesi, nelle colonie d’oltremare. Volle però, come i cadetti d’Inghilterra, conquistare l’indipendenza economica «Sono un cadetto – scriveva egli al congiunto De La Rive – il che vuol dir molto in un paese costituito aristocraticamente; bisogna che io mi crei una posizione col sudore della mia fronte. È facile a voi, ricchi a milioni, occuparvi di scienza e di teoria; noialtri poveri diavoli di cadetti, dobbiamo sudare sangue prima di aver conquistato un po’ d’indipendenza». Il Conte negli anni della sua giovinezza non sognava indipendenza per smania di lucro; ma perché l’indipendenza economica gli pareva condizione necessaria per dedicarsi intieramente alla cosa pubblica; ma perché riteneva che la classe politica non potesse realmente riuscire utile alla patria ove non fosse composta di persone indipendenti nel giudizio, non costrette ad adulare il popolo per accattarne stipendi o favori. È una concezione aristocratica della vita politica, e suppone, naturalmente, che la classe politica non sia composta di ricchi aspiranti a crescere la propria ricchezza impadronendosi del meccanismo governativo. L’indipendenza a cui anelava Cavour era quella di un’aristocrazia che vive dei redditi aviti od accumulati nell’età giovanile, che non cerca di accrescerli colla propria influenza politica e se ne giova per il bene pubblico … Per lui il capo politico era l’uomo indipendente di censo, capo di notabili e notabile egli stesso per intelligenza, studi e, se possibile, per tradizioni famigliari»[1]. Le pagine che precedono sarebbero state scritte invano se da esse non si traesse il convincimento che il ceto politico vagheggiato dal Cavour, il quale s’era incominciato a formare in Piemonte tra il 1830 ed il 1850[2] e senza la cui collaborazione sarebbe stato arduo anche per il gran conte toccare la meta agognata, forse fu soltanto l’aspirazione di un gruppo ristretto piemontese innanzi al 1848 e in ogni caso apparve soltanto come una rapida meteora nel cielo politico italiano. Sempre più dopo il 1876 il potere politico era caduto in mano a quella «masse bourgeoise à esprit étroit, à passions mesquines qui jalouse la classe supérieure», a quei membri «della piccola borghesia bottegaia ed avvocatesca» verso cui il Conte di Cavour sentiva una repugnanza quasi fisica. Il parlamento si popola di «trembleurs, conservateurs au fond du coeur, radicaux par peur, n’ayant ni couleur ni opinion tranchée»[3]. Come poteva costituirsi un ceto politico indipendente in un’epoca storica, nella quale l’agricoltura non reggeva all’urto della concorrenza transatlantica e la terra a poco a poco passava dal possesso delle antiche classi aristocratiche nelle mani di fittavoli e contadini; passaggio destinato a dare nei secoli frutti stupendi di tranquillità sociale e di indipendenza a milioni di medi e piccoli proprietari invece che a pochi appartenenti ad una classe troppo eletta per non diventar presto decadente; ma passaggio il quale frattanto costringeva gli agricoltori ad un rude lavoro di trasformazione e li straniava da ogni consapevole partecipazione alla cosa pubblica? Come poteva venir fuori quel ceto dal mondo delle industrie e dei commerci, quando la più parte degli industriali e dei commercianti era legata da diuturna fatica all’officina od al fondaco? Troppo gravava sulle generazioni dell’anteguerra la fatica dell’acquisizione materiale dei beni della terra, perché esse godessero degli ozi necessari a volgere lo sguardo al cielo. Cosicché, mentre i ceti medi, quelli che avevano la cultura del ceto medio e quelli che col tempo l’avrebbero conquistata, attendevano alle cose terrene che ad essi singolarmente importavano e davano grande incremento all’economia italiana, della cosa pubblica si occupavano sopratutto coloro i quali avevano visto quanto valesse usarla ai propri fini. I ceti dirigenti furono tratti dalle industrie e dai rami di attività economica che per vivere avevano bisogno dell’aiuto dello stato; e, poiché anche i loro capi erano assillati dalle faccende acquisitive, essi delegavano il compito della rappresentanza politica ai ceti professionali avvocateschi, pronti a difendere qualunque causa procacciasse loro comodo di vita e soddisfazione di ambizioni. Fu ventura che le classi veramente rappresentative dell’Italia, composte di medi e piccoli industriali proprietari fittavoli mercanti ed artigiani operosissimi e, tra alcuni faccendieri, di professionisti retti e di burocrati devoti al bene pubblico (cfr. parag. 3 a 5, 9 a 13) fornissero ancora allo stato buon numero di uomini di governo. Probi e laboriosi essi riponevano tuttavia la somma dell’arte di stato nel “governar bene”[4] la cosa pubblica, intendendo per buon governo quel modo saggiamente prudente di amministrare che usavano nelle faccende private.

 

 

174. – A detta dell’eloquentissimo fra i difensori del parlamento italiano, Giustino Fortunato, la classe politica italiana, «sparita da Montecitorio non la sola aristocrazia, ma la borghesia signorile in genere», era composta «dalla media e piccola borghesia, in maggior numero avvocati esercenti, nati dopo il ’60… tutti insieme più colti ed onesti e temperati della media dottrina e rettitudine e saviezza dei propri collegi…; ma tutti insieme e singolarmente, non d’altro pensosi se non di rimanere deputati, né già perché amanti della politica, sì bene perché questa, dando loro notorietà, li assicura di una miglior vita professionale; continuamente assaliti perciò dal bisogno della benevolenza ministeriale e del favor popolare il più delle volte l’una in aperto contrasto con l’altro». Incombeva la minaccia, «segno precursore di grave infermità», del prevalere nelle elezioni «dell’elemento burocratico, già tanto preponderante in un paese come l’Italia, così povero di classi veramente politiche». Chi ignora «che non poca parte della fortuna parlamentare del Giolitti dipese da ciò, che egli solo, surto dalla burocrazia, seppe dominarla? Basta dare un’occhiata ai ministeri da lui diretti od a quelli da lui plasmati, per vedere com’essi furono, in maggioranza, composti d’uomini addetti a una o un’altra amministrazione; e, tra essi uno o due direttori generali, in veste di luogotenenti: il secondo de’ ministeri Fortis contò fin otto stipendiati dello stato»[5].

 

 

Delle classi rappresentative dell’Italia (cfr. sopra parag. 173) tipico capo fu colui che per venticinque anni dominò la scena politica italiana. Attaccato alle istituzioni statutarie per lunga tradizione propria delle famiglie piemontesi di servitori dello stato, nella vita privata e nel maneggio del pubblico denaro illibato, amministratore esperto e conoscitore profondo dei congegni di governo, fornito mirabilmente delle qualità di tenacia e di furbizia proprie del contadino della sua provincia e di singolare intuito delle ambizioni e dei difetti umani, male addestrato, per difetto di preparazione scientifica e di conoscenza dei grandi problemi mondiali, a valutare adeguatamente le esigenze delle nuove classi sociali e quelle imposte dalla posizione dell’Italia nel mondo, l’on. Giolitti concepì l’arte di governo come un’abile manovra diretta ad eliminare ostacoli, a quetar malcontenti, a consentire gradualmente la partecipazione al governo ai rappresentanti dei partiti politici fautori di novità sociali. La fede sua non derivava da un ideale chiaro di vita; e riducevasi al senso, radicato nei servitori pubblici, del dovere di tutelare l’ordine nella libertà e della convenienza politica di attirare repubblicani, socialisti e cattolici nell’orbita della monarchia e dello statuto. Il che riuscì assai acconciamente, sinché conservavasi intatta la tradizione liberale dello stato aperto sì a tutte le feconde innovazioni, ma geloso della propria sovranità ed alieno dall’intervenire nelle cose private. Nel passaggio dal connubio di Cavour al trasformismo di Depretis la dottrina liberale, troppo disposta negli uomini che la impersonavano a donare altrui liberalmente se medesima accogliendo ed immedesimandosi con quelle ad essa ripugnanti, aveva tuttavia già perduto ogni intima virtù spirituale ed era divenuta «un mito, una di quelle parole le quali, insieme col Re e la patria, le gloriose battaglie del risorgimento nazionale, lo statuto e la marcia reale, costituivano suppergiù tutto il contenuto spirituale dei discorsi politici pronunciati nei banchetti dei comizi elettorali e delle feste per il ponte, la ferrovia, la bandiera nuova e simiglianti occasioni. Il liberalismo sentito dalla classe politica… non ebbe più se non un rapporto tenuissimo con la dottrina liberale. Essere “liberale” fu inteso come sinonimo di “non aristocratico”, “non socialista rivoluzionario”, “non anarchico”, insomma come sinonimo di persona che non va negli eccessi, che si comporta bene, che non dice male parole. Liberale, volle dire accogliente, amico con tutti, pronto a far favori, potendo, a tutti, disposto ad accettare le idee buone da tutti, da qualunque parte vengono, con qualche sospetto soltanto verso le idee che potessero essere tacciate di aristocratiche o di clericali e senza nessun sospetto verso le idee socialiste e rosse ed estreme in generale… La politica del “carciofo” che fu quella adottata da casa Savoia per mangiarsi a poco a poco i territori circostanti al Piemonte “antico”, è la politica oramai tradizionale del “liberalismo”[6]. Bisogna ammansare i partiti estremi, adescandoli, facendoli entrare nell’”orbita” delle istituzioni”, adottando la parte “buona” delle loro dottrine; facendo vedere “coi fatti” che i liberali non hanno paura di nessuna novità più “ardita” purché questa sia attuata con prudenza e con garbo». Quel liberalismo, continuava il commentatore contemporaneo, era «una grande forza». Sapeva amministrare bene «con tatto, con sapienza, con competenza». Per essere quella grande forza di cui aveva bisogno l’Italia nel torno della guerra, mancava a quella classe politica soltanto «sapere perché si deve governare bene, ossia le manca solo l’idea liberale» (C. d. S., n. 247 del 14 ottobre 1922).

 

175. – Gli epigoni del liberalismo credettero avere incanalato nell’orbita legale i vigorosi germi innovatori che si erano annunciati sul finire del secolo scorso e parvero per un momento capaci di creare una nuova classe politica. Due erano quei germi di fioritura sociale e politica: il contrasto fra le nuove classi, sorte dalla rivoluzione tecnica giunta all’Italia dopo il 1880, di industriali ed agricoltori da un lato e di operai e contadini dall’altro (cfr. parag. 7 a 10) ed il vigoreggiare nel campo del pensiero e della discussione, di un ceto intellettuale addestrato a severa ricerca e meditazione e capace di creare, col libro e col giornale, una opinione pubblica informata e sollecita dell’interesse generale. Altri e massimamente Benedetto Croce[7] narrò già quale fosse stato il travaglio mirabile da cui era uscita l’Italia della vigilia della guerra; un’Italia diversa certamente da quella che avevano sognato Camillo di Cavour ed i culti costruttori politici dal 1830 al 1870; Un’Italia più folta di abitanti, alla cui vita politica addestravasi a partecipare, come era suo diritto e vantaggio di tutti, anche il popolo minuto; un’Italia scossa dal fremito delle incomposte pretese delle plebi chiamate appena allora a dignità di vita; ma un’Italia viva di pensiero e di opere. Nel tumulto delle passioni sociali e politiche, quel che massimamente affidava per l’avvenire era che le forze particolari, anche se potenti per denaro o per abilità di patroni, e le organizzazioni di classe, socialistiche e cattoliche, anche se minacciose per numero di aderenti al vangelo rosso o bianco, sentivano di non potere attuare i loro voleri sino in fondo, se vi contrastasse la forza inafferrabile e misteriosa dell’opinione pubblica. Voce di pochi eletti durante il risorgimento, l’opinione pubblica verso la fine del secolo scorso cominciò ad acquistare valore proprio. Essa era fatta vigile non tanto dal parlamento quanto dalla libera voce della stampa, da quella impetuosa di avanguardia dei settimanali a quella solenne dei grandi giornali quotidiani. Tra il 1880 ed il 1914 era sorta invero una stampa nuova, odiata dai politici perché aliena dalle fazioni, odiatissima dai plutocrati perché di essi non bisognosa, la quale aveva trovato la ragione del successo nell’assoluta indipendenza da ogni provento che non fosse fornito dai lettori. Condizione di vita per questa stampa era lo scoprire ed educare; secondare ed anticipare quella forza autonoma che appunto aveva preso nome di opinione pubblica e la cui esistenza giovava grandemente ad impedire il trionfo degli interessi particolari od almeno a ridurlo al minimo. Se, nonostante la potenza delle forze congiurate all’assalto del denaro pubblico (cap. IV, parag. 4) e quella dei miti collettivistici, richiamati in vita dalla ferrea necessità bellica (cap. III) e traenti gli uomini alla distruzione della terra e della fabbrica (cap. IV, parag. 5-6), il buon senso aveva trionfato ed aveva salvato il paese dall’abisso e ricondotto il bilancio sulla via del pareggio (cap. V, parag. 3), il merito doveva essere attribuito al lavoro di educazione condotto per un cinquantennio col libro e colla scuola, con la parola e col giornale.

 

 

La storia della formazione di una opinione italiana a partire dal 1880 è la storia del germe più fecondo di rinnovazione politica il quale esistesse nell’anteguerra. Il germe era ancora tenero; ed il trionfo dell’interesse generale che esso prometteva era ancora precario, incompiuto ed ogni giorno minacciato dalla debolezza dei difensori della cosa pubblica e dalla improntitudine degli assalitori; e doveva essere assicurato con fatica diuturna estenuante di educazione, di discussione, di persuasione. L’interesse generale doveva sopratutto essere difeso con aspre battaglie condotte non d’accordo ma contro una classe politica reclutata nel modo descritto dal Fortunato e tarda a sentire gli effetti dell’elevazione che nel campo intellettuale, tecnico ed agricolo s’era operata in Italia. A causa del suo reclutamento fra ceti alieni dalla politica od a questa partecipanti solo per ottenere giustizia[8] o favori, la classe dirigente non pregiò la preparazione che alla vita politica è data dagli studi, dai viaggi in paesi forestieri, dal commercio con i ceti dirigenti degli altri paesi, dalla partecipazione alla vita economica. La cultura nelle camere legislative fu per lunghi anni rappresentata quasi soltanto dai transfughi dalla carriera accademica; di cui non pochi avevano ambito la cattedra come strumento di fortuna professionale e politica. Una scuola, che il marchese Carlo Alfieri di Sostegno, erede di grande tradizione, aveva fondato a Firenze per l’insegnamento liberale della scienza di stato, e per contribuire così alla preparazione del ceto politico, aveva dovuto prendere, se volle vivere, diverso burocratico indirizzo. Per un istante parve invece che il ceto dirigente avesse intuito il valore del contrasto sociale sorto in Italia alla fine del secolo scorso; sì da indursi a tenere in non cale la paura dalla quale furono allora colti proprietari ed industriali. Ad instaurare un nuovo metodo di scelta dei capitani d’industria e degli organizzatori operai, uopo era riconoscere legalmente e non sopprimere quel contrasto. Verso il 1900 fu vera gloria aver chiaramente veduta (cfr. parag. 10) la necessità di non gittare la forza coattiva dello stato a prò di uno dei contendenti. Ma, essendo meglio piana la via dei piccoli compromessi, presto guadagnò di nuovo terreno la politica dell’incanalamento e dell’assorbimento che volle dire, prima e dopo la guerra, dedizione verbale agli agitatori estremisti rossi e neri e gittar di offe protezionistiche e di commesse e di concessioni statali ad industriali troppo disposti a rinunciare per un piatto di lenticchie governative al diritto di lavorare fuor della tutela altrui (cfr. parag. 116 a 125).

 

 

176. – La guerra accentuò la mediocre composizione della classe politica; perché disperse ed indebolì quello che restava delle antiche classi indipendenti e arrestò forse per decenni la elevazione delle nuove classi medie agricole ed industriali al grado di classi politicamente indipendenti. Il rivolgimento nei redditi e nelle fortune costrinse coloro i quali, per essere giunti ad una certa fortuna, potevano ritenere di disporre degli ozi necessari a dedicare tutta o parte della vita alla cosa pubblica, a rivolgersi nuovamente alla cura delle faccende materiali. Quando i patrimoni oscillano o sfumano per forti improvvisi ed impensati aumenti o falcidie, è tempo di curar la masserizia. L’animo degli uomini dalla cura delle cose altrui e dalla vita del pensiero è forzatamente tratto ad occuparsi e preoccuparsi esclusivamente di salvare qualcosa dal naufragio o di aggiungere masserizia nuova a quella che già era stata accumulata. Così la cosa pubblica viene abbandonata ai faccendieri, agli avventurieri, ai professionisti della politica, i quali tremano ad ogni stormir di fronde e sono sempre pronti ad abbracciare quella fede che ad essi procacci popolarità ed onori.

 

 

Il prevalere degli interessi dei gruppi più potenti e meglio organizzati, che si manifestava prima della guerra attraverso i dazi doganali, i sussidi di navigazione e costruzione, i favori negli appalti pubblici ai produttori interni ed a cooperative, pigliò, durante la guerra, più franco andamento. Il mito dell’economia associata giovò a dare una giustificazione astratta a quella che era in verità una garanzia statale di successo o di salvezza in caso di perdita ad imprese economiche private; e fu causa di abbassamento nei metodi di scelta dei capi delle imprese economiche; poiché diede peso decisivo nella scelta alle qualità di abilità e di astuzia nell’ottenere licenze, privilegi, favori, esenzioni da imposte, assegnazioni d’autorità di materie prime a prezzi di favore, limitazioni legali al numero dei partecipanti a consorzi di produttori e di commercianti. Gli industriali, i tecnici chiamati per la loro competenza a dirigere servizi economici statali ed a collaborare alla loro riuscita, si avvidero che la forza dello stato, che è coazione, poteva essere fatta servire ad eliminare concorrenze fastidiose, ad impedire ai nuovi venuti di farsi largo, a procacciare profitti vistosi ai partecipi dei gruppi privilegiati. Si gridò molto negli anni dopo il 1919 contro la «bardatura di guerra» (capitolo VI, I); ma appena si tentò di distruggerla, industriali ed operai e burocrati nuovi furono concordi nell’illustrare i rischi dell’abbandono (ivi, II) e nel mantenerla in vita così da potere più facilmente continuare nella facile via dei profitti sicuri che l’economia collettivistica bellica garantiva.

 

 

Il bilancio dello stato fu salvo quando si riuscì ad abolire il prezzo politico del pane; ma la compagine economica e sociale del paese continuava ad essere corrosa dal più sottile veleno della convinzione di tutte le classi sociali, tutte malcontente e tutte desiderose di maggiore e miglior copia di beni, di avere diritto ad ottenerli dallo stato. Occupazioni delle fabbriche e delle terre, assalti alle banche ed al denaro pubblico da parte di grandi imprese capitalistiche o di nuove cooperative sono manifestazioni del medesimo male; il quale traeva operai e contadini, industriali e banchieri, agricoltori e commercianti a rinunciare alla propria indipendenza economica e ad associarsi allo stato nella vana speranza di accollare allo stato i rischi della propria impresa, conservando per sé i benefici. Il tentativo pareva riuscito durante la guerra, quando lo stato era divenuto il provveditore e l’assicuratore generale; ma il rischio era stato semplicemente trasferito sulle classi meno forti, attraverso lo strumento tecnico della inflazione monetaria.

 

 

177. – Il prevalere dei sentimenti di dipendenza dei ceti economici dallo stato crebbe la instabilità di questo. Lo stato liberale non dura se nel paese non vigoreggino forze sociali varie orgogliose pugnaci, le une indipendenti dalle altre; se grandi agricoltori, medi e piccoli contadini proprietari, industriali, commercianti e professionisti non vivano di vita propria, schivi, perché repugnanti ad asservirglisi, dell’aiuto dello stato, se non esistano nel medio ceto famiglie tradizionalmente adusate a fornire ufficiali all’esercito e funzionari alla cosa pubblica[9]; se le nuove moltitudini operaie e contadine, create dalla rivoluzione tecnica e viventi del lavoro delle braccia, cessando di essere gregge non abbiano saputo crearsi associazioni di difesa e di cooperazione, trattando da pari a pari con le classi imprenditrici, e costringendo queste alla loro volta ad associarsi e ad elevarsi o perire; se tutti questi ceti non posseggano l’orgoglio e la gelosia della terra, della fabbrica, della professione, del servizio, del mestiere, della associazione, del comune, della chiesa a cui appartengono. La scuola, il libro, il giornale ed il parlamento, riassumendo e suscitando contrasto di ideali, negando ragion di vita a ceti e gruppi sociali ignavi o superflui, sono, in una società così composta, lievito potente di rinnovamento. Allora soltanto allo stato non si chiede di essere l’elemosiniere universale, bensì il tutore degli interessi collettivi, il promovitore della cultura, il difensore contro il nemico, il rappresentante vigoroso di fronte agli altri stati.

 

 

178. – L’Italia del dopo guerra era ricca di non pochi tra gli elencati fattori di grandezza. La scuola, il libro ed il giornale, educando i giovani al sacrificio eroico ed alla consapevolezza dell’unità nazionale, avevano preparato la vittoria in campo; e le stupende attitudini di lavoro e di iniziativa dei ceti economici avevano tempestivamente fornito ai combattenti le armi vittoriose (cfr. parag. 29 a 64). Se noi non riuscimmo, come nessun altro popolo riuscì, a condurre la guerra stoicamente, per la sola redenzione dei fratelli soggetti al dominio straniero e per l’elevazione di tutti i popoli, vincitori o vinti, verso un più alto ideale di vita libera (cfr. parag. 14); la resistenza durante la lunga guerra e la vittoria avevano dimostrato tuttavia che una nazione era sorta. Centinaia di migliaia di giovani non immolano la propria vita a procacciar ricchezza ai furbi. A tal uopo si fugge e ci si arrende, non si combatte. Se si combatté e si vinse, fu perché non invano erano corsi i lunghi anni tra la morte di Cavour e la grande guerra. Anni di travaglio faticoso e fecondo, in cui continuò, sott’altre forme, la battaglia del risorgimento nazionale. Chi ripensi allo sforzo tenace del ceto medio, degli industriali, dei mercanti, degli agricoltori, dei contadini, degli artigiani (cfr. cap. I), chi rifletta alla rivelazione della capacità organizzatrice dei grandi ufficiali (cfr. parag. 50), all’attitudine improvvisatrice bellica di tecnici e di industriali (cfr. cap. II e III), ed alla letizia con la quale sacrificarono la loro vita eletti giovani tratti dai ceti medi e popolari[10] è costretto a riconoscere l’esistenza di rigogliosi germi di rinnovamento sociale e politico dell’Italia. L’assalto di taluni industriali al denaro pubblico prelevato coi tributi dallo stato o raccolto nelle banche (cfr. parag. 120 a 125), laddove era riuscito, aveva partorito rovina ammonitrice; e l’esperimento delle invasioni delle terre (cfr. parag. 126 a 136) e dell’occupazione delle fabbriche (cfr. parag. 137 a 145) aveva dimostrato alle moltitudini che al benessere si giunge collo sforzo tenace, non con la facile conquista. Alla lunga, le sperienze fatte dovevano riuscire a persuadere l’opinione pubblica della necessità di ritogliere allo stato quei compiti che, se gli sono proprii in tempo di assedio (cfr. cap. III) gli repugnano in pace. Netto si presentava il dilemma tra la via del collettivismo ugualitario accolto necessariamente in ogni piazza stretta d’assedio dal nemico e quella della libera iniziativa propria dei tempi di pace.

 

 

179. – Dissi dianzi che la prima aveva assunto il nome più blando di economia associata (cfr. parag. 116 a 119); e forte era per fermo l’invito a proseguire nella via intrapresa con lo stato socio e garante contro le perdite; ma, poiché lo strumento tecnico di garanzia contro i rischi economici stava per rompersi, poiché l’inflazione, se continuata, in breve ora avrebbe portato all’annullamento della moneta, quella via significava assunzione sempre più compiuta dei compiti economici da parte dello stato. Il pericolo era gravissimo e forse mortale. I capi delle imprese economiche tendevano a trasformarsi in burocrati, funzionari dello stato, cointeressati in un’impresa comune e, poiché il socio era la collettività, interessati a scaricare su questa i rischi dell’impresa comune. Sicurezza, vita tranquilla e garanzia statale contro le perdite erano vagheggiate come principii inspiratori della condotta economica. Poiché invece la vita economica è caratterizzata dalla insicurezza, dal rischio continuo ed ognora rinnovato, dalla preoccupazione di essere vinti ed eliminati se non si riesca a rendere alla collettività servizi migliori ed a minor costo di altri, la burocratizzazione universale significava ristagno e regresso, alti costi di produzione, immiserimento dei più a vantaggio di pochi segnalati nel procacciamento di favori politici. L’alternativa a questa via di decadimento stava nel ricostruire lo stato ed insieme la società riducendo al minimo i legami fra lo stato, tutore degli interessi collettivi, e gli assuntori dei compiti economici necessari alla vita materiale della collettività. L’abolizione della bardatura di guerra non voleva dire rinuncia ai doveri di tutela dello stato verso i deboli, verso gli incapaci, verso i vecchi, le donne ed i fanciulli. La legislazione sociale, iniziata e perfezionata prima della guerra, ed integrata durante questa, non era minacciata da nessuno; anzi considerata strumento di elevazione per tutti, soldati e capi dell’esercito industriale. Il ritorno ai principi di libera iniziativa individuale era invocato per quanto tocca la gestione ed il rischio delle imprese economiche. Alla vigilia delle elezioni generali del 1919 i senatori milanesi, rappresentanti il fior fiore dell’intelligenza e dell’industria lombarda pubblicano un manifesto, in cui, contro le utopie dei socialisti ed i ricordi medievalistici dei popolari cattolici ricordano i benefici che la organizzazione economica esistente aveva dato alle moltitudini e quelli maggiori che essa era capace di dare; e nel giornale rappresentativo dell’opinione dei ceti medi si aggiungeva: «dinnanzi ai fatti compiuti dall’idea liberale svaniscono le sentimentali reminiscenze di una pace idillica in una società medievale che non fu mai e si appalesano lugubri i sogni e bugiarde le promesse di un ideale comunistico che sarebbe la morte di ogni vita libera e degna di essere vissuta. La vita non è pace, è lotta, è contrasto. La elevazione delle classi lavoratrici, ottenuta attraverso a lotte ed a contrasti diuturni, è la prova della superiorità della organizzazione sociale presente, che ha fatto prevalere quelle classi e quegli uomini che di elevarsi si erano resi meritevoli. In una società comunistica come fu organizzata in Russia e in una società corporativistica come favoleggiasi esistesse nel medio evo, gli sforzi per l’elevazione sono ed erano destinati a rompersi contro la forza dello stato, del regolamento, della ragione scritta. Nella società odierna, invece, ogni sforzo è permesso; una infinita varietà di tipi sociali può sorgere combattersi coesistere. Quella che pare anarchia e confusione invece è vita, è molla di progresso, è condizione e strumento dell’elevazione di tutti, anche dei più miseri. E coloro che salgono più in alto sanno che possono mantenersi soltanto subordinando il proprio all’interesse generale, la propria sete di ricchezza o di gloria alla necessità di sacrificarne una parte vie più maggiore al benessere ed alla felicità delle moltitudini» (C.d.S., n. 301 dell’1 novembre 1919).

 

 

180. – Predicazioni di studiosi[11] ed ammonizioni di anziani non erano strumenti adatti a rievocare una classe politica indipendente invocata e, forse, fugacemente apparsa in un clima storico diverso ed a svincolare la società economica e insieme lo stato dai vicendevoli legami che la guerra e la ripugnanza alla lotta ed al rischio avevano saldati e traevano amendue a lenta decadenza. L’opinione pubblica ansiosamente aspirava a seguire chi avesse fatta sua la bandiera per la redenzione del paese dalla universale servitù burocratica, per la salvezza dei dirigenti della vita economica dalla necessità di piatir lavoro e profitti dalla burocrazia statale e per il ritorno della classe politica, salva dalla corruzione fatalmente ingenerata dai contatti con le faccende economiche, ai compiti suoi di tutrice dei fini supremi dello stato. Ma l’opinione, fatta impaziente dalle sofferenze del tempo di guerra e dalle inquietudini del dopo guerra, sembrò ad un certo punto incline a chiedere che la battaglia conducesse a pronta vittoria. Studiosi ed anziani, se potevano indicare ai politici, che li adottarono (cfr. parag. 157 a 159 e 166), pronti rimedi ai mali economici perché questi non toccano il profondo dell’animo umano, non conoscevano strumenti rapidi di lotta contro i mali più profondi dell’invidia, dell’ingordigia, dell’odio che erano il retaggio sciagurato della inflazione (cfr. parag. 167 a 169), né immaginavano di poter trasformare d’un colpo i nuovi ceti operosi e rozzi sorti dalla distruzione dei vecchi ceti dirigenti (cfr. parag. 170) in una classe politica, essendo invece persuasi che solo l’ingentilimento educatore del succedersi lento delle generazioni produce uomini durevolmente atti a governare altrui. Troppo raffinati gli uni e troppo scettici gli altri, non seppero dire le parole di fede, le quali fanno ai popoli sembrare più leggero il dolore del lungo attendere. Perciò il popolo si volse a chi diceva quelle parole di fede e prometteva pronta l’azione. Mentre l’allora capo del governo, troppo buono e semplice uomo perché occorra ricordarne qui il nome, diceva a Pinerolo vane parole di conforto ad una moltitudine parlamentare tremante per la propria incapacità a porre e risolvere il problema dell’ora storica, l’on. Mussolini, il 20 settembre 1922 ad Udine ammoniva in primo luogo che «lo stato non rappresenta un partito, lo stato rappresenta la collettività nazionale, comprende tutti e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità» e delineava poscia a grandi tratti la figura dello stato capace di trarre il paese a salvamento dalla china su cui lo precipitavano le sue classi dirigenti: «Noi vogliamo spogliare lo stato di tutti i suoi attributi economici. Basta con lo stato ferroviere, con lo stato postino, con lo stato assicuratore. Basta con lo stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello stato italiano. Resta la polizia che assicura i galantuomini dagli attentati dei ladri e dei delinquenti; resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l’esercito che deve garantire l’inviolabilità della patria e resta la politica estera[12]. Non si dica che così vuotato lo stato rimane piccolo. No! rimane grandissima cosa, perché gli resta tutto il dominio dello spirito, mentre abdica a tutto il dominio della materia». Pochi giorni dopo che il nuovo partito era asceso alla somma del potere, uno di quegli studiosi che, inascoltato, da vent’anni richiamava lo stato alla missione sua propria, ricordava (C. d. S. n. 235 del 4 novembre 1922) che i predecessori dell’on. Mussolini si erano scordati «a poco a poco di dover adempiere solo a quegli uffici per cui lo stato è il più grande istituto di elevazione morale che esista in un paese. Esercito, sicurezza, giustizia, istruzione, grandi opere pubbliche costrutte non per i viventi, ma per i posteri, tutela delle nuove generazioni ricevettero omaggio di parole. Ma i governanti preferirono farsi ferrovieri, assicuratori, armatori e costruttori di navi, approvvigionatori, regolatori supremi di mercati, di banche, di borsa, incitatori di industrie con dazi e con premi. Così fu creato lo stato immorale, lo stato che non compie i suoi doveri primordiali e si fa centro di intrighi, di favori, di trasporti di ricchezza. Lo stato immorale è stato debole, è stato corrotto. Quando l’uomo non è più libero di correre la ventura a suo rischio; ma deve o spera ottenere da Roma il dazio che lo protegga contro il rivale più capace; quando non può uscire dal paese o mandare fuori liberamente i suoi prodotti, ma deve chiedere licenza di far ciò a qualcuno che sta nella capitale, è fatale la degenerazione del costume politico e la corruttela dello stato. Che cosa contano i sistemi elettorali quando i rappresentanti non sono chiamati a tutelare gli interessi generali del paese, ma sono i sollecitatori degli interessi privati dei servi da cui hanno ricevuto il mandato; e quando ad essi non è lecito rifiutarsi di essere mezzani perché la vita e gli averi dei loro mandati dipendono dalle decisioni che si prendono a Roma? Questa è la camicia di Nesso, da cui sono stati soffocati i passati governi, questa è la ragione per cui lo stato, avendo dimenticato i suoi uffici propri, divenne una parvenza che sembrava persona ed era il nulla, perché l’immoralità intima lo consumava». Stia perciò fermo il governo «nello scopo supremo di ritornare lo stato alla sua vera potenza che è di compiere gli uffici suoi propri. Quando i deputati non dovranno più chiedere favori a nome di servi, quando il cittadino, nulla temendo e nulla sperando, volgere nei rispetti dello stato il pensiero ai grandi interessi nazionali, allora soltanto si sarà creato lo stato che un tempo dicevasi liberale ed oggi ha nome di fascista; ma a cui un unico semplice titolo veramente spetta: stato».

 

 

Rispose l’attuazione ai propositi ed agli auguri? Non sempre e non in tutto è dato agli uomini tradurre l’idea in atto; ché, se mutano i propositi degli uomini quando mutano i segni dei tempi, le idee e le azioni dell’oggi son pur figlie delle idee e delle azioni del passato. Il narratore, giunto al termine della sua fatica, sarebbe contento se le pagine da lui scritte sembrassero atte a persuadere che il tempo della guerra, il quale nella memoria di molti pare già lontanissimo, aveva radici profonde in un più lontano passato; ed ambi ancora operano su di noi e ci fanno agire. Ricordare quel che è vivo in noi del passato giova a conoscere il presente ed a preparare l’avvenire.

 

 



[1] Da una recensione scritta nel 1912 dall’autore delle presenti pagine sul libro La giovinezza del Conte di Cavour di Francesco Ruffini, in La Riforma Sociale, 1912, vol. XXIV, pag. 399.

[2] Cfr. il libro di Giuseppe Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848. L’Associazione agraria subalpina e Camillo Benso di Cavour, in Biblioteca di Storia italiana recente, vol. IX, 1919, fondamentale per l’intendimento di quello che fu il gruppo dirigente nel Piemonte e nell’Italia del risorgimento.

[3] Sono parole estratte da lettere del Cavour e riportate nella mia citata recensione, pag. 401.

[4] Massima che sentii esporre da chi nel 1900 si apprestava a risolvere la situazione, che allora appariva pericolosa, culminata nei moti del 1898.

[5] Giustino Fortunato, Pagine e ricordi parlamentari, Firenze, 1927, vol. I, 399 e segg.

[6] Il commentatore qui aggiungeva «piemontese», l’articolo suo attenendo a cose del Piemonte; ma le osservazioni avevano valore generali.

[7] Nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1928.

[8] Salvo pochissimi casi, la giustizia in Italia non fu mai oggetto di mercato; e nell’amministrazione pubblica eransi fatti grandi passi nella tutela delle ragioni del cittadino. Ma che non fosse così era purtroppo opinione radicata; ed a me non accadde mai di discorrere con persona del popolo la quale, in affare che lo toccasse, non si protestasse pronto, non per ottener favore ma giustizia, a pagare quanto facesse d’uopo, laddove di pagare non v’era occasione alcuna.

[9] Ho descritto una di queste famiglie, vissute nel Piemonte dell’800, nella prefazione a Francesco Fracchia, Appunti per la storia politica ed amministrativa di Dogliani, in «Miscellanea di storia italiana», pubblicata dalla R. Deputazione di storia patria per le antiche provincie, vol. 51, Torino, 1924.

[10] Testimonianza stupenda di questo spirito di sacrificio sono le lettere che Adolfo Omodeo viene pubblicando in La Critica di Benedetto Croce col titolo Momenti della vita di guerra – Dai diari e dalle lettere dei caduti.

[11] Sia consentito in nota di ricordare la tenace battaglia invano combattuta da un gruppo di studiosi per richiamare le classi dirigenti agli ideali che a Camillo di Cavour avevano consentito di costruire un’Italia unita. «Un piccolo gruppo di persone… subito dopo la tariffa del 1887 e la guerra doganale con la Francia, iniziò le sue campagne contro il protezionismo industriale e quello granario, per il riordinamento delle banche, per la moralizzazione della vita parlamentare, per la perequazione tributaria fra gruppi e regioni; per l’indipendenza della magistratura; attaccò in una parola ogni forma di privilegio, per attivare sempre più all’eguale trattamento economico, tributario e politico di tutti i cittadini, che è il solo fondamento di un partito e di un governo liberale». Il gruppo «ebbe in comune col fascismo un punto di partenza: la critica e la lotta contro il vecchio regime». Ma quella critica «intesa a creare nel paese una più elevata coscienza pubblica contro tutte le forme degenerative delle libertà individuali e del sistema rappresentativo, aveva pur sempre di mira la difesa ed il consolidamento dello stato liberale e democratico». Perché quella propaganda contro i privilegi di ogni specie, contro i protezionismi statali ai gruppi organizzati, per la purificazione della vita pubblica, per il ritorno dalle contese e dalle transazioni parlamentari fra piccoli gruppi rappresentanti quasi esclusivamente interessi materiali, alla lotta per la difesa dei grandi interessi pubblici, non abbia avuto alcun successo, perché la sua predicazione sembri ora lontana non di anni ma di lunghi decenni, risulta dalla esposizione storica che di questo movimento scrisse Umberto Zanotti Bianco nella nota introduttiva al libro A. De Viti De Marco, Un trentennio di lotte, politiche (1894/1922), Roma, 1930. Capo del movimento fu Antonio de Viti de Marco, di cui sono (cfr. ivi prefazione, p. VII, IX) le parole sopra riportate. Con lui collaborarono, di volta in volta, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto, Ugo Mazzola, Edoardo Giretti, L. M. Billia, Gaetano Mosca, Giuseppe Prato, e, collo scrivente, altri molti. Il Giornale degli economisti e La Riforma Sociale, furono gli organi del movimento nella stampa scientifica; l’Idea liberale del Sormani e poi del Martinelli e del Borelli e l’Unità del Salvemini in quella settimanale; il Corriere della Sera con articoli di Giacomo Raimondi e dello scrittore delle presenti pagine, la Stampa con articoli di Attilio Cabiati lo sostennero nella stampa quotidiana. L’Associazione per la libertà economica fondata a Milano nel 1591 dal setaiolo Riccardo Gavazzi e da Giacomo Raimondi, l’Associazione economica liberale italiana, organizzata nel 1892 a Roma sotto gli auspici del Giornale degli economisti, l’Associazione per la libertà economica, ricostituita a Torino nel 1899 dal Billia sotto la presidenza del Mosca, l’Associazione antiprotezionista fondata a Milano nel 1904 e richiamata in vita nel 1912, il Comitato per i trattati di commercio e per l’economia nazionale costituito nel 1914, il Gruppo libero scambista italiano iniziato dal Giretti nel 1921 furono a volta a volta gli organi del movimento.

[12] Brani fin qui riportati – in conformità alla regola, seguita, dovunque si poteva, in tutto il volume, di non sostituire il mio commento contemporaneo con riflessioni successive – come riprodotti in C.d.S., n. 232 del 27 settembre 1922. I brani sono identicamente riprodotti con varianti trascurabili da G. A. CHIURCO, Storia della Rivoluzione fascista, 1919-22, vol. V parte I, p. 364 e dal Chiurco tolgo l’incisivo periodo che segue al segno di rinvio alla presente nota.

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