Finanza e politica nell’antichità
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/06/1939
Finanza e politica nell’antichità
«Rivista di storia economica», IV, n. 2, giugno 1939, pp. 231-33
Charles Jessie Bullock: “Politics, Finance and Consequences“. A study of the relations between Politics and Finance in the Ancient World with special reference to the Consequences of sound and unsound Policies. Vol. 65 degli “Harvard Economic Studies”. Harvard University Press, Cambridge, Mass. U. S. A. (London, Humphrey Milford) 1939. Un vol. in ottavo di pp. VIII – 212. Prezzo dollari 2,50.
Charles Jessie Bullock non è mai stato alla ribalta come un uomo rappresentativo della scienza economica americana. Quando andò in pensione nel 1935, dopo tant’anni di insegnamento ad Harvard, amici e discepoli raccolsero in un volume di 550 pagine (“Economic Essays”, Cambridge Mass.), il meglio dei suoi saggi, sparsi in riviste ed annuari. Si vide allora quanto fosse acuta ed illuminante la mente di questo scrittore tanto sobrio nello stampare quanto meditato nello scrivere. Il libro odierno è dedicato anch’esso alla pubblica finanza, come i più tra i saggi del volume precedente ma, a differenza di questo, discute un solo problema. Dicasi subito che il Bullock non offre alcuna spiegazione economica o finanziaria della storia. Fra il barone Louis il quale ai colleghi del ministero francese del 1830 diceva: “Faites moi de la bonne politique et je vous ferai de bonnes finances” e Leon Say il quale preposto nel 1870 al pagamento della indennità alla Germania affermava che “le buone finanze generano la buona politica” egli non osa scegliere; non vuole cioè dimostrare che le grandi monarchie egiziane, babilonese, assira e persiana, lo stato ebraico, le città greche e specie Atene, la monarchia macedone, Cartagine e Rodi siano perite quando e perché i governanti amministrarono male le pubbliche finanze, sprecarono il denaro pubblico e soggiacquero ai gruppi interessati al malo uso di esso. Il Bullock cerca, è vero, correlazioni fra metodi finanziari e grandezza e decadenza di imperii e di città. Le cerca sui documenti e sui monumenti tramandatici dall’antichità; conosce i libri dei dotti moderni e li adopera; non contento del giudizio altrui rilegge sui testi originali i classici e, reinterpretandoli coll’esperienza raffinata dalla lunga famigliarità coi concetti e cogli istituti proprii dell’economica, giunge non di rado a conclusioni diverse da quelle dei dotti. Ma se le correlazioni non esistono o non sono certe, il suo discorso resta, come deve, dubitativo: “non è escluso che” è frase più frequente nel suo libro di quella “è probabile od è certo che”. Perciò il suo libro si legge con frutto e con diletto. Il libro a tesi dopo qualche pagina dà noia e si ripone. Il libro di Bullock offre spunti e fa pensare.
Sembra piccolo al capo di un grande impero il pericolo dell’affezionarsi con doni d’oggetti preziosi o di oro i capi minori vicini semi – vassalli?
Rilegga costui le tavolette di creta scoperte nel 1887 a Tell el – Amarna. La prima volta che Amenhotep Terzo, inviò dono di oro al vicino piccolo Tushratta di Mitanni, questi ringraziò: “e che importa che l’oro sia molto o poco?” Ma quando i doni si ripeterono: “che il fratel mio grande mi invii copia assai grande di oro, da non potersene fare il conto; e che il fratel mio mandi più oro di quel che avesse donato al padre mio”. Nel paese del fratello grande (il Faraone d’Egitto) l’oro è invero “comune come la polvere”. Che gli dei “gli diano copia d’oro dieci volte maggiore di quella pur così grande che egli già possiede”. Un altro regio mendicante insiste da Babilonia: “Pensa che se mandi oro ai re vicini, la fratellanza, l’amicizia, l’alleanza e le buone relazioni imperano fra i re”. Quando il figlio Amenhotep Quarto non poté serbare la consuetudine dei crescenti doni, alle proteste di animo grato seguono le querele e poi le minaccie. Un regolo scrive: “noi continueremo ad essere buoni amici seguitando nel costume tenuto da tuo padre e da me di richiederci mutuamente regali”. Il re di Babilonia: “Perché mi hai mandato solo due mine d’oro? Ho intrapreso un’opera straordinariamente grande intorno al tempio; mandami perciò molto oro”. E quel d’Assiria: “mandami tant’oro quanto è necessario per costruire il palazzo incominciato…. Un altro re non maggiore di me ha ricevuto venti talenti dall’Egitto, laddove a me tu hai inviato poco oro”. L’impero fondato dal grande Totmes Terzo finiva quando il faraone nipote non fu più in grado di comprare coll’oro la pace dagli amici (pp. 17 – 20).
Mentre Creso si apprestava a condurre da Sardi la campagna contro i Persiani, la quale doveva segnare la scomparsa del regno lidio, Sandanis il savio così lo ammonì: “O re, tu ti appresti a marciare contro uomini, i quali vestono di cuoio ed il cui cibo non è quello che essi desiderano, ma quello che cavano dalla terra pietrosa. Essi non usano vino, ma bevono acqua; ne` mangiano fichi od altra cosa buona. Se tu li conquisti, che cosa potrai portar via da essi, che non hanno nulla? Se invece tu sei vinto, vedi quante buone cose perderai; ché non appena essi avranno assaporato le nostre dolcezze, vi si attaccheranno sì che nessuno potrà mandarli via” (pp. 68). Perciò il vincitore Ciro, dopo avere attentamente ascoltato il piano di un Artembare di trasportare i Persiani dalle loro dure povere montagne nella florida sottostante pianura, disse ai suoi : “Accogliete la proposta, se così vi piace; ma preparatevi ad essere non più dominatori ma sudditi…. Terre grasse alimentano uomini torpidi. Raccolti meravigliosi ed uomini bravi in guerra non nascono sullo stesso terreno” (p. 52).
Dopo la morte di Temistocle, Cimone, divenuto il più influente uomo politico di Atene, rafforzò la sua popolarità aprendo i suoi campi ai cittadini poveri e offrendo pasto frugale a chiunque venisse a lui. Pareva, secondo Plutarco, ritornato il comunismo favoloso dell’età dell’oro. Le liberalità di Cimone non vietarono che Atene divenisse grande; ché egli donava del suo. Pericle, non potendo emulare colle ricchezze proprie l’esempio di Cimone, fu liberale col danaro pubblico. Il genio di Pericle e la moderazione nelle liberalità pubbliche condussero ancora Atene a più alti fastigi; ma il germe era destinato a dare col tempo frutti di amaro tosco; poiché gli ateniesi si abituarono a poco a poco a vivere sull’erario ed a dilapidar questo a proprio vantaggio. Quando anteposero le largizioni ed i divertimenti gratuiti ai sacrifici per la difesa della patria, l’impero ateniese soccombeva dinnanzi al re macedone (p. 111 e seg.).
Sulla qualità distruttiva propria delle imposte differenziali contro i ricchi Senofonte ha nel “Symposium” un ricordo che vale meglio di una lunga dissertazione accademica: “Un ricco divenuto povero racconta ai commensali come egli sia giunto ad apprezzare la povertà sovra ogni altro bene, perché ora egli è sicuro. Quand’era ricco, egli viveva in continuo timore per la vita e per i beni; ora, che ha dovuto vendere persino i mobili di casa, dorme tranquillo. Prima, perdeva ognora ricchezza; ora non ha più nulla da perdere e può anzi sperare di acquistar qualcosa. Finalmente, egli conclude, “dianzi io pagavo imposte alla città, ed ora la città paga imposte a me, perché mi mantiene”” (p. 122).
A chi oggi rinverdisse il vecchio principio del contingente, giova ricordare l’esperienza ateniese. Quando Nausinicus nel 378 a. C. divise i cittadini in simmorie, rendendo il gruppo compreso in ogni simmoria responsabile per il pagamento di un determinato ammontare d’imposta, il sistema avrebbe forse potuto operare con qualche vantaggio, a causa del mutuo controllo dei contribuenti, se la ricchezza totale dei componenti di ogni simmoria fosse davvero stata uguale a quella dei componenti ogni altra simmoria e se ogni simmoria fosse stata composta di contribuenti provveduti di fortune non diverse troppo l’una dall’altra. Bisognava che pochi fossero i componenti delle simmorie ricche, molti quelli delle mediocri e moltissimi quelle dei poco provveduti. Non fu così. Ben presto, poiché gli arretrati si accumulavano, si adottò il sistema della riscossione anticipata a carico dei ricchi. I quindici cittadini più ricchi di ognuna delle venti simmorie furono chiamati a versare al tesoro cittadino il tributo spettante all’intiera simmoria, salvo ad essi il diritto di rivalsa proporzionale sugli altri componenti. Atene anticipava così il sistema che nel basso impero fece i curiales responsabili del pagamento dovuto da ogni città al tesoro imperiale. In ambi i casi il metodo condusse al suicidio collettivo.
Qual cittadino ateniese ricco avrebbe osato esercitare il diritto di rivalsa, colla prospettiva di essere da qualche sicofante falsamente accusato dinnanzi al tribunale popolare e di perdere beni e forse vita? E così via lungo le 200 pagine di fresca dottrina del Bullock. La conclusione, se una conclusione v’è, non è che città ed imperi nell’antichità siano periti od abbiano grandeggiato a causa della finanza cattiva o buona: grandezza politica, imposte savie e buon uso, anche se magnifico, dei loro proventi, sono fatti per lo più concomitanti, laddove decadenza, fiscalismo oppressore di tiranni o di ceti dominanti e spreco del denaro pubblico si accompagnano frequentemente. Vana la ricerca della causa e dell’effetto. Gli uomini, i costumi, le istituzioni famigliari e sociali, le idee che conducono i popoli alla grandezza, li fanno grandi nella finanza come nell’arte della guerra e del reggimento pubblico; laddove il malcostume privato e pubblico e l’ignavia spirituale che corrompono e distruggono la compagine politica corrompono e distruggono altresì la struttura economica e finanziaria.