Opera Omnia Luigi Einaudi

Faccia il suo mestiere!

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/01/1919

Faccia il suo mestiere!

«Corriere della Sera», 15 e 24 gennaio; 1°, 10 e 18 febbraio[1]; 3[2] e 19[3] aprile 1919

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1961, vol. V, pp. 42-61

 

 

 

 

I

Abolire i vincoli!

 

Ai funzionari dello stato che gli recavano il loro contributo per l’opera pro combattenti, l’on. Nitti ha esposto alcuni concetti, i quali son degni di nota e di plauso:

 

  • bisogna che lo stato tolga tutte le barriere interne inutili e svincoli la produzione;

 

  • bisogna che esso dia alle industrie sicurezza e stabilità;

 

  • quanto fu creato per necessità di guerra se non è necessario, deve scomparire con la guerra;

 

  • tutti gli uffici devono essere ridotti in breve tempo a ciò che erano prima della guerra; presto e coraggiosamente bisogna sopprimere tutto ciò che è superfluo, anzi bisogna considerare ciò che è superfluo come dannoso;

 

  • il dovere di quanti hanno la visione della realtà è di eliminare il più rapidamente possibile quanto è stato prodotto da una economia transitoria e perturbatrice;

 

  • bisogna riprendere al più presto le esportazioni; bisogna produrre, cercare di riprendere gli antichi mercati e conquistarne dei nuovi.

 

 

Il ministro del tesoro merita di essere vivamente incoraggiato in questi suoi propositi, i quali hanno un così vivo sapore wilsoniano e così da vicino ricordano il messaggio letto, prima della sua partenza per l’Europa, dal presidente nordamericano al congresso intorno alla necessità urgente di sbarazzarsi della «armatura di guerra». Naturalmente, in un breve discorso d’occasione, l’oratore non poteva svolgere a fondo l’argomento sì da rispondere a tutti i quesiti che le sue affermazioni fanno sorgere. Probabilmente, invero, affermando la necessità di limitare gli acquisti all’estero, egli ha inteso soltanto di inculcare, come è ragionevole e necessario, agli italiani la virtù del sacrificio, della rinuncia a tutto ciò che è superfluo, a tutti i consumi inutili; e non ha voluto altresì dire che devono continuare i vincoli governativi alle importazioni di materie prime, i quali sarebbero micidiali allo sviluppo della produzione e delle esportazioni. Quando egli aggiunge che lo stato deve fare nel più breve tempo possibile una politica di prezzi intelligente è evidente, dal contesto del discorso, che l’on. Nitti ha preannunziato l’abolizione pronta dei calmieri, dei divieti, dei contingentamenti, delle penalità, e il ritorno alla più ampia libertà di commercio, unica guarentigia sicura del ritorno a un livello di prezzi meno alto dell’odierno.

 

 

Sì; ciò di cui l’Italia economica sovratutto ha urgente bisogno nel momento presente è di potersi liberamente muovere, di non sentirsi più addosso la cappa di piombo dei vincoli, dei divieti, dei permessi, delle autorizzazioni, delle commissioni. Bisogna abolire uffici e commissioni; mandare a casa impiegati e commissari. Se agli impiegati provvisori farà d’uopo dare una buona indennità di uscita, si dia; qualunque larghezza sarebbe sempre meno costosa del conservarli in carica a intralciare l’opera di coloro che vogliono lavorare.

 

 

Bene ha detto l’on. Nitti che bisogna lavorare ed esportare. Ma come è possibile lavorare quando lo stato, col decreto del 9 settembre 1918, è ancora l’unico provveditore delle materie prime, quando non si è sicuri di esportare ciò che si è prodotto? Esportazione e importazione sono due fatti inscindibilmente connessi. Non si può volere l’incremento delle prime senza volere altresì l’aumento delle seconde. Quasi nulla si può produrre ed esportare senza combustibili e materie prime, in tutto o in parte importate dall’estero. E ben poco si può importare o esportare quando si dipende dal beneplacito governativo. Finora poco si è fatto per dare aria e libertà ai volonterosi.

 

 

L’on. Nitti ha modo di guadagnare gloria a sé e di contribuire alla prosperità del paese quando persuada e obblighi i suoi colleghi dell’industria, delle finanze della guerra a rinunziare all’ingerenza che essi e i loro uffici gelosamente vogliono serbare sull’attività economica del paese. Non basta essere più larghi di permessi di fare, di trasportare, di importare, di esportare. Bisogna rinunciare a dare i permessi; bisogna lasciare che ognuno faccia, trasporti, importi o esporti senza permessi, senza visti, senza bolli, senza inchinarsi a destra e a sinistra, senza fare viaggi a Roma. Altrimenti si perde tempo, si lasciano sfuggire lavori e affari, si spendono denari, si aumentano i costi. E a nulla vale avere il desiderio di fare quando, con le sue ingerenze, lo stato rende terribilmente costoso fare qualunque cosa.

 

 

Non è solo necessario sopprimere uffici, controlli e permessi, rispetto alle cose che si devono produrre. Bisogna fare lo stesso rispetto agli uomini, i quali devono produrre ricchezze. La pretesa che i ministeri romani, che il commissariato della emigrazione hanno di regolare a loro beneplacito, secondo i dettami della loro prudenza e sapienza, l’emigrazione degli italiani all’estero, è inammissibile; direi, scandalosa. Se pensiamo che ministeri e commissariati siano decisi a vendere in blocco la nostra mano d’opera al più alto offerente, attenderemo mesi e anni; e frattanto le occasioni di lavoro all’estero saranno venute meno. Il posto vacante nei paesi dove l’opera di ricostruzione è già cominciata febbrile – Francia e Belgio – sarà stato preso da altri. Col mantenere in pace il sistema dei visti o permessi di emigrazione, la burocrazia produce la disoccupazione all’interno, provoca il malcontento, cagiona un ribasso «artificiale» di salari, con danno dei lavoratori e con vantaggio di altre classi sociali, le quali non hanno nessun diritto a questo favore.

 

Come si deve dare alle industrie sicurezza e stabilità con l’abolire la loro sudditanza al funzionarismo e col chiarire i loro obblighi di imposte per l’avvenire, così bisogna dare ai lavoratori sicurezza di potersi recare liberamente, senza impacci, senza permessi e senza ritardi nei luoghi dove il loro lavoro è maggiormente richiesto e pagato. Finché durava la guerra, era bene, era necessario che lo stato requisisse cose e uomini, impianti industriali e lavoro umano; oggi si devono riprendere le leggi umane della vita umana. Non abolire i vincoli vorrebbe dire ridurre industriali e operai a uno stato servile, vorrebbe dire immiserire la produzione della ricchezza, quando è più vivo il bisogno di accrescerla.

 

 

II

 

Eseguire i pagamenti!

 

L’avvento dell’on. Stringher al ministero del tesoro è stato salutato dagli industriali italiani con viva speranza. La ragione della speranza è nota. Da mesi molti di essi non riescono ad ottenere il pagamento dei loro crediti verso il tesoro. Trattasi di forniture consegnate, di lavori eseguiti e liquidati, per cui tutto è definito, e nulla manca al pagamento. Ma il tesoro non paga. Non si apre un giornale commerciale, non si discorre con uomini dell’industria senza sentire la stessa lagnanza. La cifra dei pagamenti arretrati varia, a seconda delle impressioni; ma nessuno calcola quella cifra a meno di 2 miliardi. Parecchi vanno assai più in là. Pure accettando la cifra minima, essa ha una portata, la quale va assai oltre la sua importanza aritmetica. Con quella cifra si fanno lungo l’anno cifre di affari per somme assai più rilevanti. Un industriale, il quale è sicuro di ottenere dai suoi clienti il pagamento di 100.000 lire alla scadenza promessa, può acquistare materie prime, combustibili, macchinario, trovare credito alla banca, tenere l’opificio vivo e lavorante. Gli operai ottengono lavoro e non soltanto i suoi, ma quelli altresì, i quali dipendono dalle industrie di cui la sua è un anello. Poiché l’industria moderna è come una grande catena, di cui gli anelli sono innestati gli uni negli altri; e, rotto un anello, tutta la catena è rotta e la macchina sociale si arresta. Chi non è pagato a tempo, per una volta, per due volte ricorre al credito, sconta cambiali di comodo, supplisce con un giro vizioso di carta al mancato giro naturale degli incassi e dei pagamenti. Se il ritardo dura a lungo la fiducia viene meno; le banche, le quali sono fiduciarie dei depositanti e hanno il dovere di tutelare i depositi di coloro che hanno in esse avuto fiducia, restringono gli sconti e a un certo punto chiudono gli sportelli. L’industriale non rinnova i suoi acquisti di materie prime; e a poco a poco è costretto a ridurre le maestranze. Non pagare vuol dire organizzare la disoccupazione. Produce lo stesso effetto dello smobilitare i soldati contadini e lavoranti e trattenere sotto le armi gli ufficiali, ossia gli organizzatori del lavoro. Senza organizzazione e senza capitale l’industria non può funzionare.

 

 

Perciò gli industriali sperano nell’on. Stringher. Forse non vi è stato mai momento dall’agosto 1914 in qua, in cui il desiderio individuale abbia coinciso così perfettamente con l’interesse collettivo. Desiderare di essere pagati, vuol dire, per la grandissima maggioranza, desiderare alla loro volta di pagare: far onore alle cambiali in scadenza e conservare il credito intatto presso le banche; avere i denari pronti per la quindicina degli operai; non essere imbarazzati a versare all’esattore la rata corrente delle imposte di ricchezza mobile e sui sovraprofitti di guerra. Vuol dire essere pronti a iniziare l’auspicata trasformazione delle industrie di guerra in industrie di pace; prepararsi alla conquista dei mercati esteri e all’assorbimento dei soldati smobilitati e degli operai licenziati dalle industrie di guerra. Sarebbe una vana lustra dire: producete, producete, esportate, rinnovate, quando si persistesse a far mancare quello che è il nerbo della produzione e della rinnovazione, ossia il capitale circolante. Perciò lo stato paghi i debiti liquidi. Paghi in qualunque modo. Se non vuol pagare, per motivi spiegabili, in biglietti nuovi fiammanti, paghi in buoni del tesoro a tre mesi, a sei, a un anno. Non importa. Penseranno gli industriali a scontare i buoni. Troveranno aperti gli sportelli delle banche, perché tutti hanno fiducia nei titoli dello stato. Ma il tesoro non si illuda di poter ottenere il grandissimo successo che esso merita in occasione del nuovo prestito della pace, se prima non ha fatto rinascere la fiducia. Gran parte delle sottoscrizioni ai passati prestiti venne dalle industrie. Queste ripeteranno, dovranno ripetere lo sforzo compiuto in passato. Ma, per far ciò, occorre che gli industriali abbiano il bilancio in ordine. Occorre che essi non siano stretti alla gola da impegni pressanti, a cui non sanno come far fronte, sebbene sui libri siano scritti ingenti crediti verso lo stato. Quando la fiducia esiste, quando la macchina scorre come olio, tutto si può osare; anche di chiedere sottoscrizioni di milioni. Vano sarebbe invece il chiedere a chi ha la preoccupazione della scadenza, a chi non sa come soddisfare agli impegni in corso.

 

 

III

 

Licenziare i padreterni

 

Gli industriali italiani hanno tenuto a Bergamo, in un teatro, il loro congresso. Erano in molti, rappresentavano miliardi di capitale investito, l’occupazione di milioni di operai, ed erano inferociti. Gli oratori hanno tenuto un linguaggio acceso e severo. Contro chi? Contro il governo, il quale non mantiene le promesse, impedisce con i suoi vincoli il movimento a coloro che avrebbero voglia di agire, fa perdere quei mercati che gli industriali italiani erano riusciti a conquistare, prepara disastri al paese, accolla sempre nuovi oneri alle industrie, mentre le riduce all’insolvenza non pagando i debiti, fa arrivare i telegrammi per posta, fa ribassare i cambi e poi non li vende a coloro che ne avrebbero bisogno per fare all’estero i pagamenti di roba, la quale potrebbe essere rivenduta a prezzi tripli e quadrupli dopo aver incorporato in se stessa il valore del lavoro di milioni di operai che si vogliono costringere invece alla disoccupazione.

 

 

La requisitoria continua, inesorabile ed incalzante, se pure un po’ disordinata: il governo, che durante la guerra conservava la mentalità di pace, ora che la guerra di fatto è chiusa, non si libera dalla mentalità bellica, e vuol far pesare addosso al popolo quella “bardatura di guerra” che Wilson proclamava compito urgentissimo togliere subito, e faceva in realtà togliere di dosso ai suoi concittadini. Invece di dare libertà alle industrie, immagina monopoli che non sa poi come amministrare, e, mentre a nulla provvede, impedisce provvedano i privati, sicché tra qualche mese corriamo rischio di trovarci senza petrolio e col carbone inafferrabile, quasi come nel 1917 e nel 1918. Le intendenze e le commissioni militari rimangono padrone del movimento ferroviario; e mentre in certe stazioni centinaia di carri aspettano, come ai tempi delle progettate e possibili offensive sull’Isonzo e sugli Altipiani, al momento di servire ai fini della guerra, che è finita, migliaia di tonnellate di merci marciscono lungo le calate dei porti e il servizio dei viaggiatori e delle merci solleva le recriminazioni generali. Il governo inculca la necessità di produrre e frattanto non consente gli approvvigionamenti dei cotoni, delle lane, del ferro, senza di cui non si può produrre, o si rifiuta di comunicare precisi prezzi di costo, senza i quali nessun industriale sensato si azzarda a comprare.

 

 

Alle lagnanze che alla rinfusa si leggono nei rendiconti del congresso degli industriali italiani si potrebbe dare un seguito quasi senza fine: si consiglia agli agricoltori di intensificare la produzione, ma come vuolsi che il consiglio sia seguito, se mancano i trasporti, fanno difetto i concimi chimici, e calmieri e divieti ancora vietano di vendere la propria merce al più alto prezzo possibile? Gli impiegati ed i pensionati si lamentano dell’insufficienza degli stipendi e delle pensioni; e si risponde inventando istituti dei consumi, grazie a cui magistrati, professori, segretari di prefettura, postelegrafici perderanno il proprio tempo ad annusar formaggi e a negoziar merluzzi, facendo perdere, per la propria incompetenza invincibile, denaro al tesoro, creando una nuova guardia del corpo ai ministri inventori del bel congegno e distogliendo forze ai servizi pubblici, che sarebbe esclusivo dovere di quegli impiegati di far procedere con zelo e con efficacia.

 

 

Impiegati e persone provviste di reddito fisso si spaventano di un possibile rincaro dei fitti? La sapienza governativa non trova altro miglior rimedio che sovracaricare i proprietari di case di nuovi balzelli sperequati e impedir loro un parziale adattamento delle pigioni al diminuito valore della moneta; sicché l’industria edilizia, la quale oggi potrebbe dare lavoro, dopo quattro anni di arresto, a falangi di lavoratori, non osa investire capitali e si provoca la rarefazione delle case.

 

 

Sarebbe desiderabile la formazione di nuovo risparmio e il suo impiego giudizioso, sì da ottenere con esso il massimo risultato possibile di prodotto e di lavoro? Si tarda invece ad abolire inconsulti decreti sulla limitazione dei dividendi e sull’autorizzazione delle nuove emissioni di azioni che sono la principale causa per cui le società si sforzano di aumentare il capitale oltre il bisogno, sì da poter legalmente ripartire gli utili conseguiti. Con la quale insipiente condotta si organizza la produzione ad alto costo e si pretende nel tempo stesso che l’industria italiana fronteggi e vinca la concorrenza estera.

 

 

Tutto ciò accade perché a Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali si sono persuasi, insieme con qualche ministro, di avere la sapienza infusa nel vasto cervello. Poco sanno, e ignorano in ispecial modo la verità fondamentale: che ognuno di noi deve confessarsi ignorante di fronte al più umile produttore, il quale rischia lavoro e risparmio nelle sue intraprese. Bisogna licenziare questi padreterni orgogliosi, i quali sono persuasi di avere il dono divino di guidare i popoli nel procacciarsi il pane quotidiano. Troppo a lungo li abbiamo sopportati. I professori ritornino ad insegnare, i consiglieri di stato, ai loro pareri; i militari, ai reggimenti e, se passano i limiti d’età, si piglino il meritato riposo; gli avvocati non si impiccino di fare miscele di caffè o di comprar pelli o tonni. Ognuno ritorni al suo mestiere. Si sciolgano commissioni; si disfino commissariati e ministeri. Nessun decreto luogotenenziale sia prorogato oltre il termine prefisso, sicché un po’ alla volta tutta questa verminaia fastidiosa sia spazzata via. Coloro che lavorano sono stanchi di essere comandati dagli scribacchiatori di carte d’archivio. Industriali ed operai sono capaci di intendersi tra di loro e si sono intesi anche di recente, come si fa tra gente che lotta e che rischia.

 

 

Ma nessuno si sente più, ora che il nemico è vinto, di sottostare a chi è superiore ad esso soltanto per orgoglio e incompetenza.

 

 

IV

 

Arrivare in tempo!

 

Nei libri scolastici di scienza dell’amministrazione e di finanza si usa leggere che allo stato si affidano taluni compiti economici perché esso è meglio dei privati in grado di pensare e provvedere ai bisogni futuri. I privati badano all’interesse presente e diretto; e quando questo esiste sarebbe inutile e dannoso, salvo casi particolari, sostituirvi l’azione dello stato. Ma non si può pretendere da essi che costruiscano ferrovie, là dove non v’è traffico, o rimboschino monti a pro dei nipoti i quali vivranno fra 80 o 100 anni, o risanino terreni malarici, a vantaggio della collettività. Tutti questi compiti a rendimento lontano o collettivo debbono essere assunti dallo stato, rappresentante degli interessi delle generazioni venture, tutore della collettività, provveduto di vita indefettibile e quindi capace di badare a ciò che sfugge alla vita limitata dell’individuo singolo.

 

 

Sempre su quei libri, si legge che lo stato può fare coincidere l’esecuzione delle opere pubbliche coi momenti in cui l’iniziativa privata langue o si verifica una crisi nell’impiego del lavoro e del capitale. Crisi, arresti bruschi, rivolgimenti improvvisi sono inevitabili nella vita di un paese; non è possibile che lo spostamento del lavoro e del capitale da un impiego ad un altro avvenga d’un colpo e senza scosse. Il governo può rendere il trapasso più agevole invitando temporaneamente gli operai disoccupati a cooperare alla esecuzione delle opere pubbliche, la quale può essere accelerata nei momenti di crisi e rallentata nei periodi in cui ferve l’attività industriale privata. Scrittori e professori compiacevansi nell’illustrare la utilità e la possibilità di mantenere sempre a giorno nei ministeri dei lavori pubblici un piano di lavori, che potesse essere messo in esecuzione quando l’opportunità, anche improvvisa, sorgesse. Lettori e studenti ascoltavano e consentivano, persuasi che così appunto si usasse fare dai governi. Trattavasi di verità intuitive, incontroverse. Invece, dopo quattr’anni di guerra, dopo tanto discorrere di preparazione al dopo guerra, dopo aver ammirato un decreto del 17 novembre 1918, il quale sembrava sancisse un piano già pronto e consacrava all’uopo 1 miliardo di lire sul bilancio dei lavori pubblici, 1 miliardo e 800 milioni su quello delle ferrovie di stato, 500 milioni sui bilanci delle poste, dell’agricoltura, dell’industria, delle finanze, dell’istruzione, degli interni e delle colonie, e 500 milioni da concedersi dalla Cassa depositi e prestiti ai comuni per l’esecuzione di opere pubbliche – improvvisamente si viene a scoprire:

 

 

  • che su 3 miliardi e 800 milioni, appena 5 milioni si sono potuti cominciare o si potranno cominciare a spendere;

 

  • che per il resto non erano pronti i progetti;

 

  • che alcuni di questi progetti erano in preparazione;

 

  • ma che la procedura con cui questi alcuni pochi stavano avviandosi alla maturazione – come progetti, intendesi, non come esecuzione – era lentissima ed esasperante;

 

  • che non potevasi accelerare il lavoro per mancanza di funzionari: non più di 100 su 1.000 impiegati mobilitati erano stati messi in libertà dal ministero della guerra;

 

  • che il ministero della guerra era scarsamente sollecitato a licenziare ufficiali inutili dai ministeri medesimi interessati, perché ministri e direttori generali sono premuti in senso contrario da turbe di avventizi, i quali temono di perdere il posto, a cui furono temporaneamente assunti durante l’assenza dei funzionari di ruolo;

 

  • che, ad evitare taluni degli inconvenienti descritti, solo ora l’on. Bonomi, ministro dei lavori pubblici, ha pensato a far approvare dal consiglio dei ministri un provvedimento destinato ad accelerare notevolmente la procedura attraverso a cui ogni progetto di lavori deve passare, provvedimento al quale conviene augurare una rapida esecuzione;

 

  • che solo adesso si pensa a modificare il sistema degli appalti, ricorrendo, oltrecché ai metodi consueti, anche ad altri i quali pare abbiano fatto buona prova durante la guerra, come quello di far offrire il prezzo ai concorrenti su progetto governativo o di farsi presentare addirittura progetto e prezzi dei concorrenti;

 

  • che si studia alacremente intorno al miglior modo di ripartire i lavori – di cui si attendono i progetti – fra provincia e provincia;

 

  • che è stata nominata una commissione la quale dovrà proporre quali strade siano da costruire per l’accesso alle stazioni, agli approdi dei piroscafi postali ed ai porti e quali abitati occorra consolidare;

 

  • che un’altra commissione sarà incaricata dello studio del problema della ricostruzione degli abitati nei comuni rovinati dalla guerra.

 

 

Si può seguitare sine fine dicendo con l’elenco delle buone intenzioni dei ministri e con quello delle commissioni, le quali si vanno aggiungendo alle già esistenti, che bisognerebbe disfare. Che cosa si è dunque fatto nei ministeri durante tutti questi anni, se non si ha neppure in ordine un elenco in ordine di urgenza delle strade di accesso alle stazioni, di cui, dacché abbiamo l’uso della ragione e la nozione degli elementi del leggere e scrivere, sempre udimmo discorrere? Come mai i ministri succedutisi dal 1915 ad oggi al governo dei lavori pubblici non avevano ancora pensato che per il dopo guerra bisognava avere in pronto i progetti e che questi non sarebbero mai giunti a perfezione se non si accelerava la procedura? E come la macchina a stampa, la quale fece diluviare sull’Italia tante migliaia di decreti luogotenenziali inutili, fastidiosi o grotteschi non era ancora riuscita a dare alla luce un decretino di riforma delle leggi di contabilità e dei lavori pubblici?

 

 

Bisogna che ministri e direttori generali si persuadano che, se non vogliono far concludere al fallimento dello stato, essi hanno il dovere di far bene le cose che loro sono affidate; e che condizione essenziale del far bene è di arrivare in tempo. Inutile far progetti, se questi sono destinati ad essere eseguiti, quando, bene o male, soldati mobilitati ed operai delle arti di guerra avranno da sé trovata la loro via; quando il malcontento di averla dovuta cercare attraverso a privazioni ed a difficoltà gravi avrà già prodotto frutti che sapranno di amaro; quando ancora una volta nelle masse si sarà diffusa la persuasione che governo e classi dirigenti promettono e non mantengono.

 

 

Per arrivare in tempo, bisogna rassegnarsi a non fare troppe cose; ma poche e seriamente. Fin da prima della guerra – ed il brutto vizio si è acuito in questi anni in maniera preoccupante – i ministeri romani hanno sovratutto avuto in mira di parere di fare molte cose. C’è un monopolio che va bene? Bisogna creargliene accanto due, cinque, dieci, venti che vadano alla gran diavola. Si è impiantato un servizio che, se fosse seguito con amore e perfezionato, alla lunga darebbe buoni risultati? Subito, tutti gli altri direttori generali, gelosi di colui che ha avuto la buona idea, creano, ciascuno, un ufficio proprio; e così tutti van male. L’origine dei mali è la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la generazione per scissiparità di molte direzioni generali, di molti servizi, di molti commissariati da un solo tronco originario. Il lavoro dei funzionari, la loro intelligenza, il loro zelo è preoccupato ed eccitato da un unico scopo: moltiplicare i servizi, per moltiplicare i posti direttivi. Si lavora a ingrossare e ramificare l’organo, non ad eseguire il lavoro che l’organo dovrebbe compiere. Così, poco si fa di buono; tutto si comincia e si promette; quasi mai si arriva in tempo. E, siccome si arriva sempre in ritardo, si annunciano ognora nuovi grandiosi programmi per opere che poi, appena costituito l’organo, si mettono a dormire. In questa confusione, come il pubblico può aver fiducia nell’opera dello stato?

 

V

 

Relitti della guerra

 

Nel salone della Camera di commercio di Milano erano convenute domenica le rappresentanze di 47 camere di commercio e di 150 associazioni industriali e commerciali, e non furono complimenti quelli che i delegati dell’industria e del commercio italiani indirizzarono ai ministri e agli alti funzionari romani. Un senatore affermò che la gravità del momento odierno è dovuta alla errata ed insipiente politica economica del governo. Altri lamentò che si fossero voluti imporre al paese i nuovi monopoli fiscali di straforo e senza discussione, e minacciosamente disse che essi non sarebbero stati né imposti, né varati. Furono ricordate con amarezza le 150.000 tonnellate di derrate alimentari, le quali giacciono nel porto di Genova e non possono essere messe a disposizione dei consumatori per la insufficienza dei mezzi di trasporto. A questa insufficienza scandalosa, alle passeggiate “romantiche” che il naviglio requisito era condotto dall’incompetenza dei burocrati a fare attraverso il mare, alcuni oratori giunsero ad attribuire per il 50% il rincaro subito dalle merci in Italia. E chi rifletta che dal luglio 1914 al dicembre 1918 i prezzi all’ingrosso crebbero in Italia del 390%, mentre in Inghilterra aumentarono solo del 177%, nonostante che il cambio fosse tra le due date e i due paesi cresciuto solo del 20%, dovrà riconoscere che in queste affermazioni, le quali paiono iraconde, vi deve essere molto, troppo di vero.

 

 

L’eco sempre più viva delle proteste esasperate del mondo commerciale e industriale non sembra tuttavia essere ancora giunta a Roma. Un ministro, l’on. Nitti, se ne è andato dopo avere in un discorso memorando affermata la necessità di una politica economica di libertà, tutta opposta a quella di cui egli era stato parte massima e determinante. Ma i ministri, i quali restano, non paiono darsi per intesa del clamore pubblico. L’on. Meda, nell’atto medesimo in cui butta a mare il monopolio del carbone, annuncia non si sa se due, o tre, o cinque nuovi monopoli. Lo studio dei fatti non lo ha ancora persuaso che l’errore dei monopoli fu di averli deliberati senza preparazione, senza sapere neppure che cosa fossero l’industria e i commerci che si trattava di monopolizzare, senza essersi reso verun conto delle ripercussioni che essi potevano avere sulla vita economica del paese. Occorre farla finita con questi sistemi. Il paese sa che la guerra ha costato decine di miliardi; sa che mancano alcuni miliardi al pareggio. Non desidera di essere illuso, e sarà grato all’on. Stringher se questi farà alla camera un’esposizione chiara della situazione finanziaria del paese a guerra finita e liquidata. Sarà gratissimo se l’on. Stringher ci dirà essere venuto il momento di porre un freno alle richieste disordinate e assurde e di mettere mano alla borsa.

 

 

Se l’on. Meda vuol stabilire nuovi tributi, ne faccia proposta al parlamento, la suffraghi con buone ragioni e troverà l’opinione pubblica salda dietro di lui per chiederne l’approvazione. Ma basta coi decreti legge! Se il ministro dell’interno vuole dare nuove entrate ai comuni sull’orlo dell’insolvenza, benissimo: ma è intollerabile che invece di perfezionare un’ottima imposta esistente, quella sul valore locativo, la si deturpi a mezzo di un decreto legge, trasformandola in un’imposta medioevale sui locali occupati, venuta su dalle elucubrazioni di qualche improvvisatore sindaco di villaggio.

 

 

È intollerabile che, mentre da tutti si chiede di aprire il varco alle merci provenienti dall’estero a scemare il rincaro della vita, vi siano alti funzionari i quali, solo preoccupati di non fare brutta figura, si accaniscono a imporre agli industriali di costituire consorzi obbligatori col solo intento di mantenere in pace i prezzi di guerra. Se i commissariati hanno comperato a carissimo prezzo e posseggono ancora decine di migliaia di tonnellate di cellulosa, quantità enormi di pelli, si liquidi la perdita, si tirino i conti e si vegga quanto è costata al paese l’insipienza dei funzionari che hanno preteso di salvarlo dalla carestia negli anni scorsi. Ma che gli italiani debbano ancora pagare la carta e le scarpe e il caffè e mille altre cose a caro prezzo solo perché non vengano a galla gli spropositi governativi, che per mesi e per anni si mantenga la bardatura di guerra, solo perché alcuni tirannelli ministeriali non siano cacciati a furia di popolo, non è, non deve essere.

 

 

È ora che il governo si rimetta a fare il suo mestiere, che è di governare bene. Tuteli la pubblica sicurezza, si occupi dell’ufficio modesto, ma utile, di impedire i furti ferroviari e gli scassi delle botteghe in grande stile, di che sono piene le gazzette; badi a non eccitare alla diserzione le guardie e a non provocare alle dimissioni i magistrati, per la pretesa di mantenerli con salari e stipendi inverecondi. Faccia correre le ferrovie, provveda ai lavori pubblici necessari alla ricostruzione dell’economia nazionale, organizzi un buono e severo sistema tributario. Ma non si impicci delle faccende che non lo riguardano, in cui è destinato fatalmente all’insuccesso e al disastro.

 

 

VI

 

Via le ostriche dallo scoglio

 

«Il ministero degli approvvigionamenti e consumi non si può ancora abolire. – Per ora la libertà dei cambi, delle importazioni e delle esportazioni è prematura. – Non è ancora venuto il momento di sopprimere il visto del commissariato dell’emigrazione ai passaporti di coloro che intendono recarsi all’estero. – È sempre necessario che gran parte delle navi italiane sia requisita e che gli ordini di viaggio partano da Roma».

 

 

Noi vogliamo ammettere che qualcosa di vero vi sia in queste affermazioni; e siamo disposti a credere che si debba procedere gradatamente nel passaggio dal regime di guerra a quello di pace. Ma vorremmo anche che a Roma attendessero fervidamente a quest’opera necessaria di demolizione della sovrastruttura imposta dalla guerra all’economia italiana.

 

 

Sì. Non si può senz’altro abolire il ministero degli approvvigionamenti e dei consumi. Almeno il ministro e un piccolo stato maggiore debbono rimanere in vita finché saranno necessari accordi interalleati. Ma il ministero deve rapidamente rinunciare alle sue funzioni di compratore e distributore. Fissati i contingenti con i paesi fornitori, lasci che se li provvedano i privati, a loro rischio e pericolo. Altrimenti, chissà fino a quando i giornali di Genova potranno narrare di trentaduemila casse di lardo e strutto, giunte sino dal mese di novembre e per cui si attende a distribuirle che si siano ridotte in concime, così come accadde a 300.000 kg di baccalà, negato ai consumatori quand’era tempo e venduto a 9 centesimi al Kg per concimare i campi, ed a partite ancora maggiori di prosciutto, lardo e strutto, andate in passato a finire in mare o nelle fabbriche di sapone, di candele, di colla.

 

 

Sì. Il commissariato dell’emigrazione è bene rimanga in piedi. Ma ritorni ai suoi uffici primi, in cui acquistò grandi benemerenze. Non pretenda più di mettere visti e bolli a passaporti di emigranti, facendo perdere un tempo prezioso a gente che non ha tempo da perdere e che sfollerebbe utilmente il mercato del lavoro. Non pretenda di dirigere esso le correnti migratorie, che da sé sanno dirigersi benissimo. Sì. Un certo numero di navi deve ancora rimanere requisito per i trasporti di stato. Ma per tutte le altre si dia libertà. Si imponga ancora che servano i traffici italiani. Ma siano liberi gli armatori di determinare viaggi, di assumere carichi, come essi ritengono più conveniente. Non accadrà più che il 20, il 30% del tempo sia perso in attese ed in viaggi mal combinati. Perché si tarda a distruggere tutto ciò che è nocivo: i dazi di esportazione, coi relativi permessi? I vincoli all’importazione, salvoché per certe merci di lusso, precisamente specificate? Perché non si abolisce l’Istituto dei cambi, che già in tempo di guerra aveva mancato prima al suo fine ed aveva dopo creato una pericolosa situazione artificiale, ma che ora non fa altro che procrastinare la ripresa dell’attività nazionale?

 

 

L’ultima parola del governo sembra oggi sia: il trapasso dalla regolamentazione di guerra alla libertà di pace non può avvenire d’un colpo. Deve esserci una gradazione intermedia fra la gestione di stato e la libertà assoluta. Questa gradazione intermedia il governo sembra averla trovata nel “consorzio”. Si creano consorzi per tutte le industrie, consorzi i quali dovrebbero assumere la liquidazione delle gestioni governative. Se si trattasse solo di liquidare, l’idea sarebbe approvabile. Solo un consorzio tra industriali ha la forza finanziaria e presenta le garanzie di controllo necessarie per aiutare lo stato a liquidare le enormi giacenze di merci che esso deve avere disponibili. Vorremmo però che ogni altro concetto esulasse dai consorzi. Un pericolo dovrebbe essere assolutamente escluso: che i consorzi servano al governo ed a taluni industriali a conservare una specie di monopolio sul mercato, in guisa da vendere a prezzi alti le rimanenze invendute della guerra. Se vi fu chi – privato o governo – importò troppa roba a prezzi alti, non pretenda oggi, col mezzo dei consorzi, di sottrarsi alle perdite della liquidazione. Il privato perda di tasca sua. Il governo metta in chiaro nei suoi conti che la gestione si è chiusa con una perdita. Ma i consumatori diretti, ma le industrie consumatrici debbono subito avere merci e derrate ai prezzi di mercato. Il caro della vita deve finalmente cominciare ad attenuarsi. Le industrie debbono potersi procurare le materie prime al minimo prezzo possibile. Ne va della tranquillità sociale, della ripresa economica. Il timore di confessare una perdita di qualche centinaio di milioni sulle provviste esistenti non deve consigliare al governo il prolungamento, con consorzi monopolistici, dell’odierna situazione artificiale. La perdita non si abolisce, scaricandola sui consumatori. Col tentare di rallentare il ribasso dei prezzi, si inquietano le moltitudini, le quali non sanno darsi una ragione del motivo per cui la scomparsa dei sottomarini non abbia ancora prodotto sensibili risultati. Purtroppo, vi sono tante cause permanenti per cui i prezzi dovranno per un pezzo rimanere più alti che nell’anteguerra, che non occorre tenere in piedi gli effetti anche delle cause di rialzo che sono già scomparse. Una vasta agitazione delle masse operaie scuote l’Europa e l’Italia in questo momento per il miglioramento delle loro condizioni. Se noi vogliamo che questa agitazione non si imbatta in qualche ostacolo insormontabile, importa che gli industriali possano procurar lavoro ai nuovi costi, coi nuovi orari. Ma per far ciò è necessario che essi possano comprare le materie prime ai minimi prezzi, vendere i prodotti sui mercati dove l’esito è più rimuneratore. Occorre che essi non siano assoggettati a mille vessazioni, costretti a procedere uniti dal legame di tener su il mercato ad un livello forzato di prezzi. Solo la libertà di muoversi, di agire, di trasportare, di esportare a proprio rischio e pericolo può dare una spinta operosa all’industria. Il governo dia il concorso della sua organizzazione, delle sue ferrovie, delle sue missioni estere, dei suoi consolati. Ma poi lasci fare. La Svizzera organizza treni di merci per la Serbia; e malgrado ogni ostacolo di cambi deprezzati e di mala sicurezza, con esito magnifico. Che noi proprio non si possa far nulla di simile per la Boemia, per la Romania, per l’America meridionale? Ci sono dislivelli fantastici di prezzi tra certi paesi, per esempio, la Romania, e il nostro per molti prodotti industriali. Si tratta di arrivare i primi. Conquistare i mercati dove i margini di lucro sono alti, può significare la possibilità di superare la prima crisi di adattamento ai nuovi salari ed orari, che, a margini normali, ucciderebbero l’industria. Passata la crisi, si troverà un nuovo equilibrio. Frattanto il governo ha il dovere di non opporsi coi suoi vincoli e divieti e regolamenti ai tentativi che si potrebbero fare per trovare il nuovo equilibrio.

 

 

VII

 

Con le ostriche, via gli scogli!

 

I padreterni sentono scossa la loro posizione. Sono ancora fastidiosi; ma non hanno più il tono arrogante di qualche tempo fa. La loro preoccupazione adesso è di far credere che essi sono ancora necessari e di inventare i modi con cui dare carattere di permanenza alle loro funzioni provvisorie. È di ieri un decreto che istituisce un grosso premio a carico dell’erario per quegli impianti elettrici i quali utilizzeranno in pace i cosidetti combustibili nazionali. Quando si farà la storia economica della guerra, una delle pagine più curiose sarà quella delle ligniti, che in molti casi non vogliono bruciare, che sono piene di acqua, che danno un rendimento scarsissimo, che hanno mandato in malora tanti impianti industriali, che hanno fatto consumare tanto prezioso carbone, acquistato a caro prezzo all’estero e che non meritava la ria sorte di essere adoperato a trainare su e giù per l’Italia un combustibile tanto inferiore. Si sperava che, col ritorno della pace, le ligniti sarebbero state – salvo le qualità buone, atte a reggere alla concorrenza – lasciate dormire sotto terra, in attesa di ridiventare tollerabili nell’evento deprecato della ventura guerra. Ma avrebbe dovuto essere mandato a spasso il commissariato dei combustibili nazionali, nido famigerato di padreterni e di graffiacarte. Epperciò i contribuenti italiani sono stati chiamati dal decreto legge a pagare tali premi così largamente calcolati che con essi si sarebbe invece potuto – a quanto narrano le cronache – comperare una tonnellata di carbone fossile buono, per ogni tonnellata di lignite cattiva che noi estrarremo dal sottosuolo italiano; producendo per giunta il meraviglioso risultato di sprecare, nella estrazione, capitale e lavoro che avrebbero potuto essere impiegati a produrre qualche altra cosa, che noi avremmo avuto in aggiunta al carbone buono forestiero, e di consumare anzitempo la lignite, la quale, per quanto mediocre, avrebbe potuto tornarci utile nella ricordata occasione di una eventuale futura guerra. Ma, se non si inventava codesto elegante congegno di tenere in vita un’industria a spese dei contribuenti, dove avrebbero dovuto andare a finire le ostriche che si sono attaccate allo scoglio del commissariato combustibili?

 

 

Vi sono altre ostriche che bisogna strappare dallo scoglio a viva forza. Comprendo le esitazioni del ministro del tesoro, animo mite e cortese, nel disfare l’opera del suo predecessore. Ma occorre superare ogni esitazione e strappare con un brusco colpo di tenaglia quei denti cariati che hanno nome Istituto dei cambi, giunta tecnica interministeriale degli approvvigionamenti, comitato per le autorizzazioni agli aumenti di capitale. Sono tre istituti, i quali diventano sempre più perniciosi e fastidiosi. Ogni giorno si sente raccontare qualche novello fasto di questi istituti di guerra, i quali si ostinano a tenere strette in mano le fila della vita economica italiana. Non fu forse negato, a quanto narrano anche qui le cronache, il permesso di importazione chiesto dallo stato medesimo per l’impianto di una centrale telefonica? Al solito, il pretesto fu che non si possono far rialzare i cambi, mandando all’estero la somma necessaria all’acquisto della centrale.

 

 

Intanto l’impianto non può farsi, gli abbonati non crescono, commercianti ed industriali subiscono ritardi nel conchiudere affari; bisogna corrispondere per lettera od andare a piedi ed in carrozza, e perder tempo; la produzione resta frastornata ed arenata. Tutto ciò non conta nel fare il bilancio della produzione e del commercio per le ostriche attaccate all’Istituto dei cambi. Esso è ipnotizzato dall’ascesa temuta dei cambi, la quale oggi non impressionerebbe più nessuno.

 

 

E, mentre gli industriali fanno la spola fra Torino e Roma, fra Milano e Roma, fra ogni centro piccolo e grande d’industria e la capitale, mentre coloro che hanno la responsabilità di far marciare le industrie, dare occupazione a migliaia di operai, sono in ansia per le materie prime che non arrivano, per i permessi di importar carbone domandati da mesi e non ottenuti mai, essi si veggono avvicinare da intermediari senz’arte né parte, da antichi camerieri di caffè, da gente che non ha mai avuto nulla a che fare con quel commercio, i quali offrono pronto permesso di importar carbone o materie prime, purché si paghi l’adeguata provvigione. Sono le inevitabili efflorescenze di un edificio artificioso, come quello che si è andato creando negli anni di guerra. Per il disbrigo delle pratiche occorre l’intermediario, l’uomo usato alle scale ministeriali ed ai corridoi degli uffici. L’industriale operoso, il commerciante affaccendato non ha tempo da perdere per inoltrare carte, per sollecitare pratiche addormentate. Occorre lo specialista.

 

 

Tutto ciò deve essere fatto scomparire. In tempi normali l’industria non può sopportare la noia dei parassiti. Le chiglie delle navi che devono prendere il largo per i lunghi viaggi d’alto mare devono essere ripulite da tutte le incrostazioni che vi si sono andate formando sopra durante i riposi dei porti. Aria, luce e pulizia! Questo è il compito del momento; questi sono i preliminari della ripresa.

 


[1] Con il titolo Faccia il suo mestiere [ndr].

[2] Con il titolo Non impedire la ripresa [ndr].

[3] Con il titolo Via le ostriche dallo scoglio! [ndr].

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