Opera Omnia Luigi Einaudi

Frumento e pane

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/12/1914

Frumento e pane

«Corriere della Sera», 15 dicembre 1914[1], 30 gennaio[2], 11 febbraio[3], 9[4] e 27[5] marzo, 4[6] e 5[7] agosto 1915, 10 gennaio[8], 13 marzo[9] 1916

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 45-82

 

 

I

La questione frumentaria continua ad appassionare il pubblico italiano. E non l’italiano soltanto. L’«Economist» di Londra del 5 dicembre reca il solito articolo mensile sui numeri indici dei prezzi e vi dà come sottotitolo: Il rialzo delle derrate alimentari quasi ad accentuare che la caratteristica più interessante dei prezzi in novembre fu l’aumento dei prezzi dei cereali e delle altre derrate alimentari. Ed invero il frumento inglese, il quale quotava 37 scellini il quarter il 31 ottobre, passava a 38,8 il 7 novembre, a 39,8 il 14, a 41 il 21 per giungere a 41,11 il 28 novembre. E ciò malgrado che gli arrivi di grano dall’estero fossero elevati: 31.824.300 mezzi quintali (centweights) inglesi nelle prime 13 settimane dell’anno agrario (cominciato il 30 agosto) corrente 1914 contro 28.174.600 nel 1913; e nonostante che anche le vendite del grano nazionale giungessero nello stesso periodo di tempo a 12.573.600 mezzi quintali nel 1914 contro 9.469.200 nel 1913.

 

 

L’elevatezza del prezzo del frumento è, si può dire, generale a tutti i mercati. Il «Sole» confrontando i prezzi attuali con quelli di fine anno di alcuni anni precedenti, presenta i seguenti dati (in lire per quintale):

 

 

1910

1911

1912

1913

1914

Chicago

17,36

17,49

16,07

16,83

21,10

New York

18,47

18,33

17,38

18,45

14,25

Londra

12,07

10,95

20,50

20,10

18,75

Parigi

27,62

25,62

27,60

26,15

28,50

Berlino

23,31

25,46

24,85

24, –

32,75

Budapest

22,98

23,48

22,94

22,70

42, –

Milano:
– nazionali

26,30

29,55

29,25

26, –

35,40

– esteri

28, –

29,50

31, –

28,50

35,50

 

 

Caratteristica comune di tutti questi prezzi regolatori è il forte aumento avvenuto nel 1914, in confronto degli anni precedenti. Il che si comprende riflettendo:

 

 

  • che il raccolto mondiale fu nel 1914 notevolmente più scarso che nel 1913. Le statistiche dell’Istituto internazionale di agricoltura danno per l’emisfero settentrionale un raccolto complessivo, per un numero notevole di contrade produttrici, di 746 milioni di quintali nel 1914 contro 818 milioni nel 1913, ossia una diminuzione dell’8,8%. Questo calo nel raccolto sarebbe bastato da solo a provocare in tempi normali un rialzo di parecchie lire per quintale;
  • ma il rialzo fu accentuato, anche qui inevitabilmente, dalla circostanza che alcuni dei maggiori paesi esportatori, come la Russia e la Rumenia, misero il veto alla esportazione; cosicché tutta la domanda dei paesi importatori dovette rivolgersi agli unici mercati rimasti liberi, ossia gli Stati uniti, il Canada ed ora l’Argentina.

 

 

Per fortuna, se il raccolto del Canada fu scarso, di appena 43 contro 63 milioni di quintali (-31,7%), e se diminuì pure il frumento di primavera degli Stati uniti da 65,2 a 59 milioni di quintali (-9,5%), il raccolto in grano d’autunno degli Stati uniti fu abbondante: 183,7 milioni di quintali nel 1914 contro 142,4 nel 1913, con un più del 28,9%. Se a ciò si aggiunge che anche in Argentina il raccolto è buono, e pare si debba arrivare ai 50 milioni di quintali contro i 35,8 dell’anno precedente, si ha una fondata speranza di potersi approvvigionare senza che i prezzi abbiano a crescere a dismisura. Non già che il sovrappiù di esportazione degli Stati uniti e dell’Argentina possa, anche tenendo conto della mancata domanda della Germania, far ritornare i prezzi al livello del 1913, essendo esso insufficiente a coprire il vuoto lasciato dalla Russia e dal raccolto deficiente di parecchi paesi europei, come pure dal maggior consumo e dall’inevitabile disperdimento che si verificano presso gli eserciti belligeranti. Ma un aumento di prezzo di 8,65 lire per quintale, quale si è verificato a Londra da lire 20,10 a 28,75, parrebbe bastevole a provocare quella non grande diminuzione nel consumo che è necessaria per mettere questo in equilibrio con le diminuite disponibilità del mercato.

 

 

In sostanza in Italia non si è verificato un aumento di prezzo superiore a quello che si è verificato a Londra; poiché l’aumento avvenuto tra il 1914 ed il 1913 nei prezzi italiani è di 9,40 lire per il frumento nazionale e di 7 lire per il frumento estero; all’incirca uguale alle lire 8,65 di aumento in Inghilterra. Ma vi è questa differenza tra l’Italia e l’Inghilterra: che, essendo diverso il punto di partenza, a Londra si rimase, pure collo stesso aumento assoluto, al disotto delle 19 lire ed in Italia si salì oltre le 35. Gli esempi della Francia da un lato, dove i prezzi sono più bassi che in Inghilterra, e del gruppo austro-tedesco, dove sono più alti od all’incirca uguali ai nostri, non è calzante. Poiché la Francia da un lato è un paese dove normalmente non si ha un gran bisogno di importazione dall’estero e dove accade non di rado, per la esuberanza della produzione interna, che i prezzi siano inferiori a quelli esteri. Ciò che accada precisamente in Francia oggi non so, perché il bollettino dell’Istituto internazionale di agricoltura non pubblica alcun dato per quel paese e per il 1914. I due paesi del blocco austro-tedesco costituiscono un mercato chiuso, dove i prezzi sono regolati unicamente dalle condizioni locali e dove è ignoto fino a che punto i prezzi siano prezzi di mercato o prezzi di calmiere e quali siano gli effetti reali dei prezzi di calmiere sul consumo.

 

 

Dimodoché un confronto istruttivo si può fare soltanto fra l’Italia e l’Inghilterra, amendue paesi dipendenti dall’estero, la prima meno e la seconda più, per il proprio approvvigionamento frumentario. Una prima differenza tra i due paesi è data dal dazio doganale, il quale in Italia è di 7,50 lire ed in Inghilterra non esiste. Siccome il governo italiano ridusse il dazio da 7,50 a 3 lire, prima sino al 31 marzo e poi sino al 30 giugno 1915, il prezzo italiano di oggi dovrebbe – a parità di circostanze – essere minore di lire 4,50 in confronto di quello dell’anno scorso. Invece conserva lo stesso livello, aumentato di quelle medesime 8-9 lire di cui aumentò anche in Inghilterra.

 

 

Il che vuol dire che la diminuzione del dazio non ha avuto finora una influenza apprezzabile nel senso di ridurre i prezzi, od almeno che la sua benefica influenza è controbilanciata da influenze contrarie. Una di queste contrarie influenze a me pare di vederla nella conservazione di un residuo di dazio. Quelle 3 lire conservate agiscono ad aumentare i prezzi non solo per il loro ammontare, ma per una cifra maggiore; inquantoché i negozianti importatori prevedono la possibilità di una loro completa abolizione; e temono, importando ora e pagando ora il dazio di 3 lire, di trovarsi a perdere in confronto di quelli i quali attenderanno ad importare nel giorno in cui il dazio sarà compiutamente abolito. Il dazio di 3 lire tende, insomma, a ritardare le compre e gli arrivi dall’estero e quindi a provocare un temporaneo rialzo in Italia. Il dazio conservato è un elemento di incertezza che aggrava i rischi del commercio cerealicolo, in un momento in cui i rischi, reali od immaginari, sono già tanti. E quindi ritengo farebbe cosa opportunissima il governo ad abolirlo senz’altro, dando al commercio la sicurezza di un regime definitivo doganale sino al 30 giugno 1915. Ciò dovrebbe farsi subito, così da permettere al commercio di entrare in campo all’aprirsi della campagna argentina.

 

 

Un’altra circostanza – e questa indipendente dal governo – la quale spiega la maggiore altezza assoluta – se non relativa – del prezzo italiano in confronto del prezzo interno sta in ciò che il nostro commercio era organizzato specialmente per la provvista del frumento dal Mar Nero, ed aveva assai minori rapporti con gli Stati uniti e l’Argentina, divenuti oramai gli unici paesi esportatori. Di frumento duro nel 1913, su 7.875.000 quintali, ne importammo ben 6.300.000 dalla Russia e solo 1.161.000 dagli Stati uniti; di frumento tenero, su 10.230.000 quintali, ne importammo 3.144.000 dalla Rumenia, 2.514.000 dalla Russia e 2.971.000 dagli Stati uniti. Sebbene fossero già avviate correnti d’affari con l’America, tuttavia questi non si intensificarono agevolmente d’un tratto, sovratutto per quanto riguarda il naviglio da carico, che occorre distogliere da altre vie marittime, e tanto meno in un periodo di scompiglio come furono i primi mesi della guerra. L’Inghilterra, che possedeva una organizzazione più perfetta, arrivò prima di noi; e vi arrivò senza uno speciale sensibile intervento dello stato. L’unica grossa compra che il governo inglese fece all’estero fu quella dello zucchero; la quale non si può certo considerare come un segnalato successo e come un incoraggiamento ai governi degli altri paesi a seguire il signor Lloyd George sulla facile via del comprare in fretta e furia ed a caro prezzo.

 

 

Certo, però, se noi vorremo approvvigionarci a sufficienza sui mercati argentini e nordamericani, dopo avere abolito totalmente il dazio e tolto così ogni ostacolo artificiale all’importazione, dovremo deciderci a fare ciò che fanno tutti i consumatori quando vogliono accaparrarsi una merce a preferenza di altri aspiranti: pagarla un po’ più cara dei concorrenti. Io non sono dell’opinione di coloro i quali vorrebbero che il governo si precipitasse sui mercati americani ed accaparrasse quanto più frumento gli fosse possibile; perché questa grottesca maniera di comportarsi ad altro non gioverebbe che a far fare un salto fortissimo ai prezzi sui mercati d’origine, in un momento in cui forse stanno diventando più deboli. Ma, ad ogni modo, sia pure comprando chetamente ed accortamente come sogliono fare i commercianti, se vorremo che nordamericani ed argentini vendano a noi il frumento di preferenza che agli inglesi od ai francesi, bisognerà rassegnarci a pagarlo non molto, ma un po’ più caro degli inglesi e dei francesi. Altrimenti, perché i produttori dovrebbero dare proprio a noi la preferenza?

 

 

Se si tiene conto di ciò e se si pensa che i noli New York – Genova e Buenos Aires – Genova sono più alti dei noli tra i medesimi porti e Londra, e non possono non essere più elevati perché noi non abbiamo tante merci da esportare in quei paesi come ne ha l’Inghilterra e quindi il grano deve sopportare una quota maggiore della spesa del doppio viaggio d’andata e ritorno, dovremo concludere che, anche dopo abolito il dazio, il prezzo di Genova dovrà essere di qualche lira più alto del prezzo di Londra. Di quanto precisamente debba essere più alto non so; forse 30-31 lire sarebbero sufficienti, quando il prezzo di Londra batte sulle 18-19 lire. Acqua però e non tempesta; ed oggi la differenza che è di 6-7 lire è veramente eccessiva.

 

 

Ecco dunque dove dovrebbe rivolgersi l’azione del governo e del commercio: a ridurre la differenza, oggi troppo forte, che intercede tra i prezzi di Londra e quelli di Genova; e ad ottener ciò il governo può contribuire con l’abolizione del dazio residuo sul frumento, con opportuni acquisti di frumento per l’esercito, magari anche con acquisti abbondanti e con la massima riduzione possibile dei premi di assicurazione per i rischi di guerra della marina mercantile. Il commercio libero, allettato dalla differenza dei prezzi fra il mercato italiano ed i mercati d’origine e rassicurato dall’abolizione completa del dazio, farà l’ufficio suo ordinario che è quello di importare quando vede la possibilità di un lucro.

 

 

Affinché però il commercio possa avere interesse ad importare occorre che esso sia assicurato contro un altro pericolo: quello delle requisizioni forzate. Chi vorrà importare frumento, pagandolo all’origine 25-26 lire, e sostenendo spese di trasporto ed assicurazione per altre parecchie lire, quando tema di vederselo requisito a 28 lire? Perché l’importazione sia incoraggiata bisogna cessare dal fare discorsi insulsi di requisizioni forzate, calmieri e simiglianti provvedimenti medievali. Il miglior calmiere è importare e poi ancora importare. Ma perché ciò accada è necessario pagare all’origine il frumento qualcosa più dei concorrenti e sperare di venderlo in patria con un profitto. Tutto il resto sono discorsi vani. Naturalmente, pure importando largamente, noi non potremo impedire che il prezzo in Italia del frumento aumenti oltre le 30-31 lire che sarebbe oggi in Italia il prezzo di parità con l’Inghilterra, ove il dazio fosse abolito e governo e commercio attivamente si occupassero, come pare facciano, dell’approvvigionamento frumentario nazionale. Ciò dipende dai prezzi americani d’origine, che non è in poter nostro di dominare. Senza voler fare in proposito alcuna previsione mi limito ad estrarre dal rapporto recente di una casa inglese le seguenti osservazioni:

 

 

Il mercato nordamericano del frumento ha tendenze piuttosto al ribasso. Lo stock disponibile visibile negli Stati uniti è fortissimo: arrivando a 40,9 milioni di mezzi quintali contro 35,9 nell’anno precedente e richiede, per essere finanziato, molto denaro che ora è caro. La tendenza debole fu accentuata dall’annuncio che l’Argentina ha disponibili 12 milioni di quarters per i prossimi 12 mesi e dalla notizia che la Russia si è accordata con la Svezia, con la Norvegia e la Danimarca per spedire il proprio grano in questi paesi, i quali cesserebbero quindi di premere sul mercato americano.

 

 

Se queste Osservazioni sono esatte, sembrerebbe logica la conclusione che, se si deve comprare – e relativamente presto – in America, bisogna astenersi dal comprare a precipizio e ad ogni costo. Noi abbiamo bisogno di acquistare frumento; ma nordamericani ed argentini – non dimentichiamo questa semplice verità hanno pure bisogno di vendere.

 

 

II

Sospensione totale o parziale del dazio?

 

Il problema del frumento si riacutizza: in Italia, in Germania, in Austria e nell’Inghilterra medesima, la quale è pure la nazione che risente meno vivamente le ripercussioni degli aumenti di prezzo. La posizione dell’Italia si differenzia però da quella degli altri paesi per una circostanza che si potrebbe chiamare artificiale, poiché dipende dalla volontà del legislatore: il dazio residuo sul grano, che dai paesi ora menzionati fu da mesi compiutamente abolito, mentre presso di noi i due decreti 18 ottobre e dicembre 1914 lo ridussero soltanto da 7,50 a 3 lire, prima fino al 31 marzo e poi sino al 30 giugno 1915.

 

 

Oggi sembra divenuto urgente un provvedimento di immediata e totale sospensione del dazio.

 

 

Anzitutto, per ragioni politiche e sociali. In un momento in cui la solidarietà fra le diverse classi sociali deve essere piena, in cui fa d’uopo escludere il sospetto che una qualsiasi classe tragga vantaggio dalle attuali circostanze straordinarie, è socialmente dannosa la permanenza di un dazio, che può apparire voluta a favore degli interessi dei proprietari di terreni. Costoro ottengono già, per causa della guerra, prezzi così elevati e superiori al normale, che deve essere tolto ogni dubbio che abbiano un ulteriore indebito lucro grazie ad un favore consentito dal legislatore.

 

 

Inoltre, per ragioni economiche. Ho già avuto occasione di notare che il dazio può esercitare un’influenza dannosa, superiore al suo medesimo ammontare. Se si sapesse con assoluta sicurezza che il dazio sarà mantenuto sino al nuovo raccolto nell’attuale cifra di 3 lire per quintale, esso potrebbe far aumentare i prezzi del frumento solo di 3 lire. Ma poiché ognuno spera o teme – a seconda del punto di vista – che, ingrossando gli avvenimenti e inacerbendosi il rincaro, il governo sarà alla fine indotto a togliere anche l’ultimo residuo di dazio, i negozianti importatori sono mantenuti in una condizione di incertezza poco favorevole al rapido approvvigionamento del paese. Ognuno teme, importando e sdaziando subito, di pagare 3 lire di dazio che forse risparmierebbe se aspettasse sino al giorno in cui il governo si sarà deciso a lasciar entrare il grano in franchigia. E perciò attende, e in questa attesa il frumento rincara sul mercato interno.

 

 

Una rapida decisione di immediata totale sospensione del dazio è, dunque, necessaria per togliere lo stato di incertezza e per accelerare gli acquisti, gli invii e gli sdaziamenti da parte del commercio libero.

 

 

L’abolizione totale è tanto più necessaria, in quanto il dazio sul grano ha, come suo compagno indivisibile, il dazio sulle farine. Contro alle lire 7,50 di dazio sul grano, vi è normalmente un dazio sulle farine di lire 11,50; ed è naturale che – astrazion fatta dal suo ammontare – sia imposto un dazio sulle farine finché dura il dazio sul grano, se non si vogliono danneggiare i mulini nazionali. Ma quando il dazio sul grano fu ridotto da lire 7,50 a lire 3, il dazio sulle farine avrebbe dovuto essere ridotto nella medesima proporzione: ossia da lire 11,50 a lire 4,60. Invece fu ridotto soltanto a lire 5,25, concedendosi quindi una vera e propria protezione ai mugnai nazionali. Credo che il vero dazio, il quale incide sui prezzi, non sia quello di lire 3 sul grano, bensì l’altro di lire 5,25 sulle farine, perché si consumano pane e pasta fabbricati con la farina e non cogli altri ingredienti del grano; e anche perché, se si potrebbe ammettere in circostanze normali una certa concorrenza e disunione fra i proprietari di terreno a grano – concorrenza la quale potrebbe in speciali circostanze elidere l’azione rincaratrice del dazio – , tale concorrenza pare non esista nell’industria molitoria. Sembra infatti che i maggiori mulini italiani, e principalmente quelli che macinano frumenti esteri, siano tra loro riuniti in sindacato o consorzio: ed il consorzio tende a produrre l’effetto, che ho avuto occasione di illustrare in passato, di sfruttare interamente tutta la protezione doganale. È probabilissimo perciò che il consorzio dei mugnai riesca, sebbene esso non domini interamente il mercato, a far aumentare i prezzi di tutto l’ammontare del dazio di lire 5,25 stabilito sulle farine. Ed è probabilissimo altresì che l’abolizione di questo dazio riesca a diminuire di altrettanto o almeno ad impedire un ulteriore corrispondente aumento dei prezzi. Il che sarebbe già un risultato apprezzabilissimo.

 

 

Sarebbe certamente stato opportuno che l’abolizione completa del dazio fosse stata deliberata sino dal 1ø dicembre. Ma forse siamo ancora in tempo. L’insuccesso relativo della sospensione deliberata nel 1898 derivò da molte circostanze: una fu il ritardo enorme frapposto a deciderla. Dopo una riduzione da lire 7,50 a lire 5 deliberata il 25 gennaio 1898, si tardò fino al 6 maggio ad abolire completamente il dazio; e il periodo della sospensione totale non durò neppure due mesi: ché già al 1° luglio si ritornava alla misura di lire 5; e il 15 agosto al dazio intero di lire 7,50 per quintale.

 

 

Come si poteva pretendere che il commercio si potesse adattare subito a queste vicissitudini incessanti del regime doganale? Il commercio richiede sicurezza dell’avvenire e possibilità di far calcoli preventivi.

 

 

Perciò a me parrebbe necessario che, oltre alla immediata abolizione del dazio sul frumento, sulle farine e sui cereali inferiori, si cogliesse l’occasione per prolungare sino al 15 agosto il periodo della sospensione assoluta. Dico sino al 15 agosto, per indicare quella data approssimativa nella quale comincia a far sentire la sua influenza il nuovo raccolto: quando i prezzi, giova sperare, scemeranno per l’affluire del grano nuovo sul mercato. La limitazione al 30 giugno mi pare troppo ristretta; poiché a quella data, in Italia i raccolti non sono ancora finiti, e in quasi nessuna regione si è trebbiata la nuova messe. Allungando il periodo della franchigia sino al 15 agosto, la finanza perde il dazio del raccolto vecchio e nulla più; e oramai a quella perdita l’erario si deve rassegnare, come al minore dei danni possibili. Al 15 agosto si vedrà quale regime convenga adottare; quali siano le prospettive del raccolto, quale sia la situazione internazionale. Forse, ove, come non è improbabile, il raccolto mondiale del 1915-16 si annunci scarso in confronto ai bisogni, e si facciano previsioni di prezzi alti, converrà tenere il dazio al di sotto delle lire 7,50; e può darsi che la guerra odierna finisca per consigliare quella permanente riduzione progressiva del dazio che per tanti rispetti sarebbe desiderabile.

 

 

Ma questi sono problemi del futuro. Il problema dell’oggi, il quale richiede una soluzione urgente, è la sospensione totale del dazio per un periodo di tempo abbastanza lungo, affinché il commercio possa fare i suoi calcoli sicuri e provvedere all’approvvigionamento del paese. Non dico che l’abolizione del dazio possa da sola bastare a risolvere il problema del frumento in Italia. Nessun problema si risolve con un provvedimento unico. Ma, sbarazzata la via dall’ingombro del dazio, sarà meno difficile organizzare un’azione concreta intesa a impedire che il problema diventi minaccioso.

 

 

III

 

I due provvedimenti che il governo ha già attuato per frenare il rialzo continuo del prezzo del grano – abolizione totale del dazio e ribasso del 50% delle tariffe ferroviarie e marittime – dovrebbero cominciare a produrre i loro effetti. Sarà più rapida l’efficacia del ribasso delle tariffe ferroviarie, sebbene più localizzata: il che è ragionevole, avendo quel ribasso lo scopo di facilitare l’approvvigionamento dei luoghi più lontani dai grandi porti o mercati interni, dove prima il frumento non poteva giungere se non con grave dispendio. Più lentamente agisce l’abolizione del dazio sul grano; in quanto essa ha per iscopo di incoraggiare i negozianti ad importare in Italia, senza il pericolo di dover oggi spendere 3 lire che avrebbero forse risparmiato aspettando ad importare. Ma è chiaro che, affinché il grano giunga ed eserciti un’influenza sui prezzi, occorre che esso sia comperato nei mercati d’origine, caricato sulle navi, approdato a Genova od a Napoli, scaricato e spedito per ferrovia sui mercati interni. Tutto ciò non si fa né in un giorno né in una settimana: ma tanto più presto ad ogni modo si fa, quanto prima si comincia.

 

 

Da taluno fu obiettato che l’abolizione del dazio italiano di 3 lire avrebbe avuto per effetto di far aumentare d’altrettanto i prezzi di Buenos Aires, cosicché le 3 lire perdute dal nostro erario sarebbero guadagnate dai proprietari e negozianti argentini. Se questa obiezione, così come fu esposta, fosse vera, un orizzonte radioso si aprirebbe alle finanze dei travagliati stati europei: basterebbe imporre dazi forti sulle merci d’oltremare per obbligare gli agricoltori americani, ed i produttori asiatici ed africani di derrate coloniali a ribassare d’altrettanto i prezzi d’origine, così da impinguare a loro spese, le esauste casse degli stati europei. La realtà è assai più complessa di questa teoria semplicista, la quale, come quasi tutte le teorie erronee, non fu immaginata dai teorici, ma da uomini che si dicono pratici. Niun dubbio che l’abolizione del dazio di 3 lire in Italia, facendo aumentare la domanda italiana di frumento può produrre un certo rialzo di prezzi sui mercati d’origine; ma un rialzo minore assai di 3 lire. Gli italiani non sono invero i soli compratori di frumento; e non si comprende come gli argentini od i nordamericani possano approfittare dell’abolizione del dazio di 3 lire in Italia per aumentare di 3 lire il prezzo a carico altresì dei francesi, degli inglesi, degli olandesi, degli scandinavi, i quali tutti fanno ora domanda di grano in America. Il prezzo è unico per tutti: non può aumentare per gli italiani e star fermo per tutti gli altri. Se aumenta per tutti, ciò accade per ragioni generali e sarebbe cresciuto anche se il dazio italiano fosse stato conservato. L’abolizione del dazio ha almeno questo vantaggio: che noi continueremo ad avere il prezzo di 40 lire, invece del prezzo di 43 lire che altrimenti avremmo avuto. Tutto al più l’abolizione del dazio del grano, facendo aumentare la domanda italiana, la quale è solo una parte della domanda totale, che veramente esercita una influenza dei prezzi, può contribuire in piccola parte a crescere la domanda totale stessa e quindi a crescere i prezzi d’origine. Sarebbe stato strano però che, per non subire un aumento di prezzo di 50 centesimi, si fosse rinunciato al beneficio di 3 lire.

 

 

Che il prezzo abbia a ribassare sui mercati internazionali e quindi, di riflesso, in Italia, pare improbabile. In Inghilterra e Francia i prezzi battono sulle 30-35 lire a seconda delle piazze; negli Stati uniti oscillano da 27 a 30 lire. Se noi riflettiamo che data la straordinaria scarsità delle navi disponibili tutta la flotta mercantile germanica è chiusa nei porti ed un quarto della flotta inglese è requisita per fini militari i noli sono altissimi, più di 8 lire per quintale dall’America all’Italia; se al prezzo di origine di 27-30 lire aggiungiamo, oltre il nolo di 8 lire, le spese di assicurazione, l’aggio, le spese di carico e scarico e trasporto ferroviario, il prezzo di lire 40 appare suppergiù adeguato ai prezzi che si hanno sui mercati esteri. Francia ed Inghilterra godono di prezzi più bassi, la prima probabilmente per la buona produzione interna, la seconda per i più bassi noli tra Inghilterra ed America del nord, dovuti a molteplici circostanze, che non è in poter nostro di mutare da un momento all’altro.

 

 

È da augurare che nuovi fattori intervengano, i quali valgano a ridurre taluni dei fattori – prezzi d’origine, noli, assicurazione, aggi, spese di scarico e trasporto – che ora inesorabilmente determinano il prezzo di lire 37-40. Se si potesse avere una flotta mercantile adibita al trasporto dei grani e se i noli potessero ribassare di 3 o 4 lire al quintale, di altrettanto diminuirebbero i prezzi. Ma finché questi nuovi fattori non si vedano ed agiscano, è inutile e puerile pretendere che il prezzo ribassi.

 

 

Quali possono essere questi nuovi fattori? Varie furono le risposte date: e conviene fare un breve cenno dei diversi metodi che furono additati per conseguire un fine che sarebbe certo desiderabilissimo.

 

 

Anzitutto le requisizioni del grano presso i proprietari e negozianti interessati. Il grano è caro, si afferma, non perché faccia difetto; ma perché i detentori lo tengono ben nascosto per affamare la popolazione ed estorcere prezzi ancor più elevati. S’obblighino costoro a portarlo sul mercato ed il prezzo ribasserà.

 

 

L’esperienza di secoli ci dovrebbe rendere profondamente scettici intorno alla virtù delle requisizioni. È risaputo, anche da chi non ha letto i Promessi sposi, che le requisizioni spaventano i detentori e li inducono ad usare ogni astuzia, pur di non palesare l’esistenza del frumento posseduto. Esse, invece di provvederlo abbondantemente, rarefanno il mercato.

 

 

Sovratutto, conviene ai consumatori italiani adottare questo sistema? Pur ammettendo che si riesca, cosa impossibile, a far portare sul mercato tutto il frumento oggi esistente in Italia, non terremmo noi lontano il frumento in viaggio od ancora giacente nei paesi d’origine, di cui abbiamo urgente bisogno? Chi vorrà importar grano in Italia, quando tema che, prima o poi, esso gli verrà requisito ad un prezzo inferiore al costo o tale da non lasciargli quel margine di utile che potrebbe ottenere, vendendolo in Inghilterra od in Scandinavia? Non dimentichiamo che i produttori e negozianti americani non sono ai nostri ordini e che, per ottenere il loro grano, noi dobbiamo dar loro l’assoluta sicurezza che essi lo potranno liberamente vendere con un guadagno maggiore di quello che essi potrebbero ottenere altrove. Le requisizioni produrrebbero, a breve andare, prezzi di carestia di 70 od 80 lire al quintale.

 

 

Colle requisizioni non si deve confondere il censimento del grano, che il governo si è riservata la facoltà di ordinare dove e quando lo creda opportuno. Il censimento per se medesimo non porta a nessuna costrizione di vendita. Ha per iscopo di far luce, di rendere pubbliche le disponibilità esistenti sul mercato. Come ogni provvedimento di pubblicità, giova a scemare l’orgasmo e ad impedire troppo vive oscillazioni di prezzi.

 

 

Importa però assicurare che il censimento non sia il prodromo delle requisizioni; ché esso spaventerebbe i detentori e produrrebbe gli stessi mali effetti che nascono dalle requisizioni.

 

 

In Germania ed in Austria-Ungheria i governi fissarono i massimi di prezzo del frumento e di varie altre derrate o merci. Ma già in Germania si vide che la fissazione dei prezzi massimi è un provvedimento incompleto; il quale, anche in un paese in stato d’assedio, come sino ad un certo punto è la Germania, non funziona o funziona male. Si cominciò, in Germania, con decreto del 28 ottobre a fissare un massimo di franchi 32,10 al quintale per il frumento di un peso naturale non superiore a chilogrammi 75 per ettolitro. E subito proprietari e negozianti vendettero a prezzi superiori al massimo, affermando che il loro frumento non era contemplato dal decreto, essendo di peso naturale superiore ai 75 chilogrammi per ettolitro. Si abrogò, con decreto del 24 dicembre, la clausola dei 75 chilogrammi, fissandosi il massimo di 32,10 franchi per ogni qualità di frumento. E la derrata cominciò a scarseggiare, perché i detentori si rifiutarono spesso a porla sul mercato ai prezzi di massimo. E poiché il decreto riguardava le vendite all’ingrosso e non quelle al minuto del piccolo commercio, molti proprietari e grossi negozianti si diedero a vendere al minuto a prezzi assai superiori ai massimi legali. Convenne che il governo decretasse il monopolio di stato di tutto il grano nazionale, lasciando libere la importazione e la vendita del grano straniero. Il monopolio è un provvedimento che può essere efficace, perché è completo. Per ragioni di difesa nazionale, lo stato si appropria tutto il grano esistente nel paese e mette gli abitanti a razione: 2 chilogrammi per settimana. Quando una piazza è assediata ed i viveri scarseggiano, non vi è altro rimedio che il razionamento. Siamo in Italia giunti a questo punto? Abbiamo pronta l’enorme e complicata ed oculatissima macchina che occorrerebbe non solo per requisire, ma anche per razionare il frumento? Come conciliare il funzionamento di questa macchina colla libertà, che dovrebbe lasciarsi agli importatori di frumento estero di importare e vendere a prezzi liberi? Se non si lasciasse questa libertà e si pretendesse requisire anche il frumento estero, neppure un chicco di grano entrerebbe più in Italia; e se la si lascerà, come regolare il razionamento? In un imbroglio di questa fatta si trova la vicina monarchia austro-ungarica, dove furono fissati, con metodi diversi, prezzi massimi per il frumento, variabili però da città a città: di lire 42,53 per quintale a Vienna e di lire 43,05 a Budapest. Ma i proprietari ungheresi, a questi prezzi, non vogliono vendere; e mentre in Austria si propone da taluno il monopolio, il governo non osa porlo in atto, perché non sarebbe seguito dal governo ungherese e l’Austria non saprebbe come obbligare i proprietari ungheresi a vendere il frumento al suo monopolio.

 

 

Niente massimi e monopoli dunque; ché produrrebbero per ora imbarazzi peggiori del male che si vuol combattere; ma il governo importi, dicono alcuni, grandi masse di frumento e le venda esercitando una azione di calmiere sul mercato.

 

 

Il problema è di misura. Se il governo importasse e vendesse dappertutto in concorrenza con i privati a prezzi minori di quelli che lascerebbero un margine di guadagno conveniente agli importatori, egli rimarrebbe il solo ad importare. Chi vorrebbe ancora importare quando avesse la prospettiva di incontrare la concorrenza a sottoprezzo del governo? A meno che il governo sappia già di potere esso importare tutto il frumento mancante sino al prossimo raccolto, il rimedio sarebbe peggiore del male. Ma se il governo si contenterà di importare grano per il fabbisogno dell’esercito, e di mettere il sovrappiù in vendita qua e là, nei luoghi dove i prezzi facessero degli sbalzi all’insù assai forti e in disarmonia con i prezzi di Genova e dei grandi mercati interni, allora non vedo come l’azione calmieratrice del governo potrebbe disanimare il commercio di importazione. Forse questa è la sola cosa utile che il governo possa fare, nell’interesse dell’ordine pubblico, il quale potrebbe essere turbato da prezzi sporadici di 5 o 10 lire più alti dei prezzi correnti nello stesso momento sui mercati principali. L’azione governativa, esercitata con rapidità e moderazione, avrebbe per iscopo di rompere i monopoli locali, che possono sorgere in località dove il commercio non è organizzato e dove non esiste un vero mercato dei cereali.

 

 

Nemmeno se il governo potesse con certezza direttamente e per proprio conto importare tutti i sei milioni di quintali che pare manchino ancora per giungere sino al prossimo raccolto, converrebbe vendere dovunque ed a casaccio a sottocosto. Il consumo assorbirebbe prima tutto il grano governativo a buon mercato; e, finito questo, dovrebbe ritornare al frumento nazionale a prezzi più alti.

 

 

Occorre perciò che il governo resista alla tentazione di vendere dovunque, a caso, a sottoprezzo, solo per soddisfare al clamore di politicanti professionisti di dimostrazioni di carestia. Perché, ripeto, vendere a sottoprezzo equivale a tenere lontane le importazioni dall’estero ed a rincarare i prezzi.

 

 

Se fosse possibile, converrebbe per ragioni di ordine pubblico seguire il metodo proposto dall’on. prof. De Viti-De Marco, secondo cui il governo potrebbe dare un sussidio ai consumatori più miserabili, i quali non possono pagare i prezzi attuali del frumento. La proposta in massima è accettabile, poiché costerebbe meno dare qualche sussidio che lasciare acuire malcontenti ed irritazioni popolari in un momento così difficile come il presente. Le difficoltà sono tutte pratiche. Come distinguere i veramente bisognosi nella turba innumere di coloro che si presenterebbero a reclamare il sussidio? La soluzione migliore pare sia di rimettersi agli organi già esistenti – congregazioni di carità ed opere pie – incoraggiandoli ad esercitare un’azione più rapida e provvida del solito.

 

 

Un ultimo freno all’aumento ulteriore dei prezzi deve essere accennato: l’uso del pane di guerra. Su questo punto oramai la discussione è accesa su tutti i giornali: e molti pratici ed igienisti sostengono che l’uso del pane integrale sia il rimedio che praticamente può avere maggiore efficacia. Con la restrizione dell’uso del pane bianco, con la utilizzazione delle farinette e di parte della crusca nella confezione di un unico tipo di pane scuro, con la mescolanza di una moderata quantità di farina di riso, pare si possa riuscire ad utilizzare, meglio di quanto non accada oggi, il grano esistente in Italia ed a diminuire la necessità di ricorrere all’estero. Molti ritengono che il pane I (integrale) ed il pane R (pane integrale, con mescolanza di farina di riso) siano altrettanto o più nutrienti del pane bianco, che la popolazione cittadina si è oramai abituata a mangiare. Se davvero si riuscisse con la panificazione integrale a far durare le provviste esistenti in paese quindici giorni o un mese di più, nessuno sforzo dovrebbe essere risparmiato per contribuire in tal modo a risolvere il problema del pane.

 

 

IV

Il pane unico

 

Il divieto di fabbricare pane con farina a meno dell’80% di resa può essere giudicato da parecchi punti di vista, e sovratutto da quelli della legittimità e della convenienza. In tempi normali non vi è nessuna ragione che lo stato si interessi dei metodi di fabbricazione del pane; poiché tutto si riduce ad un problema di prezzo. Quanto più i consumatori desiderano mangiare pane bianco, leggero, soffice, fresco, tanto più cala la resa del frumento in farina, fino a limiti bassissimi del 60% od anche meno, e tanto più cresce la proporzione di crusca, di farinette e prodotti secondari, i quali devono essere venduti per consumi diversi da quelli dell’alimentazione umana. Praticamente la cosa non presenta difficoltà veruna, essendo cresciuti, in seguito ai buoni prezzi che si possono ottenere dalla vendita delle carni e del latte, i consumi dei prodotti secondari per l’alimentazione del bestiame. Unica conseguenza è quella già detta: di dover comperare il pane a prezzo tanto più caro quanto maggiore è la proporzione eliminata dei prodotti secondari, che si possono vendere soltanto a prezzi relativamente più bassi. L’attaccamento, che può anche sembrare irragionevole, delle popolazioni cittadine verso il pane bianchissimo, di forme minute e costose, è soltanto un indice delle loro condizioni di fortuna grandemente migliorate da un terzo di secolo in qua, le quali le fanno vogliose di spendere una parte maggiore dei loro redditi sotto questa forma. Le popolazioni rustiche, sia che abbiano redditi minori, sia che abbiano abitudini di vita più frugali, consumano pane confezionato con farina più scura e quindi di minor costo.

 

 

In tempi di mercato normale la scelta fra il pane caro ed il pane a minor prezzo può dunque essere lasciata alla libera scelta di ognuno dei consumatori. Chi voglia fare della morale, può deplorare il fatto che i gusti degli uomini siansi così raffinati o pervertiti da preferire un pane che ha solo le apparenze della bontà del vecchio e sapido e nutriente pane casalingo che s’usa ancora adesso in molte campagne. Un economista, il quale voglia fare il calcolo del malo uso che spesso le classi borghesi ed operaie fanno del proprio reddito, dello spreco probabilmente notevolissimo di denaro che si fa nella scelta delle derrate utili all’alimentazione, può citare, insieme con molti altri, l’esempio del mediocre ed insipido pane bianco che si sostituisce al pane casalingo nell’alimentazione di quelle classi che più gridano poi contro il caro-viveri ed, essendo per questa ed altre parecchie ragioni, divenute incapaci al risparmio individuale, pretendono che lo stato pensi ad ogni loro occorrenza. Ma tutti questi sono discorsi accademici, destinati a cadere nel vuoto.

 

 

In tempo di guerra, i discorsi si trasformano invece in decreti necessari. Ed a ben giusta ragione. L’Italia si trova oggi nelle condizioni di una piazza assediata, a cui i viveri possono pervenire per un’unica via impervia, in cui i costi dei trasporti sono elevatissimi e siffatti da limitare grandemente le forniture. L’assedio non è posto da eserciti o da flotte da guerra, come in Germania ed in Austria; sibbene da nemici altrettanto potenti, come sono gli alti prezzi sui mercati d’origine ed i noli enormi. Ai quali nemici esterni bisogna aggiungerne un altro interno potentissimo, ed è la nostra incapacità o poca voglia di pagare prezzi sufficientemente elevati. Ho già avuto occasione di notare altra volta che i comizi, le agitazioni contro il rincaro del pane, le proposte insensate di calmieri, di perquisizioni, di vendite governative a sottoprezzo, di condanne producono un unico effetto pratico: di fare andare via la voglia ai commercianti privati di far venire in Italia pure un quintale di frumento dall’estero. Chi ha interesse, fa d’uopo ripeterlo ancora una volta, a comprare frumento caro argentino per correre il rischio di vederselo espropriato a buon mercato o di vedersi fatta concorrenza dal grano governativo venduto e sottoprezzo? Già fin d’ora, del resto, è molto dubbia la convenienza di importare frumento dall’Argentina. Si faccia il conto dei 19 – 30 franchi oro che il quintale di frumento costa al Plata, dei 9 franchi oro di nolo, delle assicurazioni marittime normali e contro il rischio di guerra, delle spese di scarico e di manipolazione in porto, degli interessi perduti, dell’aggio del 10-12% e si vedrà che il quintale di frumento argentino, comperato oggi, non costerà meno di 46-47 lire italiane carta posto sul porto di Genova. E poiché il frumento sulle piazze interne batte sulle 40 lire, è chiaro che al commercio privato in questo momento non conviene importare grani stranieri per il consumo in Italia.

 

 

Mentre si attende la caduta dei Dardanelli e la libera uscita di flotte cariche di grano russo – attesa la quale non si sa quanto dovrà durare – tutta la responsabilità dell’approvvigionamento del paese ricade sul governo. A Genova, che è il centro più sensibile del mercato granario in relazione all’estero, ho sentito fare calcoli svariatissimi del quantitativo di frumento che ancora dovrebbe giungere dall’estero per assicurare l’alimentazione italiana fino al nuovo raccolto: da 4 a 6 milioni di quintali di frumento, oltre ad 1 milione di quintali di granoturco. Una buona parte di questo fabbisogno è già accaparrata, ed è in attesa di sbarco ai porti d’origine od è in viaggio per l’Italia. Ma forse una parte, speriamo piccola, deve ancora essere acquistata. Per quest’ultima parte il problema si pone. Se il governo si assume il completo approvvigionamento del paese, ma soltanto in questo caso, è possibile ai prezzi attuali comperare grano all’estero; poiché il governo può mettere a carico dei contribuenti la differenza fra le 46-47 lire di costo ed il minor prezzo di vendita.

 

 

In questi frangenti è naturale ed è doveroso che il governo provveda a diminuire il consumo dei prodotti secondari della macinazione per l’alimentazione del bestiame, accrescendo la proporzione consumata dagli uomini. In tempi normali lo stato può fare a meno di interessarsi dei modi con cui gli uomini provvedono alla loro alimentazione, ma in tempi come i presenti, in cui:

 

 

  • i noli cresciuti e gli alti prezzi d’origine e l’aggio rinato hanno fatto sorgere come un muro attorno al paese;
  • – in cui le rimanenze di frumento ancora da acquistare, finché i Dardanelli non siano aperti, si dovrebbero acquistare a prezzi parecchio superiori a quelli a cui i consumatori vogliono fare gli acquisti;
  • – in cui si minacciano agitazioni contro il governo e gli speculatori perché non fanno arrivare il grano e si fanno contemporaneamente comizi contro il prezzo alto, che è l’unica condizione, data la quale il frumento potrebbe in copia sufficiente arrivare da sé;
  • – è giocoforza che il governo, rimasto unico approvvigionatore, per le quantità ancora da impegnarsi all’estero, cerchi di diminuire il gravissimo onere dei contribuenti costringendo gli uomini a ritornare al vecchio e saporito pane casalingo che un tempo dappertutto ed ancor oggi nelle campagne è alimento gradito delle popolazioni.

 

 

È difficile calcolare la resa in milioni di quintali di questo provvedimento. Occorrerebbe sapere quanta parte dei 5 milioni circa di quintali di frumento che si consumano in Italia al mese vada per la panificazione e quanta parte sia destinata alla fabbricazione delle paste alimentari, biscotti e dolci; ed occorrerebbe sapere quale sia la resa media attuale del frumento panificato. In parecchi casi già prima si andava vicino ad una resa dell’80%, mentre nelle città e nei borghi e nelle pianure, dove i contadini ingrassano bestiame, si rimaneva parecchio al disotto.

 

 

Se il miglioramento medio nella resa fosse del 10% in media, il provvedimento potrebbe produrre un risparmio di 500.000 quintali al mese. Anche riducendo questa cifra fortemente, trattasi pur sempre di un risparmio apprezzabile. Sarà osservato dappertutto il provvedimento? Come ottenerne l’osservanza nei numerosi forni privati casalinghi sparsi nelle campagne? Si esauriranno prima del 22 marzo, data in cui il decreto dovrebbe entrare in applicazione, le rimanenze di farina già abburattata con una percentuale di resa inferiore? Trattasi di difficoltà pratiche, a sormontare le quali devono concorrere, col governo, i cittadini tutti. Non è questo il momento di fare recriminazioni intorno alla qualità del pane. Tutti dobbiamo prestare aiuto al governo nell’opera immane da esso forzatamente assunta di provvedere all’approvvigionamento del paese. Lamentarsi, recriminare, ostacolare è oggi un delitto contro la difesa nazionale.

 

 

V

Il decreto sul pane unico ha fatto risorgere il problema del modo di calcolare il dato di panificazione ed ha aggiunto a questo l’altro problema del dato di macinazione. Già nel 1852 il conte di Cavour, in una sua relazione quasi inedita al consiglio comunale di Torino, che sarà pubblicata nel prossimo numero della rivista «La riforma sociale» intorno alle mete o calmieri del pane, lodava i criteri che a Torino erano stati poco prima deliberati per fare il calcolo del costo del pane, seguendo i consigli del prof. Giulio, mente lucidissima di tecnico e di economista; ma aggiungeva che, sebbene i calcoli del Giulio fossero i migliori conosciuti non solo in Piemonte ma in Europa, tuttavia essi erano pur sempre erronei, sicché il miglior partito appariva essere quello di non impacciarsi oltre di mete o di calmieri. Sembra invero impossibile di potere calcolare in modo sicuro e generale i dati variabilissimi del costo di macinazione e di panificazione, i quali variano secondo la qualità del frumento e della farina, la loro resa, le dimensioni del mulino o del forno, il peso delle spese generali, l’utilizzazione ed il prezzo dei prodotti secondari, ecc. ecc. Ciò che di meglio si può sperare di ottenere è un dato di costo medio: il quale, appunto perché è un dato medio, non si applicherà in concreto a nessun caso particolare e lascerà sussistere guadagni notevoli per taluni mugnai e fornai, mentre farà muovere alte lagnanze ad altri, i quali dalla sua adozione saranno costretti a perdere.

 

 

Fatta questa premessa intorno alla difficoltà estrema di poter dire in proposito qualcosa con precisione, vediamo quale influenza il decreto possa avere esercitato sul dato della macinazione.

 

 

Il punto di partenza deve essere il prezzo del quintale di frumento, a cui si dovrebbe aggiungere il costo della macinazione. Se noi supponiamo che il prezzo del quintale di frumento sia di lire 44 e se noi calcoliamo in lire 1,60 (dato medio o tipico) il costo della macinazione, otterremo un costo totale di un quintale di frumento macinato di lire 45,60.

 

 

Il decreto sul pane unico importa una variazione in questo dato? Vi sono taluni mugnai, i quali rispondono di sì. Il decreto sul pane unico, essi ragionano, diminuirà il consumo di frumento, in primo luogo del 5% permettendo un maggiore rendimento del frumento in farina, ed in secondo luogo di un altro 5% computando un maggior rendimento della farina in pane di forme grosse, contenenti una maggior proporzione di acqua delle forme piccole. Da ciò discende che i mulini macineranno il 10% meno di frumento, in confronto a quanto ne avrebbero macinato se non fosse intervenuto il decreto sul pane unico. Di qui discende ancora che essi dovranno ripartire le loro spese generali, rimaste identiche, su una produzione di macinati diminuita di un decimo; sicché il costo della macinazione risulterà per ogni quintale di frumento alquanto maggiore. Qualche mugnaio ha calcolato in 50 centesimi per quintale l’aggravio di costo per tal ragione subito; ma il calcolo, anche non avendo cognizioni tecniche in merito, sembra assai esagerato. Pure ammettendo che delle lire 1,60 di costo di macinazione circa la metà ed anzi 1 lira siano spese generali ossia fisse, e solo i restanti 60 centesimi siano spese specifiche ossia proporzionali al quantitativo macinato, si avrà che per 100 quintali si spendevano prima del decreto 100 lire e cioè 1 lira per quintale; e dopo il decreto per 90 quintali si spenderanno ancora 100 lire, ossia lire 1,11 per quintale. Il dato di macinazione si può, per larghezza, supporre cresciuto di circa 11 centesimi per quintale, portando da lire 45,60 a lire 45,71 il costo del quintale di frumento macinato.

 

 

Tanto prima che dopo il decreto supponiamo che su 100 chilogrammi di frumento macinato 20 fossero dati dalla crusca: ipotesi che sembra legittima per i mulini perfezionati, dove già prima si cercava di ricavare dal frumento la massima quantità di farina possibile. Se alla crusca noi attribuiamo un prezzo di 20 lire al quintale, per 20 chilogrammi sono 4 lire di ricavo che dobbiamo dedurre dal costo del frumento macinato per ricavare il costo degli 8o chilogrammi di farina:

 

 

Prima del decreto Dopo il decreto
Prezzo di 1 q di frumento

L. 44, –

44, –

Costo di macinazione

L.1,60

1,71

Totale

L. 45,60

45,71

Ricavo di 20 kg di crusca

4, –

4, –

Costo di 8o kg di farina

L. 41,60

41,71

 

 

Prima del decreto le lire 41,60 di costo di 80 chilogrammi di farina erano ripartite su varie qualità di farina, mentre ora deve essere ripartito su una qualità unica.

 

 

Ecco la ripartizione del costo antico, secondo i dati di fatto comunicati da un mulino moderno:

 

 

Farina n. 0 kg 7 a L.

58,50

al q

L. 4,09

Farina n. 1 68

53,50

L. 36,38

Farinette 2

30, –

L. 0,60

Cruschello 3

20, –

L. 0,60

Totale

80

L. 41,67

 

 

Oggi, il costo di lire 41,71 diviso per 8o chilogrammi dà un costo unitario di lire 52,14 per quintale. Confrontando questo prezzo con quello di lire 53,50 della farina n. 1, che era usata per la panificazione si ha una diminuzione di circa lire 1,35 per quintale.

 

 

È facile, per le ragioni già dette, che la diminuzione sia ora minore ed ora maggiore nei casi singoli; ma non pare possa allontanarsi molto da questa cifra, almeno per i mulini moderni, poiché il nuovo prezzo della farina unica non può essere altro se non la media ponderata dei prezzi che si facevano prima fra la farina finissima, la farina comune, le farinette ed il cruschello, tenendo conto altresì del lieve aumento nel costo della macinazione dovuto al minor consumo del frumento e quindi alla minore macinazione.

 

 

Naturalmente le ripercussioni del decreto sul pane unico non si fermano a questo punto. Che cosa accadrà dei prezzi delle rimanenze esistenti di farinette e di cruschello e di farine finissime? Non avranno una tendenza ad aumentare, oggi che la loro produzione è resa più difficile? Non otterranno talvolta i mugnai un compenso alle aumentate spese unitarie di macinazione, che essi affermano derivare dal decreto? Problemi complessi, che sarebbe assai difficile tradurre in cifre. Né si può pretendere di regolare con decreti od ordinanze tutti questi delicati aggiustamenti di prezzo alla nuova condizione di cose. Dopo tutto, il decreto volle ridurre il consumo del frumento e far durare più a lungo le nostre provviste. A questo suo essenziale intento tutti debbono contribuire, facendo ogni sforzo affinché il periodo di transizione sia ridotto al minimo e le inevitabili difficoltà siano sormontate con spirito di equità e tolleranza.

 

 

VI

Nello stadio del problema del grano un punto deve essere innanzi tutto messo in chiaro; ed è il fabbisogno per il consumo del paese. I dati fondamentali si leggono nella pregevole monografia «Il frumento in Italia» pubblicata nel 1914 dall’ufficio di statistica agraria, nella quale furono elaborati, a cura dell’egregio sig. Zattini, attuale capo dell’ufficio, i risultati di un quinquennio di accurate rilevazioni statistiche. Ecco la media del quinquennio 1908-12 per la produzione interna e del quinquennio dal 1908-909 al 1912-13 per la importazione dall’estero ed il consumo (in milioni di quintali):

 

 

Produzione interna (dedotta la semente)

41,6

Importazioni nette dalle esportazioni

13

Disponibilità

54,6

Consumo calcolato dalla popolazione urbana

32,3

Consumo calcolato dalla popolazione agricola

21,1

Consumo

53,4

A ricostituzione o formazione di riserve

1,2

 

 

Poche spiegazioni bastano a chiarire il significato del calcolo. Errerebbe chi volesse dalla cifra scarsa od abbondante di un raccolto dedurre che occorre importare dall’estero l’intiera differenza fra il consumo totale e la produzione dell’anno. Vi è invero una buona metà della popolazione, quella agricola, la quale non viene sul mercato a fare acquisto di grano, ricorrendo invece al consumo di altre derrate (granoturco, legumi ecc.) che può essere stata prodotta nel podere in maggior copia od intaccando le piccole riserve di frumento, che ogni famiglia rustica conserva in casa, aumentandole o diminuendole a seconda della abbondanza o scarsità del raccolto. Con una serie di calcoli minuti l’ufficio di statistica agraria ha concluso che il consumo della popolazione agricola italiana può considerarsi uguale alla metà del raccolto interno al netto delle sementi; cosicché dall’estero devesi importare la differenza fra il consumo della popolazione urbana, supposto lentamente crescente, e l’altra metà del raccolto. Nel quinquennio considerato erasi importato qualcosa di più del fabbisogno, allo scopo di ricostituire e fors’anco di accrescere le riserve depauperate da un precedente periodo in media sfavorevole.

 

 

Su queste basi, vediamo di determinare, con una larghissima approssimazione, il fabbisogno di grano dell’anno agrario 1915-16. La produzione interna è risultata inferiore alle aspettative ed al raccolto medio in parecchie regioni, come il Piemonte, le Marche, gli Abruzzi e Molise, la Campania, le Puglie e la Basilicata ma notevolmente superiore in Sicilia, in Sardegna e nelle Calabrie; né si può dire che nelle altre regioni si discosti gran fatto dalla media. Cifre precise non furono ancora comunicate dall’ufficio di statistica agraria; ma tenuto conto della estensione della cultura del frumento avvenuta nell’autunno scorso ed anche dato un ragionevole peso all’influenza dannosa delle vicende atmosferiche del pessimo mese di giugno, non pare che il raccolto abbia ad essere inferiore alla media del sessennio 1909-14, in cui si ebbero tre annate cattive, due mediocri ed una ottima. E poiché quella media fu di 49.273.000 quintali, noi possiamo assumere la cifra di 49 milioni di quintali come quella più probabile per la produzione del 1915. Facendo tale ipotesi noi veniamo a supporre un raccolto inferiore al mediocre ed anzi cattivo, ove si rifletta che in talune regioni d’Italia, le quali da sole producono circa un quarto del totale raccolto, questo fu ottimo e che dappertutto la superficie coltivata fu maggiore del solito. Se noi dai 49 milioni deduciamo 6 milioni di quintali per le semenze, restano disponibili per il consumo interno 43 milioni di quintali. La popolazione agricola provvederà ai casi propri con la metà di questa cifra, ossia 21,5 milioni di quintali, ricorrendo, per il resto dei suoi consumi, alle riserve famigliari, alle fave, ai legumi ed al granoturco, il cui raccolto si annuncia sotto assai favorevoli auspici. Si può escludere che i contadini vogliano comprare frumento, proprio in quest’anno di prezzi alti; e si può ragionevolmente ritenere che essi faranno ogni sforzo, come già fecero l’anno scorso, per venderne.

 

 

Rimangono così 21,5 milioni di quintali per la popolazione urbana; il cui consumo era calcolato di 30,8 milioni di quintali nel 1909 ed era cresciuto a 32,7 nel 1912 nella citata monografia sul frumento in Italia. Supponiamo che, nel 1915-16, il consumo sia cresciuto ancora a 33,3 milioni di quintali; e che ad essi si debba aggiungere 1 milione di quintali per maggior consumo dell’esercito ed un altro milione per il consumo dei rimpatriati. Sono in tutto 35,3 milioni necessari contro 21,5 disponibili per il consumo dell’anno. Differenza, a cui si deve provvedere: circa 14 milioni di quintali.

 

 

È probabile tuttavia che questa cifra di 14 milioni di quintali sia un gran massimo, a cui si dovrebbe giungere solo nel caso che non si volessero menomamente intaccare le riserve disponibili.

 

 

Queste devono essere ingenti. Basti riflettere che mentre dall’1 luglio 1913 al 30 giugno 1914 si erano importati 11,1 milioni di quintali, nel corrispondente periodo 1914-15 si importarono invece 15,3 milioni; che ancora nel nuovo anno fiscale le importazioni seguitano ad affluire: 1,1 milione di quintali dal 1 al 20 luglio 1915 contro 0,6 nello stesso periodo del 1914. Basti notare essere convinzione assai diffusa e suppongo fondata sul vero che molta parte del frumento importato dal governo nello scorso esercizio sia tuttora disponibile, per dover concludere che forse non sono lontani dal vero coloro i quali ritengono che l’anno agrario 1915-16 si sia aperto con una rimanenza, disponibile per il consumo della popolazione urbana, da 6 a 8 milioni di quintali. Di guisa che basterebbe importare da 6 a 8 milioni di quintali per coprire il nostro fabbisogno dell’annata, ove si volesse chiudere l’anno senza riserve; ovvero si potrebbe andare sino a 10 milioni, con la probabilità di chiudere l’anno con una non spregevole riserva.

 

 

Che nel mondo, i 6, gli 8 ed anche i 10 milioni di quintali siano disponibili non vi è alcun dubbio. Anche senza tener calcolo della Russia e della Romania, ma escludendo pure dal conto gli imperi centrali, a cui è preclusa l’importazione per mare; noi ci troviamo di fronte agli Stati uniti, al Canada ed all’India, le cui disponibilità paiono larghe. Sul raccolto del Canada, il bollettino di luglio dell’Istituto internazionale di agricoltura dà un aumento di superficie del 26,2%, con una previsione al 1° luglio di un raccolto per ettaro uguale al 99% di un raccolto medio per il frumento d’autunno ed al 103% per il frumento d’inverno. Dobbiamo dunque attenderci da questo lato una possibile maggiore disponibilità, da 5 a 10 milioni di quintali di più dell’anno scorso, per l’esportazione. Per gli Stati uniti si nota una diminuzione prevista di raccolto da 186,4 a 181,8 milioni di quintali per il frumento d’autunno; ma un aumento da 56,1 ad 80,3 per il frumento di primavera. Ecco altri 18-20 milioni di quintali, in complesso, disponibili di più in confronto all’anno scorso. Per l’India le previsioni sono magnifiche: 104,3 milioni di quintali contro 84,8 prodotti l’anno scorso: una maggiore disponibilità di 20 milioni di quintali.

 

 

Né sembra che vi siano paesi importatori costretti a farci, per la scarsità del loro raccolto, una concorrenza troppo viva nell’acquisto del frumento. La Francia ha coltivato, invero, a frumento il 7% in meno della superficie cerealicola in suo possesso; ma il raccolto è segnalato col punto 67, il quale nelle sue statistiche sta fra il 60 – buono – e l’80 – buonissimo – . Per l’Inghilterra si prevede un raccolto superiore del 7,3% a quello dell’anno scorso; per la Svizzera pure notasi un aumento del 19,1%; per la Danimarca lo stato di cultura è del 10% superiore al normale, per la Spagna la superficie coltivata segnala un piccolo aumento, per la Norvegia il raccolto è medio, per la Svezia e l’Olanda lo stato di cultura dà un sovrappiù del 7%, in confronto al normale. Se si dovesse dare un giudizio complessivo, si sarebbe portati ad affermare che da un lato il fabbisogno delle nazioni importatrici sia leggermente inferiore e dall’altro lato le disponibilità delle nazioni esportatrici siano apprezzabilmente maggiori degli anni scorsi.

 

 

Forse appunto per dimostrare che gli uomini spesso traggono dai fatti le deduzioni più contradditorie ed illogiche, i prezzi, i quali avrebbero dovuto logicamente avere una tendenza fiacca, si sono messi all’aumento. Forse non più negli ultimissimi giorni, ma per una buona settimana nella seconda metà di luglio, fu una ridda pazza all’aumento. In Italia d’un tratto da 36-37 lire si giunse a 41-42 e poi a 44-45 lire al quintale. È inutile studiare le ragioni del subitaneo movimento; perché i misteri basta constatarli. Tuttavia non è forse inutile dare uno sguardo ai rimedi che da molte parti furono messi innanzi per frenare l’inaspettato aumento.

 

 

VII

Di fronte ad un fabbisogno dei paesi importatori invariato e forse leggermente diminuito, ed a disponibilità probabilmente maggiori nei paesi esportatori, i prezzi, i quali almeno avrebbero dovuto rimanere calmi, si sono messi a salire.

 

 

Sul mercato di Chicago, il quale oggi, annullati i mercati danubiani e russi, è divenuto l’unico mercato regolatore del mondo, il frumento, il quale valeva 100 cents per bushel a metà giugno, è salito a 107-110 cents. I grani del nord America posti a Genova valevano 36-37 lire a metà giugno ed ora sono giunti a 44-45; mentre quelli del sud America aumentavano da 29-30 a 40-42 lire e, per riverbero, i grani nazionali da 32-35 balzavano a 40-41 lire.

 

 

Questi furono i massimi toccati; poiché verso gli ultimi giorni di luglio una certa maggiore calma si notava, non si sa se temporanea, la quale attenuava il rialzo intorno alle 40 lire. Prezzi sempre altissimi, i quali spiegano il riprendere delle proposte e delle grida pro censimento del grano, requisizioni, prezzi massimi, monopolio governativo del frumento, ecc. ecc. Quegli stessi sindaci, prefetti, deputati, i quali in maggio e giugno scorso avevano lasciato in asso il governo con le sue grosse provviste di grano; quei presidenti di consorzi granari, i quali alla stessa data più non volevano ritirare dallo stato il grano acquistato ed anzi avrebbero voluto restituire quello già ritirato, lamentandosi che nessuno più volesse farne acquisto e frattanto il frumento si guastasse pure in magazzini improvvisati e disadatti, ricominciano, ora che il prezzo cresce, a rivolgersi di nuovo al governo. Quando il prezzo ribassava, nessuno più voleva saperne della roba governativa; adesso che torna a rialzare, il governo dovrebbe darne a tutti, a prezzo inferiore al corrente ed imporre ai privati di vendere ad un prezzo di calmiere.

 

 

Cominciamo a scartare il censimento. Non perché non sia utilissimo censire il grano; ma perché l’operazione, in quanto sia possibile farla bene, già si fa. Coloro i quali chiedono il censimento del grano, chiedono il ritorno ad una fase superata, imperfettissima delle rilevazioni statistiche. Prima del 1907 si facevano appunto i censimenti delle produzioni agricole, domandando notizie ai sindaci, ai prefetti, alle altre autorità locali. Il servizio era appunto informato a quei criteri di ufficialità e di obbligatorietà, che sono caratteristici dei censimenti; ed i risultati erano lacrimevolmente grotteschi. Oggi, se si rifacesse un censimento del frumento, i risultati sarebbero sconcertanti. Censimento del grano vuol dire preavviso di requisizione, timore di carestia, monopolio governativo, prezzi massimi: quanto basta per far emigrare il frumento dai granai sotto i tetti, nei fienili, nei canterani, sotto il letto; dove nessun linceo sguardo di carabiniere riuscirebbe a scovarlo. Io credo che si potrebbe scommettere a colpo sicuro che il raccolto del 1915 – il quale noi sappiamo non essersi potuto discostare molto dalla media ultima sessennale di milioni di quintali , figurerebbe più vicino ai 20 che ai 30 milioni di quintali. Sarebbe un grido di terrore nel paese ed una folle spinta alla speculazione a spingere i prezzi a 5o e più lire al quintale. Sarebbe anche una bella vittoria per il servizio odierno di statistica agraria. Il quale ha questo di caratteristico: che è organizzato bene, mentre i censimenti frumentari fatalmente sono organizzati male. Diviso il paese in 695 circoli, esteso ognuno ad una zona agraria uniforme, nettamente determinata, le informazioni sono chieste a persone perite di agricoltura: professori ambulanti, ingegneri, periti agrari, agricoltori di fiducia, tutta gente, la quale non ha fatto altro nella vita che occuparsi di cose agricole, che ha l’occhio del mestiere, che non è pronta a generalizzare fuori del bisogno il fatto particolare. Arrivati a Roma, i risultati vengono verificati ed inquadrati nel catasto agrario, da cui per ogni zona risultano le superficie dedicate ad ogni cultura. Molti errori delle notizie di fonte convulsionaria (sindaci, prefetti, deputati, ai quali si fanno credere notizie inverosimili, di raccolti eccezionali o deficientissimi, assurdi perché, fatta la somma delle superfici coperte dai vari raccolti si trova che il numero degli ettari supera ed è inferiore al numero certo degli ettari per quella zona constatato dall’ufficio) vengono senz’altro corretti; di notizie dubbie si chiede la conferma. Le correzioni vengono moltiplicate, finché, conti non quadrano con le superfici note e con la verosimiglianza; e si ottengono così i dati che l’ufficio di statistica agraria rende di pubblica ragione, dati che possono essere erronei in più od in meno, ma sono ad ogni modo grandemente più approssimati di quelli buffi che si otterrebbero da un censimento.

 

 

Fissazione di prezzi massimi, requisizione, monopolio di fatto della importazione dall’estero e razionamento. Metto insieme questi quattro rimedi, poiché essi sono inseparabili l’uno dall’altro. Se il governo fissa un prezzo massimo, probabilmente si decide a ciò per trattenere i prezzi intorno ad un livello un po’ inferiore agli ultimi massimi raggiunti. Supponiamo che fissi i prezzi a 35 lire, per indicare una cifra corrispondente al livello, da cui recentemente si sono prese le mosse. In tal caso:

 

 

  • fa d’uopo che il governo possegga l’arma della requisizione, per costringere a vendere i proprietari o detentori di grano, i quali volessero astenersi dal portare il frumento sul mercato. In Germania ed in Austria il provvedimento del prezzo massimo dovette subito essere seguito da quello della requisizione; perché l’esperienza segnalò il pericolo che il semplice prezzo massimo spaventasse i detentori e li inducesse a nascondere ancora di più il frumento;
  • occorre che il governo si decida a comperare per conto suo all’estero tutti i 10 milioni di quintali occorrenti a completare il fabbisogno nazionale. Se invero il massimo prezzo per l’interno fosse fissato a 35 lire per quintale, neppure un chicco di grano avrebbe convenienza a venire dall’estero per iniziativa privata. Coi prezzi all’origine a 110 cents per bushel, coi noli a 9-10 scellini per quarter, con il dollaro a lire 6,30, il grano nordamericano non può essere portato in un punto interno dell’Italia a meno di circa 39 lire per quintale. Chi mai avrebbe interesse, tra i privati negozianti, ad acquistare a 39, mettiamo anche a 38 o 37 lire, per vendere al prezzo massimo di 35 lire? Il solo governo può far ciò, perdendo le 2, le 3 o le 4 lire per quintale ed accollando la perdita, come in tal caso sarebbe ragionevole, al conto delle spese di guerra. Occorre sapere ben chiaro che, per attuare il monopolio di fatto della importazione frumentaria, il governo dovrebbe perdere qualche decina di milioni di lire;
  • ma siccome non dovrebbe essere lecito ai privati di aumentare, in un momento di spese gravissime, a loro arbitrio le perdite del governo, il che vuol dire le imposte a carico dei contribuenti attuali od i debiti a carico dei contribuenti degli anni venturi; così la logica necessaria conseguenza del prezzo massimo sarebbe il razionamento. Bisognerebbe, come si fece in Germania e come con tanta chiarezza ed arguzia spiegò il Morandotti su queste colonne, attuare sul serio il piano di Ambrogio Fusella nel suo immortale colloquio con Renzo Tramaglino: una cartella per ogni capo famiglia, con tanti buoni per il pane per ogni bocca e per ogni giorno della settimana. Non si può permettere di mangiar pane a volontà, quando si mangia a spese dei contribuenti.

 

 

Questo il piano, il quale dovrebbe essere attuato nella sua interezza, se si volesse raggiungere lo scopo. È un piano che in certe contingenze si impone, per assoluta necessità: ad esempio, in una piazza od in un paese assediato. In altri casi, come in Italia, non è necessario in modo assoluto; ma può essere pensato ed attuato. In tempo di guerra, per evitare commovimenti popolari, per evitare che talune classi della popolazione si arricchiscano a spese delle altre, può essere conveniente che si fissi il massimo dei prezzi del frumento, che si indichino le requisizioni, che il governo perda le decine di milioni importando il grano dall’estero e che si razioni, con le marche del pane, il consumo per impedire che i contribuenti si trovino alla mercé di un consumo arbitrario di pane, compiuto dalla popolazione a cuor leggero, senza coscienza delle conseguenze dei propri atti per la collettività.

 

 

Attuato così, il regime, che si può chiamare socialista, del commercio e del consumo del pane è una cosa seria. Fastidiosa, e tale da dare la sensazione dello stato d’assedio; ma seria. Occorre però che sia attuata altresì sul serio.

 

 

Occorrerebbe, per far funzionare il nuovo regime, trovare qualcosa di meglio dei consorzi provinciali, dove si danno ritrovo molte egregie persone, sindaci, consiglieri provinciali e camerali, persone rappresentative, le quali però hanno poco famigliarità con grani duri e grani teneri, crusche, corpi estranei, immagazzinamento, umidità, muffe, macinazione e simili tecnicismi. Occorrerebbe trovare commercianti e mugnai disposti a lavorare a compenso fisso e modesto per conto del governo e con tutta l’iniziativa e l’accortezza che mettono in opera negli affari propri. Occorrerebbe imporre molto seriamente un’alta resa per le farine, con il consumo di un pane ancor più scuro dell’attuale. Occorrerebbe che la popolazione andasse a gara nel non consumare tutti i buoni di pane assegnati ad ogni bocca, restituendo alla fine settimana, per spirito di civismo, qualche tagliando non usato.

 

 

Occorrerebbero molte cose, per far funzionare bene il sistema. Può darsi che, in un momento in cui gli italiani stanno dando prova di tante qualità morali elevate, si riesca anche a far funzionare bene un sistema che, tutto sommato, è di costrizione e di sacrificio. A tale scopo, primissima condizione è di conoscere bene le condizioni, date le quali soltanto è sperabile di potere mantenere il prezzo a 35 lire, senza effetti troppo rovinosi per il pubblico erario. Non mi è parso perciò inutile delineare per sommi capi quelle condizioni.

 

 

Un’altra via si può scegliere, la quale prescinda dal prezzo massimo e dalle sue necessarie conseguenze: requisizioni, importazione esclusiva di stato e razionamento. È la via che il governo seguì l’anno scorso, e seguì con risultati tutt’altro che cattivi:

 

 

  • libertà di commercio, col correttivo della importazione da parte del governo della più gran parte del fabbisogno per l’esercito e di una quantità addizionale sufficiente per agire da calmiere nei luoghi e nei tempi in cui i prezzi accennassero a salire troppo. In tal modo potrebbe darsi che il commercio privato profittasse dei momenti in cui all’estero i prezzi sono più bassi, in cui si possono per caso ottenere noli modesti, in cui l’aggio accennasse a diminuire, per comprare frumento coprendosi contemporaneamente con vendite ai mulini nazionali. Il commercio privato è in grado di profittare di tutte le più favorevoli condizioni, assai più del governo. Se, tra governo e privati, nel 1914-15 si importarono più di 15 milioni di quintali, per qual ragione non dovrebbe accadere altrettanto in quest’anno?
  • curare, nel modo più severo, l’osservanza del decreto della resa dell’80% delle farine; ridurre al minimo possibile le eccezioni; e studiare se non sia possibile di imporre una resa ancora maggiore. La riduzione nei consumi e il ricorso a cereali cosidetti inferiori sono un dovere. Dagli igienisti abbiamo saputo che, specialmente nelle città, si deve lamentare un sovraconsumo di cibi; e che per l’economia del paese e la salute degli uomini sarebbe utilissima una alimentazione meno abbondante. La guerra può fornire occasione ad una propaganda pratica in favore di queste sane norme igieniche. Il prezzo alto agisce già efficacemente nel senso della riduzione nei consumi; e, dal punto di vista dell’interesse generale, essendo opportuno limitare le importazioni dall’estero, è utile tutto ciò che limita il consumo e fa durare più a lungo le provviste nazionali;
  • persuadere i contadini a portare sul mercato e specialmente a vendere ai consorzi una parte delle loro riserve famigliari, ora che i prezzi sono rimuneratori e sono certamente più alti di quanto si può presumere saranno a guerra finita. È forse la parte più difficile del programma, data la innaturata diffidenza delle genti campagnuole. Deputati, sindaci, consiglieri, parroci, maestri, potrebbero esercitare, se ne hanno, la loro influenza sociale in questo senso. Da varie parti mi si scrisse, in occasione del prestito, che gli uomini pubblici non godono sulle popolazioni di alcuna influenza persuasiva nelle loro faccende private. Se è così, bisogna trarne la conseguenza che la classe politica è scelta assai male; poiché non si può pretendere di dirigere una società, quando i propri consigli sono derisi e seguiti alla rovescia;
  • agendo sul cambio. Circa 6-7 lire dell’attuale alto prezzo del grano sono dovute al cambio sfavorevole all’Italia. Se il cambio fosse alla pari, il grano estero, invece di 40, costerebbe 33-34 lire porto franco a Genova od a Napoli. In grandissima parte, il problema del caro del frumento, è dunque un problema di cambio. È assurdo pretendere di agire sul prezzo del frumento con armi che si riferiscono al frumento stesso. Questo è uno strumento passivo; mentre l’elemento attivo è l’altezza del cambio.

 

 

A diminuirne l’asprezza gioverà mangiar meno frumento e consumare meno di qualunque altra merce importata dall’estero o che non si possa esportare all’estero. Fare economia, all’osso, è forse ancora uno dei mezzi migliori per fare ribassare il cambio e quindi il prezzo del frumento. Accantonare tutte le proprie economie per il momento in cui il governo chiamerà a raccolta gli italiani per un nuovo prestito, è il mezzo più efficace per evitare emissioni di carta – moneta e quindi ulteriori aumenti dell’aggio e nuovi inasprimenti del prezzo del frumento. La via può parere un po’ traversa; ma conduce alla meta forse con maggior sicurezza dei prezzi massimi e delle requisizioni.

 

 

Finalmente, è certo che il governo vorrà giovarsi degli accordi finanziari con il cancelliere dello scacchiere inglese, il quale ha aperto non indifferenti crediti all’Italia sul mercato di Londra, per tenere basso il prezzo della lira sterlina e del dollaro. Non conosco nessun altro mezzo, il quale possa essere più efficace di questo per tenere ad un limite ragionevole il prezzo del frumento e delle altre cose necessarie alla vita in Italia. Bisogna combattere, con ogni possa, l’aggio: con le economie individuali nei consumi spinte all’estremo del possibile, con i rinnovati prestiti all’interno e con una sapiente utilizzazione delle aperture di credito che abbiamo ottenuto all’estero.

 

 

VIII

I decreti per il censimento e la requisizione militare del grano e del granoturco si integrano a vicenda ed il loro meccanismo vuole perciò essere esposto contemporaneamente. Ecco quali sono gli obblighi essenziali a cui va d’ora innanzi soggetto il detentore (proprietario, affittavolo, mezzadro, colono, contadino, mugnaio, negoziante, ecc. ecc.) di grano e granoturco:

 

 

  • denunciare il quantitativo posseduto a qualunque titolo, anche come sequestratario o depositario, entro il 25 gennaio 1916, quando il quantitativo stesso complessivo, ossia grano e granoturco insieme considerati, raggiunga i 5 quintali. I detentori di quantità inferiori a 5 quintali possono, senza esservi obbligati, eseguire la denuncia. La denuncia potrà essere scritta o verbale, e dovrà farsi nell’ufficio comunale al sindaco od al suo delegato o ad altri funzionari di polizia o governativi all’uopo incaricati;
  • denunciare contemporaneamente il quantitativo necessario: – al consumo della famiglia del detentore stesso e dei suoi coloni od altri dipendenti sino al nuovo raccolto. Tale quantità necessaria al consumo si calcola in media a tre quintali a testa e per ogni dodici mesi. Non si fa distinzione, appunto perché si tratta di media, tra uomini e donne, vecchi, adulti e bambini. I tre quintali sono per 12 mesi; cosicché, supponendo che la denuncia avvenga il 25 gennaio e che da quella data debbano trascorrere in media 6 mesi sino al nuovo raccolto, ogni detentore avrà diritto di conservare per sé 1,50 quintali a testa; se il medio tempo a trascorrere si calcoli ad 8 mesi il quantitativo sarà di 2 quintali a testa;

 

 

  • al consumo per le semenze più vicine;
  • al consumo per gli usi zootecnici del proprio fondo (alimentazione del bestiame da stalla e degli animali da cortile);
  • trattandosi di mugnaio, il quantitativo occorrente per la lavorazione per due mesi del mulino;
  • trattandosi di comuni, altri enti pubblici, od istituzioni di pubblica beneficenza od assistenza, la quantità occorrente all’attuazione dei propri servizi od al raggiungimento dei fini dell’ente o della istituzione.

 

 

Il sindaco o l’altro ufficiale, a cui la denuncia è fatta, assumerà informazioni per controllare l’esattezza delle denuncie; ed, occorrendo, l’autorità potrà procedere a visite nei locali dove sia stato dichiarato o si ritenga essere depositato grano o granoturco.

 

 

Il censimento non toglie al detentore dei cereali il diritto di venderli. L’alienazione è sempre lecita e non va soggetta ad alcuna formalità od autorizzazione preventiva. Unico obbligo è quello di denunciare al segretario comunale le vendite avvenute:

 

 

  • entro il termine di 5 giorni; quando però
  • le vendite singolarmente o nel loro complesso abbiano raggiunta la quantità di 5 quintali.

 

 

Se il detentore conserva piena la facoltà di vendere o di vendere a qualunque prezzo – nessun limite di prezzo o calmiere viene infatti fissato nei due decreti per le vendite private – all’autorità militare è riconosciuta però la facoltà di requisire, evidentemente anche oltre le proprie necessità dirette, ossia altresì per l’approvvigionamento della popolazione in genere, tutto il grano o granoturco:

 

 

  • il quale raggiunga il quantitativo complessivo di 5 quintali per detentore;
  • e non sia necessario al consumo della famiglia, alle semine, agli usi zootecnici, ai mulini ed agli enti pubblici, entro i limiti che furono esposti sopra.

 

 

Tutto ciò che raggiunga e superi questi limiti è soggetto a requisizione da parte dell’autorità militare, e ad opera di commissioni provinciali nominate dai comandanti dei corpi d’armata, secondo norme stabilite nel decreto.

 

 

Il prezzo è fissato d’autorità dalle commissioni provinciali, entro il limite massimo stabilito dal ministero della guerra, sentito il parere di una «commissione centrale per gli approvvigionamenti, gli acquisti e la distribuzione dei cereali». Il prezzo in ogni caso è netto da ogni tassa e quindi anche dalla imposta del centesimo di guerra recentemente istituita. Esso può essere pagato:

 

 

  • per contanti, a pronta cassa, quando l’autorità requisente ritiri subito il cereale requisito;
  • metà per contanti subito e metà a respiro, non oltre però due mesi dall’avvenuta requisizione, quando nel frattempo l’autorità preferisca lasciare i cereali requisiti presso il detentore, costituito come depositario per conto dell’amministrazione militare.

 

 

I contravventori all’obbligo delle denuncie sono puniti con la reclusione fino ad un anno e con la multa sino a lire cinquemila; e dal canto suo chiunque rifiuti obbedienza agli ordini dati dall’autorità per l’esecuzione del decreto sulle requisizioni o comunque impedisca od ostacoli tale esecuzione è, senza pregiudizio delle maggiori pene stabilite dal codice penale, punito con la reclusione sino ad un anno e colla multa sino a lire 10.000.

 

 

Sarebbe prematuro un qualsiasi giudizio sulla efficacia del nuovo regime instaurato oggi per il commercio dei cereali; e regolato certamente con norme ispirate ad attento studio e ad ottime intenzioni. L’esperienza storica passata sembra concludere con certezza che un siffatto regime può funzionare bene solo col concorso di un complesso di circostanze svariate che non ricordo essersi mai verificate. Il che non deve fare escludere a priori che esse possano verificarsi questa volta in Italia o che almeno possa verificarsi una delle più importanti di esse, che è la disponibilità prima, e la vendita poi, eventualmente in perdita, di quantità sufficienti di cereali esteri da parte del governo. La qual vendita l’anno scorso per un certo periodo di tempo produsse da sola l’effetto che ora si vuol raggiungere con il complesso meccanismo creato dagli odierni decreti. Soltanto i fatti potranno risolvere l’interessante problema; e vi sarà tempo a ritornarvi sopra, poiché l’esperienza di fatto incomincia soltanto adesso.

 

 

IX

Il decreto sulla molitura dovrebbe produrre effetti più sicuri di quello finora in vigore, il quale imponeva la confezione del pane con farina all’80%. Era impressione generale che il decreto sul pane unico fosse poco e male osservato; né era facile, entro i limiti del decreto stesso, trovar modo di obbligare i fornai a produrre solo il pane unico, quando la clientela manifestava gusti diversi. Il decreto dell’11 marzo dovrebbe avere maggiore efficacia, poiché:

 

 

  • fa addirittura divieto ai mugnai di produrre sia per conto proprio che di privati, farina di un tipo diverso da quello legale, ossia abburattata a meno dell’85%;
  • fa divieto agli stessi mugnai di togliere dalla farina qualsiasi elemento al di fuori della crusca;
  • impone norme contro la importazione dall’estero, la circolazione e la vendita di farine diverse da quella legale; e vieta ai fornai di usare altre qualità.

 

 

Se il decreto verrà osservato i risultati potranno essere ragguardevoli. Poiché normalmente si ricavano solo 75 chilogrammi di farina dal frumento normale; e poiché è probabile che il decreto sull’80% non fosse generalmente osservato, l’aumento della resa all’85% implica un guadagno del 10% per quintale di frumento. Se noi calcoliamo il consumo totale mensile del frumento a 5,5 milioni di quintali, sarebbero 550.000 quintali mensili di più che il decreto renderebbe disponibili per il consumo umano. Ma questo è un massimo; poiché il decreto sul pane unico in parte era osservato; poiché i 10 chilogrammi di farinette e cruschello, che ora si congloberanno nella farina, erano prima usati per l’alimentazione del bestiame; e poiché finalmente non si può escludere qualche violazione del decreto odierno. Rimane però un margine di risparmio, che sarebbe necessario assicurare con severità, per ridurre alquanto i nostri pagamenti all’estero.

 

 


[1] Con il titolo Il problema del frumento. [ndr]

[2] Con il titolo La sospensione totale del dazio sul frumento. [ndr]

[3] Con il titolo I metodi per frenare l’aumento del prezzo del pane. [ndr]

[4] Con il titolo La necessità del pane unico. [ndr]

[5] Con il titolo Il pane unico e il dato di macinazione. [ndr]

[6] Con il titolo La situazione frumentaria in Italia e nel mondo. [ndr]

[7] Con il titolo Rimedi e provvedimenti contro il rincaro del frumento. [ndr]

[8] Con il titolo Il nuovo regime del commercio dei cereali. [ndr]

[9] Con il titolo Il decreto sulla molitura del frumento. [ndr]

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