Opera Omnia Luigi Einaudi

Fantasmi illusioni ed eleganze dei debiti pubblici

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1967

Fantasmi illusioni ed eleganze dei debiti pubblici

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 115-153

 

 

 

104. Chi deve pagare? Alla domanda, se si tratta di spese private, che ciascuno delibera dopo maturato il pro della spesa ed il danno della moneta cacciata fuor di tasca, l’uomo della strada deve rassegnarsi a rispondere «io». Quando si tratta di spesa pubblica, ognuno vorrebbe dire: paghi il vicino, paghi l’amico, paghi il nemico, paghi il forestiero. Purtroppo, siccome amici nemici vicini forestieri tentano tutti lo stesso tiro mancino, ci vuol poco a capire che il tiro non riesce. Tentano talvolta i politici di far accettare qualche imposta, ad es. un dazio sulla merce importata dall’estero, fingendo di credere che l’imposta sia pagata dallo straniero venditore. Contra hostes aeterna auctoritas. Nemmeno Bismarck riuscì a darla ad intendere. Le imposte ed anche i dazi bisogna rassegnarci a pagarli noi. Poiché lo straniero che vende il frumento a 80 lire il quintale nel mercato mondiale dovrebbe prelevare sulle 80 lire le 20 o 30 o 50 o 70 lire di dazio di importazione che noi (dico noi per dire un qualunque paese) prelevassimo all’importazione? Perché dovrebbe rimanere con 80 lire meno l’importo del dazio quando altrove può vendere la sua merce ad 80? Farebbe d’uopo che, ridotto alla disperazione, non sapesse cosa farsi del grano; od avesse, vendendo ad 80, un tal margine di guadagno da potersi accollare eccezionalmente un abbuono a nostro favore di 20 o 30 o 50 o 60 o 70 lire. Ma poiché disperato non è, e di solito le merci si vendono con margine normale od almeno si vendono con margine normale le partite marginali e nessuno può essere preso per il collo e costretto a produrre a perdita, se 80 è il prezzo di mercato, tale rimane, con poco spostamento, il prezzo anche dopo il dazio. Se vogliamo aver la merce bisogna alla lunga rassegnarci a pagare 80+60 dazio=140 o se vogliamo averla a meno bisogna ridurre noi il dazio a 30 a 20 od abolirlo affatto. Eccetto casi rarissimi a verificarsi, le nostre imposte ce le paghiamo noi, in casa, ed è impossibile rimbalzarle sui forestieri e sui nemici. Possiamo, è vero, non di rado rimbalzarle sugli amici e sui vicini; ma poiché questi cercano di fare altrettanto con noi, il gioco di scaricabarile poco giova.

 

 

105. Taluno, si opina, è inetto a rinviare la palla all’origine. Il gioco del boomerang non riesce, affermasi, a colui che non è nato ancora, alle generazioni venture.

 

 

Gran parte del favore sottaciuto di cui godono i prestiti pubblici è dovuto alla speranza vaga nutrita dagli uomini viventi oggi di aver scoperto il mezzo con cui fare una bella grossa spesa pubblica e farla pagare a chi è ancora da nascere. Noi avremo la ferrovia o il palazzo municipale o il teatro e ce li godremo; pagheranno i posteri.

 

 

Gran parte della condanna morale lanciata dai politici austeri contro il debito pubblico è dovuta alla convinzione dell’immoralità di godere noi vivi oggi i vantaggi della spesa e di lasciar pagare il conto ai lontani nepoti.

 

 

106. Il debito pubblico non merita davvero tanta lode né tanta infamia. Se ne può dire o bene o male o un po’ bene o un po’ male; ma non a causa della faccenda dei posteri. I posteri c’entrano; ma in modo tutto diverso da quello immaginato dalla credenza comunemente diffusa nel volgo che il debito pubblico sia un trucco per far pagare ai nepoti le spese sostenute dai viventi. Disgraziatamente per i vivi, non esiste nessun mezzo per far pagare una spesa qualunque, grossa o piccola, privata o pubblica, alla gente la quale deve ancor nascere. È incredibile come gli uomini siano incapaci, appena si tratti di fatti collettivi, di veder chiaro negli accadimenti più semplici.

 

 

Ragionando di debiti pubblici, tutti sono persuasi che essi saranno pagati dai nepoti. I critici accusano gli egoisti vivi oggi di lasciare ai venturi l’eredità dolorosa di pagare quanto si è speso e goduto oggi. Nessuno chiede come il miracolo accada.

 

 

107. Se si costruisce una ferrovia dal costo di 100 milioni, Forseché il terreno sarà stato spianato, i terrapieni innalzati, i ponti costruiti, le gallerie forate, le stazioni erette, i binari lanciati con lavoro e con materiale futuro? Mai no. Che cosa è il costo della ferrovia, se non la fatica durata nello spianar terreni, innalzar terrapieni, forar gallerie, costruire ponti, fabbricare traversine rotaie locomotive carrozze e carri? Chi durò quella fatica? I posteri od i viventi? Chi rinunciò alle cose che avrebbe potuto produrre se non avesse durato nella fatica del costruire la ferrovia e dotarla di congruo materiale? I posteri od i vivi? Talun moralista grida contro le guerre osservando che i vivi le fanno e ne ottengono i frutti e i posteri pagheranno lo scotto. Forseché le pallottole con cui furono uccisi e vinti i nemici furono formate con minerale scavato e fuso e messo nei fucili dai nepoti non ancor vivi? Non solo erano vivi gli uomini che sacrificarono la vita per la patria; ma erano attuali i vestiti, i viveri, le munizioni, le armi per cui essi furono in grado di combattere. Gli uomini che dietro i confini difesi faticarono a produrre viveri vestiti armi e munizioni erano bene uomini d’oggi. Con pallottole ancora da fondere, con vestiti da cucire e da tessere, con materia prima ancora da estrarre o far vegetare e crescere, con cannoni ancora da costruire non si conduce nessuna guerra, non si vince nessuna battaglia.

 

 

Non esiste nessun mezzo per far sostenere ai posteri il costo, la fatica, il dolore di nessuna spesa presente. Se noi vivi vogliamo fare una spesa dobbiamo pagarcela noi con i mezzi presenti, dobbiamo volgere a quello scopo i mezzi che sarebbero disponibili per raggiungere altri fini presenti.

 

 

108. Grosso modo, esistono due mezzi soli per sostenere una spesa straordinaria pubblica, suppongasi di 10 miliardi di lire, per attuare, ad esempio, un programma di grandi spese pubbliche o per condurre a termine una guerra nazionale. O gli uomini vivi oggi rinunciamo a 10 miliardi di lire di altri godimenti  o rinunciamo a risparmiare altrettanta somma. Possono ricorrere ad una combinazione qualunque dei due mezzi: 5 miliardi di minori consumi e 5 miliardi di minori risparmi, o 3 e 7, o 7 e 3. Tertium non datur. Temporaneamente chi ha credito all’estero, può allontanare da sé l’amaro calice della scelta o della combinazione, prendendo a mutuo all’estero i mezzi necessari all’impresa pubblica. Ma è un ritardare non un sottrarsi alla decisione. Fra un anno, fra dieci anni bisognerà restituire la somma assunta a mutuo, con gli interessi composti, e bisognerà decidersi a rinunciare a consumi od a risparmi ovvero ad amendue. E decidersi bisognerà durante la generazione presente, perché prestiti a babbo morto per queste cose grosse è impossibile ottenerne. Se si ottengono, bisognerà rassegnarsi a pagare interesse più alto, a compenso del rischio che i posteri rifiutino di accollarsi il debito degli avi. Talvolta il debitore riesce a imbrogliare il creditore e fallisce;[1] ma ciò, se tranquillizza i posteri, non salva i viventi. La spesa presente invece di essere sopportata dai viventi nazionali cade sui viventi stranieri. Ma in ogni caso si tratta di viventi.

 

 

Col rinunciare a 10 miliardi di altri consumi privati o pubblici, gli uomini vivi oggi liberano il capitale e il lavoro prima impiegato a produrre merci e derrate di consumo immediato. Capitale e lavoro possono indirizzarsi a produrre armi e munizioni, viveri e vestiti per i soldati. Col rinunciare a risparmiare 10 miliardi, gli uomini rinunciano a indirizzare i loro sforzi a produrre case per abitazione privata, migliorie agricole, stabilimenti industriali atti a produrre poi merci di consumo privato. Capitale e lavoro, specializzati nel produrre questi che si possono chiamare beni di risparmio, beni strumentali privati, oggi saranno utilizzati nel produrre viveri e vestiti, armi e munizioni per i soldati. Il quadro della distribuzione del reddito nazionale muta così:

 

 

Reddito impiegato

 a produrre

in tempo

di pace

in tempo

di guerra

 

Beni di consumo privato

65

60

Beni di consumo pubblico

15

15

Beni strumentali[2]

20

15

Beni di consumo bellico

10

 

100

 

100

 

 

Il reddito nazionale non muta; ma è indirizzato diversamente. Gli uomini dietro la trincea consumano meno e risparmiano (costruiscono per consumi futuri) meno a propria gratificazione privata; e consumano di più per lo scopo della vittoria.

 

 

Ma si consumava e si risparmiava prima con beni presenti, si consuma si risparmia e si combatte dopo con beni ugualmente presenti. Il futuro non entra e non può entrare sulla scena dell’azione presente.

 

 

109. Il trapasso dal tempo di pace al tempo di guerra non si opera senza fatica, senza attrito. Non è facile spostare capitale e lavoro dal produrre cravatte a produrre panno grigio verde, dal fabbricare aratri al fabbricare cannoni. Ma la vittoria dipende anche dalla attitudine maggiore o minore a spostarsi. Un popolo malleabile elastico riesce meglio di un altro irrigidito e pesante. A che giova la mobilitazione industriale per la guerra se non a preparare in tempo di pace il trapasso dalla produzione di pace a quella di guerra col minimo attrito possibile?

 

 

110. I posteri che cosa ci stanno a fare nel quadro? Niente, salvo godere della fortuna o delle buone opere o soffrire degli insuccessi o della mala condotta dei loro antenati. Nella misura nella quale i vivi d’oggi sostennero le spese di guerra rinunciando a consumi presenti (nello schema di sopra per 5 miliardi) i posteri non risentiranno nessuna conseguenza economica della guerra. Fino a concorrenza di 5 miliardi la spesa fu sostenuta mercé stringimento di cintola dei vivi d’oggi. I venturi narreranno ai loro figli dei sacrifici dei loro avi, e il ricordo sarà cagion di giusto orgoglio. Nella misura nella quale i vivi d’oggi diminuiscono i loro risparmi (riducendoli, ad esempio da 15 a 10 miliardi), i vivi d’oggi incrementano d’altrettanto meno il loro patrimonio; ed i venturi non riceveranno in eredità l’incremento che non ci fu. E che perciò? Basta ciò a concludere che le spese della guerra sono pagate dai non nati? A questa stregua costoro avrebbero diritto di istituire processo contro i loro genitori per chiedere conto dell’uso dei loro redditi e proclamarsi defraudati se ad essi paresse di non aver ricevuto non solo tutta l’eredità avita ma anche in aggiunta un congruo incremento fornito dai genitori. Ogni generazione riceve quel che può dalle precedenti. Può dispiacere ai figli di non essere così ricchi come speravano; ma non perciò possono dire di avere fatto essi le spese dei fini che i genitori vollero conseguire.

 

 

111. Può accadere che la spesa sostenuta sia così alta da intaccare, coi consumi e col risparmio, anche il patrimonio. Nemmeno in tal caso si può dire che la spesa sia rimbalzata sui posteri:

 

 

Reddito impiegato a produrre

in tempo

di pace

in tempo

di guerra

 

Beni di consumo privato

65

40

Beni di consumo pubblico

15

10

Beni strumentalia) per ricostruzione degli impianti esistenti(quote di ammortamento)

 

10

b) per nuovi investimenti (risparmio nuovo)

10

Beni di consumo bellico

100

50

100

 

 

La guerra fu dura. Richiese sforzo sovrumano. Gli uomini dovettero ridurre da 65 a 40 miliardi i consumi privati, da 15 a 10 i consumi pubblici ossia le spese statali ordinarie: rinunciare interamente al risparmio ossia ad aumentare l’attrezzatura nazionale in beni strumentali (case nuove, migliorie di terre, macchinari) per dedicare tutti i loro sforzi a produrre i beni necessari alla condotta della guerra. Non bastò nemmeno rivolgere alla guerra quanto più cospicua parte potevano del reddito corrente. Se avessero speso solo il margine esistente entro il reddito del periodo, poiché questo era di 100 miliardi, avrebbero avuto un margine per la condotta della guerra di soli 45 miliardi. La guerra sarebbe stata perduta. La partita è decisa dagli ultimi mezzi e dagli ultimi uomini. Gli uomini si decisero ad intaccare il capitale. Ma le terre, le case, le macchine esistenti non servono all’uopo. Non è possibile fisicamente trasformare una casa in un cannone. Quel che si può trasformare è lo sforzo destinato a «conservare» la casa il terreno la macchina ed a rinnovare quel che si logora. Ogni anno per mantenere in buon essere il capitale esistente gli uomini nel tempo di pace facevano uno sforzo valutato 10 miliardi di lire. Rinunciano a fare quello sforzo e dedicano il tempo, il lavoro e gli strumenti resi così liberi a produrre febbrilmente quel che manca a tenere accesa la fornace ardente della guerra. Alla fine dell’anno, il patrimonio antico si è logorato e vale 10 miliardi di meno. Destinavano 10 miliardi a risparmio nuovo, ossia ad aumentare l’attrezzatura agraria, industriale e commerciale del paese; ed oggi tralasciano del tutto gli investimenti nuovi.

 

 

L’eredità abbandonata ai posteri sarà, è vero, diminuita di questi 10 miliardi di lire e non sarà cresciuta di altrettanto per la mancanza di nuovi investimenti. Forseché essi potranno dire perciò di aver sostenuto l’onere della guerra? No; la fatica fu durata dai vivi lungo gli anni dal 1915 al 1918. Essi preferirono ridurre il proprio patrimonio di 10 miliardi e non crescerlo di altrettanto, come solevano, piuttostoché soccombere. I figli ed i nepoti erediteranno 10 miliardi di meno ed insieme i frutti della vittoria o il ricordo della resistenza gloriosa. Nessuno osi trasformare una realtà che è bella in un sofisma volgare.

 

 

112. Il contrasto è un altro: non quello immaginato volgarmente fra generazione attuale e generazione futura; ma quello fra imposta e debito come mezzi per sopperire oggi ad una spesa dell’oggi. La scienza economica ha studiato questo problema e vi ha gettato in copia fasci di viva luce.[3] Uno dei capitoli più affascinanti e sotto certi rispetti più paradossali della scienza finanziaria tratta del contrasto fra debito ed imposta e delle illusioni ottiche del debito pubblico. Non voglio ripetere quei trattati; ma dar rilievo a paradossi e ad illusioni ottiche.

 

 

113. Supponiamo che la spesa straordinaria da sostenere nel tempo considerato (ad es. l’anno) sia di 10 miliardi di lire. È preferibile prelevare i 10 miliardi con una imposta straordinaria o col prestito?

 

 

Supponiamo che, per la quota che dell’una o dell’altro gli spetti, la scelta si presenti a Tizio sotto la forma seguente: pagare 100.000 lire una volta tanto a titolo di imposta straordinaria ovvero 5.000 lire all’anno in perpetuo di imposta annua periodica necessaria a fare il servizio di un prestito in rendita perpetua 5% di 100.000 lire che lo stato contrasse con chi possedeva risparmio disponibile. Se il patrimonio di Tizio era di 1 milione

 

 

a)    l’imposta straordinaria di 100.000 lire glie lo riduce a 900.000 lire;

 

b)    ovvero l’obbligo di pagare in perpetuo 5.000 lire di imposta annua riduce il reddito di Tizio da 50.000 lire (quanto presumibilmente fruttava il capitale di 1 milione) a 45.000 lire. Ma se un reddito di 50.000 lire annue dava luogo ad una valutazione patrimoniale di 1 milione, un reddito di 45.000 lire dà luogo ad una valutazione di 900.000 lire.

 

 

Tizio perde un decimo del suo patrimonio, qualunque sia il mezzo, imposta o debito, scelto dallo stato per far fronte alla spesa straordinaria. La perdita è sostenuta da lui, subito, prima che dai posteri, i quali potranno lamentarsi solo di ricevere in eredità un patrimonio di minor valore di quello sperato. Il mezzo scelto è per Tizio indifferente.

 

 

La dimostrazione dicesi di Davide Ricardo, e, nonostante la vociferazione ultra secolare, sta ferma come torre che non crolla.

 

 

114. Nello stato non ci sono tuttavia soltanto dei Tizii. Ci sono anche dei Caii, i quali non hanno patrimonio. Costoro vivono del loro lavoro. Supponiamo che ad uno di costoro sia offerta la solita scelta tra pagare subito 100.000 lire a titolo di imposta straordinaria una volta tanto, ovvero 5.000 lire l’anno a titolo di imposta annua necessaria per fare il servizio del prestito di 100.000 lire che lo stato contrasse ecc. ecc. come sopra. Facciamo astrazione dalla circostanza che Caio non possiede le 100.000 e dovrebbe ricorrere ad un atroce strozzino per accattarle a mutuo, pagando 10 o 15.000 lire all’anno per interessi. Supponiamo, per assurdo, che egli trovi l’amico voglioso di dargliele a mutuo al 5%. È evidente che, anche in questo caso favorevolissimo, a Caio conviene l’alternativa del debito pubblico. Se egli infatti preferisce di pagare subito a titolo di imposta straordinaria 100.000 lire, egli rimarrebbe obbligato verso l’amico a pagare 5.000 lire all’anno di interessi ed a rimborsargli le 100.000 lire. Egli ha amici devoti perché è uomo d’onore (altrimenti dovrebbe ricorrere agli strozzini e sarebbe peggio per lui); e come tale, rimborserà capitale e pagherà interessi. L’imposta straordinaria gli infligge dunque un danno di effettive 100.000 lire. Se invece lo stato ricorre al debito, a lui basta pagare 5.000 lire all’anno d’imposta sinché vive, o, meglio, sinché dura la sua vita produttiva. È egli giovane ed ha speranza di pagare imposte, perché guadagna, per 50 anni? Pagare 5.000 lire all’anno per 50 anni, equivale, se si applica un saggio di sconto del 5%, a pagare oggi 91.270 lire. È egli anziano ed ha speranza di lavorare e pagare imposta per soli 10 anni? Pagare 5.000 lire all’anno per 10 anni equivale, ad ugual saggio di sconto, a pagare oggi 38.690 lire. In ogni caso è sempre meglio che pagare 100.000 lire. Il lavoratore, il professionista preferisce che lo stato ricorra al debito pubblico, cerchi i mezzi dove li può trovare e riparta su di lui solo l’onere annuo degli interessi. Così la pensano, coi professionisti, anche, in generale, gli industriali, i commercianti, gli agricoltori, ed insieme i proprietari di case e di terreni privi di capitale disponibile, per i quali il provvedere subito 100.000 lire riesce oneroso ed invece è meno costoso pagare 5.000 lire all’anno.

 

 

115. C’è, qui, scarico sulle generazioni future? Il professionista anziano che pagò solo 5.000 lire all’anno per 10 anni e così, a valore attuale, 38.690 lire non abbandona forse al professionista della generazione seguente ed anzi ai professionisti di tutte le generazioni seguenti l’onere di seguitare a pagare 5.000 lire l’anno in perpetuo per fare il servizio del debito?

 

 

Cotesti venturi non sono forse così assoggettati all’onere di pagare allo stato le restanti 61.310 lire, mancanti a compiere le 100.000 lire che furono oggi necessarie allo stato?

 

 

Ricordiamo sempre il punto di partenza: la spesa deve essere in ogni caso sostenuta con mezzi presenti. La generazione presente non può esimersi in nessun caso dal sopportare lo sforzo, tutto lo sforzo necessario a coprire le spese della guerra. Sotto colore di contrasto fra i due metodi dell’imposta straordinaria e del debito pubblico (ossia, ricordiamo ancora e sempre: fra imposta straordinaria ed imposta annua per fare il servizio degli interessi ed, occorrendo, dell’ammortamento del debito), si vogliono raggiungere due fini:

 

 

a)    ridurre al minimo il costo supplementare oltre quello proprio della guerra. Se si sceglie il metodo del debito, il professionista pagherà solo 5.000 lire all’anno, lui per 10 anni e qualcun altro per il resto del tempo, lui 38.690 lire di valore attuale e qualcun altro 61.310 lire. Lo stato assumendo a mutuo le 100.000 lire da chi le possedeva disponibili, offrendo la sua garanzia, ha ridotto al minimo del 5% annuo il costo dell’operazione. Se invece si sceglie il metodo dell’imposta straordinaria, il professionista deve, oltre alle 100.000 lire allo stato, pagare il costo dello strozzinaggio al prestatore del denaro, altre 50 o 100 mila lire e forse più che egli deve aggiungere in pura perdita al costo della guerra. La scelta non è dubbia;

 

b)    ridurre al minimo, anche per i figli, le conseguenze della spesa sopportata oggi.

 

 

116. Se si sceglie il metodo dell’imposta straordinaria, il professionista che deve pagare subito le 100.000 lire e non le ha, deve subire le forche caudine dello strozzino. Costui, che veramente oggi sopporta le spese della guerra, innalzerà talmente il saggio dell’interesse da assicurarsi il rimborso della somma mutuata durante la vita del mutuante. Il professionista suderà sangue e pagherà. Se l’uno non pagherà, in vece sua pagherà l’altro dei professionisti debitori dello strozzino. Costui si farà rimborsare dai vivi, ben sapendo che i figli non hanno obbligo di pagare i debiti del padre morto nullatenente, quali per ipotesi qui si suppongono essere i professionisti. I figli saranno danneggiati dall’imposta poiché il genitore assillato dai rimborsi allo strozzino, ha risparmiato proporzionatamente meno.

 

 

117. Se si sceglie il metodo del debito, l’onere attuale della guerra è sopportato tutto oggi dal sottoscrittore del prestito pubblico. Per farsi rimborsare, costoro iscrivono una specie di ipoteca perpetua di 5.000 lire (ovvero multiplo o sottomultiplo) all’anno sui redditi di ognuno dei professionisti presenti e venturi. I vivi oggi sono meno assillati dal debito pagando solo 5.000 lire all’anno, laddove coll’imposta straordinaria avrebbero pagato 15 o 20 mila lire, somma necessaria per ammortizzare in 10 o 20 o più o meno anni il prestito ottenuto dallo strozzino al 10%. I venturi debbono continuare a versare, attraverso lo stato, ai prestatori pubblici 5.000 lire all’anno in perpetuo. Il danno non significa però che le spese della guerra siano rimbalzate su di essi. Vuol dire che essi patiscono o godono le conseguenze della situazione in cui si sono trovati i loro genitori di non essere o di essere stati in grado di garantire ai prestatori del denaro il rimborso delle 100.000 lire anticipate per le spese della guerra. Se avessero dovuto pagare separatamente uno per uno le 100.000, ognuno avrebbe contrattato con lo strozzino proprio ed avrebbe fatto la mala vita, logorando la propria salute, rinunciando ad ogni risparmio e lasciando i figli sotto educati e miserabili. Riunendosi, attraverso lo stato, in una specie di consorzio obbligatorio, essi hanno ridotto al minimo, al puro interesse del 5% senza quota di rischio, l’onere del mutuo ottenuto collettivamente (debito pubblico) dai prestatori; hanno potuto educare i figli, forse hanno accumulato qualche risparmio. In complesso i figli stanno meglio se debbono pagare 5.000 l’anno che se non devono pagar nulla. Anche se si tiene conto che non tutti hanno figli e che perciò i figli della generazione attuale prolifica sopporteranno le conseguenze non solo del peso gravante sui loro genitori ma anche di quello gravante sugli improli, pare convenga ai figli appartenere ad una collettività, nella quale gli improli hanno sentito la solidarietà coi prolifici; ereditare dai genitori proprii e da quelli improli l’onere del servizio del debito totale, ma essere stati educati convenientemente ed aver ricevuto qualche eredità di risparmio, piuttostochè essere sciolti bensì da impegni verso gli strozzini che assillarono i padri, ma essere contemporaneamente decaduti aduna situazione sociale deteriore per mancata educazione e per non avvenuto risparmio.

 

 

118. Anche nell’ipotesi dei contribuenti provveduti solo di redditi di lavoro, di tutte la più favorevole alla tesi che il debito pubblico sia uno strumento per rimbalzare l’onere delle spese di guerra sulle generazioni venture, è vero dunque che:

 

 

a)    l’onere attuale della spesa è sopportato dalla generazione presente dei prestatori di denaro allo stato;

 

b)    l’onere della generazione presente dei professionisti verso i prestatori pubblici è un minimo;

 

c)    il danno delle generazioni venture dei professionisti, nel caso del debito pubblico, è pur esso un minimo, sempre in confronto dell’onere e del danno nell’ipotesi di imposta straordinaria.

 

 

119. Il vero contrasto non è fra imposta straordinaria e debito pubblico. Questi sono pretesti, formule verbali attraverso a cui si decide un altro problema: chi debba pagare l’imposta. I contendenti credono o fanno finta di battagliare pro o contro il debito. In verità battagliano pro o contro uno od altro tipo d’imposta.

 

 

120. Se si sceglie l’imposta straordinaria ed il contribuente è chiamato a pagare 100.000 lire una volta tanto, salta all’occhio di tutti che la somma da pagare è grossa. Salta all’occhio altresì che le somme grosse non possono essere pagate che dai grossi. Si può chiedere 100.000 lire a chi possiede un milione di lire. È già molto, perché di solito il milionario è tale in case, terreni, imprese industriali, titoli, non in denaro contante pronto ad essere dato via. Non si possono chiedere grosse somme a chi possiede 100.000 o 200.000 lire. Lo si ridurrebbe alla disperazione. Dunque bisogna incominciare in alto, ossia, ancora, avendo meno terreno tributario da sfruttare, procedere innanzi rapidamente nella scala delle richieste il 10% a chi possiede un milione, il 20% a chi possiede 2 milioni, il 30% a chi ne possiede 3 e così via. Poiché i ricchi sono pochi, se si vuole incassare abbastanza, fa d’uopo gravare la mano.

 

 

Se invece si ricorre al debito pubblico, quel Tizio, a cui si sarebbe chiesto 100.000 lire una tantum, è chiamato a versare 5.000 l’anno in perpetuo. Sono anch’esse una somma egregia, sono la stessa cosa di 100.000 in una sola volta. Però fanno meno impressione: 5.000 lire si possono chiedere non solo a chi ha 50.000 lire all’anno di reddito (l’equivalente di un milione in capitale), ma anche a chi ha 40.000 od anche 30.000 lire. Non pare che caschi il mondo, se si deve pagare un sesto del reddito. Un decimo del patrimonio è cosa grossa, perché il patrimonio, si pensa, è già entrato nel possesso del contribuente, è già cosa sua; e parrebbe di tagliare carne viva sul suo corpo. L’imbarazzo a pagare è grande; bisogna vendere una casa od ipotecarla. Invece le 30.000 lire di reddito non sono ancora entrate in possesso del contribuente. Entreranno a poco a poco. Sono un flusso di beni, di cedole, di fitti, di derrate. Sono denaro o sono facilmente convertibili in denaro. Il contribuente può pagare più facilmente. Avrei certamente scritto invano se il lettore non fosse oramai persuaso che il reddito e capitale sono la stessa cosa e che la distinzione fra i due concetti è un’illusione ottica. Ma l’uomo vive di illusioni, e la finanza deve fare i conti con esse. E certo che, psicologicamente, il metodo del debito, chiedendo ai contribuenti solo 5.000 lire l’anno (ovvero multipli o sottomultipli) consente di cominciare, a parità di spesa, a far pagare l’imposta prima da 30.000 invece che da 50.000 di reddito. Chi comincia a tassare più dal basso può mietere su campo tributario più vasto. Le fortune e i redditi sono distribuiti a trottola: in basso i pezzenti il cui reddito non conta; poi i meno miserabili, con reddito tenue. La trottola diventa panciuta, in corrispondenza ai redditi da salario di lavoratore ordinario che danno il grosso come numero e come massa; poi va via via restringendosi per finire in punta ai redditi altissimi, pochissimi come numero e sottili per entità totale di reddito. Quanto più si comincia in basso, tanto meno è necessario andar su rapidamente colle aliquote dell’imposta. La scala delle aliquote può svolgersi con lentezza e rimanere entro limiti moderati.

 

 

Conclusione: l’imposta straordinaria di 100.000 lire (o multipli e sottomultipli) una tantum è preferita dai poveri e dai mediocri che sperano di non pagarla e di far gravare tutto l’onere sui ricchi; il debito pubblico, ossia le 5.000 lire (o multipli e sottomultipli) l’anno è preferito dai ricchi, i quali sperano siano così chiamati a contribuire anche i semplicemente agiati od i mediocri e di non rimanere perciò i soli eletti.

 

 

121. C’è altro da dire. L’imposta straordinaria di 100.000 lire può essere chiesta a chi possiede qualcosa, ha un patrimonio, liquido od illiquido non monta, che paia atto a pagare. Come farla pagare al lavoratore puro, il quale possiede solo braccia o testa? Perciò l’esperienza prova che le imposte straordinarie sono per lo più patrimoniali, e lasciano immuni i redditi di lavoro, di professione, di impiego.

 

 

Invece, l’imposta delle 5.000 lire l’anno necessarie per fare il servizio del debito grava solitamente il reddito; non solo i redditi di capitale, ma anche quelli di lavoro. Il professionista, il quale non ha le 100.000 lire per solvere l’imposta straordinaria, può prelevare sul reddito dell’anno le 5.000 lire necessarie per il servizio del debito.

 

 

Conclusione: il metodo dell’imposta straordinaria è preferito dai contribuenti provveduti di reddito di lavoro, perché essi sperano in tal modo di far pagare tutta la spesa ai capitalisti; e, inversamente, il metodo del debito pubblico è preferito dai capitalisti, i quali sperano siano in tal modo chiamati a contribuire all’onere della spesa anche i lavoratori, impiegati e professionisti.

 

 

L’imposta straordinaria, aggiungasi, rimane fissa nel suo importo di 100.000 lire determinato in rapporto alle condizioni di fortuna o di reddito del contribuente in un dato momento, suppongasi il 1° gennaio del 1920 o del 1940. Anche se il pagamento del tributo sia distribuito su un certo numero di anni, la somma da pagare non muta. Il contribuente può dopo l’1 gennaio del 1920 o del 1940 salire o scendere lungo la scala delle fortune e dei redditi ed il tributo riman fisso in 100.000 lire.

 

 

Invece il servizio del debito di 100.000 lire contratto dallo stato, suppongasi 5.000 lire di interessi perpetui, è fatto con imposte distribuite anno per anno sui redditi ottenuti dai contribuenti in ogni anno successivo. Chi sale paga maggior imposta; chi scende paga di meno; chi cade in povertà non paga più nulla.

 

 

Perciò l’imposta straordinaria è, a parità di ogni altra condizione, preferita da chi sale e, tutto il maggior reddito rimanendo immune da quel carico, è stimolo a salire. Il metodo del debito è preferito invece da chi teme di discendere.

 

 

122. La conseguenza logica del fin qui raggiunto sarebbe un evviva il debito pubblico ed abbasso le imposte straordinarie! Anzi anche abbasso le imposte ordinarie! Se il debito è, in verità, tanto meno costoso e più comodo dell’imposta straordinaria, perché non anche dell’imposta ordinaria? I ragionamenti fatti per l’una valgono filati per l’altra.

 

 

Ecco: nella scienza economica i ragionamenti sono sempre validi fino ad un certo punto. La scienza economica non discorre delle quantità all’ingrosso, nella loro totalità. Gli economisti del tempo di Smith e di Ricardo i quali ragionavano in toto ad un certo momento perdevano il latino. Non sapendo come cavarsela parlavano di paradossi. Le cose hanno valore perché sono utili; ma se una cosa utile è in gran copia, il valore scema e ad un certo punto, come per l’aria, il valore diventa zero. Paradossi, eccezioni, sotto – eccezioni. Marx deve scrivere un secondo e un terzo volume per spiegare come qualmente non accada che il valore delle cose sia dato dal lavoro che ci si è consumato sopra; e più scrive più si imbroglia. La grande scoperta del secolo passato, conosciuta sotto il nome di Gossen – ma potremmo risalire a Galiani – fu nell’aver visto che i fenomeni economici non procedono per masse totali, ma per aggiunte successive. Dosimetria e marginalismo furono le chiavi le quali svelarono i misteri del prezzo delle merci, le leggi del salario, degli interessi, delle rendite, dei profitti.

 

 

123. Direi che lo stesso modo di ragionamento possa essere utile nelle cose finanziarie. Se si parte dalla premessa che in un dato paese i contribuenti paghino ogni anno normalmente 20 miliardi di lire d’imposta – su 100 miliardi, ad ipotesi, di reddito nazionale – per far fronte ai 20 miliardi di spese ordinarie, ogni anno ripetute; e se sorge la necessità di una spesa straordinaria, destinata a non ripetersi poi, di 1 miliardo di lire, è ragionevole discutere se a quel miliardo sia più conveniente provvedere con una imposta straordinaria una tantum di 1 miliardo ovvero col debito, ossia coll’aumento delle spese annue (per interessi del debito nuovo) da 20 miliardi a 20 miliardi e 50 milioni di lire e correlativo aumento delle imposte annue da 20000 a 20050 milioni. Discuteremo e decideremo a seconda delle considerazioni fatte sopra e di altre che per esigenza di spazio non ho potuto enunciare.

 

 

Sarebbe però ragionevole porre il medesimo quesito non per l’aggiunta straordinaria di spesa di 1 miliardo di lire, ma per la massa totale delle spese ordinarie di 20 miliardi? La biscia morderebbe ben presto il ciarlatano che così ragionasse. Il primo anno i contribuenti farebbero gran salti di gioia, perché lo stato provvede a tutti i 20 miliardi di spese ordinarie con un prestito emesso un po’ per volta, in media a mezz’anno. Nel secondo anno lo stato farebbe nuovi debiti per 20 miliardi, più esattamente per 20050 milioni e farebbe pagare solo 1002,5 milioni di imposte per fare il servizio del debito del primo anno. A dire la verità, se il ragionamento è valido per i 20 miliardi perché non per i 1002,5 milioni di interessi, che sono una spesa ordinaria come il resto? La situazione diventerebbe ben presto assurda. A furia di indebitarsi, lo stato non troverebbe più credito, se non a misura di strozzinaggio. Gli interessi si accumulerebbero sugli interessi e ben presto supererebbero da soli i 20 miliardi originari di spesa ordinaria.

 

 

Il ragionamento che fa preferire il debito all’imposta è dunque un ragionamento di margine, valido per gli incrementi di spesa per cui è certo non trattarsi di spesa ordinaria, anzi è certo trattarsi di spesa così eccezionale da non esservi probabilità di vederla riprodursi per qualche generazione.

 

 

124. Ed è valido anche subordinatamente, oltreché ad altri fattori, di cui qui non è possibile discorrere, massimamente alla clausola del coeteris rebus sic stantibus. Che è clausola usata da tutti gli economisti, non foss’altro perché, a non usarla, non si conclude nulla; ed è anche usata bene, purché dal ragionamento condotto col suo sussidio non si traggono conseguenze concrete ultra vires, dimenticandosi cioè di quel terribile coeteris sic stantibus.

 

 

125. Dirò di una sola delle altre cose le quali dovrebbero star ferme – e non stanno – perché il ragionamento ora fatto potesse considerarsi pienamente valido; ed è l’ammontare della spesa straordinaria. Ragionando, sempre dissi: supponiamo di dover far fronte ad una spesa straordinaria, ad ipotesi, di 1 miliardo di lire. La spesa era il dato di fatto, il punto di partenza fisso. Si discuteva solo se provvedervi coll’imposta straordinaria o col debito. Ma è fisso quel dato? E cioè quel dato non dipende anche, per la sua misura, dalla scelta che noi faremo dell’imposta o del debito, come mezzo per provvedere ad esso? Si può ragionare bene se non si tiene conto delle altre cause di variazione del dato di partenza; perché queste variazioni si sarebbero ugualmente verificate qualunque fosse la scelta da noi fatta e lasciano invariata la bontà di essa. Ma non possiamo fare astrazione dai mutamenti nell’ammontare della spesa, che furono la conseguenza dell’aver noi scelto piuttosto un metodo che l’altro di sopperimento.

 

 

126. Lascio parlare in proposito Adamo Smith:

 

 

Poiché la spesa ordinaria della maggior parte dei governi moderni in tempo di pace è uguale o pressoché uguale alle entrate ordinarie, essi sono allo scoppio di una guerra nel tempo stesso poco propensi e incapaci ad aumentare le entrate in proporzione alle spese. Essi non vogliono [crescere le imposte] per timore di guastarsi col popolo, il quale si alienerebbe ben presto dalla guerra, se fosse soggetto ad un aumento così grande e improvviso di imposte; e non possono, perché ignorano quali imposte basterebbero a fornir loro l’entrata di cui abbisognano. Il comodo di far prestiti li libera dall’imbarazzo che sarebbe altrimenti cagionato dal timore e dall’incapacità. Per mezzo di prestiti, essi sono messi in grado, con un moderato aumento di imposte, di ottenere anno per anno denaro sufficiente per condurre la guerra e con la pratica dei consolidamenti perpetui riescono, col minimo aumento possibile di imposte, a provvedersi ogni anno della quantità massima di mezzi pecuniari. Nei grandi imperi, coloro i quali vivono nella capitale o nelle province remote dalla scena dell’azione a mala pena risentono, i più di essi, qualche inconveniente a causa della guerra; e godono, con tutto comodo, il divertimento di leggere nei giornali i fasti delle flotte e degli eserciti. Il divertimento compensa la piccola differenza fra le imposte pagate a causa della guerra e quelle che essi erano abituati a pagare in tempo di pace. Per lo più essi sono malcontenti del ritorno della pace, il quale pone termine al loro diletto e alle mille speranze visionarie di conquiste e di gloria nazionale che sarebbero state il frutto della continuazione della guerra (Wealth of Nations, libro V, capo III).

 

 

Molte cose sono cambiate dopo l’anno (1776) nel quale Adamo Smith scriveva. L’abolizione degli eserciti mercenari, fra l’altro, ha tolto di mezzo l’indifferenza con la quale i civili leggevano un tempo le notizie delle battaglie lontane. Tutti hanno il figlio, il padre, il fratello, il marito, il fidanzato in trincea. Resta la diversa influenza psicologica del prestito e dell’imposta sulla volontà di decidersi ad una impresa costosa, sia di guerra che di pace. Moralmente, fra i due tipi di deliberazione vi è un abisso. Il cliente a cui il bottegaio fa credito acquista a cuor leggero e va in rovina. Se si deve pagar subito, si riflette e si delibera dopo matura ponderazione delle ragioni favorevoli e contrarie. Per cinquant’anni gli abitanti di un comune rurale piemontese si agitarono per ottenere una derivazione di acqua per irrigazione. Importunarono consiglieri provinciali senatori deputati prefetti ministri. Quando il sospirato decreto giunse; ma una clausola avverò che i contribuenti avrebbero dovuto pagare un quarto della spesa, le case non furono illuminate. Il comizio, che subito si radunò, invece di votare azioni di grazie agli uomini pubblici i quali avevano dato opera al trionfo della causa, votò un ordine del giorno, nel quale erano dimostrati i danni che l’acqua avrebbe recato alle terre del luogo, le cui culture repugnavano alla irrigazione. Il canale non fu costrutto e l’acqua non venne. A far ravvedere gli agricoltori era bastata la sensazione di dover pagare anche solo la quarta parte del costo dell’opera invocata.

 

 

127. Contro i ragionamenti, i quali dimostrano i vantaggi economici del metodo del debito in confronto a quello dell’imposta straordinaria sta dunque la ragion morale. La deliberazione di chi si illude, ricorrendo al debito, di non pagare, non è seria e grave come debbono essere tutte le deliberazioni di pubblica spesa. Non monta che la speranza di non pagare, grazie al debito, sia illusione. L’illusione agisce al paro e forse più della realtà. L’immoralità produce il danno economico. Quel metodo del debito pubblico, il quale sarebbe stato vantaggioso se la spesa straordinaria fosse stata contenuta entro i suoi limiti necessari di 1 o di 10 miliardi, diventa gravoso se, per la leggerezza di condotta provocata dal debito, la spesa cresce da 1 ad 1,5, da 10 a 15 miliardi di lire.

 

 

128. L’uomo di stato, il quale deve risolvere il problema complesso di raggiungere il fine servendosi dei metodi più economici (debito) e nel tempo stesso deve assicurarsi che il suo popolo senta profondamente l’importanza dell’impresa a cui è chiamato e deliberi su di essa con maturo giudizio (imposta straordinaria) segue probabilmente una via di mezzo: ricorre all’imposta straordinaria pagata subito quanto basti a persuadere le genti che l’impresa richiede sacrificio attuale sopportato dai viventi d’oggi e per il resto ricorre al debito. Quale sia la proporzione ottima da serbarsi fra la morale imposta straordinaria e l’economico debito pubblico non può essere determinato da nessuna regola scientifica. L’esperienza dell’uomo di stato intorno all’indole del suo popolo, alla distribuzione della sua ricchezza, all’altezza dei gravami tributari già esistenti, al mercato dei titoli pubblici gli è guida nel risolvere concretamente il problema.

 

 

129. L’uomo d’onore, che ha assunto un debito, pensa a restituirlo puntualmente all’ora stabilita. Glie lo consiglia, oltreché l’onore, anche l’interesse. Se egli vuole conservare credito per l’avvenire, occorre rimborsare i debiti passati. L’ideale dell’uomo è di rimborsare i prestiti contratti per ragioni di famiglia, divisioni ereditarie, di imprese iniziate e ingrandite, di migliorie agricole od edilizie. Alquanti uomini riescono sul declinar degli anni a toccare la meta.

 

 

Anche gli stati pensano ad estinguere, rimborsandoli, i prestiti. Quasi sempre essi onorano la promessa e rimborsano alla scadenza od a rate annue, per ammortamento, i prestiti contratti con la clausola del rimborso. Nessun creditore può, individualmente, lamentarsi di fede non osservata.

 

 

Accade però, altrettanto universalmente, che nessuno stato riduce l’ammontare «complessivo» del suo debito pubblico. Il tale prestito pubblico può bensì ridursi, per ammortamento graduale ordinario, da uno a mezzo miliardo o magari annullarsi. La cassa di ammortamento può ridurre i debiti vecchi da 100 a 25 miliardi. Nel frattempo lo stato ha emesso nuovi prestiti ed il «totale» del debito pubblico è cresciuto a 120 miliardi. Gli stati i quali in passato riuscirono a ridurre il debito «totale» sono siffattamente pochi e la riduzione fu, anche in quei casi d’eccezione, fatto così transitorio, che non val la pena neppure di ricordarli. Il fatto generale nel tempo e nello spazio è l’aumento «progressivo» del debito pubblico.

 

 

130. Un altro fatto altrettanto universale è il mancato verificarsi delle lugubri profezie delle Cassandre, le quali di tempo in tempo predissero la rovina delle nazioni in conseguenza del crescere del debito pubblico. Al chiudersi di ogni grande guerra le Cassandre predissero la fine del mondo, la rovina dell’economia, la distruzione del patrimonio nazionale in conseguenza del crescere del debito pubblico. Si potrebbe compilare una antologia di profezie catastrofiche. Non accadde nulla. Di secolo in secolo, il totale dei debiti crebbe a cifre che ai contemporanei apparivano astronomiche ed incutevano terrore. I popoli ogni volta dissero: felici i nostri antenati il cui debito pubblico era così piccolo! Non saremo noi schiacciati da quello che ora ci opprime? Parlarono così quando le cifre si aggiravano sui milioni, e poi sul miliardo e poi sulla decina di miliardi. Ora si discorre di centinaia di miliardi e a solo pronunciare quelle cifre i più restano terrorizzati. Forse i nostri figli e i nostri nipoti rabbrividiranno a sentir parlare di migliaia di miliardi e considereranno stranamente esagerate le nostre preoccupazioni per debiti dell’ordine di grandezza di appena le centinaia di miliardi!

 

 

131. In parte lo svanire delle preoccupazioni antiche deriva dal mutamento dei termini di confronto. 100 milioni sembrano una cifra grossa quando gli abitanti di un paese sono 1 milione; diventano irrilevanti se gli abitanti crescono a 40 milioni. Se il reddito nazionale annuo (somma dei redditi di tutti gli abitanti del paese) è di 100 milioni, l’onere di 5 milioni annui di interessi su un debito di 100 milioni è apprezzabile. Se il reddito nazionale cresce a 100 miliardi, lo stesso onere di 5 milioni a mala pena si avverte. Così i debiti antichi un po’ per volta impallidiscono. Quel che era apparso un incubo agli occhi di bove dei nostri vecchi, a mala pena si riesce oggi a scorgere col telescopio.

 

 

132. All’impicciolimento nel tempo dei debiti pubblici concorse altresì il mutare del metro monetario. I debiti pubblici rimangono fissi nella somma originaria. Erano 15 miliardi nel 1900 in Italia e quei 15 miliardi sono rimasti tali oggi. Ma nel 1900 i 15 miliardi producevano un effetto deprimente sull’animo dei contemporanei. Gli oratori dell’opposizione rimproveravano ogni giorno ai governi l’imprevidenza di così gran cumulo di debiti e lo schiacciamento dei contribuenti sotto il peso del suo servizio. Chi si preoccupa oggi di quei 15 miliardi e dei relativi 500 milioni di lire annue di interessi? Allora gli interessi (700 milioni prima che le felici conversioni del 1906 ne riducessero il peso) assorbivano un terzo del bilancio statale. Oggi i 500 milioni toccano a malapena il quarantesimo del bilancio della spesa. La lira è diventata più piccola. Legalmente, in virtù dei decreti del 5 ottobre 1936, essa è circa un sesto della lira antebellica. Di fatto, per lo svilire contemporaneo dell’oro, essa vale ancor meno, forse un settimo della lira del ‘900. I contribuenti fanno oggi, per procacciarsi e pagare all’erario i 500 milioni di imposte necessarie al servizio del debito pubblico antico un settimo dello sforzo che dovevano fare all’uopo nel ’900. L’esperienza dell’ultimo terzo di secolo non è isolata nella storia. Le cronache del secolo XVI sono piene di notizie, di querele e di rallegramenti intorno al rinvilio dei crediti stipulati in unità monetarie antiche. E si continua a scrivere, a gemere ed a gioire (sottovoce) nei secoli XVII e XVIII. Sia che i metalli preziosi, per l’abbondante produzione delle miniere del Messico e del Perù, sviliscano, sia che i principii allo svilimento dell’oro aggiungano il rimpicciolimento del contenuto aureo delle monete di conio nazionale, i debiti pubblici antichi continuano a rimpicciolire ed a volatilizzarsi. Viene, alla fine del secolo XVIII, l’uragano della rivoluzione francese. Quando la raffica è passata, i portatori di vecchi titoli di debito pubblico ricevono il rimborso del loro credito per due terzi in assegnati – pezzi di carta di valore zero – e per un terzo in iscrizioni sul nuovo gran libro del debito pubblico. Sotto l’antica monarchia Boileau narrava dei rentiers i quali impallidivano alla notizia che un quartier, un trimestre, di interessi era stato saltato di piè pari. Colla rivoluzione si ha la riduzione al terzo. Un terzo in moneta buona e due terzi in moneta senza valore. Suppergiù questa è l’esperienza di tutta l’Europa continentale sullo scorcio del secolo XVIII. L’esperienza recente delle svalutazioni monetarie non ha dunque nulla di nuovo. Essa è una fra le ragioni le quali spiegano come le nuove generazioni non pieghino sotto il peso di debiti che erano apparsi spaventevoli ai vecchi.

 

 

Questa ragione, che si potrebbe anche dire dell’anno sabbatico – dall’antico canone biblico il quale condonava i debiti ad ogni settimo anno – è, s’intende, irrazionale. Il debitore razionale ha interesse a servire interessi e rimborsare la sorte capitale puntualmente nella medesima moneta, né migliore né peggiore, al più migliore, nella quale egli ricevette la somma assunta a mutuo. I debitori, privati e pubblici, riceverebbero guiderdone amplissimo sotto forma di riduzione del saggio di interesse a minimi oggi forse insperati. Al solito, gli uomini preferiscono la remissione del debito, ottenuta irrazionalmente con la svalutazione monetaria, al vantaggio, anche più rilevante, della riduzione del saggio di interesse che seguirebbe alla fede osservata. Ma la svalutazione accoppia il vantaggio proprio col danno altrui, laddove la riduzione nel saggio di interesse è soltanto vantaggiosa a tutti, ed è noto come gli uomini preghino il danno altrui forse più del vantaggio proprio.

 

 

133. Vi è tuttavia una ragione più sottile, meno nota al pubblico, non accolta dagli studiosi a cui dispiacciono le idee semplici, la quale contribuisce a spiegare il fatto del mai avvenuto ammortamento o rimborso dei debiti pubblici. In verità l’ammortamento ad opera dello stato non è necessario perché esso, se vantaggioso, ha luogo spontaneamente all’infuori dello stato. Supponiamo che in un dato momento, ad esempio nell’anno 1900, uno stato abbia emesso un prestito di 1 miliardo di lire. Supponiamo, per non confondere i diversi problemi, che tutte le altre circostanze importanti siano rimaste invariate: uguale la popolazione, uguali la ricchezza ed il reddito nazionale, invariata la unità monetaria. Lo stato non ha rimborsato direttamente neppure un centesimo del prestito. Questo sta nel 1950 scritto sul gran libro del debito pubblico per l’ammontare originale di 1 miliardo di lire, fruttante il medesimo interesse del 4% corrente nel 1900. Nessuna conversione è intervenuta nel frattempo. I contribuenti pagano nel 1950 gli stessi 40 milioni di lire di imposte che per il servizio del prestito pagavano nel 1900.

 

 

Eppure è probabile che, anche in questa ipotesi estrema, i contribuenti del 1950 sentano assai meno vivamente l’onere del prestito in confronto al 1900. Perché nel 1900 il prestito era stato emesso? Fu detto sopra. Perché la copertura di quella certa spesa con una imposta straordinaria sarebbe stata troppo onerosa per la maggior parte dei contribuenti. Essi avrebbero dovuto vendere pezzi di casa, brandelli di terreno, ovvero ipotecare case e terreni, o indebitarsi con strozzini, caricandosi di un onere in media assai superiore al 4%. Preferirono costituire, sotto l’egida dello stato, quel che potrebbe chiamarsi un consorzio obbligatorio ed offrire ai capitalisti la propria garanzia solidaria, munita degli strumenti severissimi di adempimento di cui dispone lo stato per farsi pagare le imposte. Essi riescirono così (per la forma si deve dire che riuscì lo stato, il quale condusse la operazione a suo nome, senza creare alcun consorzio; ma nella sostanza lo stato agì per conto e nell’interesse dei contribuenti) ad accattare a prestito il miliardo di lire di cui abbisognavano per far fronte alla spesa straordinaria pubblica ad un saggio basso di interesse, il 4%, il migliore corrente in quel momento. Lo stato, agendo per conto dei contribuenti, preleva sui contribuenti 40 milioni di lire annue di imposte e le passa ai creditori pubblici. Nella faccenda il tesoro dello stato è un semplice intermediario. Utilissimo e necessario per dare alla transazione il carattere forzoso che ne costituisce la miglior garanzia e ridurre l’onere dell’operazione al minimo. Ma intermediario. Il negozio sostanzialmente ha luogo fra contribuente che paga e creditore pubblico che riceve gli interessi.

 

 

134. Ognuno è obbligato a pagare, col nome di imposta e attraverso il tesoro dello stato, la propria fetta di interessi. Tizio, ad esempio, paga 4.000 lire all’anno di imposta affinché lo stato serva gli interessi sulle 100.000 lire che altrimenti egli avrebbe dovuto pagare a titolo di imposta straordinaria. Ad un certo punto tra il 1900 ed il 1950 Tizio ha accumulato qualche risparmio? ha venduto una casa, si è ritirato dal commercio? ha in mano così fondi vecchi o nuovi? non sa come impiegarli a un saggio di frutto maggiore del 4%? La sua terra, la sua casa, la sua impresa, non consentono o non richiedono vantaggiosamente migliorie, sopraelevazioni, ampliamenti? Tizio dà ordine al suo agente di cambio di acquistare in borsa un lotto (100.000 lire) di consolidato 4%. Per fermo, occorre a ciò che Tizio risparmi le 100.000 lire; ed il fatto del risparmio nuovo è l’antecedente consueto dell’ammortamento privato del debito pubblico, come del rimborso di qualsiasi debito. Il risparmio nuovo è l’antecedente consueto, non necessario, perché l’antecedente può consistere, come si disse sopra, nel possesso di fondi liquidi derivanti da disinvestimento. Affinché l’antecedente produca l’effetto psicologico di ammortamento privato del debito pubblico, occorre però si verifichi un altro fatto, che è quello veramente caratteristico. Per sé, risparmio nuovo significa solo incremento di ricchezza, che è fattore di diminuzione del peso del debito pubblico noto da gran tempo ai trattatisti (cfr. sopra par. 131). Il fatto caratteristico è che esso sia compiuto da «contribuenti» prima incapaci a risparmiare (lavoratori puri) od alieni dagli investimenti in titoli di debito pubblico (imprenditori agricoli industriali o commerciali) ed ora capaci o propensi a dar ordini di acquisto di titoli di debito pubblico.[4] In quel momento, la partita del debito pubblico, per quanto riguarda il nostro amico Tizio, può in fatto considerarsi chiusa. «In fatto» vuol dire nell’immaginazione, nell’opinione, nel subcosciente di Tizio. Può darsi che il fatto sia di falsa immaginazione. Se Tizio si mette a ragionarci su, può finir di concludere: «quelle 100.000 lire che ho risparmiato avrei potuto investirle in una casa, la quale avrebbe dato il reddito netto delle stesse 4.000 lire del titolo di stato. In tale ipotesi, io sentirei il piacere da una parte delle 4.000 lire di reddito e il dolore dall’altra delle 4.000 lire di imposta per fare il servizio del prestito. Quindi io “debbo” sentire ugualmente il piacere delle 4.000 lire di reddito del titolo di stato e il dolore di perderle subito per pagare l’imposta necessaria per fare il servizio del mio titolo». Questi sono ragionamenti che Tizio «dovrebbe» fare se fosse un raziocinante perfetto. Sta di fatto che Tizio è un brav’uomo, che non ha voluto comprar la casa, appunto perché gli piacque di più comprare il titolo di stato; e sta di fatto che, forse, inconsapevolmente, ci si è deciso appunto per avere pronto, con un colpo di forbici, il valsente per pagar l’imposta. Il risultato psicologico ottenuto è quel desso; ed è ciò che qui importa.

 

 

Il rigiro delle scritturazioni, in verità continua. Sul gran libro del debito pubblico sono sempre scritte le 100.000 di consolidato 4%. L’erario pubblico continua a pagare ogni anno 4.000 lire di interessi. Il rito religioso dello stacco delle cedolette e loro presentazione alle casse pubbliche ha sempre luogo. L’esattore seguita a scrivere sui ruoli il nome di Tizio come contribuente di 4.000 lire all’anno ed a mandare avvisi; e Tizio contribuente si presenta ogni due mesi a pagare le rate scadute. Gli uomini compiono i soliti scongiuri rituali del pagare e ricevere. Tutto ciò è, però, pura forma. Tizio ha la doppia faccia: paga 4.000 lire colla faccia di contribuente, e riceve le 4.000 lire colla faccia di creditore. Lo stato facilita la compensazione, consentendogli di pagare le 4.000 lire d’imposte mercé la consegna di 4.000 lire di cedolette di titoli del debito pubblico.

 

 

135. Negli stati di antico regime, innanzi al 1789, i legislatori avevano visto, coi loro occhi semplici, la vanità del gran scrivere e passare carte cifre avvisi e cedolette; ed avevano immaginato uno spediente ovvio. Il tesoro consegnava al creditore Caio una specie di delegazione a farsi pagare le 4.000 lire da Tizio debitore di altrettanta imposta fondiaria. Quando Tizio era stufo di pagare, riscattava, pagandola 100.000 lire, la delegazione e pagava le 4.000 lire a se stesso. Ossia non pagava più. Il tasso (nome dell’imposta fondiaria in Piemonte prima del 1789) era oramai venuto meno e il debito pubblico era cancellato.

 

 

Quel che nel bel tempo antico era un fatto chiaro semplice adesso è ridotto ad essere una teoria che si intitola al nome di Antonio De Viti De Marco. Ma, salvo il ghirigoro delle scritturazioni, è un fatto anche oggi.

 

 

136. Il sistema odierno ha un vantaggio su quello antico. Il debito pubblico dopo morto può rivivere. Tizio, il quale ha estinto la sua fetta di debito pubblico, coll’acquisto di 100.000 lire di consolidato 4%, e conseguente compensazione e annullamento nei due atti: pagamento di 4.000 lire di imposta e riscossione di 4.000 lire di interessi, in un secondo momento ha nuovamente bisogno delle 100.000 lire? Vuole migliorare il podere, ampliare l’impresa, dotare la figlia? Vende le 100.000 lire di consolidato 4% e si ricostituisce debitore vero e proprio dell’importo relativo. Ritorna a pagare le 4.000 lire d’imposta, traendole da altre fonti; ed a versarle, attraverso il tesoro dello stato, ad un nuovo Caio acquisitore delle 100.000 di consolidato 4%. Non è necessario che Tizio acquisti o venda tutte le 100.000 d’un colpo; acquista o vende a frazioni o per intiero, come gli detta la convenienza.

 

 

137. Il debito pubblico di ogni stato si estingue dunque, per acquisto privato dei relativi titoli da parte dei debitori dell’imposta necessaria a fare il servizio del prestito, nei limiti nei quali i contribuenti hanno la possibilità e la convenienza di provvedere all’estinzione. L’ammortamento «privato» del debito pubblico è dunque parziale e provvisorio. Non è certo e non è permanente. Come si operò, così può venir meno. Il contribuente può non ammortizzare per impossibilità ovvero per convenienza. Se egli non risparmia, continua a fruire dei vantaggi che il metodo del debito gli offriva in confronto a quello della imposta straordinaria. Se, risparmiando, non acquista titoli di debito pubblico, bensì azioni industriali o terreni o case, egli ha, a suo giudizio, reddito o vantaggio maggiore di quel che avrebbe avuto ammortizzando privatamente la sua quota di debito pubblico. Ogni giorno, sia all’origine come in seguito, il contribuente compie e continuamente rinnova la scelta fra i due metodi, secondo la regola della massima sua convenienza.

 

 

Storicamente, si osserva che quanto più il tempo passa, quanto più le classi operose e industriose consolidano la loro fortuna, tanto più l’ammortamento privato acquista efficacia. Esso spiega perché col passar del tempo prestiti che erano parsi schiaccianti diventino tollerabili. Prima il servizio di interesse era fatto col sudore della fronte di contribuenti costretti a faticare, a dirigere e a organizzare per pagare le imposte all’uopo necessarie. Dopo, a poco a poco, il sudore scema. Si paga, senza così gran fatica, con la cedoletta dei titoli di stato acquistati col risparmio passato. Vuol ciò dire che non si paga più o che solo si ha l’impressione di non pagare? Pare ozioso litigare per così poco; e si può abbandonare la gioia del litigio agli spaccatori accademici di capelli.

 

 

In verità, i contribuenti brontolano ancora per il gran pagar che fanno. Ad essi piace riscuotere le 4.000 lire di interessi-cedolette e spiace di doverle riversare in imposte. Non spiacerebbe assai più non avere cedolette da riscuotere e dover tuttavia pagar le 4.000 lire? Di fatto, nonostante il brontolio, pagare e riscuotere è divenuto per essi un’abitudine automatica. Se lo stato si decidesse ad abolire ambi gli atti riflessi contemporaneamente, la cosa forse potrebbe sembrar persino naturale, come accadeva prima del 1789 agli assegnatari del tasso riscattato.

 

 

138. Naturalmente, ci sono anche i critici non solo della teoria ma anche, cosa non poco curiosa, del fatto dell’ammortamento privato del debito pubblico: «Non è generale; e vi provvedono solo gli alcuni che possono. Non è definitivo; i contribuenti possono rivendere i titoli comperati. Solo i risparmiatori riescono ad ammortizzare la loro fetta di debito pubblico; i poveri, gli impotenti a risparmiare seguitano a pagare».

 

 

La filastrocca potrebbe continuare; ma non ne val la pena. Il povero impotente a risparmiare qual danno ha dal vantaggio altrui? Nessuno e forse qualche vantaggio. Quanto più il titolo si classa presso i contribuenti e piglia stabile dimora nel loro portafoglio, tanto più cresce la clientela del titolo e ne aumenta il pregio. Lo stato può trovare occasione a utili conversioni volontarie dal 4 al 3,50%. Anche i poveri e gli impotenti a risparmiare ne traggono vantaggio di minori imposte o di più perfetti servizi pubblici.

 

 

Forseché, del resto, l’ammortamento «pubblico» ad opera diretta dello stato ha dato frutti più copiosi dell’ammortamento «privato»? Tra le due specie di ammortamento il giudizio comparativo storico non è dubbio. Storicamente l’ammortamento pubblico è un fatto rarissimamente accaduto e certo mai durato; l’ammortamento privato non è conoscibile da cifre e notizie precise, ma ne sentiamo la presenza latente benefica, crescente col tempo a mano mano che ci allontaniamo dal giorno della creazione dei prestiti pubblici. Quando vediamo il risparmiatore nei cavedi delle banche tagliare con compiacenza mal dissimulata le cedolette dei titoli di debito pubblico e lo vediamo avviarsi, brontolando, a pagare con quelle le rate delle imposte concludiamo pure con tranquilla coscienza: quella è una fetta di debito pubblico la quale rigira ancora per scritture ma in verità è l’ombra di se stessa.

 

 

139. A volta a volta sostanza ed ombra, il debito pubblico è anche, non di rado, fata morgana che fa apparire agli occhi degli uomini miraggi di ricchezze prima non viste. Uno dei paradossi del debito pubblico può esprimersi così: ad indebitarsi, lo stato cresce la ricchezza nazionale.

 

 

140. Il paradosso non è quello volgarissimo delle lire che si raddoppiano passando dalle tasche del risparmiatore al tesoro dello stato. Per imbrogliare i semplici, si usava porre il problema: prima del prestito, Tizio possedeva 100 lire e lo stato non possedeva nulla; totale 100 lire; dopo il prestito, Tizio possiede un titolo che, se egli lo volesse vendere, in un minuto potrebbe essere realizzato per 100 lire e lo stato possiede le 100 lire; totale 200 lire. Dopo essere rimasto per un minuto a bocca aperta, anche il semplice rispondeva: ma lo stato, che possiede le 100 lire vi deve nel suo inventario contrapporre le 100 lire di debito verso Tizio, quindi possiede zero ed il totale è ancora, come prima, 100 lire.

 

 

141. Il paradosso non è neppure l’inverso dell’altra grossolanità: se lo stato si indebita all’interno, si tratta, come diceva Voltaire, di un debito della mano destra alla mano sinistra e la ricchezza nazionale rimane invariata; laddove se lo stato si indebita all’estero, la ricchezza nazionale scema di tutto il debito verso lo straniero. Anche l’uomo semplice, dopo un po’ più di riflessione, osserva: se lo stato contrae un prestito all’interno di un miliardo e compie opere pubbliche utili ora od in avvenire, la ricchezza nazionale non è variata, avendo soltanto il miliardo mutato forma, da potenza d’acquisto disponibile a cose concrete le quali valgono ancora un miliardo; se lo stato invece butta i denari dalla finestra in opere di lusso improduttive, come in parchi e giardini e teatri, quando urgerebbero tante altre fondamentali esigenze, il miliardo che c’era prima non esiste più. La ricchezza nazionale è scemata o cresciuta, non a causa o nonostante la natura interna del debito pubblico, che non c’entra, ma a causa del cattivo o buono uso fatto del provento del prestito. Similmente per il debito contratto all’estero. Se il miliardo straniero finì male, rimaniamo con la ricchezza di prima e con una ipoteca di un miliardo a favore del creditore; se servì invece alla attrezzatura economica od amministrativa del paese, si avrà un miliardo o forse più di nuovi valori creati in paese il quale compenserà e forse al di là l’ipoteca accesa a favore dello straniero. La ricchezza nazionale italiana dal 1860 al 1880 crebbe a causa del buon uso fatto dei prestiti esteri in ferrovie strade ponti organizzazione civile e amministrativa; uso che non avremmo potuto fare con prestiti interni, perché i risparmiatori italiani producevano risparmio nella misura del possibile ma non ne producevano abbastanza per soddisfare alle richieste pressanti di un paese che doveva fare le ossa. Non dunque la qualità di interno o di esterno del prestito pubblico produce per se stesso incremento o decremento nella ricchezza nazionale; ma esclusivamente e medesimamente l’uso buono o malvagio del ricavo di esso.

 

 

142. Parimenti, il paradosso enunciato sopra non è l’inverso di un’altra scempiaggine: che l’acquisto di titoli di debito pubblico danneggia la ricchezza nazionale perché allontana i capitali dagli investimenti agricoli industriali e commerciali. L’accusa fu propria del tempo nel quale il debito pubblico era considerato tipico, insieme con i bilanci militari, delle spese cosidette improduttive. Quanti anatemi corsero su giornali fra il 1880 ed il 1900 contro l’ignavo capitalista il quale investiva i risparmi esclusivamente in titoli di debito pubblico e si teneva lungi dalle «feconde» iniziative dell’agricoltura e dell’industria! In verità non c’era né «lungi», né «presso». Esisteva in un certo momento o tempo una massa, ad es., di 1 miliardo di titoli di debito pubblico offerti da chi li possedeva sul mercato. L’anatema non era invero lanciato solo contro le emissioni di «nuovi»titoli di debito pubblico. Si dannava il titolo di debito pubblico per se stesso anche dopo che era stato emesso e collocato. Li acquistavano risparmiatori modesti, fiduciosi nello stato, di spirito non avventuroso, i quali si contentavano del 4%. Essi davano un miliardo di lire in contanti di nuovo risparmio e ricevevano 1 miliardo di lire di titoli. Non perciò il miliardo in contanti sfumava. Passava nella disponibilità dei venditori dei titoli pubblici i quali potevano con esso acquistare azioni case terreni, impiantar industrie, sollecitar commerci, fecondare insomma tutte quelle iniziative economiche che ad essi paressero più promettenti. Non un soldo andava sottratto, come vociferavano gli avversari del debito pubblico, a nessuna feconda seria iniziativa.

 

 

Sotto alla scempiaggine stavano due verità: la prima che forse taluno dei vociferatori desiderava acchiappare una porzione di quel miliardo per fecondare, non iniziative serie, le quali trovano sempre il promotore, sì qualche piano atto a creare impieghi e posti a favore suo e dei suoi accoliti; la seconda era che, per giudicare della bontà relativa dei prestiti pubblici e degli investimenti privati occorre badare non al momento in che i titoli di debito pubblico sono già stati creati e circolano già sul mercato ché in tal caso il risparmio esistente non varia e passa solo dalle mani del compratore a quelle del venditore dei titoli – ma a quello in cui i titoli sono emessi e se ne impiega il ricavo. Di nuovo, se lo stato impiega bene il miliardo ricavato, la ricchezza e la potenza (da cui poi deriva alla lunga ricchezza) nazionale crescono; se lo impiega male, scemano. Non agli atti di investimento del privato occorre badare, ma all’uso che delle somme ricavate dal prestito fa lo stato.

 

 

143. Il paradosso: – indebitandosi, lo stato cresce la ricchezza nazionale – è un altro.[5]

 

 

Sia lo statistico occupato a fare il calcolo della ricchezza nazionale. Valuta i terreni: 100 miliardi; i fabbricati: 80; le imprese industriali e commerciali, con navi, scorte, macchine, greggi di bestiame ecc. o le azioni e le obbligazioni che rappresentano queste cose, ad eccezione dei terreni e dei fabbricati già prima valutati: 100 miliardi. Quando arriva ai titoli di debito privato ipotecario chirografario cambiario: 20 miliardi, resta un po’ colla penna in aria e poi cancella, a meno che si tratti di debiti verso stranieri che scrive col segno meno o di crediti verso stranieri che scrive col segno più. I debiti verso nazionali li omette, perché li dovrebbe scrivere col segno meno al nome del debitore e col segno più al nome del creditore e le due scritturazioni si annullerebbero a vicenda. Epperciò scrive solo 2 miliardi al passivo (debiti verso stranieri) e 3 all’attivo (crediti verso stranieri). Il mobilio di casa con gioie, vetture, cavalli ed altre cose di uso domestico è iscritto per 9 miliardi.

 

 

Il totale sin qui fa 290 miliardi netti. C’è un’ultima partita: 110 miliardi di titoli di debito pubblico statale e locale, che porterebbe il totale della fortuna nazionale a 400 miliardi di lire. Deve o non deve scrivere i 110 miliardi? Lo statistico, se ricorda quel che sopra fu detto della grossolanità di affermare che l’emissione di un debito raddoppia la somma sottoscritta, se pensa che non ha iscritto, salvo 2 con meno e 3 con più perché verso o da stranieri, i 20 miliardi di titoli di debito privato, esita. I 110 miliardi di debito pubblico siano, per semplicità di ipotesi, tutti verso nazionali. Una mano lava l’altra. I cittadini hanno 110 miliardi di crediti verso lo stato e lo stato, che è anche nazionale, ha 110 miliardi di debito verso i cittadini. Il meno cancella il più e resta zero.

 

 

Eppure, lo statistico dubita ancora. E vero o non è vero che chi possiede 100.000 lire di titoli di debito pubblico possiede una ricchezza di 100.000 lire (se, per ipotesi, i titoli sono alla pari) tale quale come chi possiede una casa del valore corrente di 100.000 lire? Perché calcolare nella ricchezza nazionale le case e non i titoli?

 

 

144. A togliere lo statistico dal dubbio amletico interviene l’economista, il quale ragiona dalla teoria della capitalizzazione dei redditi sul mercato.

 

 

Una fetta di quel debito di totali 110 miliardi e precisamente 100.000 lire spetta a Tizio proprietario di casa. Spetta nel senso che egli deve fare il servizio di quella fetta, pagando ogni anno 5.000 lire d’imposta, affinché il tesoro dello stato possa versare le 5.000 lire d’interesse al portatore di 100.000 lire di titoli.

 

 

Prima che lo stato contraesse il debito, la casa di Tizio fruttava 50.000 lire l’anno e valeva, capitalizzando al 5% ossia al denaro venti, che era il saggio corrente per impieghi di quel tipo, 1 milione di lire. La casa era iscritta dallo statistico per 1 milione nell’inventario della fortuna nazionale. Dopo il debito e la conseguente imposta di 5.000 lire l’anno, il reddito si ridusse da 50.000 a 45.000 lire e, al solito 5%, né v’è ragione che il saggio di capitalizzazione muti, il capitale ribassò da 1 milione a 900.000 lire. Lo statistico non si ritrova più il suo milione; ma, poiché il mercato valuta 900.000 deve scrivere 900.000 lire. Che cosa è accaduto? Che l’emissione del debito pubblico ha fatto idealmente sfumare un decimo del valore delle case. E un decimo altresì dei terreni e delle fabbriche e delle azioni che rappresentano case terreni e fabbriche. Sul mercato le case – e le terre ecc. ecc. – si negoziano sulla base del reddito netto da imposte, compresa l’imposta istituita per fare il servizio del debito. La casa, a guardarla, è rimasta, fisicamente ed economicamente, la stessa. Non un mattone di meno, non un soldo meno di reddito. C’è una sola differenza. Prima tutte le 50.000 lire di reddito rimanevano in tasca al proprietario e si capitalizzavano a suo favore: 1 milione. Adesso le 50.000 lire si dividono in due parti: 45.000 al proprietario e queste si capitalizzano in 900.000 lire valore della casa; e 5.000, attraverso al tesoro dello stato, al creditore pubblico e si capitalizzano a suo favore in 100.000 lire valore del titolo di debito pubblico. La casa si è come sdoppiata: nove decimi continuano ad aver nome di casa e valgono 900.000 lire; un decimo è simboleggiato dal titolo di debito pubblico e vale 100.000. Totale 1 milione, come prima.

 

 

Conclusione: se non si vuole che, per un semplice trapasso di godimento, dal contribuente al creditore pubblico, di una parte del reddito nazionale, la fortuna del paese appaia artificiosamente ridotta, mentre è rimasta la stessa, la stessa come case terra alberi messi navi impianti merci ecc., la stessa come produttività e reddito, fa d’uopo che lo statistico iscriva all’attivo 900.000 lire valor della casa e 100.000 lire valore del titolo.

 

 

Così facendo, lo statistico non attribuisce qualità di ricchezza al titolo. Se anche il titolo sia ricchezza o sia tale soltanto la casa è problema diverso, intorno al quale si può discutere. Qui si afferma soltanto che lo statistico commetterebbe errore di rilevazione se tenesse conto solo delle 900.000 lire valor della casa e non anche delle 100.000 lire valor del titolo. Qualcosa sfuggirebbe alla rilevazione ed il quadro non sarebbe compiuto.

 

 

145. Quindi, si dovrebbe concludere ancora, fa d’uopo iscrivere all’attivo della ricchezza nazionale tutti i 110 miliardi di debito pubblico.

 

 

La conclusione, come tutte le conclusioni economiche, è sicuramente vera fino ad un certo punto. È vera, senza dubbio, per quella parte del debito pubblico, supponiamo 60 miliardi su 110, il cui servizio di interessi è fatto con imposte repartite su beni – terre case fabbriche e azioni relative ecc. – negoziati sul mercato. Se il debito non esistesse e non esistesse la relativa imposta per il suo servizio, quei beni sarebbero apprezzati sul mercato 60 miliardi di più. Perciò, se non si vuole far scomparire 60 miliardi di fortuna nazionale esistente e fruttante, occorre iscrivere nell’inventario i 60 miliardi di titoli del debito pubblico.

 

 

146. Quid dei restanti 50 miliardi di titoli? A non voler andare troppo per il sottile, cosa non confacente all’indole dello scritto presente e che, d’altronde, non caverebbe un ragno dal buco, perché, in argomenti trattabili solo all’ingrosso, i particolari nessuno li conosce e si possono abbandonare volentieri alle esercitazioni scolastiche degli studenti giustamente chiamati, per affinar la logica, a camminare sul filo del rasoio, possiamo ammettere che, se il servizio dei precedenti 60 miliardi gravava sul reddito dei beni capitali, il servizio dei restanti 50 miliardi gravi sul reddito del lavoro nazionale. L’imposta di 2500 milioni l’anno necessaria per pagare gli interessi di questi 50 miliardi grava su stipendi di impiegati, onorari di professionisti, salari di operai, profitti, netti dall’interesse sul capitale investito, degli imprenditori agricoli industriali e commerciali. La forma assunta è varia: di imposte sul reddito o su consumi. Il carattere comune è l’incidenza sul reddito di lavoro puro o sulla parte lavoro dei redditi misti da capitale e lavoro.

 

 

147. Qui l’iscrivere o il non iscrivere i 50 miliardi nell’inventario della fortuna nazionale diventa un problema di mera sistematica statistica.

 

 

Può darsi che lo statistico voglia far l’inventario della fortuna nazionale consistente in «cose» aventi un prezzo; ed in tal caso egli non iscriverà i 50 miliardi, perché essi sono la capitalizzazione, sotto forma di titoli di debito pubblico, di una parte del reddito degli uomini. Quei titoli sono fette capitalizzate di uomini. Poiché quello statistico non tiene conto nel suo inventario del valore degli uomini interi non può, per logica di sistema, neppur tener conto delle fette cartacee di uomini.

 

 

148. Ovvero il nostro statistico, dopo aver valutato in 290 miliardi il valore delle «cose»  componenti la ricchezza nazionale, più i 60 miliardi di titoli di debito pubblico incidenti sulle cose stesse, totale 350 miliardi, non è, giustamente, soddisfatto. Le cose sono tutta la ricchezza di un paese? Le cose, anzi, non sono forse morte se non son fatte valere dagli uomini? Nazioni povere di cose sono ricche per abbondanza di uomini, s’intende son ricche se gli uomini sono onesti laboriosi periti intraprendenti. Lo statistico non vuole risolvere il problema, qualunque esso sia, di sostanza o di terminologia, se solo le cose od anche gli uomini siano ricchezza e quale sia il contenuto di cosa; egli si preoccupa esclusivamente di completare il quadro valutativo del suo paese. Un paragone fra la ricchezza di due nazioni che tenga conto solo delle cose è certo zoppicante, spesso è sbagliato. Perciò taluno statistico istituirà laboriosi calcoli per valutare, cosa che il mercato non fa più dall’epoca dell’abolizione della schiavitù, il valore degli uomini. Giungerà, supponiamo, alla conclusione che gli uomini del paese in discorso, tenuto conto della loro attitudine a produrre reddito e della loro vita probabile produttiva media, valgono 300 miliardi di lire. In questo caso lo statistico terrà conto dei 50 miliardi di titoli di debito pubblico, il cui servizio è fatto con imposte gravanti sui redditi di lavoro. Se non esistesse quel debito e non esistessero le conseguenti imposte, gli uomini avrebbero, essi ed i loro figli in perpetuo, un reddito di 2500 milioni annui in più e varrebbero 50 miliardi in più.

 

 

149. I due statistici valuteranno diversamente così la fortuna nazionale:

 

 

 

Valutazione

A

 

Valutazione

B

 

Valore delle «cose»

290

290

Valor del debito pubblico gravante sulle cose

60

60

Valore degli uomini

300

Valor del debito pubblico gravante sugli uomini

 

50

 

Totale

700

700

 

 

Ambe le valutazioni sono logiche. Basta indicare esattamente quale sia il contenuto di ognuna. Ma non potrebbe il primo statistico, il quale fa la valutazione A, introdurre surrettiziamente i 50 miliardi di valore del debito pubblico gravante sugli uomini.

 

 

Quei 50 miliardi nella «sua» valutazione starebbero sospesi in aria. Negli inventari gli uomini debbono entrare per intiero. O tutto o niente. Testa e tronco e braccia e gambe; non una gamba sola distaccata dal tronco.

 

 

Di solito, gli statistici sono giustamente prudenti e non si azzardano a compiere la valutazione B degli uomini. Sanno di fare opera incompiuta; ma preferiscono il parziale al fantasioso. Le valutazioni degli uomini, anche se redatte con grande apparato, sono mera fantasia. Le persone serie non fanno acrobazie. Talvolta, riluttando, si decidono a porre qualche pietra miliare che giovi a discutere, che ponga il problema; ma più non vanno innanzi. Per la qual condotta, scientificamente degna, tutti li lodano.

 

 

150. Pur sapendo che i 50 miliardi di titoli di debito pubblico il cui servizio di interesse è fatto con imposte gravanti sui redditi di lavoro non devono essere fatti rientrare nel novero della ricchezza nazionale se si segue la metodologia ordinaria degli statistici, sta di fatto che i 50 miliardi esistono e sono negoziati sul mercato, sta di fatto che il possessore di essi è ricco né meno né più che il possessore di qualunque altro titolo di debito pubblico.

 

 

Il paradosso valutativo del debito pubblico è lì. Il debito ricostituisce, ricrea sul mercato la valutazione degli uomini che la abolizione della schiavitù aveva soppresso. Lo schiavo era apprezzato, ad ipotesi, 500000 lire perché l’alto reddito del suo lavoro professionale durante gli anni di vita sua probabile scontato al momento attuale dava quel valore?

 

 

Adesso l’uomo libero vale, astrattamente, di più perché il libero lavora per sé meglio e più di quanto non lavorasse lo schiavo per il padrone. L’uomo libero non ha valore capitale, perché egli non è un bene negoziabile, anzi negoziar l’uomo è reato. Ma se una parte del reddito dell’uomo viene da lui distratta, a causa dell’imposta, se egli deve pagare 2500 lire l’anno di imposta allo stato per fare il servizio di 50000 lire di debito pubblico, se si prevede con sufficiente certezza, che, morto egli alla vita produttiva, il suo posto verrà preso dal figlio e poi dal figlio del figlio e così all’infinito, ecco che una fetta del valore dell’uomo rimane avulsa da lui e prende corpo nel titolo di debito pubblico. Quelle 50.000 lire di titoli di debito pubblico sono una fetta d’uomo divenuta negoziabile sul mercato.

 

 

A creare il nuovo valore capitale mobiliare di 50.000 lire occorre si, resecare dal reddito dei lavoratori 2500 lire all’anno lungo la successione perenne delle generazioni. Ma non occorre resecare un decimo del reddito di esse. Il reddito di 50.000 lire all’anno del professionista si capitalizzava, teoricamente, in sole 500.000 lire, perché quel reddito era temporaneo, limitato al tempo della vita produttiva del professionista e si scontava perciò, ad ipotesi, al saggio di interesse del 10%. Se noi portiamo via a costui solo un ventesimo, 2500 lire, del suo reddito, ecco quelle 2500 lire diventare, da temporanee, perpetue, perché lo stato le preleva sul seguito delle generazioni in perpetuo; ecco quella fatta di reddito capitalizzarsi al saggio del 5, anziché del 10%; eccola valere 50.000 invece di 25.000 lire. La trasformazione simbolica della fetta d’uomo in titoli di debito pubblico cresce il valore attuale di quella parte d’uomo, la quale ha assunto forma cartacea.

 

 

151. Parecchie sono le illazioni suggestive le quali si possono trarre dal concetto del titolo simbolo di fetta d’uomo:

 

 

  • l’uomo in parte diventa servo di altri. Fino al limite di 2500 lire l’anno l’uomo – contribuente lavora a pro del suo padrone, del padrone della fetta di lui stesso incarnata nel titolo di debito pubblico. In questo tipo di schiavitù, non esiste nessun vincolo personale fra schiavo e padrone. Non si conoscono neppure l’un l’altro. Esiste qualcosa che potrebbe essere definita schiavitù economica;

 

  • l’uomo può essere dato in pegno dal suo creditore. Il possessore dà il titolo, simbolo di fetta d’uomo, in pegno quando ha bisogno di credito. È come se lo schiavo venisse mandato a servizio a casa altrui finché il debito del padrone non sia riscattato;

 

  • l’uomo può esser messo in carcere o venduto affinché i debiti del proprietario siano rimborsati. La banca che riceve in pegno il titolo ha diritto di tenerlo chiuso nel carcere del suo portafoglio sinché l’anticipazione non sia restituita; e di venderlo al miglior offerente se alla scadenza il debito non è pagato. Poiché il titolo è una fetta d’uomo tutte le operazioni compiute su di esso simbolicamente sono compiute sull’uomo;

 

  • lo schiavo odierno, al par dell’antico, può, accumulando un peculio, riscattar se stesso e ricuperare la piena libertà. L’uomo odierno può, risparmiando a frusto a frusto, acquistar 50.000 lire di titoli di debito pubblico. Senza saperlo, egli ricompra quella fetta di se stesso che era stata, attraverso il congegno dell’imposta da lui pagata e del titolo di debito pubblico, alienata altrui. Paga 2500 lire d’imposta e riceve 2500 lire di interessi. Il titolo che egli possiede è lui stesso capitalizzato, reso mobile alienabile recuperabile… L’uomo libero può a volta a volta, a seconda della sua convenienza, attraverso al simbolo del titolo di debito pubblico, farsi schiavo altrui, darsi in pegno per ottenere credito personale, ricuperare la sua libertà! Tale che non otterrebbe credito personale se non ad interesse alto, se possiede 50.000 di consolidato 5% ottiene credito a buon mercato. Eppure quel titolo da 50.000 lire è un altro lui stesso! Il debito pubblico trasforma in reale il vincolo personale e, così facendo, scema il costo del credito. Quanto è stupendo il meccanismo elaborato dall’economia contemporanea, se riesce a liberar la schiavitù dai suoi attributi immorali e condannabili ed a conservare quel che in essa vi è di vantaggioso all’uomo libero!

 

 


[1] Non alludo ai prestiti di guerra non restituiti dagli stati europei agli Stati Uniti. Non furono restituiti se non in minima parte perché non si trattava di veri prestiti, ma di contributi americani al costo dell’impresa comune. Epperciò non dovevano moralmente essere restituiti. Fino a concorrenza dell’ammontare non restituito, le spese furono correttamente sopportate dai viventi americani.

[2] Per ricostruzione degli impianti esistenti (quote di ammortamento) e per nuovi investimenti (risparmio nuovo).

[3] Cito soltanto i saggi di Achille Loria, Intorno ad alcuni errori dominanti nella scienza economica, I, I prestiti pubblici ed Alcune parole sui prestiti pubblici e sull’assenteismo, in Studi senesi, I, 1884, pp. 48 -50 e 171-81(ripubblicati in Verso la giustizia sociale, vol. I) e di Maffeo Pantaleoni, Imposta è debito in riguardo alla loro pressione, in Giornale degli economisti, 1891, luglio, pp. 40-51 (ripubblicato in Scritti vari di economia, serie terza, pp. 301-22 in Studi di finanza e di statistica, Bologna 1938, pp. 149-66). Fondamentale è il saggio di A. De Viti De Marco, Contributo della teoria del prestito pubblico, in Saggi di economia e finanza, Roma 1898, pp. 61-123, sostanzialmente rifuso nel V libro dei Principii di economia finanziaria del medesimo autore, Einaudi, Torino 1939; ed il notabile esame critico della tesi devitiana di Benvenuto Griziotti, La diversa pressione tributaria del prestito e dell’imposta, in «Giornale degli economisti», maggio 1917.

[4] Così parmi debba essere esposta la teoria, per tener conto di quel che il De Viti aggiunse alla antica risaputa osservazione che il peso del debito pubblico scema col crescere della pubblica ricchezza: la constatazione di investimenti in titoli di debito pubblico da parte di gente che prima non risparmiava o, risparmiando, investiva diversamente.

[5] Cfr., per questa aggiunta alla teoria devitiana, i miei saggi: Del cosidetto prelievo dell’imposta e dei suoi effetti sulla valutazione del reddito e della ricchezza del paese, in «La Riforma Sociale», maggio-giugno 1929 e di nuovo in Saggi, Torino 1933, parte I, p. 77; e La inclusione del debito pubblico nelle valutazioni della ricchezza delle nazioni, comunicazione alla XXII Sessione dell’Istituto internazionale di statistica di Londra 1934, nel «Bulletin» dell’Istituto, tomo XXVIII, secondo libro, p. 271.

 

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