Opera Omnia Luigi Einaudi

Francesco Ferrara ritorna

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1935

Francesco Ferrara ritorna

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1935, pp. 214-226

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 398-410

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 26-40

 

 

 

FRANCESCO FERRARA – Lezioni di economia politica. (Due vol. in 8°, vol. I, pagg. CIII – 803, vol. II, pagg. 793; con ritratto di F.F. nel I volume. – Opera pubblicata per iniziativa dell’Istituto di politica economica e finanziaria della R. Università di Roma, a cura della dott. GILDA DE MAURO-TESORO. Bologna, Nicola Zanichelli, 1934 e 1935. Prezzo L. 80).

 

 

1. – L’opera che qui si annuncia è certamente il maggiore avvenimento della letteratura economica italiana dell’anno in corso. Conoscevamo Francesco Ferrara scrittore delle Prefazioni autore di saggi storici e teorici, giornalista e polemista, uomo politico ed insegnante. Alcuni pochi si illudevano di conoscere, attraverso le lezioni litografate del biennio 1856-1858, il Trattato di Ferrara; ma un po’ d’amaro rimaneva in bocca ai gelosi monopolisti delle poche copie salvate dal naufragio comune alle dispense universitarie, ché quello era un Ferrara visto attraverso la penna di scolari sia pure valorosissimi. Quand’ecco, improvvisamente, invece di una ristampa, che sarebbe anch’essa stata la benvenuta, dei corsi litografati, gli aspettanti si vedono presentato un Ferrara nuovo, genuino, scritto di getto da lui medesimo, col suo stile, colla sua foga; e si rimane afferrati, come già dalle Prefazioni e costretti ad andare in fondo, commossi e riconoscenti.

 

 

Siano rese grazie ad Alberto De Stefani, il quale volle questa edizione delle Lezioni del principe degli economisti italiani del secolo scorso ed alla dott. De Mauro-Tesoro che la curò.[1] Credo di interpretare l’opinione concorde degli studiosi italiani e forestieri affermando che De Stefani si è reso, col volere ed attuare la degna impresa, benemerito della scienza economica.

 

 

2. – Nei due volumi v’ha materia ad indagini varie, ad analitici confronti fra il pensiero espresso nelle Prefazioni e quello venuto fuori di getto nella stesura delle lezioni, a ricostruzioni di eventuali trasformazioni di quel pensiero fra il 1849 ed il 1873, che sono gli anni di più fervida elaborazione scientifica del Ferrara. Di tra le 1100 pagine e più di materia nuova, assolutamente nuova, uscita genuina e fresca dalla penna del mago il quale, facendo forse mormorare sottovoce qualche pedante collega, entusiasmava migliaia di uomini maturi e di giovani ardenti e li innamorava della scienza economica, la scelta per un primo resoconto del contenuto delle riesumate Lezioni, mi cadde sulle duecento e più pagine del Trattato speciale delle imposte, le quali costituiscono, nel disegno della curatrice, la parte terza dell’opera intiera (Vol. I, pag. 551-765).

 

 

3. – Non potevo quasi credere a me stesso, sfogliando le pagine. Chi avrebbe osato sperar tanto? Ferrara, di scienza delle finanze si era occupato solo incidentalmente nella prefazione sulle Dogane affermando «che l’imposta traligna dalla sua origine e mentisce al suo scopo, tostoché superi il valore reale di quei servigi che la società per mezzo delle pubbliche spese ci rende o promette» e che perciò bisogna serbare fra imposta e reddito una “moderata” proporzione, variabile coi tempi, coi luoghi, coll’ammontare dei redditi, con il bisogno sentito dai cittadini delle pubbliche spese (Prefazioni, II, 2, 299-300); o riaffermando, nelle lettere polemiche ai compilatori dell’«Economista» di Firenze su Il problema ferroviario e le scuole economiche (da Venezia, addì 29 febbraio 1884), la tesi chiaramente contrattualistica della

 

 

«necessità di un concerto, in virtù del quale, un gruppo speciale di uomini ricevano, assumino o usurpino se si vuole, il mandato di dedicarsi esclusivamente a tenere in freno coloro che invece di conquistare sulla natura, si attentino ad invadere il campo di libera attività occupato dai loro simili. Da ciò una classe di produttori, addetti a procurare quella tale utilità, che si chiama giustizia, ordine, difesa, tutela in una parola governo… Per noi, vi hanno dei governanti come e perché vi hanno agricoltori, proprietari, avvocati, ecc.; governare è un mestiere come tanti altri; governanti sono uomini in carne ed ossa che assunsero, sia di propria volontà, sia per espressa richiesta, l’incarico di produrre pace e giustizia, come il cacciatore produce la selvaggina e il sarto i vestiti … Se governare è produrre, le innate leggi della produzione devono inesorabilmente regnare nel mestiere de’ governanti, quanto e come regnano su chi coltiva la terra e ne porta i frutti al mercato. L’utilità sociale che il governo produce non può, da lui medesimo o da lui solo, estimarsi; chi può misurarla, gradirla o rifiutarla, attribuirle un valore, sarà colui che la compri e la consumi, la nazione. Sì, noi, nazione-governata, siamo i soli a cui spetti il decidere se ella meriti quel prezzo che il produttore-governo, per mezzo delle imposte di cui ci aggrava, o delle privazioni a cui ci condanna, pretende di farcela costare. Ma poi, in generale, noi siamo padroni assoluti di determinare in quali casi e fin dove l’azione tutelare, se così vuolsi chiamare, de’ governanti ci giovi e ci occorra; a noi appartiene il decidere la specie delle nostre occupazioni private, il modo di condurle, i patti da proporre a coloro fra i nostri simili che bramino di permutare i loro prodotti co’ nostri” (in «L’Economista», 24 febbraio 1884, pag. 114-115).

 

 

Spunti suggestivi, ma occasionali, ma non elaborati in una costruzione pensata allo scopo preciso di dare una ragione a se medesimo del fatto tributario; perciò non tali da assicurare al Ferrara una posizione di rilievo nella storia delle dottrine finanziarie.[2]

 

 

Ecco ora Ferrara offrire un vero trattato, volutamente sistematico, dei principi della scienza dei tributi! C’è, qui, tanto da rendere giustamente orgogliosi il promotore e la curatrice dell’edizione.

 

 

Il Trattato speciale delle imposte è la riproduzione del corso di lezioni tenute a Torino nel secondo quadrimestre dell’anno accademico 1849-1850 dal 2 aprile al 18 giugno. Per qualche lezione esistono solo appunti sommari, correttamente riprodotti nella loro forma originaria; ma il più è stesura definitiva, di penna del Ferrara.

 

 

4. – Anche posto dinanzi ad una materia così ribelle alla sistematica, all’ordine logico, all’ubbidienza ad un principio dichiarato, quale è la materia tributaria, Ferrara non si smarrisce. La sua fiducia nel trionfo ultimo della verità contro l’errore, della giustizia contro l’arbitrio, della libertà oppressa contro la tirannia trionfante è fermissima:

 

 

«Se queste osservazioni statistiche non hanno ancora acquistato la latitudine e la certezza che basti per dedurre un gran numero di verità, han giovato pur non di meno a svelare un gran numero di antichi errori.

 

 

L’opinione pubblica si è rischiarata. Il contribuente ha conosciuto qual sia l’estensione, e quali i confini del suo dovere in fatto di imposte; e questa cognizione è divenuta un gran freno alla licenza dell’amministrazione; più d’una volta è penetrata nei gabinetti, più d’una volta i principi più potenti si son trovati, senza pur sospettarlo, soggiogati dalla forza di un modesto ed ignorato scrittore» (I, 565-6).

 

 

Non è utopia l’affermazione del vero; utopista è lo scettico il quale afferma che qualcosa possa fermare il cammino della verità:

 

 

«È stato detto, con una deplorabile confusione di termini, che noi, propugnando il principio della massima perequazione in materia d’imposta, cerchiamo una pietra filosofale, e facciamo utopie alla Babeuf e alla Saint-Simon. Così dicevano i parlamenti francesi a Turgot quando egli giocava la popolarità del suo nome per conseguire l’intento di emancipare il lavoro dell’artigiano; così diceva il nostro Galiani quando Turgot volea svincolare il commercio delle granaglie; qualche cosa di simile fu detto quando si parlò di render libero il traffico coloniale; cento cose di simile si dicevano fino all’altro ieri, si dicono ancora per impedire il trionfo della riforma doganale; e ad onta di ciò la libertà del travaglio, la libertà del commercio, la riforma delle dogane, son già passate nel campo degli assiomi. So bene che tutto è difficile a chi non vuole; ma so ancora che non vi ha malvagio volere nel mondo il quale possa fidarsi di resistere eternamente alla prepotenza della verità. So bene che i partiti e gli interessi hanno per sé tutti i mezzi e tutte le arti, dal danaro al sofisma, dalla violenza alla seduzione; ma so ancora che la verità col suo passo di piombo, va e sempre va, è instancabile, è sempre fresca e serena: si può contrariarla ma colpirla ed estinguerla è sempre impossibile, quanto è impossibile estinguere l’umana ragione» (I, 733).

 

 

Contro i teorici del clima e della razza, i quali affermano che le imposte son giuste in Inghilterra, perché l’inglese è per indole disposto a dichiarare il vero, a mettere «in affare d’imposta quel punto di onore che è avvezzo a porre in tutti i suoi affari», laddove «ogni altro popolo, il francese non eccettuato, metterebbe una idea di vanità a saper mentire nelle sue dichiarazioni e deludere le ricerche del fisco» (I, 746), Ferrara trova parola che son di collera e di speranza:

 

 

«Io non so se realmente esista tra il popolo inglese e i popoli del continente questa enorme differenza di carattere, così incorreggibile in noi come si vorrebbe supporre; se devo giudicarne dalle parole medesime degli inglesi, sarei in diritto di dire che il pericolo, o almeno il timore, delle dichiarazioni fraudolenti si trova in Inghilterra quanto altrove.

 

 

Supponendo che esista, essa non è sicuramente legata al clima, ma all’effetto della educazione ed alla lunga abitudine del governo libero. Sarebbe dunque una difficoltà temporanea, e di una durata non così lunga. Il governo libero in ciò fa miracoli. Non ho veduto praticamente l’indole del carattere piemontese sotto l’assolutismo, e perciò non posso paragonarlo; ma ho veduto come sia naturalmente sospettoso il carattere dei popoli che vivono sotto un governo dispotico; e posso dire con sicurezza che la libera discussione delle imposte è un gran mezzo per generare negli uomini l’abitudine di solidarietà col fisco. Io vedo il Piemonte, sopraffatto dalla enormità degli aggravi che sta per subire, come conseguenza di una grande impresa fallita; lo vedo rassegnato e tranquillo, convinto che si tratta di una necessità ineluttabile. Non so, ripeto, se ai tempi dell’assolutismo questo medesimo popolo avrebbe mostrato un’eguale impassibilità; ma so che sarebbe impossibile far pagare con eguale rassegnazione una metà di tanti pesi al popolo di Napoli e di Sicilia, dove un solo uomo è giudice, arbitro, esecutore dei sacrifici ai quali la nazione può essere chiamata. L’inglese vi mette del punto di onore; sia pure così: ma credete ora che pochi anni di educazione liberale non possano ridurre qualunque popolo a metterne altrettanto? Credete che qualunque popolo come il piemontese, appena arrivi ad essere penetrato da quel sentimento di fiducia vera e piena, qualunque popolo che cominci a riposare sulle parole del suo Re come noi già riposiamo su quella di Vittorio Emanuele, che cominci a vedersi rappresentato da uomini illuminati e sinceramente attaccati alla prosperità del paese, non sarebbe in poco tempo altrettanto legato al punto di onore che esiste o si suppone esistere in Inghilterra?

 

 

L’inglese è naturalmente inclinato a gonfiare la sua fortuna; sia anche così. Ma questo effetto è forse dovuto alla nebbia di Londra o al freddo di Scozia? È l’effetto naturale di un’attività economica, di una prosperità fondata sulle imprese industriali, sopra un uso estesissimo del credito e dei suoi misteri. Credete voi che ogni popolo, il quale si metta sullo stesso sentiero non contrarrebbe l’eguale inclinazione? Credete voi che l’Italia unita, se non unica, senza la peste delle sue mille dogane, e con unica linea doganale che appena segnasse il suo confine geografico, coi suoi ingegni, colla sua agricoltura, col dominio di due mari, che l’Italia divenuta nazione una volta, industriosa e ricca, non diverrebbe del pari una nazione nella quale la dichiarazione spontanea, in materia di imposte, sia interessata, se non a gonfiare fittiziamente, almeno a non diminuire le fortune individuali?» (I, 747-7479).

 

 

Spregevole è l’arte del “finanziere ordinario”, il quale è «soddisfatto di se medesimo, quando abbia trovato tutt’al più il segreto di pervenire a levare una gran massa di dazi senza eccitare grandi rumori; e questo segreto non è che la massima di Bonaparte; cominciare dal poco ed arrivare al molto gradatamente, come si fa con una bestia da soma» (I, 758). Il cospiratore contro i Borboni male soffre la scienza ridotta ad elencare verità secondarie subordinate alla menzogna fondamentale. La finanza ai suoi occhi non è arte autonoma, pronta ai cenni di un qualunque governo. Essa può fiorire solo quando tutte le altre scienze fioriscono:

 

 

«Ma tutto nell’ordine morale si lega per azioni e reazioni reciproche. Finché avremo tiranni avremo pericoli di rivolte; finché avremo demagoghi, avremo tendenze reazionarie; finché non avremo coscienza avremo demagoghi e tiranni, e la risultante di queste forze contrarie sarà la permanenza e il progresso delle pubbliche imposte.

 

 

Bisogna riconoscere questo stato di cose, ma bisogna deplorarlo ad un tempo. La politica che lo accoglie con piena serenità, è insensata e trista politica; ma più insensata e trista di essa è la rassegnazione anzi quella specie di compiacenza con cui una frazione della scuola di economisti inglesi contempla l’accrescimento delle imposte. Senza dubbio, questo eccesso, risultato graduale di viziosi sistemi politici, ha potuto indirettamente contribuire a perfezionare l’arte di produrre, obbligando gli uomini a trarre miglior partito dalle forze della natura. Ma voi sapete che questo effetto provvidenziale è dovuto attualmente a tutto ciò che forma un dolore per l’umanità. Le spese gigantesche degli stati moderni se lasciano indirettamente sperare un beneficio lontano, non avranno perciò perduto l’odioso carattere che portano seco di edificare il beneficio futuro sull’enormità del sacrificio presente; e non lasciano di minacciare, allato al beneficio futuro, la futura rovina. È possibile che, quando i progressi dell’arte governativa avranno ricondotto le pubbliche contribuzioni a livello di veri bisogni sociali, si risentirà un gran sollievo risultante dai progressi che l’arte di produrre avrà fatti sotto la pressione dei dazi; ma è possibile ancora che se, per il sistema di profusioni in cui ci ha gettati il meccanismo della politica europea, il sistema dei dazi crescenti prevale e si propaga, il mondo vedrà un bel giorno ripiombate nelle barbarie le nazioni la cui civiltà ci sorprende di più» (I, 758-759).

 

 

5. – Che cosa è l’imposta per un uomo che ha sofferto le carceri dei Borboni ed ha trovato asilo e cattedra nel Piemonte di Cavour e di Vittorio Emanuele II, per uno scienziato, il quale sa astrarre il concetto puro dalla realtà, ma soffre la realtà bruta e ne augura una migliore? Qui è forse il contributo maggiore e consapevole di Ferrara alla teoria dell’imposta. Quel contrapposto fra imposta in uno stato monopolistico ed imposta in uno stato cooperativo che De Viti costrusse, fra l’imposta “taglia” di Pantaleoni e l’imposta “ottima” che tanti, e fra i tanti lo scrivente, faticosamente ricercano, eccolo posto nitidamente dal Ferrara.

 

 

Appena appena velato dal non necessario linguaggio contrattualistico, ecco in Ferrara magnifico lo schema dell’imposta ottima:

 

 

«L’imposta, nel suo puro significato, non sarebbe né un sacrificio propriamente detto, né una violenza esercitata su chi la paga da un potere superiore; sarebbe piuttosto il prezzo, ed un tenuissimo prezzo, di tutti i grandi vantaggi che a ciascheduno di noi lo stato sociale, lo stato organizzato presenta. Divisi l’uno dall’altro, o appena materialmente accozzati, come furono e sono i selvaggi, saremmo, riguardo alla società organizzata, ciò che è l’animale riguardo all’uomo. Lo stato sociale ci difende dalle aggressioni individuali e generali, interne ed esterne, ci assicura il possesso dei beni, ci sviluppa l’intelligenza, ci raffina il cuore, ci dirige le azioni; e dopo aver vegliato su ciascheduno di noi, dal nostro primo vagito sino all’estremo respiro, ci dà l’ultimo e forse più caro di tutti i conforti, ci concilia coll’idea della morte, assicurandoci che custodirà colla medesima sollecitudine i beni che abbiamo accumulato ai nostri figliuoli e farà rispettare i loro diritti come ha fatto pe’ nostri. Questa immensa utilità, di cui l’abitudine ci fa dimenticare l’alta importanza, è frutto di una serie di combinazioni, le quali costituiscono anch’esse un travaglio umano, un travaglio che ha un valore, un travaglio che deve essere retribuito. È frutto delle leggi e della loro esecuzione; esige uomini che la pensino, la sanciscano, la facciano rispettare e ubbidire; esige mezzi di coercizione e di facilitazione; armi, truppe, prigioni, tribunali da un lato; strade, edifici, istituzioni, scuole, soccorsi, da un altro; e ciascheduno di questi mezzi, non è creazione spontanea della natura, è opera dell’ingegno e della mano dell’uomo, è travaglio che niuno farebbe se non gli si offrisse un compenso, se non divenisse per lui ciò che è per ogni altro, mezzo di sussistenza e d’industria. Chi può offrire questo compenso? Chiunque ne goda, cioè la società tutta intiera, cioè ciascheduno di noi. Noi che dall’insieme della combinazione sociale ricaviamo sicurezza personale e reale, mezzi di sapere e d’industria, considerazione e soccorsi; noi che invece di vegliare alla custodia della nostra capanna e delle nostre famiglie, riposiamo tranquillamente la notte, lavoriamo il giorno e produciamo i nostri mezzi di vivere; noi abbiamo, non già il dovere, ma il vantaggio di staccare una frazione dei nostri beni e cederla in compenso di chi lavora, per noi, di chi fa e fa eseguire le leggi; di chi veglia dietro le nostre porte, di chi offre la scuola ai nostri figli, la strada a chi viaggia, la chiesa a chi prega, l’asilo a chi è povero, l’ospedale a chi è infermo. Eccovi l’idea dell’imposta nella sua purità. Nulla di più legittimo anzi di più volontario. È un contratto fra la maggioranza della società, e quella parte di uomini che, o per le loro speciali abilità, o per motivi che qui non interessa discutere, rappresentano l’autorità costituita, il governo. È una frazione de’ nostri valori che diamo in cambio delle utilità inerenti allo stato organizzato; e se riflettiamo che, per ciascheduno di noi, il valore è minimo, l’utilità immensa, l’idea del sacrificio quasi sparisce, l’imposta non è più che una delle nostre spese necessarie e meglio calcolate. Lo stesso vocabolo imposta, colla nozione che vi è implicata, di costringimento, di obbligo, di violenza, ci sembra male adoperato e preferiremmo chiamarla non più che semplice contribuzione» (I, 551-553).

 

 

6. – Contro allo schema puro dell’imposta ottima, ecco dettato coll’animo commosso del cospiratore contro la tirannia borbonica e per la libertà d’Italia, lo schema, che poi sarà pantaleoniano, dell’imposta “taglia”.

 

 

«Nel fatto della società l’imposta è il capriccio e l’abuso da un lato; dall’altro è la schiavitù, l’oppressione. Volete voi sapere come mai sia avvenuto che il mondo abbia sofferto i Neroni e i Caligola nell’antichità, soffra i Nicola e i Ferdinandi oggidì? è l’imposta che li mantiene: al paesano russo e al contadino siciliano si dà ad intendere che egli la paghi soltanto per averne in cambio giustizia, mezzi di lavoro, protezione; e invece ne ottiene bastonate, esilî , assassinî , miseria.

 

 

Volete voi sapere perché mai uno sciame di parassiti o di meretrici possano vivere nelle corti? perché l’ignoranza e l’intrigo vi si possano portare in trionfo, il sapere e la virtù vi siano respinti e derisi? come mai in un governo temperato, possa un cattivo ministero far ligie al suo volere le camere? trovare deputati e giornali che ne coprano e difendano le colpe e l’incapacità? l’imposta racchiude e spiega tutto l’enigma. L’imposta è la grande sorgente di tutto ciò che un governo corrotto possa speculare in danno de’ popoli; l’imposta mantiene la spia, incoraggia il partito, detta gli articoli di giornali.

 

 

Nel concetto filosofico, lo stato organizzato è il gran motivo che nobilita l’idea dell’imposta; nel concetto storico, invece, l’imposta è il gran segreto che organizza la tirannia. Tutto ciò che vi è di volontario nell’uno, diviene usurpazione e furto nell’altro; là il soddisfarla è un vantaggio proprio, è un dovere verso i propri simili, qua pagarla è viltà, è atto da schiavo, è delitto perché chi paga un obolo al despota è per la parte sua responsabile di tutte le lacrime che la mano del despota farà versare all’umanità. E se nel concetto filosofico la parola contribuzione ci pare più vera e più degna nel concetto storico v’invito pure a mutarla, ma sarà solamente per chiamarla flagello» (I, 553-554).

 

 

7. – Di aver definito l’imposta ottima Ferrara non si contenta; egli vede che la teoria dell’imposta ottima è un caso particolare della teoria generale del valore. Conforta, dopo tante discorse sociologiche, politiche, sociali e giuridiche, le quali al più servono a spiegare la successione dei fatti storicamente accaduti – ma non servono, perché la storia non si ripete, e quelle discorse sono un guazzabuglio di fatti appartenuti ad epoche e paesi diversi, – essere ricondotti dal maestro ai principî fondamentali:

 

 

«Vi ha un punto di vista, sotto il quale l’imposta, come qualunque de’ fenomeni che figurano nella sfera sociale, non significa nulla. Come il vendere, il comprare, il lavorare, il consumare, il viaggiare, ecc., ecc., sono atti che, appena si astraggano da certe relazioni di benessere e di diritto, divengono puri e semplici movimenti; così l’imposta, considerata in questo aspetto generico è un atto indifferente. È un danaro, o una derrata, che si trasloca, che passa da un forziere, da un magazzino in un altro; non è un fatto degno di attenzione più di quanto il sarebbe un facchino, un commesso che trasportasse un sacco di moneta da una casa ad un’altra.

 

 

Per cominciare a formarne un giudizio, bisogna dall’ordine generico del movimento materiale, trasportarla nell’ordine speciale della ricchezza; e considerarla sotto i due aspetti che include la parola ricchezza: come valore che si possiede, come valore che si fa e si disfa dal travaglio dell’uomo. Sui valori che si possiedono, non vi ha che un sol rapporto considerare, che è quello del godimento e della privazione. Possedere o non possedere un valore è poterne o non poterne godere. La imposta è un valore sottratto dalla cassa del privato che lo possedeva; vi ha privazione? ecco la prima domanda.

 

 

Se materialmente vi sia parrebbe una puerilità il ricercarlo. Chi può mettere in dubbio che il cittadino contribuente, pagando un dazio all’agente del fisco, si spoglia meccanicamente di qualche cosa e ne conferisce al fisco il possesso? Ma questo qualche cosa è un valore; e l’essenza del valore, come sapete, non consiste in una materia; ma è un rapporto, un’utilità che, se è sempre incorporata nella materia, vi è sempre legata per effetto di un giudizio mentale; si attacca alla forma per dominarla non per farsi sua schiava; cambia la spoglia, e può nondimeno restare malgrado che la forma primitiva sparisca. Il fatto della traslocazione o della disparizione di un oggetto utile non basta per inferire che un valore si sia perduto o acquistato. Chi cambia il suo denaro coll’abito altrui, si è separato dal suo danaro, non ha perduto il valore.

 

 

Non vogliate domandarne ai ministri delle finanze, né cercate la soluzione di questo quesito ne’ preamboli de’ reali decreti; non vi ha despota al mondo che non creda aver dato ad intendere al popolo che egli sia ben lontano dal volerlo dissanguare per mero capriccio; che la necessità, che motivi imperiosi di pubblico bene lo spingano, che in contraccambio del danaro riscosso egli dia al contribuente giustizia, sicurezza, protezione, istruzione, soccorso.

 

 

Presentata sotto questa innocente apparenza, l’imposta non è mica un valore perduto, non ha alcun carattere di spoliazione. Si riduce ad un mero cambio di utilità; il contribuente cede una parte dei suoi valori, per avere dalle mani del governo que’ tali beni che, in società e per l’azione complessiva della società, è unicamente possibile avere. La spesa delle imposte sarebbe anzi una delle spese meglio ideate, avrebbe tutti i vantaggi delle associazioni» (I, 638-639).

 

 

8. – Alla luce del principio fondamentale del valore, i sofismi con i quali si pretende spiegare l’imposta dileguano:

 

 

«L’imposta in se stessa non è né un bene né un male. Per farne un adeguato giudizio, bisogna raffrontare il sacrificio che costa all’utilità che promette. O si considera in faccia al contribuente o si considera riguardo alla società presa in massa, sarà sempre vero che sarà giusta od ingiusta, buona o cattiva, utile o nocevole, secondo che il valore sacrificato corrisponda al valore ottenuto. Al di fuori di questo principio non vi ha criterio che possa guidarci verso un retto giudizio. Il danaro che si riversa, il lavoro che si eccita nel paese, la perequazione de’ beni, son tutti sofismi, se si prendono come idee che stanno da sé, indipendentemente dalla equazione tra valore pagato ed utilità ricevuta; son tutte superfluità senza significato, se vi s’intende implicare l’idea de’ due valori che si bilancino» (I, 649).

 

 

È sofisma quello «dell’imposta che si riversa»; a nome di questo sofisma Luigi XIV a madame de Maintenon che lo esortava a fare qualche più larga limosina rispose: «La limosina di un re sta nelle grandi somme che spende» (I, 643). Considerato in se stesso, il prelievo del denaro dell’imposta non è una perdita; né lo diventa quando lo stato lo cambia «con viveri ed abiti per le sue truppe, servizi pe’ suoi dicasteri, comodi ed abiti per la sua corte, ecc., ecc., (I, 645)». La perdita sorge quando i viveri ed i servizi in cui lo stato cambia il denaro del contribuente non equivalgono al denaro speso.

 

 

«Il grano, il panno, i viveri che il fisco consuma, lasciano dietro di sé un valore che li equivalga? In questo caso la società nulla ha perduto; come nulla perde il contribuente se ciò che paga equivale all’utilità che riceve. Se non ne lasciano, se sono consumati improduttivamente, se lasciano un valore inferiore a quello che si consuma, la società avrà perduto in tutto od in parte il valore contribuito.

 

 

Ecco com’è falsa l’idea che il fisco spendendo restituisca alla società ciò che le ha tolto. Non è collo spendere che può compensarla, ma collo spendere in modo da creare un equivalente. Se il castello di Versailles, dopo fabbricato, non valse per esempio, più che un 100 milioni, mentre ne era costato ben 900, nulla importa che 900 milioni di moneta effettiva furono riversati nella circolazione francese; la società vi perdette in calce, in pietra, in lavoro di pittori e scultori, in una forma qualunque e che non interessa scoprire appuntino, vi perdette gli 800 milioni che furono consumati senza lasciare un equivalente.

 

 

Questa idea è così semplice e chiara che, quando si è arrivato a concepirla non si sa più comprendere come mai si sia potuto non vederla assai di buon’ora, e come mai si possa così frequentemente obliarla… Supponete che [un ingegnere], dopo aver preso il danaro de’ suoi committenti e trascurata l’opera di cui fu incaricato, mandi a comprare presso di loro tanti loro prodotti quanti equivalgano alla somma affidatagli. È evidente che in questo caso tutto il danaro da essi sborsato ritorna integralmente nelle loro casse; ma non è egli evidente altresì che rimangono sempre spogliati, sotto forma di grano, di quel valore medesimo che avevano prima venduto sotto forma di danaro? Se un uomo, dice benissimo un autore inglese, ruba la cassa di un mercante, e l’indomani compra de’ drappi al suo magazzino, si dirà che la compera dell’indomani ha cancellato il furto del giorno avanti? Tale è precisamente il caso del fisco; non dovete che mutare i termini. Per l’ingegnere ed il ladro, pei quali l’impossessarsi materialmente della somma costituisce la spogliazione relativa ai proprietari di essa, una volta che se ne fossero impossessati, il riversarla in cambio di altri valori, costituisce una compera, non è restituzione, Né compenso. Nel caso del fisco, per cui non il possesso materiale di questo o quell’altro valore, ma il consumo di una forma qualunque, è l’atto in cui consiste la perdita relativa alla società presa in massa, dal momento che il consumo è fatto, il compenso non può consistere nel riversare nella circolazione il danaro riscosso, ma deve unicamente consistere nel restituire alla società sotto una forma qualunque l’equivalente di ciò che consuma» (I, 646-647).

 

 

Ed è sofisma dire che l’imposta giova alla perequazione dei beni:

 

 

«La questione non cambia per l’intrusione di mani intermedie, come non cambiava per le merci intermedie. Il danaro dell’imposta può passare per cento mani, a cento titoli differenti; Finché non faccia che traslocarsi e cambiarsi con equivalenti, il suo giro è sempre un accidente estraneo al problema; la società non guadagna Né perde, Finché nessuna forma utile si distrugga. La questione si differisce di mano in mano, Finché si arrivi al punto in cui succede un consumo. Allora domanderete: se nel posto della forma dispersa, un’altra equivalente ne sia rimasta, e secondo i due sensi della risposta inferirete che la società abbia fatto o non abbia fatto una perdita.

 

 

La rivoluzione francese del ’48 si produsse con un aumento di imposte. Furono dei milioni strappati ai proprietari di terre. Passarono per le mani di Lamartine; poi per quelle di Ledru-Rollin, poi per quelle di Louis Blanc. Questo solenne utopista rivelò la parte sublime del suo sistema, allorché lo fece consistere in ciò che allora chiamavasi un’equa distribuzione. Il soverchio del proprietario versato in mano a 100 mila artigiani che mancano del necessario; ecco una bella idea, a cui le turbe affamate battevano di buon cuore le mani. La società nulla perde, predicava il comitato del Lussemburgo; noi riversiamo integralmente il danaro riscosso; se qualche cosa si perde da chi possiede di troppo, per sovvenire a’ bisogni di chi è privo di tutto, non si deve in ciò vedere che una mera traslocazione da persone a persone, non vi ha il menomo scapito per la società presa in massa.

 

 

Con questo principio si elevano i famosi opifici nazionali. Il danaro dell’imposta fu inghiottito da cento mila salari. Arrivato in mano agli operai esisteva ancora, non era ancora perduto. Quand’essi lo convertivano in vino ed in sigari, ecco il punto in cui toccava di fare il conto. I milioni rimasero intatti sicuramente, e furono tutti restituiti alla circolazione. Ma la massa de’ viveri consumati dai 100 mila operai, che cosa ha dunque lasciato dietro di sé? È noto che la buffonata degli opifici non rendeva né anco la spesa più grossa. La società perdeva così non materialmente il danaro, ma virtualmente il valore. L’imposta era perdita secca, non come Louis Blanc ingenuamente suppose, una mera traslocazione di valore; se pure non si ritengano per equivalente valore i 10 mila cadaveri che quell’orde gettarono sul lastrico di Parigi nelle giornate di giugno» (I, 648-649).

 

 

9. – Lo studio degli effetti dell’imposta conduce alle medesime conclusioni a cui l’autore era stato tratto dal ridurre la teoria dell’imposta ad un caso della teoria del valore. «L’imposta si riduce sempre ad un consumo impedito ed un altro sostituito in sua vece». Tutta la filosofia dell’imposta è racchiusa nella domanda se «il consumo sostituito sia più o meno produttivo del consumo impedito» (I, 651-652).

 

 

Quale sia il consumo impedito, non si può sapere dalla mera constatazione del prodotto tassato. Il contribuente contrarrà il consumo di questo o di altro prodotto, a norma della sua scala individuale dei bisogni. Leggendo Ferrara, la mente ricorre alla tabella mengeriana:

 

 

«Ciascheduno di noi fa nei suoi consumi una graduazione, che, se ha per tutti certi punti comuni, presenta per altri delle varianti grandissime. Ciascheduno di noi, nel soddisfare a un bisogno, nel consumare una serie di prodotti, affigge a ciascheduno di essi un certo grado d’importanza. Si può, ripeto, variare in questa estimazione; l’uno può estimare il pane come il primo ed indeclinabile fra i suoi bisogni, l’altro può metterlo in una medesima riga col vino; l’uno può voler consumare una quantità di un prodotto che sarebbe soverchio per l’altro, ma in fine è sempre vero che tutti i consumatori di un dato prodotto gli assegnano un posto nella scala dei loro desideri.

 

 

Ora, ………………. quando un ostacolo sopravviene al suo consumo, avviene una doppia privazione. Da un lato, tutti coloro le cui facoltà erano limitate, son costretti a discendere di un grado; son costretti ora a limitarsi nella quantità del consumo, a consumare meno di quello che prima facevano, che credevano necessario ai loro bisogni; dall’altro tutti coloro che potevano godere dell’uso di qualche altro prodotto, son costretti ad abbandonarlo, e ritirarsi sul primo. Tra coloro che mangiavano il pane di frumento, quando esso era libero da ogni dazio, la gabella sopravvenuta, taluni sono costretti a mangiarne di meno, altri a contentarsi di segala o di patate, altri sono costretti di rinunziare all’uso del vino o del burro, per non perdere quello del pane. Se coll’immaginazione montate più in su e percorrete tutti gli ordini superiori, troverete che la gabella sul pane, gravando indistintamente sul povero come sul ricco, si riduce a farli tutti discendere di qualche grado nella gerarchia sociale. Come vi hanno coloro che, per non perdere l’uso del pane si privano del burro, così vi hanno degli altri che conservano l’uso del pane e del burro, a patto di limitare la spesa degli abiti; così vi hanno degli altri che conservano ancora l’uso degli abiti a patto di fare economia sulla spesa dello spettacolo; e di strato in strato potreste andare a scoprire che la gabella del pane si trova per qualche classe, o forse ancora per qualche individuo, convertita in un dazio sull’uso dell’oro o delle perle. In generale, impedire un consumo qualunque nella gerarchia dei consumi, importa sempre degradare la vita di tutti coloro che lo consumano, restringere i loro comodi e i loro piaceri.

 

 

Questo solo fatto sarebbe da sé sufficiente a qualificare la perniciosa influenza del consumo impedito; ma questo fatto non farà sentire tutta la sua gravità se non quando vi ricorderete che quando si parla di consumi si parla di esistenza, di salute, di vita, di intelligenza, di forze, di attività, di perfezionamento morale (I, 671-672).

 

 

Per ogni consumo che s’impedisca, mille lavori si arrestano, mille profitti vengono meno, mille altri consumi spariscono; ed in ogni consumo impedito si trova impegnata la salute, la morale, l’incivilimento degli uomini (I, 761)».

 

 

10. – La teoria dell’imposta non deve dunque affissarsi sulle particolarità secondarie. Grave è il problema della scelta fra i diversi tipi d’imposta; ma nell’affrontarlo e nel risolverlo si sono diggià compiuti grandi progressi, e giova ora assalire il problema davvero fondamentale; far sì che il consumo pubblico sostituito dallo stato a quello privato sia di valore superiore a questo. Quello dell’uso economico del provento dell’imposta è il problema davvero fondamentale della scienza tributaria. In confronto ad esso, gli altri problemi cedono il passo:

 

 

«Nel tutto, il sistema daziario de’ nostri tempi è molto superiore a ciò che era nell’antichità; perfezionato come quello delle costituzioni politiche, delle legislazioni, della forza armata, di tutte le istituzioni sociali, esso è riuscito ad essere meno lesivo della morale, e soprattutto più rispettoso verso l’industria. Possiamo coscienziosamente congratularsene coll’epoca nostra; ma non dobbiamo perciò addormentarci. Lo studio parziale e comparativo delle imposte ha fatto immensi progressi, e la scienza ha in ciò trionfato. I suoi sforzi devono ora rivolgersi sui principi complessivi e supremi. Da quest’altro lato, il trionfo è ben più problematico, e la lotta non è senza pericoli. Noi ci troveremo a fronte d’ogni genere di peculiare interesse, poiché, in ultima analisi, la riforma generale delle imposte, sarà sempre la riforma d’ogni maniera d’abusi, sarà l’economia delle spese. Finché questo principio non avrà trionfato, tutto il resto si riduce a ben poco. Perché se mi mettete il problema in termini puramente comparativi, io non saprò ben dirvi qual fosse il migliore dei dazi; e l’economista che si perde in questa ricerca, mi somiglia molto a quel boia il quale seriamente chiedeva a chi doveva morire sopra la forca, se riesca più dolce il lasciarsi strozzare da un laccio di seta che da un laccio di canapa» (I, 566).

 

 

Fa dunque d’uopo «nella pratica dei pubblici affari» non dimenticare giammai, neppure per un momento, che l’economia nelle spese è il «primo criterio della imposta».

 

 

«E vi dirò ancora di più: è cànone di cui abbisognano più i popoli liberi. Il sistema rappresentativo ha questo grande difetto, che può facilmente convertirsi in uno strumento di illusione. Il popolo paga con ripugnanza minore quando crede che le imposte, perché consentite dai suoi rappresentanti, i cui interessi sono eguali ai suoi, siano per questo solo giustificate da motivi di necessità ineluttabili. Un gran numero di esempi ci offre la storia moderna per insegnarci come sia facile abusare della buona fede dei popoli, e si spiega il segreto per cui vi furono dei governi che, tutto calcolato, trovarono il loro conto a soffrire le assemblee deliberanti, come mezzo per liberarsi dalla odiosità del sovraimporre i popoli, e di riservarsi il piacere delle grandi spese. Da Roberto Walpole fino a Guizot, abbiamo potuto bene spesso vedere, come le carezze, i favori, versati sulle maggioranze, producano ciò che le scorrerie o le vessazioni fiscali non potevano sotto il regime assoluto. Dove manca la corruzione, la debolezza, la timidità, tante volte la stessa virtù, l’amore dell’ordine, il timore di cadere negli eccessi della opposizione sistematica e personale producono il medesimo effetto: quando l’amministrazione ha reso inevitabile una spesa, le maggioranze si sentono trascinare a consentirla. È così che la rappresentanza del popolo diviene la più difficile e la più delicata tra le funzioni sociali; è così che l’elezione di un deputato è questione vitale; è così che la nomina di un ignorante, di un immorale, o fors’anco di un carattere debole, va posta tra le supreme calamità del paese, e vi deve affliggere tanto più quanto più la vedrete uscire dall’urna di qualche grande città che abbia il diritto, i mezzi e il dovere di mostrarsi intelligente e civile» (I, 760-761).

 

 

11. – Insieme con quello del De Viti, questo nuovo Trattato dei tributi del Ferrara, è forse uno dei libri più suggestivi di lettura complementare da consigliare per “esercitazioni” di studenti i quali abbiano già profittato di un insegnamento preliminare. Ferrara si proponeva, tra l’aprile ed il giugno del 1850, problemi che assillano ancor oggi coloro che meditano sullo stato: può darsi un’imposta sul capitale o non è quella, che si dice tale, mera specie dell’imposta sul reddito? (I, 656). La progressività nell’imposta a che conduce? o confiscare il reddito o nullificare l’imposta, risponde il Ferrara (I, 692 e seg.), anticipando la risposta che altri poi diede. Poiché parlare d’imposta, quando lo scopo è di livellare le fortune ed ogni livellamento a mezzo è illogico? (I, 699 e seg.). Perché cercar pretesti alla progressività nell’incoraggiamento ai piccoli proprietari, quando la piccola proprietà è utile e vive solo quando origina da cause naturali, ma è dannosa quando la si vuole promuovere con mezzi artificiosi? (I, 706). Perché discutere tanto sulla scelta del bene da tassare, quando il bene, il cui consumo è frastornato dall’imposta, può essere altro? Forseché non bisogna analizzare la scala dei bisogni per scoprire quel bene «che ci riesca più facile ad abbandonare alla prima diminuzione di reddito?» (I, 717). Nell’ipotesi devitiana dello stato monopolista, l’imposta non rassomiglia al prezzo di monopolio puro? Se un monopolista, osservava già il Ferrara, «conoscesse il metodo di farci pagare migliaia di lire per l’aria che respiriamo ogni giorno, noi abbandoneremmo ogni altro consumo, e finché avessimo un centesimo da potere offrire, lo daremmo per ottenere il permesso di respirare un atomo d’aria» (I, 717).

 

 

12. – Ho estratto qualche pagina da uno solo dei sei libri nei quali si dividono le lezioni ferrariane. Accanto a queste sui tributi vi sono altre novecento pagine di teoria economica, scritta ottant’anni fa, eppure fresca e viva e calda.

 

 

Appena ventenne, Camillo di Cavour annotava – ricorda Bachi chiudendo il saggio su L’economia e la finanza delle prime guerre per l’indipendenza d’Italia – nel suo diario questa definizione: «L’economia politica è la scienza dell’amore per la patria». Ascoltando, vent’anni dopo, le lezioni tenute a Torino, tra il 1849 e il 1850, dal Ferrara e rendendone conto ai lettori del «Risorgimento» ricordava Cavour la giovanile definizione? Forse non mai, come nelle Lezioni ora ritornate, dopo lungo oblio, alla luce, il genio dello scrittore seppe fondere tanto perfettamente l’odio contro il borbone e lo straniero, l’amor di patria e il culto della scienza.

 



[1] Sui particolari della edizione e su altri problemi di editoria ferrariana, vedi in questo numero la prima puntata di un viaggio intrapreso frammezzo ai miei libri.

[2] I brani della prefazione sulle dogane e delle lettere a «L’Economista» furono acutamente visti e ricordati da Renzo Fubini (in I due tipi fondamentali di indagine nell’ambito dell’economia finanziaria, a pag. 884 del quaderno di dicembre 1933 e in Francesco Ferrara e David Ricardo a pag. 98-100 del quaderno di febbraio 1935 del «Giornale degli economisti»), il quale, non citandone altri, fonda su di essi la qualifica da lui data al Ferrara di “grande antesignano” di uno dei due tipi fondamentali di indagine finanziaria, che sarebbe quello proprio degli scrittori edonisti, secondo cui «il fenomeno finanziario appare un complemento, considerato sub specie aeternitatis, del fenomeno economico strictu sensu. Senza pregiudicare il punto della posizione da darsi dopo la lettura del Trattato alle idee ferrariane nelle note classi di indirizzi di indagine finanziaria, sarebbe stato necessario, a legittimare la qualifica di “grande antesignano” di un indirizzo, chiarire: primo in quale misura il Ferrara con i brani ora citati si distingua dagli scrittori che partendo dalla concezione contrattualistica dello stato, avevano considerato l’imposta come il prezzo dei servigi pubblici; secondo nei limiti in cui quelle idee possano considerarsi proprie del Ferrara, fino a qual punto la loro enunciazione occasionale, a proposito di altro problema o in occasione di dibattiti contingenti, possa tener luogo di quella consaputa dichiarazione la quale sola mette l’impronta personale su una teoria. Costo di riproduzione e Ferrara sono due concetti inscindibili, anche se si possano trovare formulazioni anteriori del concetto; perché Ferrara assunse, svolse, sfaccettò, rivendicò quel concetto, opponendolo ad altri concetti e facendone fondamento di una concezione generale del mondo economico. Si può dire lo stesso di tutte le idee esposte da lui? Vecchio problema, questo del valore da attribuirsi ai cosidetti “precursori”. È precursore colui che incidentalmente, quasi a caso, espone un concetto, che poi non elabora? Il diritto al titolo si può in questo caso dir nullo. Il diritto è alquanto maggiore quando l’idea è bensì esposta in mole occasionale e non è sfruttata a fondo, ma si incastra nel “sistema” generale del pensiero dell’autore. Questo è il caso, parmi, del Ferrara delle Prefazioni e delle lettere a «L’Economista». Diventa pieno solo quando, come nel Trattato ora venuto alla luce, sull’idea madre il Ferrara si intrattiene apposta e ne fa vedere la fecondità.

Del resto, esito, anche dopo il Trattato, a classificare Ferrara tra i precursori o capi di un qualsiasi indirizzo finanziario. Mi pare di sminuire la figura sua; ché gli “indirizzi” sono principalmente una invenzione a scopo di passatempo accademico e, in quanto hanno sostanza, sono meri “strumenti” logici di indagine. Ferrara parmi abbia avuto sempre scarsa simpatia per questioni metodologiche in sé considerate; ma andò combattendo e discutendo, alla cerca di “verità” da contrapporre ad “errori”, di “principi” e di “teoremi” da affermare contro “opportunismi” e “compromessi”.

Quello degli “indirizzi” non è poi, si noti, un passatempo innocuo. Quando un disgraziato ha avuto il suo bravo collocamento in qualità di precursore capo seguace corifeo o pedissequo di un indirizzo è finita per lui. Le sue idee più caratteristiche, quelle a cui egli teneva di più si smorzano e si smarriscono annegate nell’acqua grigia della scuola od indirizzo al quale egli è fatto appartenere. È un liberista, un protezionista, un socialista, utopista marxista o della cattedra, un cattolico, un corporativista, uno storicista, un ottimista, un pessimista. Appartiene alla scuola italiana, francese, inglese, viennese, di Losanna; è un seguace dell’indirizzo matematico. Nascono sublimati, incarnazioni medie di idee, che non hanno sapore né significato. L’idea che a poco a poco ci facciamo di taluni scrittori si connette con due o tre fantocci: i fisiocrati – prodotto netto – imposta unica; mercantilisti – bilancia del commercio – oro e ricchezza; liberisti – stato zero – individuo fa quel che vuole; e simiglianti stravolgimenti grotteschi della verità, che è infinitamente più ricca e varia dei cartellini scolastici. Propongo perciò che qualche accademia annunci un premio alla migliore storia delle dottrine economiche, nella quale non si faccia motto di indirizzi e scuole e si ricostruisca la storia dei concetti economici, falsi o veri, morti o vivi, purché chiaramente definiti, ed un altro premio alla migliore raccolta di schizzi di economisti, nei quali si metta in luce quel che di originale, di caratteristico essi hanno detto, di diverso dalla concezione corrente della cosidetta scuola alla quale essi sono reputati appartenere.

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