Opera Omnia Luigi Einaudi

Esistono vere esenzioni d’imposta?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1967

Esistono vere esenzioni d’imposta?

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 90-114

 

 

 

 

78. La pratica tributaria è piena di trabocchetti verbali. Forse, dopo quella del doppio d’imposta, la parola più equivoca è esenzione. Non fu forse scritto in un testo legislativo che il sovraprezzo delle azioni era esente da imposta sui redditi? Ciò che non fu mai reddito può forse logicamente essere soggetto ad un tributo il quale ha assunto il reddito ad oggetto suo specifico?

 

 

La società emette una prima serie di 10000 azioni da 1000 lire l’una per procacciarsi il capitale iniziale di 10 milioni di lire necessario all’impresa. Per merito o fortuna – ma il cervello di chi non ha merito non crea fortuna, né gli occhi suoi la vedono – le cose sociali prosperano, sicché il dividendo distribuito agli azionisti cresce da zero nei primi anni a 30, a 50 ed a 120 lire. A questo punto, previsioni fondate persuadono dirigenti ed azionisti che il dividendo di 120 lire possa considerarsi consolidato, sicché esso si capitalizza ad un saggio di interesse, il 6%, un po’ più alto di quello del 4 o 5% corrente per impieghi di tutta sicurezza ed un po’ più basso di quello usato per impieghi industriali. La fondata previsione di costanza nel reddito futuro e la speranza di un possibile aumento, consigliano quel saggio di capitalizzazione ed il mercato lo fa suo. A 2000 lire l’una la valutazione delle 10000 azioni diventa di 20 milioni di lire, che nei libri sociali è in parte contabilizzata al passivo in 10 milioni di lire capitale nominale versato e in 4 milioni di lire riserva scritta[1] e in parte non è scritta ma potrebbe dar luogo ad una partita di 6 milioni di lire intitolata «valore dell’avviamento sociale».

 

 

79. L’uomo della strada a questo punto può dire: la finanza, la quale ha già tassato i distribuiti ed i 4 milioni di riserva scritta[2] a mano a mano che essi maturavano, e non può tassare i 10 milioni versati, perché questi sono capitale, tassi i 6 milioni di «valore dell’avviamento sociale»perché questi sono un vero incremento patrimoniale, che ognuno dei soci può intascare vendendo l’azione al prezzo di 2000 lire, di cui 1000 capitale intassabile e 400 riserva già tassata. Può essere alquanto complicato accertare il guadagno: ma è difficoltà pratica, non di principio.

 

 

Noi sappiamo che il ragionamento dell’uomo della strada è sbagliato, perché la tassazione degli incrementi patrimoniali dà luogo ad un doppio di tassazione non spiegabile logicamente (cfr. sopra paragrafi 33 sgg.). La finanza non si attenta invero a tassare gli incrementi di valore delle azioni vecchie dal valore 1400 intassabile o già tassato al valore 2000; ma si appiglia al peggiore dei partiti: attendere che la società ritenga opportuno aumentare il capitale da 10 a 20 milioni di lire, emettendo nel pubblico 10000 nuove azioni. La società non può, in questo caso, vendere al pubblico ossia a terzi le nuove 10000 azioni al prezzo di 1000 lire. Le nuove azioni, non essendo per nulla diverse dalle vecchie, vanterebbero uguali diritti sul patrimonio sociale, composto di 10 milioni capitale vecchio, 4 milioni riserve, 6 milioni valor dell’avviamento e 10 milioni capitale nuovo, totale 30 milioni che divisi per le 20000 azioni darebbero un quoziente di 1500 lire. I vecchi azionisti, i quali possedevano un patrimonio uguale a 2000 lire per azione, se lo vedrebbero ridotto a 1500; i nuovi, versando 1000 lire, ipso facto diventerebbero padroni di una quota sociale di 1500 lire. Non può immaginarsi che i vecchi azionisti si acconcino a regalare altrui metà delle riserve e dell’avviamento accumulato per rinuncia e merito proprio. Se i nuovi azionisti vogliono entrare a far parte di una società, di cui le quote di capitale valgono 2000 lire, paghino anch’essi 2000 lire di cui 1000 a titolo di capitale e 1000 a titolo di sovraprezzo atto a compensare, con uguale apporto, il valore delle riserve e dell’avviamento che è l’apporto dei vecchi.

 

 

Qui, la finanza italiana gridò: le 1000 lire di sovraprezzo sono un reddito e perciò deve essere tassato! Reddito di chi? Non dei vecchi azionisti, i quali riescono al più, con siffatto avvedimento di conguaglio, a conservare intatto il patrimonio, che già possedevano, di 2000 lire. Non dei nuovi, i quali versando 2000 lire ricevono un’azione, la quale dà diritto ad una quota di ugual valore del totale patrimonio sociale: 10 milioni capitale vecchio +4 milioni riserve +6 milioni avviamento +10 milioni capitale nuovo+10 milioni sovraprezzo, che messi in monte fanno 40 milioni, i quali divisi per 20000 azioni, dan luogo ad un quoziente di 2000 lire. Non della società la quale non è, dal punto di vista patrimoniale, nulla più di uno strumento giuridico-tecnico-economico per gerire gli apporti dei soci.

 

 

80. La finanza si persuase che sotto al sovraprezzo non v’era reddito, quando vide che i vecchi azionisti, fatti accorti del pericolo di perdere, a causa dell’imposta scorretta, parte dei proprii conferimenti di denaro, di risparmio e di merito, si decisero a non consentir più a terzi di sottoscrivere alle nuove azioni; ma, volendo aumentare il capitale da 10000 a 20000 azioni, se le ripartirono esclusivamente fra di sé al prezzo di 1000 senza sovraprezzo. Perdevano così 500 lire sulle vecchie che discendevano da 2000 a 1500, ma guadagnavano 500 lire sulle nuove che crescevano subito dalle 1000 versate a 1500. Come prima, essi non guadagnavano né perdevano; ma, non essendo nato sovraprezzo, mancava la materia della tassazione. A questo punto, la finanza si decise a dichiarare esenti da imposta i sovraprezzi delle azioni di nuova emissione.

 

 

I commentatori ripetono che il legislatore esentò non perché riconoscesse di avere immaginato un reddito in fatto inesistente, ma perché, per contingenze momentanee, desiderò «favorire» le società, «incoraggiare» l’incremento dell’impresa e simili. Parole vuote di senso, le quali spiegano la odierna repugnanza dei giuristi a dar peso alle motivazioni «scritte» nei preamboli o nei lavori preparatori alle leggi. Sebbene essi diano alla loro repugnanza spiegazione più sottile, io dico in parole volgari che preamboli e motivazioni vanno assunti con le molle perché non di rado i legislatori non sanno il perché razionale delle loro azioni od hanno interesse a non pregiudicarsi enunciando principii. Epperciò caso per caso scelgono un pretesto. Nel caso presente il pretesto[3] fu la voglia di render favore ed incoraggiamento alle società, il motivo razionale era la inesistenza della materia imponibile.

 

 

81. La parola esenzione ha le braccia larghe come la misericordia di Dio. Chiamasi esenzione quella concessa agli interessi dei titoli di debito pubblico e chiamerebbesi esenzione quella che fosse concessa, secondo le vedute sopra esposte, (cfr. sopra paragrafi 13 sgg.) agli stipendi dei pubblici impiegati; sebbene ambe le esenzioni si possano spiegare solo colla previsione di pagare interessi e stipendi netti minori di quelli che farebbero altrimenti carico all’erario. Chiamasi esenzione persino quella accordata alle somme mandate a riserva matematica delle imprese di assicurazione sulla vita, sebbene a nessuno possa venire in mente di considerare come reddito dell’impresa quella che non è affatto reddito dell’impresa, bensì somma accantonata per far fronte al pagamento futuro delle somme dovute agli assicurati in caso di morte o di sopravvivenza.

 

 

Chiamasi esenzione quella concessa ai redditi delle società di mutuo soccorso, sebbene sia chiaro che le quote versate dai soci di quelle società, come di qualsiasi altra associazione di cultura, di divertimento, di assistenza, siano conferimenti di capitale; e sebbene sia ugualmente chiaro che il frutto di quelle quote, eventualmente accantonate per fronteggiare eventi sfavorevoli nella vita dei soci, diventi reddito solo quando prenda la figura di pensioni o sussidi ai soci, nel quale caso, esso è pienamente tassabile. Sicché l’esenzione vuoI dire semplicemente volontà di non tassare due volte il medesimo reddito, una volta quando è prodotto presso la società ed una seconda volta quando è distribuito ai soci bisognosi malati o vecchi od alle loro famiglie per sovvenire alle spese di sepoltura.

 

 

Chiamasi esenzione quella concessa alle case rurali, escluse dalla tassazione sia sui fabbricati come sui fondi rustici; quasiché la casa rurale fosse nulla più di uno strumento o coefficiente di produzione del fondo rustico, e quasiché essa desse un reddito autonomo, separato da quello del fondo. Dell’incremento che la casa dà alla produzione agricola si tiene già necessario conto negli estimi fondiari, poiché ogni particella catastale si considera istrutta, ossia provveduta di strade, di piantagioni, di canali di scolo e di irrigazione e di costruzioni secondo gli usi e le consuetudini locali. Nelle zone agrarie sprovvedute di case rustiche le spese di produzione risultano necessariamente più elevate per maggiori spese di trasporto degli uomini, degli animali da lavoro, delle sementi, dei concimi, dei prodotti agricoli da e al mercato, di quanto non accada nelle zone dove le case rustiche sono frequenti e insistenti su ogni fondo rustico, anche piccolo. Così e non altrimenti la cassa rustica cresce il reddito del fondo. Tassarlo sarebbe vera duplicazione; ed è improprio attribuire l’attributo di esenzione a quella che è mera esclusione per mancanza di materia imponibile. Improprio e pericoloso in questo e in tutti i casi consimili; poiché consente rimanga o sorga l’idea trattarsi qui di vera esenzione e cioè di favore e privilegio e cioè, ancora, di istituto tollerato, in sé dannabile e destinato a scomparire alla prima occasione propizia.

 

 

82. Se sia o non sia esenzione propria quella accordata in Italia per 25 anni alle case nuove è problema più complesso la cui risoluzione è connessa con quella data al problema più generale della cosidetta esenzione del risparmio. Ci troviamo qui di nuovo dinnanzi al quesito: chi sceglie, dinnanzi al tribunale della ragione, le premesse del ragionamento, quando queste non posseggono l’evidenza intuitiva dell’assioma? Poiché il giudice infallibile, in quel tribunale, non esiste, limitiamoci a riconoscere che le premesse sono in sostanza le due dianzi già poste (cfr. paragrafi 34 e 36):

 

 

  • reddito tassabile con una imposta x (ad es. 20% del reddito) in ogni intervallo di tempo (anno finanziario) è quella ricchezza che in quell’intervallo di tempo entra nella economia del contribuente, netta da spese di produzione, in aggiunta al patrimonio posseduto dal contribuente medesimo all’inizio di quel medesimo intervallo di tempo (premessa α);

 

  • reddito tassabile ecc. ecc. è ecc. ecc. (tutto come sopra) a condizione che in quell’intervallo di tempo il contribuente non subisca un danno superiore a quel qualunque sia x scelto dal legislatore come misura del sacrificio imposto al contribuente (premessa β).

 

 

83. Espongo il problema in questi termini allo scopo di affermare subito che il legislatore è libero di assumere una qualunque delle due premesse. La premessa à si potrebbe chiamare anche la premessa intuitiva del buon senso, se buon senso ed intuizione vogliono dire adattamento alle abitudini mentali e al modo di pensare proprio degli uomini in generale. Gli uomini sono abituati a dividere il tempo a fette, chiamate anni ed a dire che reddito è quella ricchezza ecc. ecc. come è detto sopra. La mezzanotte avanti all’1 gennaio e la mezzanotte dopo il 31 dicembre sono paraocchi che gli uomini si sono messi per non essere disturbati, nel camminare e nel decidersi, dal ricordo di quel che è successo prima e dalla previsione di quel che succederà dopo, e per potere far i conti senza troppi dubbi e troppe inquietudini.

 

 

Gli uomini hanno mille ragioni di mettersi i paraocchi; ogni tanto, se si vuole procedere innanzi, bisogna fermarsi, riflettere al passato, calcolare se le cose sono andate bene o male e perciò avere un punto di riferimento, un prima e un poi per sapere quel che è successo nel frattempo. L’abitudine, essendo sensata, è divenuta siffattamente sangue del sangue degli uomini, che questi, anche se sono economisti o finanzieri illustri, si inquietano quando taluno li tira per la coda della giacca e dice: badate che l’abitudine, ragionata a certi fini, non è una verità di fede; è un semplice strumento di condotta, mero espediente utile ad orizzontarsi nel tempo che è senza termine né di inizio né di fine. Si inquietano e ripetono: reddito è quella ricchezza ecc. e chiunque dice il contrario, sia scomunicato. Di fronte alla quale conclusione non c’è rimedio od obbiezione. Se il legislatore vuole adottare la premessa α, nessuno glielo può impedire. È soluzione comoda, che si raccomanda al consenso universale, perché adatta all’abitudine universale di concepire il tempo diviso ad anni.

 

 

84. È lecito però di immaginare che esista un legislatore il quale alla definizione corrente a aggiunga la condizione contenuta nella premessa β? E lecito immaginare che vi sia un legislatore, il quale avendo deciso di far subire a tutti i suoi contribuenti il sacrificio d’imposta x (suppongasi x uguale al 20% del reddito) non vuole che in qualche inavvertito misterioso modo, per uno dei soliti tiri logici di cui è fecondo il calcolo economico, qualcuno dei contribuenti subisca un sacrificio ? L’ipotesi che esista un legislatore il quale non voglia far subire a qualcuno dei contribuenti la perdita  quando sua volontà precisa è che tutti subiscano solo la perdita x è forse bizzarra, non è certamente insulsa. Quindi è premessa lecita del ragionamento. O meglio di un raccontino, a cui tanti anni addietro, visto che altri economisti si erano dimenticati di ricordare il nome dell’autore, io ho dato il nome di teorema dell’esenzione del risparmio di Giovanni Stuart Mill. Gravemente errai ad aggiungere la parola esenzione. L’avevo fatto innocentemente, solo per mettere in chiaro che il teorema imponeva fosse scritta una norma che, in conformità alle abitudini verbali d’allora e d’oggi, sarebbe stata detta nei testi legislativi di «esenzione». Mal me ne incolse; ché tutti gli sfaccendati cominciarono a gridare: perché esentare il risparmio, perché dare un privilegio a coloro i quali possono e vogliano risparmiare? Ed assai altre parole incomprensibili in aggiunta. Faccio umilmente atto di contrizione e dico che il teorema di Mill deve essere propriamente chiamato della doppia vista del risparmio.

 

 

85. Dice il raccontino o teorema:

 

 

Tizio ha nell’anno considerato un reddito di 20000 lire. Suppongasi, per semplicità, che egli ne consumi la metà e risparmi l’altra metà. Suppongasi che l’imposta sia del 10%. Sulle 10000 lire consumate, Tizio paga 1000 lire d’imposta; e tutto finisce lì. Non ci sono code o strascichi. Sulle 10000 lire risparmiate egli comincia a pagare le solite 1000 lire d’imposta, che riducono il risparmio disponibile a 9000 lire. Impiegate al 5%, quelle 9000 danno luogo ad un reddito di 450 lire all’anno in perpetuo. Queste sono decurtate, dalla solita imposta del 10%, di 45 lire all’anno. Quindi il contribuente che ha già pagato subito 1000 lire, pagando di nuovo una imposta annua perpetua di 45 lire, è come se pagasse altre 900 lire d’imposta.

 

 

La differenza di trattamento è chiara: sulle 10000 lire consumate o godute, lo stato preleva 1000 lire; sulle 10000 lire risparmiate il prelievo è . Se l’aliquota dell’imposta fosse, come in taluni paesi è agevolmente per talune classi di alti redditi, per esempio di 1 milione di lire, del 50%, le 500000 lire consumate pagherebbero 250000 lire in tutto, laddove le 500000 lire risparmiate comincerebbero a pagare subito 250000 lire e poi le 12500 lire all’anno, reddito al 5% delle residue 250000 lire, pagherebbero ancora 6250 lire d’imposta annua, uguali oggi a 125000 lire. In tutto la parte risparmiata pagherebbe 375000 lire invece di 250000.

 

 

Quindi, ove non si voglia far subire al risparmio un trattamento differenziale, occorre escluderlo, perché non tassabile – esentarlo secondo l’impropria terminologia corrente – dal pagamento dell’imposta o prima o dopo, o quando è 10000 lire o quando è il reddito annuo, 500, di 10000 lire.

 

 

Se invero lo escludiamo subito, Tizio paga, per la parte consumata, 1000 10000. Per la parte risparmiata dapprima non paga nulla ed è in grado perciò di investire tutte le 10000 lire. Queste gli fruttano 500 lire all’anno, sulle quali egli paga 50 lire d’imposta in perpetuo. Ma pagare 50 lire annue in perpetuo equivale a pagare 1000 lire oggi, ossia precisamente quanto ha pagato sulla quota consumata.

 

 

86.[4] Siano: 

Rc

la quota consumata nell’anno del reddito ottenuto nell’anno medesimo; 

Rr

la quota risparmiata nell’anno del reddito ottenuto nell’anno medesimo; 

a

il numero (reciproco dell’aliquota dell’imposta) per cui deve essere diviso il reddito R per ottenere l’ammontare dell’imposta; 
 

 

 

 

la serie infinita dei redditi ottenuti, negli anni successivi a quello considerato, dall’investimento della quota risparmiata del reddito già depurato dall’imposta

 

 

 

 

 

la serie infinita dei redditi ottenuti, negli anni successivi a quello considerato, dall’investimento della quota risparmiata del reddito non depurata, perché esclusa, dall’imposta.

 

 

 

Sia

 

La quantità

 

 

 

 

 

con n tendente all’infinito ossia la serie infinita dei redditi annui derivanti dall’investimento di scontata al momento attuale ha il valore  ovvero . Ognuno di questi valori può essere indifferentemente scritto invece dell’altro.

 

 

Partendo dalle sovraindicate definizioni, nel sistema α l’imposta sulla quota consumata del reddito è

 

 

 

 

 

l’imposta sulla quota risparmiata del reddito è:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

dunque

 

 

Dunque nel sistema α non è osservato il canone dell’uguaglianza.

 

 

Perché, dato il canone della uguaglianza, fosse corretto che , occorrerebbe potere scrivere:

 

 

 

 

 

Ma questa disuguaglianza non si può scrivere perché la quantità

 

 

 

 

 

non ha senso, essendoché il secondo membro non è aggiuntivo ma alternativo al primo.

 

 

Poiché, invece, per definizione:

 

 

 

e poiché:

 

 

 

 

 

essendo, per ipotesi, a costante, abbiamo:

 

 

 

 

 

la quale equazione può essere chiamata ell’uguaglianza del’imposta e si osserva nel sistema β.

 

 

87. Attraverso ad un rigiro di parole, la sola obbiezione sostanziale al ragionamento ora fatto è la seguente.

 

 

Non vi è dubbio che, nel sistema α, l’imposta 1000 sulla parte consumata, 10000 lire, del reddito è minore dell’imposta (valore attuale della serie infinita di lire annue) sulla parte risparmiata, 10000 lire, del reddito; ma la diversità non viola il canone dell’uguaglianza perché anche le due parti o quote del reddito sono disuguali.

 

 

La quota consumata del reddito è semplicemente 10000 lire e quindi l’imposta è corretto sia

 

 

Invece la quota risparmiata dal reddito è 10000 lire oggi, più 450 lire all’anno in perpetuo, equivalenti a 9000 lire subito, con un totale di 19000 lire.

 

 

Quindi l’imposta sulla quota risparmiata deve essere:

 

 

 

 

 

O sui valori attuali:

 

 

 

 

Nel caso del reddito consumato vi è un reddito solo (10000 lire) e quindi vi deve essere un’imposta sola: 1000 lire.

 

 

Nel caso del reddito risparmiato vi sono due specie di redditi: 10000 lire oggi ed una serie infinita di 450 lire all’anno in avvenire, equivalenti a 9000 lire oggi. Epperciò vi devono essere due specie di imposte: 1000 lire oggi sul reddito di 10000 d’oggi; ed una serie infinita di 45 lire all’anno in avvenire, sui redditi di 450 lire all’anno avvenire, equivalenti a 900 lire in oggi.

 

 

Che cosa v’ha di strano che le imposte siano parecchie quando i redditi sono parecchi? L’imposta sul consumato è una sola, perché il reddito si consuma una volta sola; l’imposta sul risparmiato si ripete all’infinito, perché dopo il primo reddito padre 10000 ci sono i figliuoletti redditi 450 all’infinito.

 

 

88. Quel che è strana sul serio è l’allucinazione di chi vede doppio nei redditi e dalla sua doppia vista trae argomento per moltiplicare le imposte.[5] Riduciamo l’esempio alla sua nudità scheletrica: 100 lire di reddito risparmiato oggi e 5 lire di redditi futuri del risparmio 100 divenuto capitale. Chi dice che il risparmiatore ha prima le 100 e poi le 5 all’anno ogni anno, dice che le  sono diverse ed aggiuntive, che il risparmiatore possiede e gode ambe le quantità. Pura allucinazione, ripeto. Certamente il risparmiatore non gode le due quantità. I due godimenti sono «alternativi» e non «aggiuntivi». L’uno esclude l’altro. Chi gode le 100 lire, non può godere la serie delle 5 lire. Chi vuoI godersi la serie delle 5 lire deve rinunciare a godere le 100 lire.

 

 

Possiede egli forse due quantità?

 

 

Tizio nell’anno I ha guadagnato 100 lire. Alla fine dell’anno I egli possiede 100 lire e le risparmia. Nell’anno II egli guadagna il frutto 5. Alla fine dell’anno II egli possiede . La somma  è logica, se riferita alla fine dell’anno II, trattandosi di due quantità 100 e 5, amendue esistenti nel medesimo istante, fine dell’anno II. In quell’istante, Tizio possiede 105 lire e ne può fare quell’uso che egli reputa migliore: godersele, ossia consumarle; risparmiarle; o fare un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Ma non è lecito dire che Tizio possiede 100 lire alla fine dell’anno I e 5 lire alla fine dell’anno II e dire che le due quantità si sommano o sono aggiuntive l’una all’altra, perché si direbbe, così parlando, cosa senza senso. Non ha significato sommare quantità riferite a due tempi diversi. Tenti il signor Tizio di possedere sul serio ossia di godere le 100 lire alla fine del I anno; e si accorgerà se alla fine del II anno avrà le altre 5 lire. Sberleffi sì, ma lire punte!

 

 

89. La verità, che ha senso, è tutta diversa; Tizio ha rinunciato alla fine del tempo I al possesso di 100 per avere il possesso di 105 alla fine del tempo II. I due possessi sono alternativi ed equivalenti:

 

 

 

 

I due possessi sono equivalenti perché l’atto di risparmio è un atto di scambio. Si scambia 100 attuale con 105 futuro; e lo scambio avviene fra questi due beni sul mercato, come per qualunque altro scambio, fra equivalenti. Se l’equivalenza, al rapporto di 100 attuale contro 105 futuro, non ci fosse, il rapporto sarebbe diverso: di 100 presenti contro 104 o 106 futuri. Se il saggio di interesse fosse zero, l’equivalenza sarebbe fra 100 attuali e 100 future. Ad equilibrio raggiunto, il fatto dello scambio avvenuto prova che vi fu equivalenza fra le quantità scambiate.

 

 

L’imposta può indifferentemente colpire 100 alla fine del tempo I ovvero 105 alla fine del tempo II. Come sono equivalenti le quantità imponibili, così sarebbero equivalenti le due imposte. Con la terminologia usata non si vuol dire né che sia «giusto» che 100 lire oggi equivalgano a 105 lire fra un anno, né che le 100 lire oggi partoriscano o producano in un anno 5 lire. Non so che cosa sia giusto in tema di parti economici e non so nemmeno se esistano codesti parti. Constato unicamente il fatto che il mercato considera equivalenti quelle due quantità 100 oggi e 105 fra un anno, senza traccia di più o di meno.

 

 

90. Coloro i quali ingenuamente suppongono di tassare tutto e solo il reddito proponendo di tassare 100 alla fine del I tempo e 5 alla fine del II tempo, che cosa fanno? Prelevano, al 10%, 10 alla fine del I tempo e 0,50 alla fine del II tempo e dicono; la quantità  non è forse il decimo delle 105 che il contribuente possiede alla fine del II tempo? Si dimentica così che Tizio se volle possedere 105, dovette aspettare un anno e rinunciare per un anno a godere, a palpare, a guardare le sue 100 lire. Che cosa è possesso, se non guardare palpare e godere? Aspettino anch’essi un anno, i signori tassatori, a prelevare l’imposta e nessuno si querelerà di lesa uguaglianza tributaria[6] quando prelevino poi 10,5. Ma non si può prelevare 10 oggi e 0,5 alla fine di un anno e dire di essere in regola. Per sommare le 10 d’oggi con le 0,5 di un anno dopo, è necessario aggiungere alle 10 prelevate oggi l’interesse medesimo del 5%, riportandole così in 10,5 alla fine dell’anno. Che se alla fine dell’anno si torna a prelevare 0,5 (o meglio 0,45 poiché il reddito delle  imposta fu solo 4,50) d’imposta, il totale fa 10,95, il che è più del 10% che si voleva prelevare sulle 105 lire del possesso della fine dell’anno II.

 

 

91. In questa faccenda si assiste veramente al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Bisogna tassare 100 e poi 5 e 5 e 5 all’infinito perché si tratta di redditi diversi? Se sono diversi si dovrebbe poterli valutare paragonare e quindi sommare. Una serie di redditi di 5 lire annue all’infinito equivale, al saggio di sconto del 5%, e su ciò non cade ombra di dubbio, a 100 lire attuali. Dire che Tizio ha oggi un reddito di 100 lire e poi una serie infinita di redditi di 5 lire annue equivale a dire che Tizio ha o possiede 100 lire ed il valore attuale in 100 lire di quella tal serie infinita ecc. ecc. Dunque Tizio possederebbe .Dunque, ancora, basterebbe decidersi oggi a risparmiare 100 lire perché di punto in bianco le 100 diventassero 200 lire? Non è questa pura allucinazione manicomiale?

 

 

Prendasi in mano un titolo di stato chiamato rendita perpetua 3,50%. Esso è composto di una parte centrale, che possiamo chiamare capitale e di due strisce laterali, frazionate in cedolette semestrali del valore di 3,50 lire annue. Le striscie laterali essendo, quando siano esaurite, perpetuamente rinnovabili, sono la immagine cartacea di una serie infinita di redditi. Chiameremo frutti le due strisce laterali.

 

 

Pongasi che Tizio, uscendo di senno, immagini che il capitale sia un possesso (o un godimento) diverso, a se stante, dai frutti. Dona altrui le strisce laterali e il diritto alla loro perpetua rinnovazione. Resta egli forse con possesso qualsiasi? Mai no. Il suo pezzo di carta centrale, come ché ben pitturato, vale zero, è un possesso zero, perché separato dal possesso delle strisce di cedolette. Le cedolette ossia gli interessi annui non sono un’altra cosa, diversa dalla cosa detta capitale. Sono la stessa cosa; sono la sostanza medesima del capitale, senza di cui questo – possesso, godimento, toccamento, contemplazione ecc. ecc. – non esiste.

 

 

La penna esita a scrivere queste che sono verità banalissime volgarissime evidentissime che soltanto gente ipnotizzata dalla assiomaticità indiscutibile della premessa a rifiuta di vedere.

 

 

Che cosa è l’albero fruttifero senza frutta? L’albero vale perché dà frutti, ed i frutti sono tutto il valore dell’albero. Diventi l’albero sterile; e diventerà mera legna da bruciare, dedotte le spese dello spiantarlo spaccarlo e portarlo a casa.

 

 

92. C’è chi – ma sono le risorse della disperazione – non potendo negare che il risparmio è nei suoi frutti, che le 100 lire d’oggi non si possono godere e possedere se si vogliono godere o possedere le 5 e 5 e 5 ecc. ecc. lire del domani dice: esiste però, all’atto del risparmio, un piacere del risparmio, diverso ed aggiuntivo al vantaggio dell’interesse. Ammettasi pure che l’albero stia nei frutti, che la casa sia la stessa cosa dei suoi fitti, che la cartella sia un tutt’uno coi fogli di cedolette, che il 100 d’oggi sia equivalente al 105 del domani; ma accanto ai frutti naturali o civili, c’è nel possesso del capitale qualcosa di più: il piacere dell’avaro nel contemplare palpeggiare e far rotolare i marenghi, il piacere del proprietario di stare nella casa propria, la amorosa passione del contadino per la terra, la mania del collezionista per le monete, i francobolli, i libri rari, la contemplazione dei dipinti della quadreria da parte dell’amatore. Sia vero che i frutti siano la stessa cosa del capitale ed il capitale la stessa cosa dei frutti, sicché tassando l’uno si tassi contemporaneamente l’altro ed a tassar amendue si tassi ripetutamente la stessa cosa; ma il tintinnio dei marenghi d’oro, il senso degli avi e dei figli nella casa propria, il sapore del pane casalingo fabbricato col frumento nato sulla terra cento volte arata e contemplata, la gioia del possesso del pezzo unico o del quadro di autore, tutto ciò non si tassa tassando i frutti naturali e civili, e se si vuol tassare, come si deve per uguaglianza di trattamento, fa d’uopo raggiungerlo attraverso il capitale, ossia attraverso il reddito, innanzi che esso sia investito (risparmiato) in tesori aurei, in case, in terre, in libri, in quadri.

 

 

93. Il problema a questo punto non è di principio ma di applicazione. Si afferma che 100 lire oggi sono equivalenti a 100 lire fra un anno, più interessi, più una quantità non valutabile monetariamente di soddisfazioni diverse.

 

 

94. Chiamando  l’ammontare del reddito risparmiato oggi,  il medesimo ammontare fra un anno,  l’ammontare dell’interesse o frutto naturale o civile dell’anno, ed l’ammontare, in qualche modo valutato in denaro, delle altre soddisfazioni ricevute dal proprietario durante l’anno si ha:

 

 

 

 

 

Si ammette che si debba tassare  ovvero ; ma si osserva che, ove si scelga la tassazione del secondo membro  non basti tassare , ma occorre tassare .

 

 

95. Non ho obbiezione di principio, in base al canone della uguaglianza, all’imposta sul tintinnio dei marenghi per l’avaro, sui valori di affezione per l’amatore della casa avita e della terra ereditata e per lunghi anni covata collo sguardo, sulla contemplazione dei libri, delle collezioni di francobolli e delle quadrerie. Constato che l’imposta su queste entità impalpabili ed imponderabili, sarebbe di ardua odiosa e grottesca applicazione.

 

 

96. Demolito il concetto del duplo nel risparmio e nei frutti del risparmio, resta dimostrato che la tassazione del risparmio offende la premessa β del legislatore ossia la condizione posta, se fu posta, dal legislatore a se stesso di non cagionare al contribuente un danno maggiore di quello da lui voluto.

 

 

97. Siccome non ho intenzione di ridiscutere il problema della doppia tassazione del risparmio, così non sento il bisogno di perseguirlo attraverso il groviglio di argomentazioni, per nove decimi inutili, in cui esso si è arenato a scopo di esercitazione accademica. Coloro, ad esempio, i quali si preoccupano della possibilità che in un mondo di avari, lo stato perda quasi tutta la sua materia imponibile, o che in un mondo di evasori legali, gli uomini si compiacciano a risparmiare per non pagare imposte, o che in un mondo di azzardosi il risparmio vada perduto e perciò si perda l’imposta su di esso e anche sui frutti suoi non venuti alla luce, possono attaccarsi a due soluzioni: 1) alla premessa α secondo cui lo stato si mette i soliti paraocchi contabili. Purché sia noto che così si fa, colla complicità non solo di certi contabili ai quali mettersi paraocchi è congenito, ma di giuristi economisti e finanzieri, niente di male. Ognuno è libero di fare le leggi che crede, a condizione di non pretendere che la legge fondata sulla premessa a sia anche fondata sulla premessa β. La sola cosa che a me dà noia non è la tassazione del risparmio, ma la pretesa che, col tassarlo, non si faccia comparire due volte dinnanzi allo schermo dell’imposta la stessa cosa; 2) alla affermazione della impossibilità o difficoltà pratica di accogliere il principio della esclusione del risparmio, ovvero, alternatamente, a scelta, dei frutti del risparmio dall’imposta. Su questo terreno delle difficoltà, gli oppositori della esclusione (cosidetta esenzione) del risparmio possono scorrazzare a piacimento. Essi dovrebbero però avere la finezza di non immaginare di avere ragionato un problema quando a malapena hanno girato attorno alle sue difficoltà, e sovratutto non dovrebbero supporre sfacciatamente di avere essi scoperte le difficoltà medesime. Esse erano state tutte enunciate dallo Stuart Mill prima e da chi ne sviluppò il teorema poscia; ma a costoro non cadeva certamente in mente di confondere grossolanamente il ragionamento di principio con lo studio delle applicazioni concrete del principio. La fecondità di un principio non si misura dalla immediatezza delle applicazioni; ma talvolta e più dalla gravità dei contrasti che esso suscita, i quali mettono in luce altri principii od altri punti di vista dei quali pure occorre tener conto. Del che appunto si passa subito a discorrere, in conformità ai canoni elementari non si dice neppure della logica ma della bene ordinata costruzione di un qualunque componimento letterario. Forse anzi il peccato più grave dei critici del teorema della esclusione del risparmio dall’imposta non è l’offesa alla logica. Ai legislatori e quindi agli espositori delle teorie legislative in materia di imposta non è necessaria la logica; basta la chiarezza nel dare o spiegare le norme legislative, qualunque siano. Il confondere principii ed applicazione, ragionamento e sentimento, il ragionare su una premessa ed immaginare di restare attaccati ad un’altra, non è neppure difetto di logica (scomoderemmo per troppo poco una dottrina così austera), è semplicemente difetto di ordine nello stendere il componimento scolastico.

 

 

98. Un teorema logico non deve necessariamente tradursi in norma scritta obbligatoria. Il legislatore ha l’obbligo di tener conto di altre verità, di altri teoremi, e delle contingenti variabilissime difficoltà le quali contrastano l’attuazione piena di un qualunque principio teorico. L’ostacolo principale è quello della natura invincibilmente fraudolenta dell’uomo contribuente. Se un legislatore ingenuo dicesse: tu che hai un reddito di 20000 lire e ne risparmi 2000 sarai tassato su 18000; non varrebbe fosse richiesta la dimostrazione dell’avvenuto risparmio. Ben saprebbero i contribuenti inventare dimostrazioni plausibili ed ineccepibili di aver risparmiato non 2000 ma 5000 o 10000 lire. Invece del caro vita, i contribuenti discorrerebbero sorridenti con i funzionari delle imposte di sapienti accorgimenti usati dalla moglie per ottenere pietanze succulente e nutrienti con poca spesa, della benevolenza del padron di casa, delle ineffabili delizie dei risparmiatori, e delle agevolezze di buoni impieghi senza rischio. Per tener testa ai contribuenti, negli uffici delle imposte si dovrebbero impiantare libri mastri minuziosi sulle quotidiane variazioni delle fortune, degli investimenti e dei risparmi dei contribuenti. Poiché la finanza non è fatta per dar lavoro ai contabili, bensì miliardi all’erario, è chiaro che non si può discorrere di sancire in una legge la norma: «il risparmio od i suoi frutti sono esenti dall’imposta».

 

 

99. Perché dunque, perdere tempo a discorrere? Potrei rispondere: per lo stesso motivo per il quale nei libri di scienza economica si pongono problemi aventi un addentellato ancora più remoto con il concreto, con la cosidetta vita pratica. Noi non possiamo prevedere se un teorema non possa oggi o domani dimostrarsi fecondo. Bisogna correre una certa alea nel porre problemi e fermare teoremi. Spesso si tratta di teoremi veri, ma stupidi. La loro utilità è limitata a quella non spregevole a cui soddisfano i temi di esercizio scolastico in genere: costringere la mente dello scolaro a compiere un ragionamento corretto. Compito noioso sempre, spesso stupido; non però inutile.

 

 

Fra i tanti teoremi veri, ma noiosi e stupidi, spunta fuori qualche volta il teorema fecondo appassionante. Il teorema che, a pena di doppia vista, il risparmio debba essere escluso dall’imposta, pare appassionante, se ha suscitato tanto consumo di inchiostro. Poiché l’inchiostro potrebbe tuttavia essere stato sprecato, è più importante il connotato della fecondità. L’essersi ficcati in testa il teorema della esclusione del risparmio dall’imposta giova sicuramente a dare una spiegazione razionale a certi fatti i quali altrimenti parrebbero inesplicabili.

 

 

100. So bene che taluno tiene in non cale le spiegazioni razionali dei fatti finanziari. Giova ripetere. Quando costui legge, ad esempio, che il legislatore di un dato paese ha esentato dalla imposta i redditi delle società di mutuo soccorso e, compulsando relazioni, discussioni parlamentari, articoli di giornale, voti e ordini del giorno di associazioni e simili, ha creduto di constatare che il legislatore è venuto in quella determinazione di esentare ecc. ecc., perché animato da benevolenza verso le classi operaie o perché persuaso dalla crescente pressione elettorale delle classi medesime o desideroso di favorire la formazione di abitudini di previdenza attraverso ad associazioni volontarie, quel taluno è contento e non cerca altro. Quella è la spiegazione dell’esenzione, da elaborarsi in apposita teoria. Nessun dubbio trattarsi di esenzione. Non è stata quella la ragion del decidere del legislatore?

 

 

Vive però talun altro, al quale tutto ciò pare al più raccontino storico, del solito tipo a sfondo economico sociologico, a schemi noti, marionette di filantropia, patronato, lotta di classi, combinazioni, derivazioni ecc. ecc. che hanno, a seconda delle scuole, trasformato lo scrivere storie in noiosi esercizi scolastici a rime obbligate. Costui parte dal principio che una norma di legge è quella che è, ed ognuno ha diritto di analizzarla con la sua testa per valutarne e conoscerne il contenuto.

 

 

Lavori preparativi, opinioni di coloro che vollero o combatterono la norma sono dati rispettabili, di cui si deve tener conto, nei lieti in cui essi hanno un significato definibile. Se, analizzata, la cosidetta esenzione delle società di mutuo soccorso si rivela non essere affatto una esenzione, ma una esclusione dall’imposta per mancanza di materia imponibile, fa d’uopo riconoscere trattarsi di esclusione e non di esenzione e spiegare la esclusione con la mancanza della materia imponibile. I motivi dei lavori preparativi, le spiegazioni del legislatore rimangono eventuale materia di studio per le diverse specie di storici delle illusioni tributarie, per i ricercatori dei fatti rilevanti nella vicenda delle cose umane ed anche per gli avvocati di parte i quali non possono azzardarsi a cercare le ragioni vere delle norme dinnanzi a magistrati propensi a contentarsi di ragioni all’incirca, più semplici ad afferrarsi e già usate altra volta con successo.

 

 

101. Fioriscono istituti che il legislatore ha spiegato a se stesso con qualcuno o con parecchi di quei pretesti di cui è feconda la storia tributaria. C’è forse bisogno che il legislatore faccia il ragionamento dell’esclusione dall’imposta, per vizio di doppia vista, del risparmio, quando vuole spiegare a se stesso:

 

 

  • le imposte sui consumi;

 

  • le esenzioni delle case nuove;

 

  • » » dei nuovi impianti;

 

  • » » delle migliorie in genere;

 

  • le esenzioni delle somme mandate a riserva;

 

  • » » dei premi di assicurazione sulla vita;

 

  • le diversificazioni del reddito rispetto all’imposta; e simiglianti istituti che affiorano permanentemente e sporadicamente nel fiorito giardino tributario?

 

 

No, non occorre affatto che il legislatore ragioni secondo le regole della logica le quali comandano di preferire la ragione semplice a quella complicata, la ragione prima a quella derivata, la generale alla particolare, la propria ai sinonimi, la ragione nuda a quella sentimentale; né occorre affatto che ragionino logicamente i suoi sistematori e teorizzatori. Se l’uno o gli altri, anzi, facessero il ragionamento semplice: l’imposta non c’è perché non esiste materia imponibile, andrebbero incontro a due difficoltà forse insuperabili. In primo luogo quella di fare apprezzare la premessa b a chi è persuaso istintivamente, dalle proprie abitudini mentali, a ritenere vera la premessa a, quella tale del paraocchi; ed in secondo luogo quella di credere che gli uomini possano essere persuasi da un mero ragionamento astratto inteso a dimostrare che la premessa a consente e la b esclude il doppio di vista.

 

 

Per conto mio, quando discorro all’uomo della strada e gli voglio spiegare perché le imposte sui consumi ecc. ecc. (voglio dire i casi elencati sopra) sono faccende che vanno abbastanza bene, non mi attento a partire dal teorema della doppia vista, dalle premesse a e b e relativi ragionamenti. Dopo cinque minuti, l’uomo della strada sbadiglierebbe, perderebbe il filo del discorso e se ne andrebbe persuaso che gli economisti sono una nuova razza di filosofi squinternati.

 

 

No, faccio quel che fanno legislatori e commentatori: infilo la prima storiella (se non erro Pareto le chiama derivazioni) che mi viene in mente e con essa l’uomo della strada se ne va con dio soddisfatto. Gli racconto, a cagion d’esempio, esser opportuno esentar le case, per incoraggiare le costruzioni quando di case c’è per qualche ragione penuria; essere bene incoraggiare, con premi tributari, i nuovi impianti o le migliorie quando industria od agricoltura languono; doversi promuovere, esentando le riserve, il fortificarsi delle società e l’onestà nei conti, ovvero lo spirito di previdenza coll’esentare i premi di assicurazione; essere comodo tassare i consumi perché i contribuenti non si accorgono di pagare tributo e pagano a pezzi e bocconi, quando hanno i denari, conservando l’illusione di pagare volontariamente. Non dirò, come dice o diceva il legislatore inglese, che si diversifichi a favore dei redditi di lavoro in confronto a quelli di capitale, perché i redditi di lavoro sono guadagnati e gli altri no, perché la storiella mi ripugnerebbe; ma dirò, per sbarazzarmi del curioso, che i guadagni di lavoro sono più faticosi o sono temporanei ed occorre ricostituirli. Il che, appartenendo alle verità d’osservazione, è vero apprensibile e soddisfacente.

 

 

Ma le sono storielle, da raccontare a scopo di tener buono e mandare via soddisfatto l’uditorio. L’interprete di una norma scritta non ha bisogno di persuadere se stesso e gli altri con pizzicotti sentimentali. Fra le tante argomentazioni le quali si presentano alla mente per spiegare un fatto esiste una gerarchia: alla argomentazione particolare è preferibile la generale, alla contingente quella permanente, ai conforti di vantaggio, di comodità, di opportunità fa d’uopo anteporre il convincimento tratto dalla ragione; al bric-à-brac del caso per caso buono per fare il solletico all’epidermide delle persone sensibili, la deduzione da una regola fondamentale assunta come guida. Quella che ho chiamato premessa b non sarà un portento, né una verità di fede, né un assioma. Può essere perfezionata. L’ho messa innanzi come un criterio provvisorio per orientarsi nel classificare i fatti. Ci sono i fatti che soddisfano alla condizione della premessa b; e quelli che vi contraddicono. Non dico che i fatti contraddicenti debbano essere scomunicati. Agli occhi di taluno possono anche sembrare più belli o simpatici o preferibili. Importa solo affermare che sono diversi da quelli che vi si conformano.

 

 

102. Dirò perciò:

 

 

  • che le imposte sui consumi hanno la proprietà di non soffrire del peccato di doppia vista, perché un oggetto, ad es. un sigaro o un bicchiere di vino, non può essere consumato e perciò tassato due volte;

 

  • che la esclusione dall’imposta dei redditi delle case nuove, dei nuovi impianti, delle migliorie in genere soddisfa alla condizione la quale richiede, se si vuole evitare la doppia vista, non siano tassate le 100000 lire di redditi risparmiate nell’anno I e poi di nuovo il reddito delle case, degli impianti industriali e delle migliorie agricole in che furono investite le 100000 lire. Se il periodo di esclusione dall’imposta è abbastanza lungo (25 anni per le case nuove secondo i provvedimenti detti eccezionali del dopoguerra e 30 anni per le migliorie secondo l’implicita norma del catasto Messedaglia del 1886) esso quasi si confonde con la esenzione perpetua ed evita il doppio quasi in tutto. È un guaio non piccolo che per la impossibilità quasi certa di fare entrare nella testa del pubblico grosso il teorema di Mill sia necessario ricorrere alla piccola commedia dell’incoraggiamento che lo stato deve dare a destra e a sinistra alle iniziative benemerite. Smorfie fra auguri. Importa che il legislatore ubbidisca, consapevolmente o non, al comando di non doppiare, ossia di non scoraggiare. Non esenzione ma esclusione dal campo tributario di quel che non esiste;

 

  • che le somme mandate a riserva dalle società anonime od i premi di assicurazione sulla vita non sono tassabili, perché la loro tassazione farebbe doppio con quella dei redditi che la società ricaverà dalle somme mandate a riserva ossia risparmiate o che l’assicurato ed i suoi eredi ricaveranno dai capitali assicurati e riscossi quando l’evento si verifichi;

 

  • che le diversificazioni del reddito rispetto all’imposta, in virtù di cui il reddito di lavoro paga meno del reddito di capitale sono un espediente per trattare un po’ meglio il reddito che non esiste da quello che esiste. L’espediente è per fermo grossolanissimo e difettosissimo; e, per farlo accettare, c’è inoltre, bisogno di dire che il professionista deve essere trattato meglio del capitalista, perché il primo può diventar malato vecchio inabile al lavoro e deve provvedere alla vedova ed ai figli, laddove, il capitalista nei limiti del capitale posseduto a tutto ciò, per definizione dell’esser suo capitalistico, già provvide. È conveniente ed è onesto usare versioni plausibili e semplici e virtuose della nuda verità essenziale: che il professionista il quale guadagna 100 e mette da parte 30, oggi gode e possiede solo 70. Le altre 30 né le gode né le possiede oggi perché vi ha rinunciato in scambio della promessa di ricevere qualcosa in avvenire, quando ne avrà maggior bisogno, per es. una pensione annua vitalizia di 10 lire a partire dal 65esimo anno di età. Egli non ha 100 oggi, più dieci lire all’anno domani (65esimo anno); ma ha 70 oggi e 10 annue domani. Tassarlo oggi su 100 e di nuovo domani su 10 annue è, entro il limite di 30 lire in oggi, commettere errore di doppia vista. Per la teoria dell’imposta, ciò basta. Non occorre altro. Per il buon pubblico, che perde il latino in cose semplicissime, come beni presenti e beni futuri, sconto di valori futuri a valori attuali, occorre confortare il ragionamento astratto con esempi, argomentazioni concrete, esortazioni, commozione di affetti ecc. ecc. È ragionevole e umano che la commozione di affetti tenga gran luogo nei motivi delle leggi. Il legislatore è uomo tra uomini; e se li vuol governare a fin di bene, occorre far vibrare le corde all’uopo opportune. Non confondiamo però l’arte del persuadere con la logica del convincimento, che soltanto interessa noi! Può essere opportuno abbreviare il discorso parlando di esenzione; ma, dove non esiste la materia imponibile, quel modo di parlare, in sede logica, è improprio.

 

 

103. In verità, io credo che vere e proprie esenzioni ragionate non esistano. Se si può dimostrare che esse hanno un fondamento, esse possono essere ricondotte sempre all’altro concetto della «esclusione» per inesistenza di materia imponibile.

 

 

Le vere esenzioni sono poche e sono privilegi.

 

 

La principale, rimasta nella legislazione moderna, è quella dovuta alla maestà della corona. Il sovrano, fonte della legge, tutore supremo dell’ordine nazionale, non è assoggettabile all’imposta. Qui non si fa un ragionamento. Si constata una impossibilità morale fra l’assegnare una dotazione alla corona, affinché essa compia l’ufficio suo nello stato, e lo sminuirla subito coll’imposta. La dotazione fu fissata nella somma data, perché quella e non altra fu reputata propria all’ufficio.[7]

 

 

Un tempo, nobiltà e clero avevano parte nell’esercizio della sovranità. Il nobile difendeva lo stato con la spada, il sacerdote con la preghiera, il plebeo con il denaro. Quando il fatto rispondeva alla massima, l’imposta sul nobile e sul sacerdote sarebbe stata un doppio coll’onere del servizio pubblico reso da costoro. Mutati gli ordini sociali, nobili e sacerdoti, non adempirono più, come tali, ad uffici di stato. La esclusione dell’imposta era divenuta tra il XVII e il XVIII secolo una vera esenzione ossia immunità o privilegio. E perciò fu abolita.

 

 

Sarebbe un privilegio la esenzione che oggi fosse concessa ai proletari od agli operai come tali. Essi possono chiedere con ragione l’esclusione dall’imposta in quanto cadono in talune categorie caratterizzate in modo generale da mancanza di reddito imponibile. Il contribuente può pretendere l’esclusione dall’obbligo di imposta non perché egli sia proletario od operaio; ma perché il suo reddito è inferiore alle 2000 lire e alle 6000 lire; ed in Italia si giudica che coloro i quali posseggono redditi inferiori a quegli ammontari non debbono pagare rispettivamente imposta sui redditi di ricchezza mobile od imposta complementare sul reddito, perché si reputa che il reddito sia siffattamente basso che, se fosse tassato, cadrebbe al disotto dell’indispensabile alla vita. Né lo stato può tassare se la tassazione ha per effetto di distruggere la vita, che è invece ufficio dello stato perfezionare ed esaltare. Si ritiene anche che i percettori di redditi minimi abbiano già soddisfatto largamente al loro debito tributario pagando imposte sui consumi. L’argomentazione essenziale è una sola: esiste materia imponibile? Fu già assoggettata ad imposta nella misura voluta per tutti? Se la materia imponibile non c’è o fu già tassata, non si devono largire privilegi o favori; ma riconoscere l’esclusione. Esenzione è parola che dovrebbe essere bandita dal vocabolario tributario.

 

 


[1] Si suppone che non esista riserva nascosta in aggiunta a quella palese scritta. L’ipotesi non cambia nulla al ragionamento, ché una riserva nascosta, se esistesse, avrebbe la stessa natura logica della partita «valore dell’avviamento».

[2] La tassazione di questi 4 milioni mandati a riserva costituisce doppio di tassazione. Finché restano nella cassa della società, non sono reddito di nessuno. Gli azionisti, veri padroni dell’impresa, hanno la scelta fra conservare i milioni nella riserva sociale e goderne i soli frutti; ovvero milioni e rinunciare ai frutti. Non possono avere e godere nel tempo stesso riserva e frutti. Eppure i legislatori di tutti i paesi unanimi tassano riserva e frutti della riserva. Il grosso problema è un caso specifico del genere tassazione del risparmio e dei frutti di esso (cfr. paragrafi 82 sgg.).

[3] Su questa piatta tecnica interpretativa insisto, più malignamente, sotto nei paragrafi 100-1.

[4] Il par. 86, come pure quello 94 seguente, meramente abbrevia quel che è detto nel testo e può dal lettore essere saltato senza che il filo del discorso sia rotto.

[5] Naturalmente, ragiono di doppia vista rispetta agli uomini contribuenti. Le cose non vedono e non sentono; epperciò, se discorriamo di imposte sulle cose e sui frutti o prodotti delle cose, possiamo, con opportuni avvedimenti, moltiplicare le imposte senza mai incorrere nella taccia di doppio. Diedi esempio di ciò sopra (paragrafi 25-30), discorrendo delle imposte sul reddito del fondo e di nuovo sul reddito del mutuo ipotecario garantito dal fondo. Chi, dopo essere espressamente o tacitamente partito dalla premessa – né par possibile immaginarne altra – che le imposte siano pagate dagli uomini, scivola inavvertitamente a negare che esista doppio quando l’imposta colpisce il prodotto 100 del fondo nell’anno primo e poi di nuovo il prodotto 10 ottenuto nell’anno secondo dall’investimento del 100 dell’anno precedente, sposta il problema e vorrebbe applicare agli uomini concetti proprii delle cose. Sull’errore di non vedere il doppio quando si ragioni di cose e dei loro prodotti, cfr. del resto i capitoli secondo e terzo del mio Contributo alla ricerca dell’«ottima imposta». (Ristampato ora nella serie I, vol. I delle Opere).

[6] La parola «uguaglianza tributaria» è adoperata qui nel senso, comunemente usato in questa materia. Qui, dove si parla di uguaglianza oggettiva riferita a lire, si intende osservato il canone dell’uguaglianza quando le quantità di lire pagate nei due casi sono equivalenti. Quindi il segno di uguaglianza nel testo è assunto nel senso di equivalenza.

[7] Oggi sono esenti da imposta l’assegno personale del presidente della repubblica e le indennità dei deputati e dei senatori. Entro quali limiti l’argomentazione propria della dotazione al sovrano sia applicabile ai redditi ora indicati può essere materia di elegante indagine (Nota 1957).

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