Florilegio fiscale – A proposito di tentate invasioni comunali in terreno riservato allo stato
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/11/1931
Florilegio fiscale – A proposito di tentate invasioni comunali in terreno riservato allo stato
«La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1931, pp. 620-627
Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II,pp. 379-388
Forse sarà opportuno di riassumere una rubrica vissuta non senza vantaggio per qualche anno dopo il 1911 nelle pagine di questa rivista per iniziativa del compianto Alberto Geisser, il quale dalla esperienza quotidiana di amministratore di importanti società industriali e di consigliere e poi presidente della Cassa di Risparmio di Torino traeva notizia di interpretazioni errate o cavillose o zelanti delle leggi di imposta; e, discutendone amichevolmente con gli amici della rivista, incoraggiava a trarne lo punto per brevi note illustrative ed ammonitrici.
Vedo ora segnalato in una rivista tributaria[1] un caso degno di essere assunto nel nostro Florilegio; caso davvero singolare e contrastante col corso ricevuto della dottrina italiana. La quale, in materia di imposta sui redditi di ricchezza mobile, è tutta imperniata sulla distinzione classica – classicità di marca nostrana, imitata poi in paesi forestieri – dei redditi in quelli di categoria A, derivanti da capitale puro B, misti di capitale e lavoro e C, provenienti da lavoro puro. Né di ciò si dubita; e neppure di un’altra dottrina, la quale su questa prima erasi inserita, reputando che alcuni soltanto di questi redditi fossero atti ad essere assoggettati ad imposta da parte degli enti locali. Si erano cioè distinti i redditi mobiliari in due gruppi:
- il primo costituito dai redditi provenienti da capitale puro (A) e da stipendi, pensioni, assegni e vitalizi, a carico di privati (C2) o di enti pubblici (D);
- ed il secondo dai redditi, misti di capitale e lavoro, di industriali e commercianti (B) e di lavoro, derivanti dall’esercizio di arti e professioni (C1).
Solo i redditi del secondo gruppo erano stati dalla dottrina e dalla legislazione dichiarati assoggettabili a tributi locali, comunali e provinciali, sia che i tributi prendessero l’antica forma grossolana della tassa di esercizio e rivendita o quella provvisoria della sovraimposizione all’imposta mobiliare o infine quella moderna e tecnicamente più perfetta dell’imposta sulle industrie, i commerci, le arti e le professioni. Ad attribuire agli enti locali il diritto di tassare questi redditi incoraggiava la loro natura, sotto parecchi rispetti simile a quella dei redditi provenienti dai terreni e dai fabbricati, da gran tempo oggetto di sovraimposizione locale. I redditi di industria, di commercio, di arte o professione sono invero anch’essi legati al territorio dove hanno origine; né possono disgiungersi dalla clientela che i titolari del reddito in luogo si procacciano e dalle agevolezze che le circostanze economiche locali offrono in misura maggiore o minore. Sono anch’essi variabili ed incerti nella loro misura; e questa è in parte determinata dall’importanza e dal valore dei servizi pubblici che i comuni offrono. Sorge, accanto alla “persona” del contribuente, la figura dell’azienda, dell’impresa, dell’ufficio o studio o bottega, cioè di un qualcosa di materiale, che bene può assimilarsi al terreno od al fabbricato e può formare oggetto di quella sovrimposizione o tassazione locale, la quale ha indole essenzialmente “reale”.
Invece i redditi del primo gruppo hanno la caratteristica di essere fissi e determinati da circostanze nelle quali i servizi pubblici “locali” esercitano poca o punta influenza. L’ammontare dei redditi di capitale puro (interessi di capitali dati a mutuo a privati o ad enti pubblici, di depositi bancari) è in funzione del saggio di interesse corrente nel Paese, – ed oggi in tanti casi si dovrebbe dire “corrente nel mondo”, tanto i rapporti bancari e monetari sono divenuti estesi e complessi -; né si potrebbe concepire che quel reddito potesse essere falcidiato in proporzioni differenti da comune a comune. Il capitale e essenzialmente mobile, trasportandosi con somma facilità da luogo a luogo e persino da stato a stato.
Un’azienda industriale, commerciale o professionale non può trasferirsi agevolmente senza grossa perdita, da un comune in cui subisca imposta più elevata ad un altro dove l’imposta sia mite; e può avere convenienza a rimanere nel comune a più forte tassazione, qualora vi trovi compenso di più perfetti servizi pubblici.
Qual legame invece ha il capitale puro, dato a mutuo, con un dato luogo? Perché il mutuante o depositante dovrebbe trattenerlo in un luogo, se altrove è sicuro di ottenere lo stesso reddito immune da imposta? Bene a ragione quindi il legislatore italiano ha sottratto i redditi di capitale puro (A) alla tassazione locale, riservandoli a sé, come propria esclusiva materia imponibile.
Considerazioni simiglianti si possono fare per i redditi da stipendi o pensioni o salari, sia privati (C2) che pubblici (D). Il loro ammontare fisso, non suscettivo di cangiamenti da luogo a luogo, la loro determinazione su un mercato che per molti stipendi si può dire nazionale e che per tutti tende ad allargarsi a mano a mano che ai contratti individuali si sostituiscono i contratti collettivi stipulati da sindacati di datori e prenditori di lavoro; la ingiustizia che nascerebbe dal falcidiare lo stesso stipendio pagato per l’identica prestazione di lavoro con imposte differenti da luogo a luogo, hanno consigliato di sottrarre i redditi fissi di lavoro alla tassazione locale reale. Quando, anni or sono, redassi, per incarico della commissione di studio, quella parte della relazione al «Disegno di legge presentato dal ministro delle finanze Meda per la riforma generale delle imposte dirette sui redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali» (documento n. 1105, seduta 6 marzo 1919, Camera dei Deputati) che si riferisce al presente argomento, argomentando dal principio della corrispondenza fra servigi resi dagli enti locali e vantaggi ricavati dagli esercenti industrie, commerci e professioni, concludevo per la legittimità della tassazione per essi, escludendola invece per gli interessi dei capitali e gli stipendi. E soggiungevo: «Sotto l’aspetto tecnico, la imposizione che avesse voluto tentarsi sulle altre fonti di ricchezza mobiliare ci avrebbe posti di fronte a difficoltà di applicazione che, in alcuni casi, sarebbero state pressoché insuperabili. Fanno parte, ad esempio, di questa ricchezza gli interessi di capitali, che, in parte assai rilevante, derivano dalle somme depositate presso gli istituti di credito e le casse postali di risparmio, dalle obbligazioni emesse da società industriali e dalle cartelle dei prestiti di comuni, provincie, istituti di credito fondiario ed altri enti. Ora, siccome tutti questi interessi figurano inscritti, agli effetti delle imposte erariali, al nome degli enti debitori, senza che per ciò occorra conoscere il nome e il domicilio dei reddituari, ben si comprendono che non sarebbe stato possibile identificare, presso ogni comune, i reddituari stessi per perseguirli con un tributo locale; né, d’altro canto, sarebbe stato giusto imporre il tributo medesimo a carico degli enti debitori del comune in cui questi risiedono, con un procedimento di imposizione per rivalsa, dacché un tale sistema avrebbe condotto al vantaggio ingiustificato dei comuni nei quali gli enti risiedono, assicurando ad essi un tributo sopportato da reddituari che risiedono altrove e che fruiscono quindi di servizi prestati da altri comuni; i quali ultimi verrebbero così ad essere per tale fatto danneggiati» (loco cit. pag. 102-103).
La quale dottrina si è voluta richiamare, non perché sia controversa; ché di dubbi in proposito non ho notizia; ma solo per spiegare su quali fondamenti di principio (mancanza di rapporto fra servizi pubblici locali e redditi fissi di capitale puro e di lavoro) e di convenienza (impossibilità di corretta distribuzione dell’imposta locale fra gli enti interessati) sia fondata la norma fondamentale dell’imposta sulle industrie, sui commerci, le arti e le professioni. Norma che si può affermare invariata dalla formula contenuta nel disegno di legge Meda:
«L’imposta [sulle industrie, i commerci e le professioni] si applica a chiunque eserciti un’industria, un commercio, un’arte, una professione od un ufficio, da cui tragga un reddito superiore a lire 1.200» (art. 170 e 171).
attraverso a quelle inserite nel decreto legge Tedesco (24 novembre del 1919); in quello Soleri (25 novembre 1921); e nel r. decreto De’ Stefani (18 novembre 1923, n. 2538), istitutivo della imposta, sino all’ultima contenuta nel testo unico per la finanza locale approvata con regio decreto 14 settembre 1931, n. 1175:
«L’imposta sulle industrie, i commerci, le arti e le professioni colpisce chiunque eserciti, anche in modo non continuativo, un’industria, un commercio, un’arte o una professione da cui tragga un reddito soggetto all’imposta di ricchezza mobile. L’obbligo dell’imposta, sorge col sorgere dell’industria, commercio, arte o professione» (art. 161).
Ed il ministero delle finanze non mancò di chiarire quello che era il significato precipuo della norma legislativa; volere cioè l’imposta sulle industrie colpire il reddito proprio di colui che eserciti industria o professione, il reddito cioè da lui tratto dall’esercizio medesimo, affermando tassativamente nelle norme regolamentari 31 maggio 1924, n. 3645, al R.D. 18 nov. 1923; «affinché il reddito possa assoggettarsi alla nuova imposta deve provenire dall’esercizio di una industria, di un commercio, un’arte od una professione». Con esclusione dunque di tutti i redditi che per propria indole non derivino da industria o commercio (cat. B di ricchezza mobile) o di professione (cat. C1); epperciò con esclusione dei redditi di capitale puro (cat. A) o di lavoro puro (cat. C2e D).
Eppure, su tale base chiarissima, si sta da qualche comune impostando l’affermazione di un diritto a tassare redditi, i quali certamente non provengono dall’esercizio né di industria, né di commercio, né di arti, né di professioni. Per spiegare come ciò possa accadere, è mestieri rifarsi d’altra parte.
E precisamente dalla norma contenuta nell’art. 31 della legge d’imposta sui redditi di ricchezza mobile 24 agosto 1877, n. 4021, in virtù della quale il contribuente è di regola autorizzato a detrarre dal suo reddito proprio gli interessi passivi dei debiti da lui contratti purché: 1) ne sia pienamente giustificata la sussistenza; 2) siano contemporaneamente accertati la persona ed il domicilio dei creditori nello stato.
Non tutti i contribuenti debitori hanno la possibilità di dare la duplice dimostrazione ora indicata; ed in questo caso hanno l’obbligo di pagare essi medesimi l’imposta dovuta, salvo il diritto di ritenerla ai creditori.
Quindi, se un industriale o commerciante ha un reddito netto proprio di 100.000 lire ed inoltre paga 200.000 lire di interessi passivi ad uno o parecchi suoi creditori per mutui contratti allo scopo di esercitare la industria o commercio, è pacifico che le 100.000 lire soltanto sono reddito proprio dell’industriale; ed essendo miste di capitale e lavoro, sono tassate in categoria B al nome e per conto del contribuente. Quanto alle 200.000 lire di interessi passivi: o l’industriale debitore può dare la dimostrazione della sussistenza del debito e fornire alla finanza i nomi e il domicilio dei singoli suoi creditori ed in tal caso la finanza accerta e tassa direttamente costoro in categoria A, per essere il reddito proveniente da capitale puro; ovvero l’industriale non può adempiere alle condizioni richieste dal legislatore a garantire alla finanza la piena esazione dell’imposta dovuta; ed in tal caso l’industriale debitore è tassato in suo nome ma non per conto suo, sicché l’art. 31 esplicitamente gli riconosce il diritto di ritenere ai creditori l’imposta da lui soluta per loro conto (diritto di rivalsa). Naturalmente, in questo caso l’imposta è tutta pagata in categoria B, in quella categoria in cui, per la natura del reddito suo proprio, l’industriale debitore deve essere collocato. Ma la classificazione in B non muta natura al reddito da interessi passivi, non lo trasforma in reddito di industria. Esso resta reddito di capitale puro, che per ragioni puramente contingenti non ha potuto essere avulso dalla categoria B e portato nella A. La tassazione al nome del debitore impedisce l’avulsione; ma non sminuisce per nulla la verità del fatto trattarsi di redditi “altrui”.
Talvolta gravi motivi di convenienza, privata e pubblica, vietano l’avulsione; come è il caso delle banche le quali non possono e non debbono violare il segreto dei depositi loro affidati, senza grave nocumento proprio e perturbamento pur grave del credito pubblico, il quale rimarrebbe scosso se i depositanti temessero di vedere le loro operazioni portate a conoscenza di terzi od anche della finanza. Ripetutamente il tesoro ebbe a preoccuparsi delle dannose conseguenze della violazione del segreto bancario e diede ampie assicurazioni che esso non doveva essere violato. Tanto l’interesse diretto della finanza parve secondario in confronto al più alto interesse del mantenimento della fiducia e del credito pubblico.
Il problema per le banche fu risolto diversamente a seconda che trattisi di banche governate secondo la forma di società per azioni o di accomandita per azioni o secondo quella di società in accomandita semplice o in nome collettivo. Alle prime il legislatore ordinò (art. 15 della legge del 1877) di denunciare separatamente gli interessi passivi e questi furono iscritti al loro nome in cat. A, salvo rivalsa contro i debitori. Si reputò cioè di potere, data la pubblicità propria della gestione delle società per azioni, trasformare in obbligatoria quella dichiarazione degli interessi passivi che per i contribuenti in genere è facoltativa. Per le banche a forma di accomandita semplice o in nome collettivo, trattandosi di società di persone, si applicò il regime ordinario dell’art. 31: libero il contribuente debitore (banca privata) di denunciare nome e domicilio dei depositanti e correntisti – nel qual caso l’accertamento avrebbe luogo al loro nome direttamente – o di pagare, salvo rivalsa, l’imposta medesima per loro conto.
Le banche private, giustamente gelose del segreto dei depositi dei loro clienti, seguono consuetamente la seconda alternativa. Esse perciò sono tassate in categoria B, tanto per i redditi loro propri (le 100.000 lire dell’esempio dianzi fatto), quanto per gli interessi passivi da esse pagati (le 200.000 lire dell’esempio) che sono redditi dei loro depositanti. E su di questi esse si rivalgono dell’imposta pagata, sia con ritenuta apposita, sia, più spesso e con risultati equivalenti, assegnando ai depositi un interesse corrispondentemente più tenue.
Che anche in questa seconda alternativa le 200.000 lire siano redditi “altrui”, non derivanti dall’esercizio dell’industria bancaria, ma frutto del deposito o mutuo di capitale puro da parte ed a pro’ dei depositanti, è indubbio. La finanza esplicitamente riconosce la separazione dei due redditi ed in taluni concordati di accertamento si afferma essere:
- il reddito di cat. B di lire X (nell’esempio 100.000 lire) proprio dell’esercizio di banca;
- l’ammontare degli interessi passivi corrisposti dalla banca ai propri depositanti in lire Y (nell’esempio 200.000 lire) tassabili dietro rivalsa al nome della banca a sensi dell’articolo 31 T.U. 24 agosto 1877, n. 4021, e tassabile con l’aliquota di cat. B a norma di detto articolo 31.
La finanza predilige, nonostante che la tassazione al nome della banca debitrice secondo l’aliquota della cat. B (14%) importi una perdita apparente in confronto alla tassazione al nome dei depositanti creditori in cat. A (20%), tassare la banca piuttostoché i depositanti, perché in tal modo congloba in uno centinaia e talvolta migliaia di accertamenti a di tassazioni, ed evita spese ed inesigibilità. La differenza di aliquota (6% in meno) è quasi una provvigione che la finanza, ossequente del resto alla chiara norma di legge, volontieri abbandona alla banca, contribuente intermediario che le assicura prontezza e pienezza di accertamento.
Qui viene l’occasione del presente capitolo del nostro florilegio fiscale. Talun comune, non contento di tassare con l’imposta sulle industrie le 100.000 lire di reddito proprio della banca, pensò che anche le altre 200.000 lire, interesse passivo ossia spesa per la banca e reddito per i depositanti, fossero buona preda di guerra tributaria; e, seguendo il costume di sostituire alla norma di ragione la regola delle sciabolate,[2] argomentò dalla lettera dell’art. 4, già citato, del R.D. 18 novembre 1923, n. 2538, istitutivo della imposta sulle industrie, il quale aveva dichiarato che l’imposta deve «applicarsi al reddito netto accertato agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile; e da quella dell’articolo 3 del R. Decreto legge 4 gennaio 1925, n. 2, il quale assoggettava all’imposta sulle industrie tutti i redditi di categoria B e C iscritti nei ruoli dell’imposta di ricchezza mobile». Se oggetto dell’imposta sulle industrie è il reddito quale “accertato” ai fini dell’imposta di ricchezza mobile; e se tali sono “tutti” i redditi di categoria B e C iscritti nei ruoli dell’imposta di ricchezza mobile, forseché anche gli interessi passivi pagati da una banca non sono reddito “accertato” ed “iscritto” nei ruoli di ricchezza mobile in categoria B? Quindi sono altresì tassabili coll’imposta sulle industrie.
La proposizione contrasta ai più evidenti principi di interpretazione logica della legge. Che il legislatore si sia preoccupato di evitare ai contribuenti e alla finanza il fastidio e l’incongruenza di una doppia estimazione del medesimo reddito prima ai fini dell’imposta di ricchezza mobile di stato e poi a quella dell’imposta comunale sulle industrie; che abbia ritenuto opportuno di imporre ai comuni di non scostarsi dagli accertamenti già eseguiti da organi statali, per indole loro inaccessibili alle condiscendenze ed alle passioni locali; che abbia affermato il diritto dei comuni di tassare tutti i redditi già accertati dallo stato, è logico. Ma si intende che cotal diritto il legislatore affermò per quei redditi di categoria B e C, quali fossero tratti a pro’ del contribuente dall’esercizio di un industria, di un commercio, di un’arte o di una professione. Un comune avrebbe il diritto di tassare gli stipendi pagati da una banca ai suoi impiegati solo perché accertati agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile ed iscritti a C? Certamente no; perché essi, sebbene iscritti in C, non sono tratti dall’esercizio di una professione, ma da puro impiego di lavoro a stipendio altrui. Similmente, ha il comune diritto di tassare con l’imposta sulle industrie gli interessi passivi pagati dalla banca ai suoi depositanti, solo poiché accertati agli effetti dell’imposta mobiliare ed iscritti in B? Mai no, perché essi, sebbene iscritti in B, non sono redditi del contribuente banca, né sono tratti dall’esercizio dell’industria bancaria, ma sono il frutto dell’impiego di capitale puro dato a mutuo o in deposito al banchiere. La banca è semplicemente, rispetto a questi redditi, un esattore intermedio, il quale, con vantaggio della finanza, incassa l’imposta di ricchezza mobile dei percettori del reddito e ne versa l’importo nelle casse dello stato. Ma tale funzione, importantissima nella finanza moderna, strumento prezioso scoperto dalla tecnica tributaria nel secolo XIX, ragione principale del successo, imprevedibile un tempo, della imposizione diretta, non deve essere storta all’intento di trasformare l’indole medesima del tributo.
L’amministrazione finanziaria statale, fa d’uopo riconoscerlo, si tiene lontana da siffatte storture. Il procuratore alle imposte, di cui ricordai sopra il tenore di talun concordato, consapevole delle voglie dei comuni di metter le mani su materia tributaria propria dello stato, aveva cura di annotare che «l’ammontare degli interessi passivi è tassabile solo agli effetti della imposta erariale, esclusa ogni sovraimposizione da parte degli enti locali».
Quando si trattò di applicare la norma del T.U. 9 giugno 1918, n. 857, all. A., la quale assoggettava all’imposta sui sopra profitti di guerra tutti i redditi che agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile erano tassati in B, la commissione centrale, tutrice suprema delle ragioni della giustizia tributaria, dichiarò subito che l’imposta sui sopraprofitti colpiva bensì tutti i redditi iscritti in B, ma s’intende, purché fossero “redditi propri” del contribuente, industriale, commerciante o banchiere e non redditi di terzi, di depositanti o creditori, per la loro natura non soggetti all’imposta sui sopraprofitti di guerra (Decisioni 23 ottobre 1920, n. 4465; 12 agosto 1921, n. 10977; 8 giugno 1922, n. 17123).
Lo stato ha un chiaro interesse ad impedire le invasioni tributarie dei comuni. Non a caso, dissi in principio, lo stato riservò a sé la tassazione dei redditi di capitale puro e di lavoro puro da stipendio, consentendo ai comuni ed alle provincie solo la tassazione dei redditi incerti e variabili provenienti da imprese industriali e commerciali e da professioni libere. Esso non ha voluto si costituissero numerosi mercati chiusi, tra cui fosse da imposte differenziali fra comune e comune frastornato il libero movimento del capitale e del lavoro. Se comuni e provincie debbono trarre imposta anche da questa fonte, ciò deve accadere in seguito a norma legislativa chiara e ragionata. Se la norma verrà, probabilmente non sarà reputato conveniente di consentire che i redditi di cat. A e C2 siano variamente tassati, con aliquote diverse, or si ed or no, da comuni e provincie. Se anche si vorrà in avvenire dare – ma a parer di quanti finora legiferarono e studiarono in materia non si deve dare – agli enti locali facoltà di imporre su quei redditi, ciò potrà accadere solo attraverso ad una qualche forma di compartecipazione alla imposizione uniforme statale, a quel 20 o 14% che lo stato esige. Dubito molto che, dinnanzi alla tendenza del gettito della categoria A a diminuire ed al moltiplicarsi delle esenzioni d’ogni specie per gravi ragioni dal legislatore consentite ai redditi da mutui, da obbligazioni e simili, lo stato si voglia decidere a dare agli enti locali il diritto di attingere a quella fonte. Quando si concedono esenzioni dall’imposta statale per incoraggiare l’afflusso dei capitali dall’estero in Italia, è forse tempo propizio per creare ostacoli alla fluidità dei capitali medesimi nell’interno del paese? Ad ogni modo, se lo stato possa in parte rinunciare a quel 20 o 14%; se le aliquote possano essere aumentate; in che modo possa organizzarsi una compartecipazione, sono problemi delicati, i quali non debbono essere risoluti di straforo, qua e là, da singoli comuni in vena di contrabbando su quella che è e deve rimanere terreno riservato allo stato. Non dovrebbe essere consentito di fare ragionamenti del tipo seguente: «Poiché lo stato, per sue ragioni – che sopra vedemmo essere plausibilissime, – tassa un reddito di capitale puro in B al 14% e fa così risparmiare al contribuente intermedio il 6%, portiamo via noi una parte di questo 6% a cui lo stato ha rinunciato». Se l’interessante ragionamento fosse ammesso in un caso, perché non in altri? Perché i comuni non potrebbero arrogarsi il diritto di dar giudizi sulla gravezza delle aliquote delle imposte statali e giudicatane una, a capriccio, troppo bassa, non dovrebbero poterla aumentare a proprio profitto? Dove finirebbe la sovranità tributaria dello stato, se bizzarrìe cosiffatte trovassero diritto di cittadinanza? Il sistema tributario italiano, che una fatica diuturna della dottrina e della pratica legislativa ed amministrativa si sforza di mantenere entro le rotaie della semplicità, che è giustizia e sufficienza, cadrebbe in un disordine irrimediabile.
[1] Vincenzo Rizzo, Sulla riforma tributaria degli enti locali. Imposta comunale sulle industrie (in «Diritto e pratica tributaria», anno V, 1930, n. 5).
[2] Un ministro delle finanze del tempo di guerra giustificò un giorno un tributo squinternato dicendo che «in tempo di guerra le imposte sono come le sciabolate. Guai a chi le tocca». Il principio, pessimo anche in tempo di guerra, non, convenendo mai allo Stato offendere il senso di giustizia dei popoli, è contennendo in tempi nei quali nessuna necessità urge ad inutili offese alla ragione tributaria.