Opera Omnia Luigi Einaudi

Esiste una frontiera?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1948

Esiste una frontiera?

George Henderson, L’ascesa al possesso della terra, Edizioni agricole, Bologna, 1955[1]

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 520-550

 

 

 

Accadde che, discutendosi di riforme agrarie, l’amico Giuseppe Medici mi rammostrasse un libro di un agricoltore inglese dal titolo L’ascesa al possesso della terra. Di qui lo studio premesso alla versione italiana del libro dell’Henderson (Edizioni agricole, Bologna 1955); che si ripubblica qui a maggiore illustrazione della tesi della lotta tra viventi e non ancora nati.

 

 

The Farming Ladder è il titolo del libro, qui tradotto a cura del senatore Giuseppe Medici, che miracolosamente è riuscito a farsi leggere, per intiero e d’un fiato, da me che son costretto a guardare i libri di cose economiche con il rammarico di vedere il segnalibri, che vorrebbe essere un invito a continuare, ostinatamente fermo dopo la prefazione o l’introduzione o il primo capitolo. George Henderson lo ha scritto, a mille parole all’ora, dall’una alle quattro e mezzo del pomeriggio delle domeniche dal 9 maggio al 4 settembre del 1943, allo scopo di narrare i fasti, suoi e di suo fratello Frank, in venti anni di duro lavoro di agricoltore in un podere di ottantacinque acri, e cioè di trentaquattro ettari, situato, sembra, a circa cento chilometri da Londra.

 

 

Henderson veniva da una famiglia di agricoltori scozzesi ed aveva nel sangue l’amore alla terra, nonostante che il padre avesse cambiato mestiere ed, arrivato a Londra senza un soldo, avesse a poco a poco messo su una impresa commerciale, che avrebbe prosperato sempre più, se egli non fosse morto giovane, lasciando alla vedova il compito di tirar su cinque ragazzi tutti sotto i sedici anni. Quando Giorgio, a sua volta, compì i sedici anni, il fratello maggiore voleva dissuaderlo dal proposito di tornare alla terra: «Senza un soldo, non ti libererai dalla fatica, dal fango, dalla neve, e dalla polvere; senza vacanze, senza sicurezza, vivrai nella povertà e nel bisogno; risparmierai tanto da comprarti la cassa da morto e forse finirai i tuoi giorni in un ospizio dei poveri. Se potessimo racimolare le cinquanta sterline necessarie a pagare l’entratura in un posto meglio adatto alle persone per bene, potresti diventare impiegato d’ufficio, con carriera sicura, promozioni assicurate e alla fine una pensione decente» (16).[2]

 

 

In quel tempo, l’agricoltura in Inghilterra andava assai male, i prezzi precipitavano ed i fallimenti dei fittabili non si contavano. Vescovi e parroci rimuginavano già l’omelia, che tanti anni dopo (1943) l’arcivescovo di York avrebbe pronunciato, di malaugurio per le sorti della terra (164). Il ragazzo non prevedeva che, ad occasione di un’altra guerra, avrebbe avuto a che fare con funzionari governativi; ma già si sentiva fuor del mondo degli impiegati. Ringraziò il fratello e si decise ad allogarsi, servitore di campagna, presso buoni o mediocri agricoltori, deliberato ad imparare il mestiere, nelle più varie culture e negli uffici più diversi, su terre arabili e su pascoli, maneggiando mucche, giovenche, tori, cavalli e pecore, ascoltando le querimonie di coloro che perdevano denari e tuttavia pretendevano un’entratura o premio per insegnare a lui ragazzo quel che dimostravano di non avere mai imparato. Dopo quattr’anni aveva risparmiato sessanta lire sterline e si era fatto apprezzare tanto che l’ultimo padrone, allevatore di pecore nella Scozia, gli offerse di assumerlo come socio, senza alcun apporto di denaro. La quota, che gli sarebbe stata regalata, valeva duemilacento sterline; ma Giorgio la rifiutò non vedendo un avvenire in pecore allevate su montagne decadenti. Con un fondo suo e dei suoi di centocinquanta sterline e colla collaborazione di un fratello di diciotto anni, meccanico, contabile e buono a far tutto, affitta (il 4 maggio 1924) Oathill, podere mal coltivato, ma non distrutto, terreno sassoso e magro, ma non esaurito, dotato di fabbricato insufficiente ma solido, e di una sorgente d’acqua male utilizzata. Sul podere l’ultimo affittuario era fallito, ma quelli precedenti se l’erano cavata ed uno, nato verso il 1850, era morto lasciando una fortuna di più di quarantamila sterline. Chi legge il libro si appassiona alle vicende dei venti anni di lavoro dei due pionieri. Avevano, quei due, progettato di rimanere affittuari per sette anni, mettendosi in grado di acquistare alla fine dei sette anni il fondo e di migliorarlo ancora, come proprietari, per altri sette anni; dopo di che non si sa cosa progettassero. In fatto, bastano cinque anni di affitto per permettere loro di diventar proprietari. Dopo altri cinque anni, continuando a risparmiare ed a lavorare il fondo numero uno, ne acquistano altri, che danno, i nuovi non il primo, in affitto; ed entrano a far parte dello spettabile ceto dei proprietari di terre. Val la pena di sentire ciò che hanno da dire ai garzoni di campagna, ai fittabili ed ai proprietari questi due che, dopo vent’anni, riescono a far fruttare l’ettaro duecentoventicinque sterline lorde con un prodotto lordo annuo uguale a quattro volte il valore delle scorte vive e morte; ed il valore delle scorte è, a quel che si capisce, una quantità assai più grande del valore della terra, che avevano acquistata pressoché spoglia di tutto, situata a dieci chilometri dalla stazione più vicina, lontana dal villaggio e dalle scuole, con la strada d’accesso posta attraverso terreno paludoso. Alla fine, le strade sono rifatte ed assodate, i fabbricati più che raddoppiati, una casa separata è costrutta per il fratello, che nel frattempo si sposa ed ha figli; ed i conti, controllati dalla facoltà di agricoltura dell’università di Reading, si chiudono nel 1942 con un profitto netto di 4.484 sterline, oltre al salario spettante ai due fratelli in 409 sterline. Non traduco le cifre in lire italiane perché non so bene a quante lire nostre di oggi equivalgono le sterline inglesi del 1943; ma certo si tratta di un bel numero di milioni, forse otto o forse dieci.

 

 

Fortuna? Gli Henderson offrono una loro definizione della fortuna, che chiamano occasione (opportunity). La vedono arrivare nei tempi difficili, non in quelli facili: «Abbiamo sempre, quando i tempi erano difficili, creduto nelle occasioni; ma non abbiamo mai guardato alle difficoltà quando l’occasione si presentava» (66). Ancora: «Non dite mai ai giovani che la terra non offre buone occasioni di fortuna. Le occasioni ci sono belle e buone; ma si nascondono in una fitta sterpaglia di dura fatica. Dicono che la fortuna batte alla porta una volta sola. Guardandomi indietro, direi che essa passa il più del suo tempo a battere alla porta di qualcheduno; ma il qualcheduno non si scomoda a farla entrare o si lamenta che la porta è troppo pesante o cigola o piglia le dita!» (149).

 

 

Henderson traduce in massime pratiche il principio che le occasioni non mancano ma fa d’uopo saperle cogliere:

 

 

«È sempre buona regola acchiappare il profitto non appena sia possibile, senza aspettare che il prezzo od il peso (delle bestie) aumenti ancora» (82).

 

 

«Se a lavorar bene non si guadagna – così ammoniva il vecchio contadino – a maggior ragione non si guadagna a lavorar male» (33). Quando va male, anzi, non bisogna risparmiare nulla nelle spese che è necessario fare. A non spendere quel che occorre, si va in malora più presto».

 

 

«L’agricoltura è certo un modo di vivere, che a taluno piace; ma mi piace di più se frutta» (158).

 

 

«Le sementi migliori sono alla lunga le meno care, anche se il prezzo ne è alto» (98).

 

 

«Nei tempi di crisi, non si trova a vendere la roba mediocre o cattiva; la buona si vende sempre, senza perdere» (98).

 

 

«I fittabili si lamentavano di dover vendere il latte a sei denari al gallone. Appunto perciò noi non vendevamo il latte e, senza muovere querele, lo trasformavamo in carne, e riuscivamo a cavare quindici denari dallo stesso gallone di latte».

 

 

«È stupido sprecare sei settimane nel preparare il vitello perché faccia bella figura quando lo porteremo al mercato. Il cliente che avremo ingannato una volta non lo vedremo mai più. Noi in sei ore abbiamo il vitello pronto; ma il cliente ritornerà perché invece della bella figura, i nostri vitelli danno una resa sicura, hanno una genealogia» (76).

 

 

«Soddisfare i clienti; osservare, anche con perdita, i contratti: ecco un principio etico, il quale ci ha sempre dato buon nome e buoni guadagni» (131).

 

 

«Vi lamentate della moria nei polli e della scarsa soddisfazione che dà il loro allevamento? La colpa non è dei polli; è vostra. I polli non possono occupare tutto il vostro tempo. Perché i consumatori devono remunerare il vostro ozio? Corpo e mente decadono presto se non sono occupati in pieno. A lavorar poco si va in malora. Fate del vostro meglio coi polli; ma fate anche dell’altro» (63).

 

 

«Se il vostro capitale si riproduce una volta sola nell’anno, voi perdete. Ingegnatevi a farlo girare due o tre volte e guadagnerete» (18).

 

 

«I ministri d’agricoltura per lo più danno consigli inutili o dannosi; ma può capitare anche la stranezza di un loro buon consiglio. Durante la guerra venne dal ministero il consiglio di insilare i foraggi. Il consiglio ci piacque, sovratutto perché dovemmo impiegare venti ore di lavoro là dove, colla fienagione ordinaria, bastavano quattro ore; ma valse la pena di faticar tanto» (154).

 

 

«Gli agricoltori si lamentano degli innumerevoli moduli che in tempo di guerra devono riempire per il ministero. Si lamenterebbero di meno se usassero tenere una contabilità precisa delle loro faccende. Una buona contabilità richiede tempo e lavoro; ma rende e consente di non lamentarsi dei moduli ministeriali» (157).

 

 

«Bastonare le bestie, bestemmiando, è pessimo metodo per far denari in campagna. Una mucca trattata con buone maniere e carezze dà cento galloni di latte di più all’anno. Il successo nella stalla e colle bestie è in parte non piccola un affare di psicologia» (71).

 

 

«Il cane tiene a posto qualunque gregge se il padrone lo ha allevato bene; se non permette alla moglie di viziarlo, ma gli dà, a tempo giusto, tutto ciò che gli spetta» (86).

 

 

«Il successo nell’agricoltura dipende da tre fattori: letame, lavoro e Testa» (173). «Bisogna avere ben fisso in mente che se in ogni momento la vostra terra non è in miglior stato di quando l’avete presa, andrete in malora» (35).

 

 

«Adesso, che siamo proprietari, il reddito dei poderi affittati per una metà va a pagare l’imposta sul reddito, per un quarto a migliorare e conservare la qualità del fondo e per un quarto è mandato a riserva. Noi viviamo col nostro lavoro e col podere originario che conduciamo personalmente in economia. Quando, invecchiati, ci ritireremo, avremo la soddisfazione di vivere col fitto di poderi che avremo trasformato noi e su cui lavoreranno fittabili prosperi» (150-51).

 

 

Gli Henderson non sono stati i soli a riscoprire la scala la quale conduce alla proprietà. Senza sapere di essere in tanti, ignorando di essere pionieri in una società, che economisti sociologi politici dichiaravano votata, senza speranza, alla crescente dipendenza dei molti dai pochi, alla proletarizzazione ed alla mutua imbrogliatura delle assicurazioni sociali, si avvidero alla fine che il numero dei garzoni di campagna diminuiva quasi alla metà e tutto era fatto dai fittabili e dai loro familiari, non cresciuti di numero; ed i fittabili diventavano proprietari. Nel 1870 più di metà del suolo agricolo inglese era posseduto da meno di centocinquanta proprietari; nel 1930 più di metà dello stesso territorio era divenuto proprietà di quasi centomila piccoli e minuti agricoltori (166). Il trapasso della proprietà dai pochi ai molti fu dovuto forse in Inghilterra a confische ed a regali gratuiti? «Non giova a nessuno regalar la terra. Chi vuole avere terra sua, prima deve guadagnarsi, lavorando e rischiando sul terreno altrui, il capitale necessario all’acquisto. Soltanto chi ha saputo guadagnare, non chi ha perduto, impara e merita di diventare proprietario di terreni» (166).

 

 

Non lo meritava certamente quel cittadino, dilettante agricoltore e gentiluomo di campagna, il quale, venuto coll’amministratore dei suoi allevamenti di pollame a scegliere qualche campione riproduttore, dopo aver passato in rassegna i migliori campioni di razze pregiate, non si scompose quando l’amministratore, visti alcuni bei capponi, gli chiese: che cosa ne direste di un paio di riproduttori scelti fra quei bei capponi? (22).

 

 

Non meraviglia che i fratelli Henderson, pensando come fanno i pionieri, non fossero di facile contentatura col personale. Faticavano, essi, dal mattino alla sera ed a guardare un lavoro fatto di malavoglia, tanto per arrivare alla fine della giornata, si sentivano rivoltare lo stomaco.

 

 

«C’era molta simpatia in giro in quel tempo per i disoccupati; ma l’esperienza ci diceva che la maggior parte di essi erano mentalmente e fisicamente incapaci di fare una giornata di lavoro. Li vedevamo arrivare al mattino; giunti ad una breve lieve salita della strada che conduceva al podere, scendevano dalla bicicletta, preferendo di farla a piedi. Se erano già stanchi di buon mattino, cosa sarebbe stato di loro la sera?» (110).

 

 

Avevano avuto l’idea, i due fratelli, di fabbricar cassoni di zinco per riporre il grano e salvarlo dall’umidità e dagli insetti; e, dopo averne messo insieme quanti bastavano alle loro esigenze, su richiesta dei vicini, lavorando negli intervalli di pioggia e nelle ore d’inverno, con quei cassoni riuscivano a guadagnare uno scellino all’ora. «Se noi da soli eravamo riusciti ad utilizzare le ore perse, perché non avremmo potuto dar da lavorare in modo continuo ai disoccupati dei dintorni, se avessimo potuto ricavare dalla vendita tanto da pagare il salario corrente e coprirci delle spese di trasporto e di pubblicità necessari per avere ordinazioni continue? Niente da fare; cambiammo uomini, supponendo di essere capitati male le prime volte. Dovemmo smettere di occupare la mano d’opera locale disoccupata o sottooccupata. Perdevamo denari, laddove, lavorando noi soli, producevamo poco sì ma con margine. Imparammo dappoi che a questo mondo vi è molta gente che non val la pena di aiutare. Si possono aiutare solo coloro che aiutano nello stesso tempo voi» (119).

 

 

In quel piccolo laboratorio di falegnameria meccanica, gli Henderson ripeterono l’esperienza che ogni giorno facevano sulla terra.

 

 

Comprare al mercato un buon cavallo è molto più facile che trovare un buon garzone di campagna. «In vent’anni ho venduto un solo cavallo a prezzo più basso di quello pagato per acquistarlo; ma mi sono spesso sbagliato nello scegliere un allievo per il lavoro di campagna» (113).

 

 

Troppi giovani non hanno ambizione né si interessano al lavoro che fanno. «Se si interessassero e pensassero a far bene il loro mestiere, non rimarrebbero a lungo garzoni» (38). Questa è la prova del fuoco di chi resta garzone e di chi diventa fittabile e proprietario: il garzone guarda all’oggi non mai all’indomani. «Preferisce riscuotere giorno per giorno uno scellino o due in più della paga normale locale, per poterli spendere a fine settimana, piuttostoché aspettare un più vistoso premio di interessenza alla fine dell’anno» (110). Al garzone destinato a rimanere tale per tutta la vita non si può fare alcun rimarco: «Se non vi servo abbastanza bene, possiamo regolare senz’altro i conti e me ne vado subito» (114).

 

 

Gli Henderson hanno imparato che i garzoni bisogna formarseli da sé, assumendoli ragazzi, a quattordici o quindici anni. Non è facile; ché bisogna superare abitudini di condotta e pregiudizi sociali oramai radicati in Inghilterra contro il lavoro della terra. «Avevamo tenuto per due anni un ragazzo del luogo, di cui eravamo pienamente soddisfatti ed egli di noi. Gli piaceva il lavoro, era in piena armonia con gli animali della stalla, non sperava di guadagnare di più altrove. Ma… gli altri ragazzi del villaggio lo sbeffeggiavano perché egli lavorava sulla terra» (107). Le prevenzioni contro il lavoro di campagna non sono, in Inghilterra, ristrette ai ragazzi di villaggio, insofferenti di sporcarsi le mani di terra. Uno dei pezzi grossi dell’insegnamento agricolo, il dottor C. S. Orwin, non ha forse scritto che «l’agricoltura è un mestiere aperto ai soli garzoni rassegnati a rimanere tali per tutta la vita, a meno di avere capitali da investire? Nell’industria, invece, educazione e perizia tecnica bastano per far arrivare un giovane ai posti più alti» (11).

 

 

Gli Henderson schiattano di rabbia nel leggere siffatte eresie. Noi siamo la prova provata della verità del contrario. Ed anche i nostri garzoni. I garzoni di campagna bisogna saperseli scegliere ed educare. Vi sono, certamente, criteri, che si direbbero fisici, nella preferenza. «Il ragazzo deve essere di statura e di struttura media; di peso adatto alla sua età; non avere sofferto di malattie od infortuni gravi, ché la terra non è un sanatorio. Giova aver lavoricchiato in campagna durante le vacanze; aver tenuto animali o pollame per divertimento; avere inclinazione a pasticciare attorno a pezzi di legno od interessarsi di fisica, chimica o biologia. Tutte queste sono utili raccomandazioni. Essere stato, con entusiasmo, boy scout giova anche assai, perché nel tirocinio dei boy scout vi è molto che serve all’agricoltura. Noi abbiamo sempre reputato Lord Baden-Powell (il creatore dello scoutismo) come il più grande educatore del mondo. Se l’aspirante è stato garzone altrove, molto bene; perché se era su un podere ben condotto, farà bene anche per noi; se no, vedrà la differenza e potrà profittarne» (111-12).

 

 

Il più bello, tuttavia, viene ora: giova o non giova una educazione specializzata a fare un buon agricoltore? La risposta è recisa e decisa: no.

 

 

«Laddove una buona educazione generale è desiderabile, i titoli accademici non servono a niente. Di sei ragazzi, di cui tre avevano ottenuto il diploma scolastico [all’incirca la nostra scuola media, prima del liceo] e tre no; per noi gli ultimi furono i primi: …Gli esami tendono a scoprire i ragazzi precoci che sanno dare con prontezza la piccola risposta giusta; e fanno stare in coda coloro i quali sono lenti, ma non dimenticano mai ciò che hanno imparato. Il giovane, quando è riuscito ad afferrare un diploma, pensa: che uomo meraviglioso sono io! e si indispettisce se il fittabile non è della stessa opinione. Il ragazzo bocciato, invece, il quale si è sentito dire tante volte dai suoi insegnanti di essere uno zuccone, è tutto fiero quando si accorge che il padrone bada a tutt’altre qualità, qualità che egli si avvede di possedere pienamente. Il ragazzo, il quale non è mai andato d’accordo con le autorità scolastiche, in campagna diventa talvolta un campione, perché trova nel lavoro uno sfogo per la sua energia fisica; laddove il buon ragazzino, il quale vi racconta di non aver mai fatto in vita a pugni con i compagni, soffre per lo più di mal di casa e ritorna dopo tre giorni ad attaccarsi alle gonnelle della mamma» (112).

 

 

La peggiore di tutte le raccomandazioni, dopo quella di aver riportato premi scolastici nelle scuole medie, è di aver frequentato una scuola agraria. «L’aver frequentato un istituto agrario [suppergiù le nostre scuole medie agrarie, dette ora istituti tecnici specializzati nel ramo agrario] od un collegio agricolo [all’incirca le nostre scuole superiori specializzate, con qualche pizzico dei primi anni di università] è un motivo di inferiorità che pochi giovani sono capaci di superare quando arrivano sul nostro podere. Costoro guardano all’agricoltura da un punto di vista accademico un po’ distaccato; ovvero cercano di cavarsela andando in giro a disturbare gli altri, cosa che noi non possiamo tollerare. I nostri buoni allievi sono dello stesso parere. Ricordo di aver sentito un nostro garzone replicare ad un saccente diplomato: “Questo lavoro può darsi sia la sola possibilità che mi è offerta per diventare agricoltore per conto mio ed io intendo trarne il miglior partito. Se tu credi di prenderlo sotto gamba, torna alla scuola, dove trovi altri duecento tuoi pari”» (112).

 

 

Se i diplomati e i laureati non piacciono agli Henderson, piacciono ancor meno coloro che fanno, di mestiere, quello che noi diremmo il bracciante agricolo: «Un buon ragazzo [e per ragazzo si intende il giovane da quattordici-quindici anni in su] assuefatto ai nostri metodi, dopo un anno guadagna il doppio e costa molto meno del bracciante locale; e senza eccezione tutti vengono su bene e crescono di peso, segno che i nostri metodi di lavorare spedito non fanno male alla salute» (113). In verità, se spesso riusciamo a cavare dai bravi ragazzi qualcosa di più di buoni garzoni di campagna «il merito maggiore spetta a mia madre ed a mia sorella che li trattano bene, sicché in casa nostra vivono non solo ben nutriti, ma lieti e soddisfatti. Noi, dal canto nostro, insegniamo il mestiere, li paghiamo con un sistema di interessenza nei profitti, che invano abbiamo cercato di applicare ai braccianti locali; ma che pone in grado i nostri allievi di mettere in pochi anni da parte tanto da potere affittare un podere per proprio conto; aiutati, occorrendo, da un nostro prestito. Come potremmo investire meglio i nostri risparmi, se non col far credito a giovani che conosciamo e in cui abbiamo fiducia, i quali si sono resi pienamente padroni dei nostri infallibili metodi di far denaro coll’agricoltura?» (111).

 

 

«Se noi facciamo qualche rimarco, i nostri ragazzi, forniti di una istruzione generale media, non si offendono e non sono subito pronti, al pari del locale bracciante, ad andarsene, se a noi l’opera loro non conviene; anzi confessano: “Come sono stupido; mi dispiace!” e subito applicano i nostri insegnamenti» (114). «Mentre si lavora, noi cerchiamo di spiegare con gran cura le ragioni di quel che si fa. Un ragazzo impara molto di più in due anni di teoria e di pratica combinate insieme, che non in quattro anni di vita in un istituto agrario. Come impara meglio a conoscere i nomi di tutte le erbacce che nascono nei campi ed a quali famiglie appartengono, se glie lo si insegna giorno per giorno mentre durante l’estate si fanno i lavori di sarchiatura; come impara bene a distinguere le parti, la struttura ossea e gli organi degli animali all’atto di strofinarli ogni mattino; come si fa un po’ per volta bravo meteorologo, se alla colazione gli si domanda, senza darsi l’aria di professori, i suoi prognostici del tempo che farà!» (112).

 

 

C’è una grossa differenza fra chi è contento di rimaner garzone tutta la vita e chi si sente di poter aspirare a diventare, a suo tempo, fittabile. «Al garzone bisogna insegnare come si deve lavorare; all’aspirante fittabile perché si deve lavorare in un certo modo e non in un altro. Vi è una ragione di ogni cosa si faccia nel podere; si tratti del modo di rifare la lettiera nella stalla o dell’ordine con cui mettere i finimenti al cavallo. Un soldo di riflessione vale di più di una sterlina di fatica materiale. Fare il lavoro come si deve è alla lunga il modo più economico di farlo; giova vedere il lavoro nel suo insieme, ma giova anche concentrarsi nei particolari di esecuzione» (113).

 

 

«Certo, i buoni proprietari ed i buoni fittabili sono altrettanto rari da noi come i buoni garzoni di campagna. Ma come la terra frutterebbe di più se i buoni delle tre categorie potessero trovarsi insieme!» (151).

 

 

Perciò i nostri consigli ai giovani che si danno al lavoro della terra sono: «Scegliete, per allogarvi come garzoni, un piccolo podere a coltura mista, in cui il fittabile lavori lui sul serio e, lavorando, guadagni e non perda. Guardatevi dai gentiluomini di campagna, perché l’uomo il quale non lavora manualmente, ben difficilmente vi darà abbastanza da mangiare. Solo coloro, i quali hanno lavorato a tutti i mestieri della terra fra i sedici ed i vent’anni, sanno quanto cibo occorre ad un ragazzo nel tempo del suo crescere. Guardatevi dall’agricoltore il quale presiede un mucchio di commissioni d’agricoltura; costui ha troppe faccende per trovar tempo di insegnarvi qualcosa. Non mettetevi in pensione presso un garzone di campagna perché vi abituerete a pensare da garzone, ma state col fittabile, perché voi dovete abituarvi a pensare da fittabile: …Non impressionatevi se il lavoro è duro o non finisce mai, purché nel frattempo voi impariate. Voi non diventerete un buon fittabile facendo lavori comodi o facili; epperciò non scansate i lavori spiacevoli, bensì rendetevene padroni. Fate sempre qualcosa di più di quel che si attende da voi, ecc. ecc.» (115).

 

 

Che cosa pensano gli Henderson delle provvidenze statali a pro dell’agricoltura, del credito a buon mercato, dei regolamenti corporativi?

 

 

L’iniziativa per migliorare la vostra posizione dovete trovarla voi stessi, non attenderla da altri. Non sperate di ottener credito «dalle banche, le quali si rassegnano a perdere somme egregie con vecchi e sperimentati fittabili, che sempre sperano che il governo faccia qualcosa a loro pro, ma ai giovani privi di esperienza sanno solo raccontare che in tempi di depressione bisogna tirare i remi in barca» (51).

 

 

L’agricoltore, il quale invoca aiuti dal governo, non farà mai bene. Chi è il governo? Sono signori che della terra non sanno niente e vogliono salvare l’agricoltura. Facciano il loro mestiere, certamente più facile di quello di far rendere netto qualcosa alla terra. Henderson non sembra trovi nulla a ridire alla sentenza pronunciata cento anni or sono da un signor Bates, qualificato uno dei più grandi allevatori di bestiame mai vissuti: «Si possono trovare cento uomini capaci di fare il primo ministro contro uno in grado di apprezzare i pregi effettivi di uno Shorthorn» (75). «Dopo venti anni di pratica né io né mio fratello siamo in grado di scegliere un toro di razza Jersey solo a guardarlo. Abbiamo bisogno di sapere da quale mandria viene, chi ne siano la madre ed il padre e, se possibile, gli antenati; cerchiamo di fare uno studio accurato del latte prodotto dalla mucca e della sua genealogia. Solo dopo averlo esaminato da tutti i lati, concludiamo: questo toro può far per noi. Eppure, qualsiasi ispettore, inviato da un ministro che non ne sa nulla, in un batter d’occhio giudica e manda» (75).

 

 

«Vengono gli ispettori del ministero, girano un po’ d’attorno ai pascoli ed alle stalle, segnalano dozzine di difetti nei nostri capi di bestiame e nel nostro modo di lavorare. Noi, stupefatti della loro onniscienza, riflettiamo: come mai costoro si contentano di una carriera che, al suo limite, potrà farli arrivare ad un massimo di novecentocinquanta sterline all’anno, quando, con tutto quel che sanno, dovrebbero guadagnare, allevando polli, almeno diecimila sterline annue?» (63).

 

 

«Questi saputi danno importanza, in tempo di guerra, all’ora estiva, semplice o doppia. Le vacche, pur di andare alla mungitura un po’ prima del levar del sole il 21 giugno, non si informano se l’orologio segna le 3 e 50 minuti o le 4 e 50, ovvero le 5 e 50; sanno solo che dodici ore dopo saranno di nuovo munte. Le ore estive inventate dai funzionari sono accorgimenti infantili per indurre il cittadino ad alzarsi presto; ma non dicono nulla a noi ed alle vacche» (157).

 

 

Gli Henderson si impazientano con gli agricoltori i quali dicono: «Il governo dovrebbe far qualcosa per risolvere questo o quel problema. Non sarebbe doveroso per il governo fare qualcosa, oltreché per le altre categorie, anche per noi?» (167-68). Se qualche giornale, uso a farsi eco delle querele dei difensori dell’agricoltura, offre di mandare, a sue spese, i migliori tra i figli dei contadini a passar sei mesi in una buona scuola agricola sperimentale, Henderson ribatte ancora una volta: «Se voi volete diventare bravi fittabili, non perdete tempo ad andare a scuola, allogatevi presso un buon vecchio agricoltore, studiate teoria e scienze nelle ore perse, e mettete da parte il grosso del salario. Con la scuola o con l’istituto agrario voi, se in gamba, riuscirete solo a trovare un posto di organizzatore in provincia, con un salario più basso di quello di un guidatore di autobus municipali» (168).

 

 

Ci sono difficoltà da sormontare in agricoltura? Certamente. Tuttavia «io non ho alcun dubbio che noi abbiamo guadagnato di più conservando accuratamente il letame e applicandolo appropriatamente al terreno di quanto non ci abbiano fruttato tutti i sussidi e gli aiuti governativi largiti negli ultimi venti anni… La soluzione delle difficoltà nostre sta nelle nostre mani; e non si devono invece cercare pretesti per chiedere l’elemosina al contribuente» (100). Gli ostacoli si vincono dal buon fittabile «coll’usare il proprio cervello e stando sul fondo. Molte più cose si possono ottenere stando a casa, che non coll’approvare ordini del giorno nelle adunanze locali dell’Unione nazionale degli agricoltori, ordini del giorno il cui scopo è quello di prendere per il naso il governo e persuaderlo a patrocinare qualche stupido progetto a spese dei contribuenti» (110-11).

 

 

Le istruzioni che si ricevono dal governo, se non sono dannose, ordinano, nel caso più favorevole, di fare quel che si sarebbe fatto ugualmente senza tante istruzioni. Volevamo dissodare un tratto in pendio di un terreno a pastura. «Vennero due membri della commissione ed un impiegato. Dubitarono non fosse uno spreco del denaro pubblico. Replicammo che chiedevamo solo il permesso e non il sussidio governativo di venti sterline ogni ettaro. Avemmo il permesso ed il sussidio, sebbene senza di questo il lavoro ci avrebbe ugualmente dato un profitto» (168-69).

 

 

«Quando ministeri e comitati agricoli ordinavano di rompere i pascoli, vendere il bestiame e coltivar frumento, noi con i fatti abbiamo dimostrato che era possibile non diminuire la dotazione di bestiame, conservare i prati e produrre più cereali di prima» (154).

 

 

L’agricoltura è depressa; i prezzi sono bassi e non coprono i costi? Certamente, è desiderabile che i prezzi non siano troppo bassi, ma non dimentichiamo «che le crisi hanno sempre offerto ai modesti agricoltori della nostra taglia le occasioni propizie per lanciarsi. Le crisi eliminano i poltroni, gli incapaci, gli amanti dello sport, gli uomini i quali ambiscono dedicare il proprio tempo alla politica ed al governo locale ed offrono l’occasione mandata dal cielo al contadino proveniente dalle regioni meno fortunate del nord e dell’ovest dell’Inghilterra di prosperare nelle terre migliori del sud e dell’est… La prima condizione per ottenere terra dovrebbe essere l’attitudine a coltivarla; e l’uomo che in tempo di crisi si decide ad affittare un podere con un modesto capitale, non dovrebbe essere posposto, a spese del contribuente, a colui, il cui solo merito è che il nonno stava già su quella stessa terra e lui non sa, col mutar dei tempi, mutare sistemi di coltivazione» (164).

 

 

Henderson allude alle leggi che, anche in Inghilterra, vietarono durante la guerra gli escomi o diedero la preferenza ai fittabili che da più lungo tempo, essi ed i loro genitori ed avi, coltivavano la terra. «Avevamo un fittabile, in un podere acquistato da ultimo, il quale andava di male in peggio. I memoriali che noi inviavamo al comitato agricolo non servivano a niente, perché i comitati sono in mano dei grandi fittabili ostili ai proprietari. Ci appellammo alla fine direttamente al ministero ed ottenemmo il permesso di sbarazzarci del cattivo soggetto. Il nuovo fittabile produsse in un anno solo più frumento, più patate, più latte, le tre sostanze che stavano tanto a cuore al comitato, di quanto il vecchio avesse prodotto in tre anni» (150).

 

 

Pare che in Inghilterra si usi classificare i poderi in categorie, non si vede bene dal libro a quali fini. Henderson, sinché dura il malanno, si rassegna a proporre rimedi: «Non i poderi, ma i fittabili ed i proprietari ed i garzoni dovrebbero essere classificati in A, B, C. Finché duri il sistema di far decidere questi affari dai comitati agricoli, la classificazione dovrebbe servire per decidere se il tale o tale altro fittabile abbia diritto di rimanere sul tale podere, o di essere preferito nella affittanza di tale altro podere. Il ricavo medio di ogni distretto agricolo è cosa nota. I fittabili che ottengono il prodotto medio dovrebbero essere classificati in B; quelli con prodotto superiore di almeno il 25% alla media in A; e quelli col 10% in meno in C. Per incoraggiare la buona coltura, i fittabili classificati in A dovrebbero, se licenziati, ricevere una buona uscita uguale a tre anni di fitto; i classificati in B un’annata sola; e quelli posti in C niente. Se, inoltre, soltanto i fittabili classificati in A avessero il diritto di condurre in affitto un podere disponibile; e se solo i garzoni i quali avessero lavorato per tre anni presso un fittabile A fossero autorizzati a condurre un fondo per proprio conto, le cose andrebbero ancor meglio. Non bisogna dimenticare che si devono classificare uomini e non poderi; ché il successo dipende dalla persona del fittabile assai più che dal podere. Un uomo capace prospera, adottando convenienti metodi di lavoro, su pochi ettari sterili; chi invece manca di perizia e di sapere fallisce, qualunque siano gli aiuti che gli siano prodigati» (162-63).

 

 

Quale la conclusione finale del libro? «Libertà di parola è stata una delle quattro libertà nelle quali, secondo il presidente Roosevelt, si riassumevano i desideri del mondo: libertà di parola, di religione, dal bisogno e dalla paura. Se egli avesse incluso nell’elenco la libertà dalla burocrazia, i miei voti sarebbero stati pienamente soddisfatti; ricordando però che fra tutte le specie di burocrazia la peggiore è quella dei comitati agricoli locali. Peggio del ministero che, se fa malanni, almeno li fa a danno di tutti» (158).

 

 

L’arbitrio della burocrazia è il grande pericolo. «Nei momenti di malumore, penso che, se durante la guerra fu necessario mettere in salvo in America la copia più perfetta (quella della cattedrale di Lincoln) della Magna Charta e nascondere gelosamente la copia, pur difettosa, di Oxford, ciò accadde per timore che qualche agricoltore non potesse più leggere le massime immortali». «Noi non priveremo nessuno della sua proprietà; a nessuno porteremo via…». «Non si ottiene nulla mettendo tribunali di eccezione (Star Chambers) al luogo dei giudici naturali» (162).

 

 

Che cosa possiamo imparare noi dal breve riassunto compilato con qualche

adattamento verbale per tradurre modi di dire inglesi in modi di dire più

simili a quelli italiani e, più, che cosa possiamo imparare dalla lettura

del libro dell’Henderson?

 

 

L’appello alla Magna Charta, che ho ricordato da ultimo, è ammonitore. Dice che anche nella libera Inghilterra l’arbitrio amministrativo minaccia di sostituirsi all’ubbidienza alla legge. In luogo del giudice decide l’amministratore pubblico, la commissione di uomini periti scelta, a tempo, dal governo o dagli interessati. Vien meno il fondamento primo dello stato, che sono la certezza del diritto, la irretroattività delle leggi, la indipendenza del giudice. Risuscita lo spettro della giustizia economica, che nei tempi di governi detti assoluti eliminava, senza strepito di pubblicità e di osservanza rigida delle leggi sostanziali e di procedura, gli avversari politici; ed oggi risolve i problemi economici e sociali a seconda della volontà dei gruppi dominanti. Il comandamento non rubare, ancora valido – per quanto tempo? – nei rapporti privati, sta perdendo significato e valore nei rapporti fra stato e cittadini, fra ceto e ceto, fra ordini ed ordini.

 

 

Se la violazione dei principi fondamentali della Magna Charta fa temere ai veggenti, nel paese ove essa fu primamente imposta ai re, il ritorno allo stato di arbitrio, quali visioni più spaventose si presentano dinnanzi agli occhi degli uomini nati là dove le carte costituzionali hanno storia tanto più recente?

 

 

Non attardiamoci tuttavia sulle altitudini supreme. Terra terra, il libro di Henderson inculca massime eterne ed universali e validissime anche in Italia.

 

 

A produrre roba buona non si perde se non per rara disgrazia o per conclamata altrettanto rara forza maggiore.

 

 

A sentir parlare di crisi del vino, del bestiame, del frumento, degli agrumi e di quante assai derrate vengono fuori dalla terra l’agricoltore, in vena di esame privato di coscienza, dubita. A lui quelle paiono querele artefatte e non può fare a meno gli tornino in mente gli alti lai del contadino, il quale piangeva per aver dovuto vendere a cinquanta quel che gli era costato ottanta; ma per costo intendeva, non il prezzo da lui pagato, più le spese di allevamento o di conservazione, gli interessi decorsi e il rimborso del rischio, che in tutto montavano solo a quaranta; bensì quel prezzo ottanta che in un mercato precedente gli era stato offerto ed egli aveva rifiutato, persuaso di potere spuntare cento. Del qual tipo sono non poche tra le perdite di cui si sente discorrere nelle campagne.

 

 

E sono massime universali anche quelle che non bisogna mai imbrogliare i clienti, mancando di parola sulla qualità della derrata o sulla promessa di consegnare una data partita a tempo fissato. Chi cerca pretesti di non consegnare quando i prezzi salgono, costui preferisce il momentaneo lucro meschino alla reputazione duratura; e facendo il furbo si scava la fossa. Osservare religiosamente i patti fermati; essere corretti e leali in ogni transazione, non ingannare, non rubare; val la pena di ricordare che in tutti i paesi del mondo queste sono massime sacre; e che il proverbio «la farina del diavolo va in tanta crusca» fu pronunciato dapprima dalla gente rustica?

 

 

Le querele dei giovani usciti dalle scuole e dalle facoltà agrarie sulla difficoltà di allogarsi onorevolmente in tenute private e sulla sorte del proletariato intellettuale agricolo costretto a rifugiarsi negli ispettorati e negli enti statali o quasi pubblici sono frequenti forse più in Italia che in Inghilterra.

 

 

Il possesso di un diploma di laurea; le connesse esigenze di stipendio, di Caro-vita, di carichi di famiglia, di lavoro straordinario, di tariffe sindacali, di quote di assicurazioni sociali fanno scappare a gambe levate, timoroso di vedersi mangiato l’intero margine di reddito, il proprietario in cerca di un buon fattore od il fittabile bisognoso di un dirigente o capo uomo. E chi può dar torto a proprietari e fittabili? Se il laureato si fosse presentato in maniche di camicia, disposto, ma senza far cenno dei diplomi conquistati, a fare il garzone di campagna, a maneggiare vanga e badile, ad inforcare fieno ed insilare erbe, a portar, occorrendo, sulla schiena i fusti delle vinacce e del vino novello, la sua perizia, se c’era, si sarebbe presto rivelata ed egli sarebbe salito più o meno presto, ma sicuramente, al giusto posto a lui dovuto, in quella od altra fattoria. Altrimenti, occorre si rassegni a fare un altro mestiere: l’impiegato di ministero, l’ispettore agrario, l’organizzatore sindacale.

 

 

Onorevolissimi mestieri per fermo; i quali non autorizzano tuttavia coloro che li coprono ad invidiare gli imprenditori agrari, venuti su dalla vanga o dalla scuola, sol perché con fatiche ben altrimenti dure e vite ben più grame sono saliti nella scala sociale, da garzoni salariati a compartecipanti, a piccoli fittaioli, a mezzadri, a fittabili, a proprietari di terra o, forse, se laureati, da assistenti mal pagati ed esecutori di ordini, dati o trasmessi con rustica malagrazia, ad aiuto fattore e quindi a fattori od amministratori interessati negli utili ed infine a fittabili e proprietari per proprio conto. Questi e non gli ispettori ed i direttori ministeriali, anche se dal titolo appaiono dirigere la produzione agraria o forestale di un grande stato, sono il sale della terra. Gli agricoltori, fittabili, mezzadri o proprietari, se incapaci, sono in un paio di generazioni eliminati; gli ispettori, direttori ed organizzatori fanno carriera anche se la terra l’hanno sempre vista attraverso i vetri dell’automobile o gli insegnamenti ricevuti dai manuali scolastici. Di talun bravo cattedratico ambulante, che le lezioni ai contadini le ha sempre date sui campi, gli agricoltori conservano piamente la grata memoria e nel Monregalese, finché sarà viva la generazione nata fra il 1870 ed il 1930, durerà la memoria riconoscente dell’opera di Alessandro Gioda, scrittore di dialoghi fra lui ed il contadinoBastian, dei quali mai si lessero, dopo i tempi di Don Rebo (l’Ottavi di Casalmonferrato), altri più efficaci sui giornaletti agricoli italiani. Ma, contro ai pochi che non disdegnavano e non disdegnano di infangarsi nei campi e di discorrere famigliarmente in dialetto nelle stalle e nelle cantine, quante mosche cocchiere, che per avere redatte circolari, diffuse istruzioni, disciplinato ogni sorta di faccende altrui, immaginano di avere, essi, migliorato le razze, resi sapidi abboccanti e serbevoli i vini, salvato la cerealicoltura, gli oliveti, gli aranceti ed i limoneti che i coltivatori meridionali ben giustamente chiamano «giardini» e son tali per loro esclusivo merito!

 

 

Dai dottrinari era stata inventata una teoria detta della terra libera, che ancor oggi sopravvive, mutato nomine, in saggi sull’avvento della frontiera, ovverosia della economia stazionaria, ovvero ancora della economia limite. Raccontavano costoro, speculando sulle vicende future degli uomini: «Finché esistono terre nuove, miniere vergini, finché c’è una frontiera mobile, finché l’uomo contempla innanzi a sé la terra vuota liberamente aperta alla occupazione dei primi venuti, non è vana la sua speranza di vivere da uomo libero, di salire nella scala sociale, di arricchire. Tutti possono sperare di diventare imprenditori per proprio conto. Quando gli uomini giungono alla frontiera invalicabile; quando gli uomini provenienti dalla California e quelli partiti dagli stati dell’Atlantico si incontrano, ed è finita la terra aperta agli uomini intraprendenti, gli uomini non salgono più nella scala sociale combattendo contro la natura; e cominciano a lottare gli uni contro gli altri. Chi è in alto vi resta e si asserraglia nella classe capitalistica; chi è in basso è condannato per sempre a servire nella geenna del proletariato. L’Europa aveva visto, con la scoperta delle Americhe, allontanarsi la frontiera economica; ma occupata, anche oltre oceano, tutta la terra coltivabile, le porte all’emigrazione sono state chiuse. In tutto il mondo ci stiamo avvicinando alla economia limite».

 

 

Il vero grande pericolo non sta tuttavia nell’avvicinarsi della frontiera; sta nella rarità dei tipi Henderson; che sanno, dovunque si trovino e qualunque mestiere facciano, allontanarla: poderi di trentaquattro ettari di terreno malvagio da trasformare in buono; nuovi metodi di fabbricare a minor costo cose notissime; o nuovi prodotti, della necessità di consumare i quali occorra ancora persuadere gli altri uomini. Per trovare le vere frontiere, le vere società stazionarie, non bisogna guardare alla vecchia Europa ed all’America chiusa agli europei; bensì ai paesi che i novellieri dicono ricchissimi: all’Africa equatoriale, all’America centro-meridionale, ai favolosi paesi nuovi, dove sono foreste secolari, acque abbondanti, terreni vergini, miniere mai sfruttate; e sono lì, perché gli uomini non sono ancora giunti, per millenaria esperienza, a cercare nella propria testa e nella propria energia lo stimolo a valicare l’invisibile ostacolo della frontiera, che essi immaginano sia fisica ed è invece tutta spirituale. Gli stessi uomini, mossi da uno stimolo nuovo, da una fresca fantasia, coglieranno le occasioni, senza danneggiare anzi avvantaggiando altrui.

 

 

La terra libera non scompare mai; ad ogni generazione nuova sorgono gli uomini che vedono più lontano degli altri, che speculano sull’avvenire, che scoprono le vie atte a salvare dalla miseria e dalla disoccupazione le moltitudini.

 

 

Guai se gli inventori, i creatori del nuovo non esistessero o se troppi vincoli si ponessero all’opera loro! Si giungerebbe allora sì, ben presto alla frontiera, al di là della quale gli uomini non sarebbero capaci di avanzare. Nel giorno nel quale lo spirito di invenzione del nuovo e di ribellione al vecchio fosse morto, come le moltitudini potrebbero essere occupate? Se non si inventano nuovi bisogni e nuovi metodi per soddisfare a bisogni nuovi, non si può impedire che ai bisogni vecchi si provveda con fatica sempre minore. Anche negli stati stazionari, alla lunga, per inavvertita successione di esperienze quotidiane, si riesce a produrre la stessa quantità di beni con fatica minore. Ad ogni piccola innovazione alla macchina, ad ogni inavvertita miglioria agricola, che, pur dentro la morta gora della non valicata frontiera, si avveri, la domanda di lavoro si contrae. A poco a poco, scema la proporzione degli uomini necessaria a far fronte alla produzione. E gli altri? Quale la sorte degli uomini, il cui lavoro sia a mano a mano reso inutile?

 

 

È questa la domanda angosciosa che pongono a se stessi pubblicisti, politici, filantropi, uomini di chiesa e di fede; ed alla quale, quando la si ponga per ricercare metodi, discipline, regolamenti, norme atte a dar lavoro a tutti, non esiste alcuna risposta. Che se in una società stazionaria, dentro una frontiera reputata invalicabile, gli uomini di buona volontà vogliono ad ogni costo dare la risposta al quesito, in quella ipotesi insolubile, altro risultato non si ottiene se non quello di rendere più ardua la soluzione del problema. Se davvero battiamo contro la frontiera, se ci dobbiamo contentare delle piccole normali innovazioni, se davvero la ricerca del vero nuovo è vana, il destino degli uomini è segnato. Un numero sempre minore di uomini basta ed ognora più basterà a soddisfare i bisogni noti; e se si vuole, come umanamente si deve, far partecipare tutti, occupati e disoccupati, al lavoro ed al consumo dei beni e dei servigi prodotti, fa d’uopo attuare un ferreo regime di distribuzione della quantità limitata, troppo lentamente crescente, dei beni prodotti, fa d’uopo rendere permanente il regime proprio delle piazze assediate dal nemico. Non occorre esista di fatto la frontiera territoriale e che al di là viva il nemico. Il nemico vive dentro la frontiera, vive in noi.

 

 

Vanamente i politici ed i filantropi pongono il quesito: che cosa far fare ai lavoratori che la macchina espelle dalla fabbrica, ai contadini che la trattrice caccia via dalla terra, ai montanari che il frumento della pianura costringe ad abbandonare i miserabili campicelli della montagna? Politici e filantropi non possono dare la risposta. Farebbe d’uopo che essi diventassero quel che non è ufficio loro di essere, quel che mai non furono e mai non saranno: inventori, scopritori, amanti del rischio e della ventura.

 

 

Chi darà la risposta? Alla visione spaventosa di una società giunta alla frontiera ci possiamo sottrarre soltanto supponendo che continuino ad agire le forze le quali negli ultimi due secoli hanno mutato le sorti dell’umanità, hanno raddoppiato la durata della vita umana, hanno consentito a centinaia di milioni di uomini in più di vivere assai meglio degli uomini a cui era accaduto di nascere nei secoli andati.

 

 

Queste forze si chiamano: da un lato la estensibilità indefinita dei desideri degli uomini; che è fatto storicamente recente, ignoto tuttora a talune popolazioni selvagge primitive del centro dell’Africa o dell’Australia e nato negli ultimi millenni della storia umana; e dall’altro lato la attitudine ad inventare sempre nuovi metodi di produrre i beni già noti, diminuendo così la fatica e il numero degli uomini chiamati a produrli; l’attitudine ad inventare nuovi beni e nuovi servigi atti a soddisfare i nuovi desideri degli uomini.

 

 

Esiste tuttavia una distinzione fondamentale fra la estensibilità dei desideri e la attitudine ad inventare i mezzi di soddisfarli. Tutti gli umani, salvo gli asceti, i mistici, i contemplativi, agevolmente si adattano oggi a soddisfare ed inventare desideri nuovi. Il peccato di desiderio è connaturato alla natura umana e non è domabile. Gran fortuna è che quel peccato sia di tutti, perché senza di esso mancherebbe lo stimolo ad inventare i modi di soddisfarlo. Ma se la attitudine a desiderare è di tutti, l’attitudine ad inventare è di pochi. Se i pochi fanno difetto, la società cade nello stato di torpore in cui, in mezzo alla natura lussureggiante, vivono i popoli selvaggi e stazionari.

 

 

Inventori e scopritori non sono soltanto i grandi geni che hanno fatto valicare senza alcun filo gli oceani al pensiero o dissolto l’atomo; sono anche coloro che inventano una nuova rosa a deliziare gli occhi degli uomini o, carezzando nel giusto luogo il pelo della mucca, la persuadono a fornir più latte ai bambini; ovvero ancora, creando una nuova armonia di suoni, danno letizia e riposo a chi ha faticato, facendolo pronto a nuova fatica. Importa non scoraggiare l’opera dei pochi. Non si scoraggia quando non si pongono ostacoli agli spiriti liberi protesi alla scoperta del nuovo; e quando si pongono le condizioni giuridiche entro i limiti delle quali quegli spiriti debbono operare per il bene comune.

 

 

Il punto critico tra il non scoraggiare e l’ostacolare si ha là dove chi comanda invece di contentarsi di offrire i mezzi di studio e di ricerca, indica una via, segnala un indirizzo, pone una premessa. Coloro che comandano riassumono in sé, se sono savi, la sapienza del passato. Ossia sono i nemici nati involontari della sapienza dell’avvenire. I progetti, le proposte le quali nascono dall’apparato governativo, legislativo e scientifico esistente sono il frutto di quel che si sa, delle invenzioni già note, non di ciò che ancora non si sa, delle invenzioni di là da venire. Fu scritto che tutta la sapienza legislativa dell’oggi è informata ai principi scientifici, alle idee che erano valide un terzo di secolo fa. Forse bisogna risalire più indietro. Fa d’uopo un lungo trascorrere di decenni affinché le idee filosofiche, politiche, sociali, economiche passino dal campo teorico a quello pratico; e quando vi arrivano, sono già antiquate e non rispondono alle esigenze del momento presente. Peggio; passando dal concepimento all’attuazione, quelle idee rallentano l’avanzamento delle società umane. Le invenzioni, le novità non nascono negli uffici, nei parlamenti e nei consessi scientifici. Ai dottori dell’Università di Salamanca si comunica l’avvenuta scoperta dell’America; non si chiedono i mezzi, il consenso e lo stimolo alla scoperta. Poiché la vita degli uomini, il loro salvamento dalla miseria e dalla tirannia, sono sospese al filo invisibile delle invenzioni degli uomini di genio, una lezione di modestia si impone ai politici, a qualsiasi partito appartengano, senza alcuna eccezione; non scoraggiare, non consigliare, non comandare ai pochi, ai pochissimi, i quali hanno l’indole del pioniere, dell’inventore, dello scopritore.

 

 

Pochi tra gli uomini appartengono al tipo degli inventori ed innovatori; ed è bene così sia. Che cosa diventerebbe una società se tutti fossero mossi dal demone del nuovo, del futuro, dell’incerto? Se tutti fossero agitati come nella casa dei pazzi? I più degli uomini sono lavoratori probi, ansiosi di fare il proprio dovere, contenti di ubbidire e di imparare a poco a poco a dirigere il lavoro altrui secondo schemi lentamente elaborati e perfezionati. Addetti a lavori manuali ed intellettuali, essi non si chiamano soltanto contadini od operai, capi uomo e sovrastanti, ingegneri e medici, ragionieri ed agronomi; sono giudici, soldati e poliziotti, studiosi e sacerdoti, amministratori della cosa pubblica, risparmiatori ed investitori.

 

 

Quasi sempre, i più degli uomini lavoratori e risparmiatori non sono contenti della loro sorte; ed è bene non siano contenti ed aspirino al meglio. Purtroppo, troppi uomini sono mossi, nel soddisfare al bisogno eccitante benefico di elevazione, più dallo spirito dell’invidia che da quello dell’emulazione; più dall’impulso della sopraffazione che da quello della gara. Millenari istinti predatori, frenati, ma non estinti dal costume, dalla religione, dal diritto fermentano in noi; la via dell’appropriarsi i beni altrui già pronti al consumo, la via della conquista di territori apparentemente vuoti o male utilizzati, la via della forza appare più rapida, più redditizia della via faticosa del lavorare, dell’inventare e del rischiare. All’inventore, il quale può promettere soltanto conquiste incerte, rischiose, pur se veramente efficaci, le moltitudini preferiscono spesso l’uomo che ha pronte le formule politiche (Mosca) atte a far arrivare alla meta, l’uomo che all’uopo è dotato di un acuto istinto delle combinazioni (Pareto); e poiché gli inventori forniti del cervello atto a scoprire il nuovo vero atto a crescere la quantità dei beni e dei servizi utili o desiderati partecipano della natura umana egoistica, anche essi sono non di rado tratti ad inventare, al luogo di quel vero, avvedimenti utili a soddisfare le passioni dei più e ad arricchire e dare potenza ai meno. L’esperienza storica prova che la formula di cui gli uomini combinatori riescono più agevolmente a persuadere le moltitudini non è quella dell’incremento, ma della limitazione. Le protezioni doganali ed i contingentamenti sono preferiti alla concorrenza ed al libero commercio internazionale; la moneta cartacea o di scrittura, regolata dalla volontà dei governanti trionfa sulla moneta convertibile in oro a vista ed al portatore, sottratta dalla natura all’arbitrio umano; i vincoli alle migrazioni, sinonimi di servitù della gleba all’interno e di ristabilimento della frontiera verso l’estero, le licenze amministrative a fabbricare e a commerciare, la moltiplicazione dei titoli di studio aventi valore legale e le relative restrizioni alle libere attività professionali rispondono al desiderio universale di vita tranquilla, sicura da rischi, immune da avventure, fornita di carriera pensionabile; le rivendicazioni dei sindacati operai, rivolte in apparenza contro i capitalisti, sono in verità indirizzate a ripartire con gli industriali, asserragliati in consorzi, le spoglie conquistate, grazie all’inevitabile aumento di prezzi, sul ceto genericamente conosciuto sotto la innocua denominazione di consumatori; ma i restrizionisti affettano di ignorarli perché: chi sono i consumatori? Non siamo forse tutti noi, lavoratori ed industriali; e se tutti noi siamo avvantaggiati dall’aumento dei nostri salari e dei nostri profitti, chi è danneggiato? Non sono forse danneggiati gli indipendenti non organizzabili del ceto medio, degli artigiani, dei rustici proprietari e coltivatori, dall’egoismo organizzato altrui ridotti ad un livello di vita inferiore al normale? Al margine, sono danneggiati i paria esclusi dall’acqua e dal fuoco, che invano si vorrebbero poi aiutare compiangendoli col nome di disoccupati. Non si aiuta nessuno, non si solleva nessuno dalla miseria, non si dà occupazione a nessuno finché si rende ossequio all’idolo della restrizione.

 

 

Dopo un secolo di predicazione sociale rivolta contro il bersaglio sbagliato di una inesistente lotta fra lavoratori e capitalisti, è giunto il momento nel quale i lavoratori ed i risparmiatori, falsamente denominati proletari e capitalisti, gli uomini dell’invenzione e del rischio, i fautori della moltiplicazione indefinita dei beni e dei servigi comprenderanno la necessità di rivolgere i loro colpi contro i restrizionisti, contro i monopolisti, contro gli uomini delle combinazioni e delle formule, contro tutti coloro i quali sono pronti a trarre vantaggio privato dalla più spedita, universale ed accettata maniera di arricchirsi, che è il ristabilimento e l’incremento dei vincoli, delle frontiere e delle barriere. I novatori, gli inventori, gli uomini di pensiero e di azione debbono riprendere la lotta grazie alla quale essi erano riusciti, nel tempo decorso dal 1776 al 1914, ad abbassare e qua e là persino ad abolire le barriere ed i vincoli artificiali creati nei secoli dagli uomini astuti per impedire alle moltitudini di valicare la invisibile frontiera al di là della quale si contemplano nell’infinito e si toccano mete sempre più alte.

 

 

Il senatore Medici nella primavera del 1954 chiese ad un amico noto nel mondo degli economisti agrari, notizie su quel che nell’azienda degli Henderson erano state le variazioni intervenute nel decennio dal 1944 al 1954.

 

 

Henderson va ancora avanti molto bene e sta migliorando la sua produzione su tutta la linea. Attualmente egli alleva soltanto bestiame selezionato, cosicché il 25% circa del profitto, che egli trae dalla sua azienda, proviene da «valori selezionati». Mi è stato detto recentemente che, negli ultimi venticinque anni o giù di lì, egli ha venduto vacche selezionate «Jersey» per oltre sessantamila sterline; in effetti egli calcola un ricavo annuo, dalla vendita del solo bestiame, di mille sterline per acro. Inoltre egli vende circa mille galline selezionate alla settimana, e occasionalmente qualche verro selezionato dal suo allevamento di dodici scrofe; egli ingrassa oltre duecento maiali all’anno. Infine Henderson vende anche qualche montone selezionato, giacché egli alleva ora un gregge selezionato di cinquanta pecore Clun. Si tratta di una varietà di montagna, che un tempo fu incrociata con la «Southdowns», e che riunisce abbastanza bene le qualità dei due tipi, poiché è resistente e feconda; può essere facilmente racchiusa in recinti poco elevati. Henderson ottiene il massimo sfruttamento dei suoi pascoli, mediante un vasto impiego di recinti elettrici, ove il suo bestiame viene fatto pascolare poco tempo dopo il pollame. In proposito, egli è un grande sostenitore delle bietole (roots) e dei cavoli (kale) da foraggio, giacché con questi prodotti egli ottiene il massimo rendimento dell’azienda. A suo parere, le bietole provvedono i carboidrati, e i cavoli le proteine, al minimo prezzo.

 

 

Da molti si richiede di conoscere le esperienze di Henderson, e cioè come si possa ricavare da una piccola azienda un reddito sufficiente per vivere. Circa un anno fa, l’ho sentito parlare alla radio sulle sue esperienze; dalla sua esposizione si ebbe un quadro molto vivo di quanto può realizzare un uomo pieno di vitalità e di capacità. Naturalmente Henderson è un grande individualista e crede nel far da sé, o, tutt’al più, nella collaborazione con il proprio fratello. A tale proposito egli non vuole iscriversi all’Unione degli agricoltori, da poi che egli ritiene che tale organizzazione sia troppo propensa alla mediocrità e faccia poco per incitare i propri membri ad un maggiore sforzo (credo che ciò sia un po’ ingiusto, benché vi sia più di un grano di verità!!). Durante la guerra egli si dimostrò molto contrario al sistema dei Comitati, ora è contrario al Servizio civile, costituito tra gli agricoltori per la consulenza. Tale atteggiamento sarebbe giustificato se tutti gli agricoltori fossero come Henderson, poiché egli segue con molta attenzione il lavoro scientifico, svolto dalle stazioni sperimentali, ecc.; e mediante il suo ingegno e la sua capacità di osservazione, è in grado di trarre utili insegnamenti, da applicare alla sua azienda. Peraltro Henderson dimentica che poche persone posseggono le qualità fisiche ed intellettuali, di cui egli è dotato.

 

 

Henderson è un fautore della gestione diretta, in un’azienda relativamente piccola. In merito egli vorrebbe vedere, a suo tempo, lo spezzettamento delle aziende più grandi, in guisa da costituire un maggior numero di piccole aziende, per dare la possibilità, ai giovani elementi, di iniziare un’attività agricola, come fece a suo tempo egli stesso.

 

 

Comunque si voglia considerare la cosa, non vi è dubbio che Henderson ha ottenuto notevoli risultati, unendo nel modo più efficace scienza e pratica. Grazie alla sua abilità, egli è riuscito a creare una impresa, ove vi è un minimo di perdita ed un massimo di utile, in relazione allo sforzo ed al capitale investito in ogni settore. Egli crede, pertanto, in quella che egli chiama agricoltura equilibrata (balanced farming), ove siano rappresentate tutte le colture e tutti i vari allevamenti. Peraltro, egli ha messo giustamente l’accento sull’allevamento dei maiali e del pollame, quale principale fonte di reddito, integrando, tuttavia, tali attività con il bestiame bovino ed ovino, nonché con le colture foraggere. Naturalmente il suo gregge ha la funzione di monda, piuttosto che quella vera e propria di dare un reddito. Persino le sue vacche non sono alimentate al massimo, perché egli ritiene che il mangime concentrato debba essere riservato, in primo luogo, al pollame ed ai maiali, prima di soddisfare le necessità alimentari del bestiame bovino. Vi sono poche aziende nel Regno Unito, che possano dichiarare di avere un carico di una vacca per ogni acro di pascolo, ecc., paragonabile a quella dell’azienda di Henderson.

 

 

Henderson riesce ad impiegare, in maniera eccezionale, la meccanizzazione in ogni settore della propria azienda. A questo proposito, egli ha mostrato una grande capacità e precisione nell’utilizzare le macchine a complemento dell’opera dell’uomo. Ritengo che egli abbia da trenta a quaranta motori elettrici nella sua azienda. Inoltre egli sostiene che l’agricoltore può ridurre assai i costi del capitale fisso, distribuendo razionalmente il tempo dedicato ai lavori saltuari. In effetti egli dichiara – così ci consta – che i lavori sistematici spesso interferiscono con i lavori saltuari! Naturalmente molti sono gli agricoltori, i quali potrebbero trarre una saggia lezione da ciò, poiché molti sono quelli, i quali attribuiscono poca importanza a quel 25% del loro tempo, che non è dedicato al lavoro regolare, ma che viene impiegato nelle attività saltuarie. Da quello che posso rilevare, egli ha costruito, nell’ambito dell’azienda, la maggior parte dei suoi impianti fissi per i maiali ed il pollame, nonché le stalle per il bestiame.

 

 

Henderson ha i suoi critici, che gli derivano dalle sue idee e dalle generalizzazioni, tratte dalle sue esperienze; tuttavia, dimenticando il caso unico di quest’uomo, occorre riconoscere che egli ha fatto molto bene. Mi risulta che molti gruppi di giovani e di vecchi agricoltori, provenienti dal territorio nazionale e dai territori d’oltremare, lo visitano ogni anno.

 

 

Egli è sempre pronto a far conoscere le proprie cognizioni, ed è un meraviglioso insegnante, a parte il fatto che Henderson e suo fratello costituiscono una coppia unica».

 

 

Abbiamo pubblicato sopra il giudizio dato da un agronomo competente sull’opera dei fratelli Henderson; ed il giudizio si riassume nel dire che essi hanno compiuto opera mirabile anche e forse sovratutto perché sono uomini di eccezione. L’agricoltore ordinario non è uomo di eccezione; epperciò si giustificano gli aiuti ed i consigli dei ministeri di agricoltura, gli insegnamenti delle scuole agricole ed in genere quelli che gli inglesi chiamano le «parafernalia» dell’intervento dello stato.

 

 

Essendo stato chiesto all’Henderson un giudizio riassuntivo dell’opera compiuta dai due fratelli dopo il 1943, ossia dopo la pubblicazione del libro, si ebbe la seguente risposta.

 

 

«Nei dieci anni trascorsi dopo la pubblicazione del volume The Farming Ladder si die’ opera a continui miglioramenti nel podere di Oathill. La produzione per acro è stata raddoppiata e la produzione a testa triplicata dopo il 1943.

 

 

Nei trenta anni di lavoro dal 1923 la produzione lorda per acro aumentò da sette lire sterline per acro nel 1924, produzione eguale alla media dell’agricoltura britannica in quell’anno, a duecentodieci lire sterline nel 1954; ma qui il confronto va fatto con una media nazionale di ventisette lire sterline.

 

 

Durante un periodo di tempo in cui i costi raddoppiarono ed i prezzi di vendita aumentarono soltanto del 15%, il margine di profitto rimase tuttavia invariato e ciò grazie all’incremento della produzione; a sua volta dovuta in gran parte all’impiego di macchine ed agli impianti di energia elettrica. Tre trattori con piena dotazione di strumenti complementari sono normalmente impiegati nel podere e ad essi si aggiungono cinquanta motori elettrici. Allo scopo di aumentare la produzione, fu adottato ogni mezzo compatibile con una coltura equilibrata; ed il podere riesce oggi a fare a meno di concimi artificiali e non si ravvisa più la necessità di fare uso di prodotti selettivi contro le erbacce.

 

 

Le macchine trovarono il proprio compenso nella produzione aumentata; ma la loro adozione fu altresì incoraggiata da riduzioni sostanziali di imposte concesse dopo la guerra allo scopo di favorire la ricostruzione dei poderi. Ogni cosa oggi è moderna ed aggiornatissima. I fabbricati rurali sono stati ampliati per dare maggiore e migliore comodo alle scorte vive e morte. La casa di abitazione è stata ricostruita.

 

 

Il nostro metodo di educazione dei futuri affittavoli è stato continuato con grande successo: trentasei su cinquantaquattro giovani, uomini e donne, educati da noi conducono oggi poderi per proprio conto. I fratelli George e Frank Henderson si sono disfatti oggi degli altri poderi fuori di quello originario, che essi coltivano direttamente. Avendo l’«Agricultural Act» del 1947 privato i proprietari del diritto di disporre del modo di coltivare i loro terreni, fu deciso dai due fratelli di offrire ai fittabili di diventare, a prezzi ragionevoli, proprietari dei poderi da essi coltivati. Non rimpiangono la decisione presa ritenendo che la proprietà coltivatrice sia il miglior sistema di conduzione dei terreni. Preferiamo invece aiutare finanziariamente coloro che sono stati educati da noi, cosicché essi possano venire in possesso dei poderi da essi desiderati.

 

 

L’autore del libro (George) oggi è sposato, ha tre figli maschi ed una femmina; cosicché potrà darsi sorga la necessità in avvenire di assumere altri poderi. Ma prima i figli dovranno decidere se essi vogliano perseguire una delle più nobili carriere aperte all’uomo, quella del buon coltivatore; carriera senza la quale tutti i poeti, i santi e gli uomini di genio non vorrebbero e non potrebbero come tali esistere».

 

 

Quale la conclusione? Ha ragione l’agronomo, consapevole della limitazione della natura umana, quando afferma che l’esempio degli Henderson non può essere generalizzato? Gli altri, in grande, in grandissima maggioranza, non inventano, non tentano e devono essere guidati. Il problema è: guidati da chi? Dall’esempio dei pochi, dall’insegnamento dei dotti, dalle predicazioni dei periti inviati da uffici pubblici, dai sussidi di sementi elette, da campi sperimentali, da stazioni agricole, da bonifiche, rimboschimenti ecc. ecc.? Forse da tutti un po’. Il punto critico di ogni metodo di incoraggiamento all’agricoltura si ha quando un dato metodo pretende di essere l’unico, il salvatore, il risolutore. Forse il punto critico non arriva tanto presto quando l’esperimentatore opera a sue spese. Se perde, egli se ne accorge presto e muta sistema. Dà meno affidamento il funzionario o il politico quando consiglia e sovratutto quando costringe a spese altrui, ossia a spese dei contribuenti. Se funzionari e politici applicassero i moniti dell’esperienza ultrasecolare, e si contentassero di fare le cose che i singoli non possono o non sono capaci di fare bonifiche, rimboschimenti, canali di irrigazione, strade e simili; se si sforzassero di non scoraggiare, come accade con barbare imposte, tipo quelle sui trasferimenti a titolo oneroso, i passaggi della terra dai cattivi ai buoni agricoltori; se non incoraggiassero, con una politica di prezzi artificiosamente alti, colture antieconomiche, l’intervento dello stato non oltrepasserebbe il punto critico e da esso nascerebbero vantaggi grandissimi.

 

 

Agricoltori privati, politici e funzionari sanno sempre riconoscere il limite della loro azione feconda? Il pericolo di oltrepassarlo è sempre imminente. Il bove paziente e possente è sempre in lite con la mosca cocchiera, la quale pretende di essere essa ad arare il campo.

 

 

Un pericolo è indicato nella lettera di George Henderson. Egli è stato persuaso da una certa legge agraria del 1947, a vendere ai suoi fittabili gli altri poderi, fuor di quello da lui condotto in economia. Da quel che sembra egli è stato persuaso nel solito modo in cui le leggi persuadono altrui: rendendo la vita impossibile a colui che si intende persuadere; Henderson non se ne accora perché egli vorrebbe che tutti i poderi fossero condotti in economia da proprietari coltivatori. Alla lunga, è assai dubbio se la legge, che non conosco nei particolari, ma si indovina inspirata a concetti divenuti popolari nell’Europa occidentale dopo le due grandi guerre, produrrà risultati tutti buoni.

 

 

Dove sarebbero finiti i bravi trentasei suoi allievi se fossero stati «costretti», volendo lavorare per proprio conto, ad acquistare il podere? Come rimarrebbe in piedi, aperta ai desiderosi di salire, la scala (ladder) del contadino, se non si potesse più percorrere la carriera del garzone a giornata, del salariato fisso, del cointeressato, del mezzadro, del fittabile, del proprietario?Se tutti son garzoni o proprietari, come si diventa proprietari?

 

 

È probabile che anche in Inghilterra i fabbricanti di leggi agrarie sentano la moda. In lingua propria italiana sentono l’«andazzo». L’andazzo muta col mutar del tempo. Ai tempi di Arturo Young l’andazzo volgeva a pro della grande proprietà; oggi pare volga a favore della piccola proprietà, sia pure di dimensioni ragguardevoli, sui trenta-quaranta ettari, e volge, si intende, in maniera accortamente congegnata così che il grande sia costretto, come pare sia accaduto agli Henderson, a sbarazzarsi dei poderi dati in affitto altrui. Non monta che il fittabile sia contento e guadagni di più a stare in podere di affitto, se il proprietario è deciso a migliorare il podere ed a suggerire e, se occorra, ad ordinare metodi di cultura da lui sperimentati ed atti a crescere il reddito del fondo.

 

 

Chi sente l’andazzo del tempo non tollera che gli agricoltori se la cavino da sé, vendendo, comprando, affittando. La diversità, la variabilità non è tollerabile dai pappagalli usi all’andazzo del tempo che corre. Il pappagallo non tollera l’insegnamento della esperienza universale e secolare: la dimensione ottima dell’impresa agricola, come del resto di ogni altra impresa, varia da un decimo di ettaro a migliaia e talvolta decine di migliaia di ettari, a seconda del tipo di coltura, dell’acqua e della aridità, della natura del terreno, della sua esposizione, della altitudine, della vicinanza ai centri abitati, ecc. ecc.; e qualunque sforzo volto ad imporre un dato tipo, necessariamente informato ad esperienze del passato, non può non crescere la miseria delle moltitudini. Il pappagallo, fissato sulla bontà del suo tipo prediletto, non sente ragione. Guai se tutti non ripetono quel che taluno, non si sa come, ha cominciato a dire: piccola proprietà, e poiché i piccoli da soli, se non educati da una esperienza secolare, vanno in miseria, l’andazziere aggiunge: piccola proprietà suffragata da cooperative, da trattori collettivi, da cantine sociali, da partecipazione ai profitti e da provvidenze senza fine. Che sono tutte bellissime cose; e riescono se i cooperatori sono apostoli e si chiamano Montemartini, Baldini, Massarenti, Morandi. Altrimenti son regolamenti, ispettori, circolari e sussidi pagati dai contribuenti.

 

 

Negli anni della giovinezza, leggevo in un libro famoso di Sumner Maine la dimostrazione dell’avanzamento giuridico dovuta al passaggio dal principio dello status a quello del contract; dal tipo della organizzazione gentilizia e famigliare in cui occupazioni, lavori, mestieri, proprietà sono regolati dalla consuetudine e dalla legge (status) al tipo di impresa libera in cui gli uomini singoli, o collegati in sodalizi, liberamente contrattano tra di loro (contract). Oggi stiamo ritornando dal contratto libero alla norma coattiva; e diciamo che il ritorno è progresso ed è conquista. Il ritorno al «forzoso» è davvero sempre causa di progresso giuridico, economico e sociale; o non abbiamo già sorpassato il punto critico, al di là del quale c’è l’irrigidimento, la stasi e poi la morte della società umana?

 

 

Autunno del 1954.



[1] Presentazione di Luigi Einaudi, [ndr].

[2] Le cifre tra parentesi si riferiscono alla paginatura della edizione originale: G. Henderson, The Farming Ladder. Un vol. in 8° di pp. 181, con 23 illustrazioni, 3 disegni e un piano del podere nei fogli di risguardo (prima ed. 1944; ma ho sott’occhio la 14esima ristampa del maggio 1950, Faber and Faber, London).

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