Opera Omnia Luigi Einaudi

Farla finita con l’Istituto dei cambi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/05/1921

Farla finita con l’Istituto dei cambi

«Corriere della Sera», 22 maggio 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 167-172

 

 

 

 

Un monopolio del quale non è ancora stata annunciata esplicitamente l’abolizione è quello dei cambi. Eppure, da quel che si sente dire, esso esiste ancora; sebbene ad un estraneo sia difficile sapere che cosa precisamente esso faccia e quali siano le norme le quali nel momento presente lo regolano.

 

 

Che in passato esso abbia fatto molto bene, è dubbio. L’unico suo ufficio poteva essere quello di moderare le oscillazioni dei cambi; ché certo non poteva avere la taumaturgica virtù di impedirne l’ascesa. Come era naturale, i cambi aumentarono finché piacque ad essi di diminuire per cause naturali, tutt’affatto indipendenti dall’azione dell’istituto, e poi diminuirono e poi oscillarono ancora, abbastanza violentemente. Tutto ciò era inevitabile e naturale; ma non fu, a quel che sembra, per nulla impedito o modificato dall’istituto.

 

 

Che cosa ci sta dunque a fare l’istituto? Probabilmente, se si facesse questa domanda a qualcuno dei dirigenti od ideatori o difensori del monopolio, si avrebbe per risposta: esso serve a disciplinare, a regolare, a moralizzare il mercato dei cambi esteri. “Disciplinare” sovratutto; parola morbida, rotonda, piacevolissima a pronunciare e ad udire in bocca di coloro i quali credono che sia indispensabile un regolamento ed una norma per tutte le cose che si fanno ed a cui non passa neppure lontanamente in mente che le cose meglio fatte sono quelle compiute senza regola. “Disciplinare”, parola priva di senso comune, che bisogna squalificare, distruggere, additando al vilipendio universale coloro che osano ancora adoperarla a guisa di traslato, fuor del campo suo proprio, dove soltanto essa merita di essere tenuta in onore: che è l’esercito, la scuola, la magistratura, la burocrazia, la fabbrica, dove c’è per istituto chi comanda e chi obbedisce.

 

 

In materia di cambi, quali sono i frutti della disciplina voluta instaurare dall’istituto dei cambi? A quel che si può sapere, si sono venuti creando due mercati dei cambi, simili al parterre ed alla coulisse della borsa francese, ai piedi asciutti ed ai piedi bagnati di Nuova York: da un lato ci sono i banchieri autorizzati a trattare i cambi, i quali sono soggetti alla sorveglianza dell’istituto ed attraverso i quali soltanto tutti coloro che debbono comperare o vendere cambi dovrebbero agire. Il più grosso dei compratori di cambi, lo stato, agisce solo a mezzo degli istituti autorizzati, o meglio, a mezzo delle quattro grandi banche ordinarie. Chi vuole comprar cambi deve dire la ragione dell’acquisto; ed i banchieri autorizzati debbono trasmettere all’istituto ogni quindicina l’elenco dei cambi acquistati o venduti, cosicché a Roma si sappia quanto si compra e si vende in Italia.

 

 

Accanto al mercato ufficiale e controllato c’è un mercato libero dei cambi. Infinita gente compra e vende cambi, anche in borsa, senza esservi autorizzata e senza darne notizia all’istituto. Chi vuole inviare una qualunque somma all’estero, anche per una causale non ammessa dall’istituto, per esempio esportazione di capitali, lo fa tranquillamente, in barba alla legge. Basta pagare il prezzo.

 

 

Ecco quale mi sembra sia il risultato principale del cosiddetto monopolio: aumentare il prezzo delle contrattazioni in cambi. In uno stesso giorno, un tale il quale aveva bisogno di una data divisa estera, si vide fare da un primario istituto di credito una richiesta del 3 per cento superiore al prezzo d’offerta. Era lo stesso cambio, che la banca comperava a 100 e rivendeva a 103. Lo sconto è enorme: ragguagliato ad anno equivale al 1080 per cento; ed è caratteristico dei mercati falsati dai calmieri e dagli interventi governativi. In un mercato libero, dove tutti potessero comprare o vendere senza restrizioni, senza controlli, senza rese di conti a nessuno, sconti di quella fatta non potrebbero durare. In un mercato sorvegliato, chi non vuol far sapere i fatti propri allo stato paga volentieri il 3 od il 5 per cento di multa all’intermediario che gli vende i cambi senza curiosare inutilmente nei fatti suoi: ed è perciò fatale che tutti gli altri, coloro i quali si sottopongono alla “disciplina” governativa paghino la tangente o taglia alle banche autorizzate. Pagano più o meno, ma pagano.

 

 

Ed è vano chiedere: punite le frodi; sopprimete il mercato clandestino. Ciò non si ottenne mai, neppure durante la guerra. Tentarlo ora avrebbe per unico effetto di crescere lo sconto, aumentando il rischio dei liberi negoziatori di cambi; e quindi di fare il danno dell’industria. Non è mille volte meglio dare il fuoco all’intera baracca, sopprimendo l’istituto?

 

 

Tanto, più urge il farlo, poiché questa è l’unica maniera con cui si possono distruggere certe fisime stravaganti che si sono ficcate nella testa dei dirigenti dei cambi, dei fabbricanti dei decreti destinati a “disciplinare”, ossia a disturbare i cambi. Una delle più stravaganti ed ostinate tra queste fisime cambieresche è quella per cui l’istituto si ostina a proibire agli industriali e negozianti italiani di vendere in lire sui mercati a valuta apprezzata; e per contro li obbliga a vendere in lire sui mercati a valuta deprezzata. Invano, da anni, uomini pratici e uomini di scienza si affannano a dimostrare che i fabbricanti di decreti si sono messi in tal modo al livello dell’analfabetismo economico più grossolano ed imperdonabile. Non si può vendere in Inghilterra e nelle colonie se non in sterline, negli Stati Uniti se non in dollari; e per contro bisogna vendere in lire a Francoforte, a Vienna, a Bucarest ed a Varsavia.

 

 

Io ho invano tentato infinite volte, ogni volta che ci penso, di rendermi conto di tale enormità, fatta decreto. Non ci sono mai riuscito; eppure resta lì, infrangibile come il macigno delle nostre Alpi. Pare che quella gente si sia ficcata in testa che sia meglio vendere una nostra merce per 1.000 lire sterline piuttosto che per 70.000 lire italiane; perché… perché in questo modo l’Italia diventa creditrice di 1.000 lire sterline e può comprare merci all’estero per altrettanta somma, senza dovere comperare cambi. Ma non è chiaro come la luce del sole che, se anche noi vendessimo quella partita di merci per 70.000 lire italiane, lo straniero compratore, per consegnare a noi le 70.000 lire, dovrà comperarle e per comperarle dovrà vendere 1.000 lire sterline, ossia dovrà fornire le 1.000 lire sterline precisamente all’importatore italiano di merci estere, il quale abbia disponibili le 70.000 lire necessarie a pagare le merci estere che a noi abbisognano?

 

 

Che si venda in lire o in sterline è la stessa precisa cosa; anche le operazioni fanno, per se stesse, salire la lira italiana. Sale se si vende in lire, perché l’inglese per pagarcele dovrà comperarle; sale se si vende in sterline, perché chi le riceve dovrà venderle per incassare lire, e, facendo domanda di lire, queste salgono. Lire o sterline, trattasi di pura forma; l’importante è di esportare merci. Così pure non fa differenza veruna vendere a Vienna una partita di merci per 400.000 lire o per 10 milioni di corone. Nel primo caso, il compratore viennese per dare a noi 400.000 lire deve vendere 10 milioni di corone; nel secondo, noi venderemo i 10 milioni di corone ricevuti per comprare 400.000 lire. In tutti e due i casi le lire vanno su e le corone vanno giù.

 

 

La sola differenza in tutto questo fantastico contrasto creato dalla nostra burocrazia attorno all’imbroglio delle lire, marchi, corone, sterline e dollari, è che il rischio del ribasso o del rialzo lo ha chi vende o compra in moneta forestiera. L’italiano che compra o vende in lire italiane si mette al coperto dalle oscillazioni dei cambi. La via d’uscita più semplice parrebbe fosse quella di lasciare che ognuno corra i rischi che crede. Chi crede che i marchi siano destinati a salire, venda in marchi; chi crede l’inverso, venda in lire. Ognuno badi ai fatti suoi.

 

 

Mai più, grida inorridita la burocrazia. È illecito che ognuno corra i rischi che egli reputa migliori. Soltanto noi sappiamo quali sono le cose buone da fare; soltanto noi sappiamo quali sono i rischi da correre. Quindi tutti vendano in sterline e in dollari, perché queste sono le monete buone; e nessuno in marchi e in corone, perché queste sono le monete cattive.

 

 

Intanto, ecco cosa accade. «Oggi – mi scriveva un mese fa un esportatore italiano – ricevo offerta di prezzo da una lontanissima colonia inglese per una partita di merce a 5 sterline per cento chili, pagamento contro documenti. Col cambio odierno di 85 lire potrei accettare l’ordine, ma fra due mesi, allorché la merce potrà essere imbarcata, quale sarà il cambio?». Perciò quell’esportatore non accettò l’ordine; la merce italiana rimase in Italia; e l’esperienza dimostrò che colui aveva fatto benissimo. Oggi, col cambio a 70 lire, egli perderebbe una forte somma. Se gli fosse stato consentito di vendere in lire, egli avrebbe fatto l’affare e l’Italia avrebbe veduto crescere la sua capacità di esportazione e quindi di lavoro. Invece di noi, vendettero gli americani del nord, nostri concorrenti nell’articolo in questione, procurando così lavoro ai loro disoccupati. Quando mai si arriverà a capire che non esistono monete cattive e monete buone; ma solo monete che salgono e monete che scendono e che tutte le monete possono subire movimenti nei due sensi e far correre rischi buoni le monete cattive e rischi cattivi le monete buone?

 

 

Mi perdoni l’on. Bonomi, se oso dargli un consiglio: mandi a chiamare il direttore del tesoro, il contabile del portafoglio e il direttore dell’istituto dei cambi e chieda: «Siete disposti a garantire gli esportatori e gli importatori italiani contro le perdite di affari e di denaro che voi fate loro subire con le norme che voi dichiarate sapienti e che gli interessati affermano cervellotiche? Se sì, sta bene. C’è una certa probabilità che i vostri decreti siano ragionevoli. Se no, le vostre rimangono quelle che sono: elucubrazioni che non si possono neppure chiamare dottrinarie, perché gli studiosi non ne riescono ad intuire il significato ascoso. A questo mondo, qualcuno conviene che si assuma i rischi delle variazioni future dei prezzi e dei cambi. Se noi non li lasciamo correre agli interessati, pagherà il paese. E nessun decreto e nessun istituto dei cambi vale la perdita del paese di un giorno solo di lavoro. Specie in tempo di crisi e di disoccupazione».

 

 

Se poi, finito il discorso senza alcuna promessa di garanzia, il ministro del tesoro con un bel decreto, il più bello che egli potrà mai firmare, abolirà l’istituto dei cambi, risparmiando la spesa della burocrazia che vi è addetta, le sue benemerenze verso il paese cresceranno a mille doppi.

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