Opera Omnia Luigi Einaudi

Esiste l’imposta?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1967

Esiste l’imposta?

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 192-201

 

 

 

 

183. La domanda può parere paradossale e non è. Dissi già che debito pubblico (paragrafi 134 e 135) ed imposta (paragrafi 15-18) talvolta paiono vivi e son morti. Sono le vendette della realtà contro la boria dei giustizieri. Questi vorrebbero che gli uomini soffrissero l’imposta e continuamente paragonassero i sacrifici dell’uno ai sacrifici dell’altro e sommassero sacrificio a sacrificio e proporzionassero sacrificio a piacere; o vorrebbero che l’imposta portasse via ogni anno una parte, costante o variabile, di una certa misteriosa entità di bilancio chiamata saldo utili. La realtà si ride dei piani dei giustizieri e li scompiglia di continuo. Non appena il dottrinario ha immaginato un sistema, in base al quale tutti coloro i quali si trovano in una data situazione debbono pagare, ad esempio, 1.000 lire di imposta su 5.000 lire di reddito, ecco che inesorabilmente, giorno per giorno, l’ala del tempo cancella l’opera del dotto legiferatore. Tizio paga, per qualche anno, le 1.000 lire sulle 5.000 lire di reddito della casa e ne soffre, come il giustiziere voleva. Come per tutti i dolori umani, anche il dolore dell’imposta col tempo si attenua, e l’abitudine lo fa parere minore. Giunge il momento nel quale Tizio vende la casa e se ne va con dio provveduto delle 80.000 lire, prezzo di mercato al 5% di una casa che rende nette 4.000. Egli ha sofferto l’amputazione di 20.000 lire sulle 100.000 che la casa avrebbe potuto valere se l’imposta non fosse mai esistita. Forse, se il tempo non ha ancora attutito il ricordo dei redditi e dei prezzi che furono, egli è il solo il quale oramai soffra la imposta delle 1.000 lire. Ma a lui che ha venduto nessuno pensa quando si parla dell’imposta di 1.000 lire gravante sulla casa. Egli è un camminante, perso nella nebbia dell’orizzonte, il quale va verso altre imposte, dimentico di questa che lo ha addolorato in passato. L’acquirente soffre dolore quando paga il tributo annuo delle 1.000 lire? No, perché egli riceve il 5%, 4.000 lire annue di reddito, dal capitale di 80.000 lire investito nella casa. L’imposta c’è, il tesoro dello stato la incassa e nessuno sente il dolore. Benvenuto Griziotti in un suo scritto ha trovato una immagine luminosa per enunciare il fatto: l’imposta è simile ad un raggio il quale colpisce oggi la pupilla del nostro occhio e par vivo; ma viene da una stella lontanissima morta da secoli. Il raggio ha camminato nel firmamento per anni e per secoli e finalmente è giunto a noi e ci fa vedere come fosse viva la stella che invece è spenta. Così è di certe imposte. Paiono vive: gli uomini compiono il rito di pagarle e di riscuoterle, ma chi le soffrì forse è morto da anni o da secoli e più non sente. E nessuno soffre in vece sua. Gli scrittori hanno detto «ammortizzate» queste imposte le quali hanno cagionato una perdita od ammortamento di valore capitale nella cosa colpita. Non so la derivazione linguistica della parola «ammortamento»; ma dico che per caso gli scrittori hanno scelto la parola espressiva. L’imposta ammortizzata è l’imposta morta nel cuore degli uomini, la quale non desta più in esso nessuna sensazione di dolore e di rimpianto. Molte imposte sono morte.

 

 

184. Il paradosso dell’imposta morta irritò i giustizieri. Parve un’offesa alla giustizia. Bisogna abolire le imposte che non sono più sentite dagli uomini viventi. Un’imposta la quale ad ogni istante non fa sentire all’uomo il dolore della condanna divina: lavorerai col sudore della fronte per pagare imposta, non adempie alla sua missione. Importa creare un sistema in virtù del quale il dolore dell’imposta sia necessariamente perpetuo e lancinante. Confesso di non riuscire ad entrare in così perfetto stato di satiriasi tributaria. Il paradosso dell’imposta morta mi ha indotto invece a pensare se non forse il dominio della parola vuota di senso non abbia pesato ancor più gravemente di quanto finora ho messo in luce. Che forse ci siamo lasciati trascinare dal vuoto suon delle parole? Imposta fa nascere l’idea di qualcosa che è messo sopra e pesa. Imposta sul reddito o sul capitale par sia cosa che logicamente grava, decurta, diminuisce reddito o capitale o tutte due insieme.

 

 

185. Gli economisti ebbero nel secolo scorso il torto di aggravare la propensione ad interpretare la parola «imposta» nel senso di peso o di dolore con la malaugurata collocazione che essi fecero, per ragioni di euritmia architettonica, della discussione delle imposte nella quarta parte dei loro trattati. Produzione, distribuzione, circolazione e consumazione della ricchezza: ecco la classica quadripartizione del dramma economico messa in onore da Gian Battista Say. I primi tre atti del dramma erano gli atti creativi: gli uomini faticando commerciando distribuendo creano ricchezza. Nell’ultimo atto si assisteva alla distruzione di ciò che s’era creato. Gli economisti di quel tempo non avendo scoperto le leggi dell’utilità e del marginalismo e non avendo ancora imparato a rovesciare l’ordine delle nozioni, erano disperati. Avendo un po’ di scrupolo a riempir le pagine del trattato della consumazione con insegnamenti cavati dai trattati del buon governo della famiglia di Agnolo Pandolfini (o Leon Battista Alberti?), essi non sapevano davvero cosa ficcare nella quarta parte. Non c’era euritmia nell’architettura dell’edificio scientifico. Tre ali del palazzo erano alte e ricche; ma la quarta? Vennero in soccorso le imposte. Poiché i consumi privati offrivano poca materia, si discorse ampiamente dei consumi pubblici. Le imposte furono così idealmente legate all’idea di consumo, di distruzione. Nel sistema del dramma economico quadripartito, gli uomini producevano trasportavano commerciavano distribuivano la ricchezza. Poi, veniva il diluvio. Il consumo distruggeva; e nell’atto di consumo aveva luogo una lotta internecina fra gli uomini i quali pretendevano di consumare tutto quel che avevano prodotto e lo stato il quale voleva portarne via loro una parte per provvedere ai consumi pubblici.

 

 

Due idee-forza si sprigionarono da questa architettura accademica: che l’imposta sia distruzione e che essa sia distruzione di quel che altri, l’uomo privato, ha creato.

 

 

186. L’architettura trattatistica di Gian battista Say è tramontata. Nessun trattato moderno di economia è costrutto su quel tipo. Durano le idee-forza nate da quello che era un mero spediente di esposizione scolastica della scienza.

 

 

Se rimonto ai miei ricordi di gioventù, fra il 1890 ed il 1900, balza viva l’immagine di modi di parlare, rassomiglianti a questi tributari, allora comunemente usati. Diceva allora l’industriale: «io, che do pane a cento, a mille operai…»; ed il suo modo di parlare sembrava ovvio ai più e parevano «ingrati» gli operai i quali dimostravano malcontento verso i loro benefattori. Oggi l’industriale forse pensa ancora, talvolta, così nell’intimissimo foro della sua coscienza; ma non osa più manifestare apertamente il suo pensiero; né questo parrebbe ragionevole agli ascoltatori. Né l’operaio fa vivere il datore di lavoro, né questi l’operaio; nessuno fa l’elemosina all’altro. Ognuno vive dei frutti del proprio lavoro e della propria creazione. Il lavoro di amendue è fecondato dalla collaborazione reciproca; ma dal collaborare amendue traggono vantaggio. Dire che l’operaio è mantenuto dall’industriale è altrettanto grottesco quanto dire che il fornaio mantiene il cliente, perché gli fornisce il pane. Come v’è equivalenza fra pane e moneta, così v’è equivalenza tra lavoro prestato e salario. Amendue devono essere l’uno all’altro grati, perché l’unione ha consentito all’operaio di produrre un salario più alto e all’imprenditore un profitto più vistoso.

 

 

Costo e compenso sono due facce del medesimo fenomeno. L’amministratore di un giornale del tempo innanzi al 1900 si lamentava ogni giorno del costo crescente della carta consumata dalle rotative. Tutti noi si rideva, perché quello era l’indice della fortuna crescente del giornale. Il girar dei rotoli di carta era, per lui, un atto di distruzione, per noi era la premessa della creazione.

 

 

187. Così è l’imposta. È falso e grottesco dire che essa significhi distruzione. Essa è il mezzo con cui lo stato crea valori nuovi: di sicurezza, di giustizia, di difesa e grandezza nazionale, di cultura, di sanità del corpo, di unità degli uomini viventi sul territorio della patria. Mercé l’imposta lo stato crea l’ambiente giuridico e politico nel quale gli uomini possono lavorare organizzare inventare produrre. Che cosa sarebbero gli uomini se non fosse lo stato? Miserabili selvaggi, vaganti sulla terra, senza difesa contro le belve feroci, malsicuri del cibo e della vita, gli uni contro gli altri armati. Non perciò si afferma che tutto il prodotto sociale, tutto il reddito nazionale sia di spettanza dello stato. Si afferma soltanto che esiste una distribuzione del reddito nazionale annuo che è l’ottima fra tutte: una distribuzione grazie alla quale lo stato riceve l’imposta, il lavoratore il salario, il risparmiatore l’interesse, l’imprenditore il profitto, e il proprietario la rendita; ed ognuno riceve quel che è suo, quel che fu creato da lui, quel che è necessario egli abbia affinché la sua partecipazione all’opera comune sia la massima e la più efficace.

 

 

188. Nella distribuzione ideale, lo stato ideale o perfetto non grava perciò su nessuno. Riceve il suo, tutto il suo, tutto e nulla più del suo. L’idea che l’imposta sia un prelievo su qualche cosa che l’uomo creò è radicalmente profondamente erronea. Uomo e stato, o, per parlar concretamente, l’uomo operante nelle varie maniere a lui offerte, come individuo singolo, come associato liberamente con altri (associazioni e società) e come associato coattivamente con tutti gli altri (stato) producono insieme, attraverso un complicatissimo meccanismo, un flusso perenne di nuovi beni. Quel flusso diminuirebbe se facesse difetto una qualunque delle maniere di operare umano: quella individuale, quella collettiva volontaria o quella collettiva coattiva. Gli individui ed i corpi i quali partecipano alla produzione del flusso dei nuovi beni hanno diritto di partecipare al godimento del flusso e di ricavarne i mezzi per rinnovare continuamente i loro sforzi e quindi il flusso e quindi la partecipazione al godimento di esso.

 

 

Mercier de La Rivière aveva già scritto:

 

 

a gran malincuore do alle entrate pubbliche il nome di imposta: parola la quale è sempre presa in mala parte, la quale annuncia un gravame da sopportare; laddove l’entrata pubblica al contrario… non ha nulla di affliggente; e risalendo alle sue origini si vede che essa è il frutto della sua utilità. (L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, 1767, II, 40).

 

 

E Dupont de Nemours:

 

 

[nella sua forma perfetta] l’entrata pubblica massima possibile, ogni giorno crescente, è la più vantaggiosa possibile a tutti i membri della società; e non è onerosa ad alcuno, non costa niente ad alcuno, non è pagata da alcuno e non preleva nulla dalla proprietà di chicchessia. (De l’origine et des progrès d’une science nouvelle, 1768, ediz. 1910, 28).

 

 

Parole dimenticate, che erano state rinnovate da chi scrive,[1] innanzi di aver meditato sulle pagine dei fisiocrati; e dalle quali importa trarre l’ultima illazione logica.

 

 

189. La quale è la condanna definitiva dei tentativi che sono stati fatti da tanti e con tanto scarso successo per scoprire la regola perfetta assoluta immarcescibile dell’imposta «giusta» sulla base del «vero» «dolore» sentito dagli uomini nel pagar tributo.

 

 

Utilitaristi e contabilisti – sono le due grandi branche in cui si dividono le innumerevoli sette dei giustizieri tributari – invano si sono affaticati a cercare l’imposta perfetta. Entrati in un vicolo cieco, non potevano trovare la via d’uscita.

 

 

Quando l’operaio chiede il salario che a lui sembra «giusto» dice forse: la misura della giustizia è per me il guadagno del principale? Se questi guadagna molto, il mio salario deve essere alto, se poco basso; se egli perde, io devo rassegnarmi a lavorare per niente? C’è, in lui, viva l’idea che il salario debba aumentare se l’industria prospera: ma sotto quest’idea e più radicata di essa, c’è un’altra che il salario gli deve essere dato perché egli lavora e in proporzione al merito del suo lavoro. Ognuno è la misura di se stesso. Salari, interessi, profitti sono la remunerazione del lavoro, del capitale, della funzione imprenditrice; e sono commisurati al valore dell’apporto del lavoro, del capitale e dell’impresa. A nessuno viene in mente l’idea irragionevole di pagare l’operaio in funzione del valore dell’apporto del capitalista, questi in funzione del valore dell’apporto del lavoratore e l’imprenditore in funzione del valore dell’apporto degli altri due e del proprietario degli agenti naturali della produzione. Si discute sul modo di misurare il valore dei diversi apporti; ma nessuno ha tentato di rimescolare le carte proponendo di remunerare l’un fattore in proporzione del valore dell’apporto di qualcuno degli altri fattori.

 

 

Eppure, l’idea, che se fosse enunciata nelle faccende ordinarie della vita parrebbe grottesca e risibile, è accolta come oro in barra quando gli uomini cominciano a discorrere e a farneticare delle cose di stato. Invece di pagare lo stato per quel che lo stato fa, per il valore del suo apporto alla cosa comune, si ritiene naturale, ovvio di pagarlo in ragione di quel che fanno gli altri; non in ragione della perfezione maggiore o minore dell’opera sua, ma in ragione del successo maggiore o minore dell’opera altrui. Al poltrone ed all’incapace l’imposta deve chieder poco perché, poveretto lui, non ha voluto o non è stato in grado di produr molto; all’operoso ed al valente l’imposta deve chieder molto perché volle e poté produrre molto. Questo è capovolgimento del buon senso. Che cosa si direbbe del fornaio, il quale regalasse il pane a tutti i pezzenti che si presentassero nella sua bottega, lo facesse pagare 50 centesimi al chilogrammo ai malvestiti o provveduti di certificato di povertà e 5 lire ai ricchi? Si sarebbe d’accordo nel riconoscere che il fornaio è uscito matto e finirà decotto all’ospizio di carità. Il buon pane è, se gli uomini non sragionano, pagato come buon pane da tutti, allo stesso prezzo. Persino nelle città e negli stati assediati l’uso è di razionare il pane, per farlo durare a lungo, ma di venderlo, a qualità uguali, a prezzo uguale. Così lo stato fornisce beni morali e spirituali di grandissimo pregio per tutti coloro i quali si trovano in situazione opportuna per trarne partito. Qual colpa ha lo stato se Tizio e Caio, provveduti degli stessi mezzi economici, sanno trarre partito diversamente dall’opera ugualmente fornita a favor di amendue dallo stato? Perché, se l’uno guadagna e l’altro perde, lo stato deve far pagare il primo e lasciar immune il secondo? Codesta non è condotta illogica incomprensibile? Lo stato ha fatto il dover suo, ha adempiuto il suo ufficio quando ha creato l’ambiente di pace, di giustizia, di istituti sociali coordinatori, di cultura entro il quale i due possono utilizzare i mezzi che essi posseggono in ugual misura. La logica ed il buon senso impongono che lo stato faccia pagare ad amendue ugualmente i proprii servigi. Il successo o l’insuccesso delle imprese dei due contribuenti non lo riguarda. Perdano o guadagnino, perdano molto o guadagnino assai, questo è fatto che non lo tocca. Come l’operaio vuole essere ugualmente pagato, a lavoro uguale, dai due imprenditori, come il risparmiatore esige uguali interessi se ha ad amendue mutuato ugual capitale, così lo stato, che ha reso uguali servigi, vuole essere pagato ugualmente.

 

 

190. Badisi che l’uguaglianza del salario, dell’interesse, dell’imposta a parità di opera prestata dall’operaio, dal risparmiatore e dallo stato è condizione necessaria di ordine, di progresso e di prosperità sociale.

 

 

Se l’imprenditore dovesse pagar salari alti quando guadagna e bassi quando perde, se dovesse pagare il 10% sul capitale preso a mutuo in caso di successo ed avesse diritto a non restituire il capitale in caso di perdita, vedremmo prossimo il caos e la rovina della società. Perché sforzarsi ad essere intraprendenti e prudenti, laboriosi ed attenti se chi riesce dovesse vedere crescere a proprio danno salari ed interessi ad annullare il compenso dovuto al merito? Quale sanzione percuoterebbe l’inetto e pigro, se quanto più egli perde e fa male tanto più gli scemino i costi di salario, di interesse, e, perché no, di materie prime?

 

 

Orbene, quella condotta che nelle faccende comuni della vita appare a primo tratto pazzesca e rovinosa, diventa inesplicabilmente giusta ovvia indiscutibile quando si passa alle faccende di stato. Lo stato deve, insegnano a gara utilitaristi e contabilisti, farsi pagare i proprii servigi in ragione del reddito e del capitale altrui, deve cercare di commisurare le imposte ai godimenti, ai benefici di cui gli altri fruiscono. Sempre si guarda a quel che fanno, a quel che godono, a quel che soffrono gli altri, non mai a quel che dà lo stato. Dall’insana norma di condotta derivano, come si avrebbero per i privati, conseguenze funeste. Lo stato, il quale agisca a norma di questa dottrina, premia gli ignavi, gli inetti, i caduti, perseguita i laboriosi, i capaci, i saliti.

 

 

191. Le società non sono ancora andate alla deriva, perché i legislatori e gli amministratori della finanza pubblica sono stati di fatto più sapienti dei dottrinari giustizieri. Hanno prestato ossequio di parole ai principii sommi della giustizia inventati da costoro; hanno recitato le preghiere di rito dinnanzi all’altare dell’uguaglianza di sacrificio, della proporzionalità costante o crescente al reddito o al capitale; e poi hanno operato come potevano, come dettava l’istinto della necessità di governare, di fronteggiare le spese e di non rendere malcontenti o troppo reattivi i contribuenti. Per quanto incerta ed oscillante, l’opera dei legislatori val di più dell’insegnamento dei giustizieri.

 

 

Bisogna decidersi a fare un passo avanti: a sfrattare i mali consiglieri della cosidetta giustizia tributaria dal tempio dello stato. Bisogna avere il coraggio di dire che le cosidette norme supreme del sacrificio, con le logiche illazioni della proporzionalità al reddito della personalità e della globalità, sono scatoloni vuoti, parole prive di buon senso, prive anzi di qualsiasi significato logico. Bisogna prendere a frustate i sacerdoti del nulla che par verbo.

 

 

192. I sacerdoti grideranno che io voglio che le imposte siano pagate nella stessa misura numerica monetaria da ricchi e da poveri e che io voglio risuscitare il testatico. Falso. In tutto ciò che è stato scritto in queste pagine non v’è parola che autorizzi siffatta interpretazione.

 

 

Si disse e si dimostrò soltanto:

 

 

  • che l’imposta non può razionalmente essere ripartita applicando uno qualunque dei principii del sacrificio, perché non si può applicare un principio di cui è ignoto il significato (cfr. paragrafi 159-62);

 

  • che l’imposta non può razionalmente essere applicata in proporzione al reddito «effettivo» dei singoli contribuenti, perché una tale ripartizione del tributo è illogica e perniciosa (cfr. paragrafi 187-89).

 

 

Nelle proposizioni ora enunciate non v’ha parola che possa far supporre che l’imposta debba essere uguale per ricchi e per poveri. L’imposta ripartita secondo le regole anzidette non può pretendere di esser razionale. Essa tutt’al più può vantarsi di seguire i dettami della ragion raziocinante, che vuol dire sragionante. Se, usando modestia, invece di affermarsi la sola razionale confesserà di essere un espediente consigliato dal buon senso, dal sentimento di solidarietà fra classe e classe, dal canone dell’economicità e simili diventerà espediente non dissimile da altri espedienti, rivaleggianti con essa su piede di uguaglianza, epperciò degna di esame sereno. Prima, giù la boria.

 

 



[1] In Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, in «Atti della reale accademia delle scienze di Torino», vol. 54, 1918-19, cap. II, par. 6; ora in «Opere», serie I, vol. I, secondo dei Saggi sul risparmio e l’imposta.

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