Opera Omnia Luigi Einaudi

Gabelle e consumi. Gli insegnamenti di un rapporto finanziario

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 08/03/1906

Gabelle e consumi. Gli insegnamenti di un rapporto finanziario

« Corriere della sera», 8 marzo 1906

 

 

 

Che le entrate dello Stato da alcuni anni in qua siano in aumento è un fatto oramai notissimo; ma non è altrettanto risaputo che queste entrate crescono assai differentemente le une dalle altre e che queste differenze sono tali da fornirci ammaestramenti utilissimi. Oggi vogliamo occuparci delle entrate esatte dalla Direzione generale delle gabelle, la quale, solertissima fra le Direzioni del Ministero delle finanze, ha pubblicato or ora un ampio ed istruttivo resoconto della sua gestione per l’esercizio 1904-905. La Direzione delle gabelle amministra tre cespiti importantissimi di entrate fiscali: le dogane, le imposte di fabbricazione (zucchero, spiriti, gas, fiammiferi, ecc., ecc.) e i dazi di consumo, ossia quasi tutte le imposte sui consumi, ad eccezione dei monopoli del sale, del tabacco e del lotto. È da notare subito un fatto significante: che mentre dal quinquennio 1895-900 al quinquennio 1900-905 tutte le entrate effettive ordinarie dello Stato crebbero da 1.283 a 1.358 milioni in media, ossia del 5,9 per cento, le gabelle aumentarono da 374 a 441 milioni, ossia del 17,3 per cento, tre volte tanto in proporzione di tutti gli altri redditi presi assieme. Ed è da aggiungere a questa prima constatazione che all’incremento non contribuirono affatto i dazi di consumo fossilizzati intorno ai 77-80 milioni di lire all’anno al lordo e con tendenza marcatissima a diminuire al netto. Lo Stato riscuote infatti un 50 milioni circa di canoni di abbonamento dai Comuni per la sua parte di dazio; 11 milioni pel dazio di Napoli e 17 per quello di Roma, che sono amministrati dal fisco. Ma deve pagare a Napoli 14 milioni e mezzo ed a Roma 16 milioni e mezzo; più ancora deve dare fortissimi sussidi e quote di concorso ai Comuni per aiutarli nell’abolizione dei dazi sui farinacei; sussidi e quote che da 7 milioni e mezzo, tre anni fa si sono elevati a 20 milioni circa, cosicché la sua spesa raggiunse quasi 51 milioni, ed il reddito netto, che era quindici anni fa di 70 milioni, si restringe (1904-1905) a 26.880.652 lire. Andando di questo passo, lo Stato finirà per non aver più alcun interesse diretto alla conservazione del dazio comunale. Né sarà un male, perché sarà certo facilitata la soluzione del problema tributario locale, quando il Tesoro non sia per nulla interessato alla conservazione di una data forma di dazio consumo.

 

 

Il reddito dello Stato poggia quindi sovratutto sulle dogane e sulle imposte di fabbricazione, oscillanti le prime e rapidamente crescenti le seconde. Le dogane esatte sulle merci che entrano dalla frontiera sono forse l’elemento più infido del bilancio attivo dello Stato: da 261 milioni nel 1895-96 vanno a 234 nell’anno dopo; nel 1902-903 sono a 273 milioni per discendere a 235 ed a 234 nei due anni seguenti. Le cause di tutte queste oscillazioni sono due: il grano e lo zucchero. Lo zucchero oramai ha finito di scompigliare i redditi delle dogane perché dall’estero non ne entra più: il provento del dazio sugli zuccheri stranieri che era di 66 milioni nel 1898-99, si è ridotto a 358 mila lire nel 1904-905. Ma lo Stato non ha perso nulla perché incassa al posto del dazio sullo zucchero estero l’imposta di fabbricazione sullo zucchero italiano, salita da 1 milione e mezzo di lire nel 1896-97 a quasi 74 milioni nel 1904-905; primissima origine dell’incremento meraviglioso del reddito delle imposte di fabbricazione salite nel decennio da 41 a 140 milioni di lire. L’altra causa perturbatrice del reddito doganale è il grano; ed è causa non sanabile, perché dipendente dalla variazione delle stagioni: il dazio sul grano fruttò infatti 74, 69, 93, 59 e 64 milioni in ognuno degli ultimi cinque anni. Se togliamo grano e zucchero le dogane che nel quinquennio 1895-900 davano un reddito oscillante fra 133 e 151 milioni, gittarono nel 1900-905 da 152 a 172 milioni: segno non dubbio di progresso economico.

 

 

Non è a dire che l’importazione crescente del grano dall’estero (da 39 a 72 milioni di reddito in media nei due quinquenni ultimi) sia un indice di regresso; perché siccome sembra certo che la produzione interna è cresciuta in misura non piccola, sebbene non precisabile, la maggiore importazione è dovuta ad un vero incremento nel consumo di grano. Gli italiani consumano sempre meno cereali inferiori e sempre più grano; e fanno anche più larga parte al consumo delle paste alimentari, come è provato dalla importazione di grani duri, cresciuti da 272 mila tonnellate nel 1899 a 513 mila nel 1905. Attualmente i grani duri entrano quasi per i due terzi nell’importazione di grani dall’estero; cosa la quale unita al livello elevato dei prezzi del grano, alla quasi totale scomparsa degli Stati Uniti dal novero dei paesi esportatori, ci fa concludere all’opportunità di pensare sul serio alla riduzione graduale del dazio sul grano. Una riduzione a 5 lire, mentre ci gioverebbe assai nella conchiusione del trattato colla Russia, favorirebbe l’importazione specialmente dei grani duri, che l’Italia sembra non poter assolutamente produrre in quantità sufficiente ai suoi bisogni e sarebbe, ai prezzi attuali, compatibilissima con nuovi progressi della granicultura italiana. In conclusione, il fisco non vedrebbe ridotte le sue entrate molto al disotto dei 60 milioni, cifra la quale non può essere prudentemente superata nelle previsioni del Tesoro e che forma quindi già oggi la base di tutti i calcoli finanziari.

 

 

Istruttivo e stimolo ad audacie feconde è il contrasto fra il caffè e il petrolio. Il caffè, il quale sembrava fossilizzato intorno ad un consumo di 400 grammi per abitante e ad un reddito doganale di 18-20 milioni fino al 1900, ha avuto d’allora in poi vicende liete per i consumatori ed il fisco.

 

 

Col 28 luglio 1900, in seguito alle minacce del Brasile di chiudere le porte in faccia alle nostre esportazioni, il dazio è ridotto da 150 a 130 lire al quintale e rimanendo i prezzi d’origine intorno alle 100 lire, il consumo cresce a poco a poco a 547 grammi a testa ed il reddito doganale, malgrado la diminuizione del dazio, aumenta da 20.204.310 a 23.814.627 lire. Esempio modesto ma persuasivo degli utili effetti che si possono avere da una minore pressione fiscale unita al cresciuto benessere economico del paese. Diverso è invece, malgrado le condizioni del paese siano migliori in tutti i casi, l’andamento del reddito del dazio sul petrolio: il quale da 34.651.680 nel 1898-89 è scemato a 32.710.272 lire nel 1904-905, mentre il consumo medio riducevasi da 2.347 a 2.131 grammi per abitante. A che cosa ciò può essere dovuto se non all’ostinazione nel voler conservare il dazio di 48 lire per quintale per un prodotto il cui valore d’origine è di 20 lire?

 

 

Certo il petrolio è soggetto alla concorrenza del gas e della luce elettrica; ma quanti nuovi sbocchi non saprebbe esso trovare al proprio consumo se la tassazione fosse ridotta alla metà od al quarto? Tutti sono persuasi che in pochi anni il consumo del petrolio aumenterebbe per modo da risarcire le perdite del fisco; ma che vale la persuasione universale, se nessuno osa tradurla in atto?

 

 

L’aumento nel reddito delle imposte di fabbricazione è l’indice più perfetto dei grandi progressi che si sono verificati nelle industrie italiane. Prendendo come anni estremi il 1894-95 e il 1904-905, abbiamo il reddito degli spiriti passato da 26.1 a 42.4 milioni, della birra da 1,3 a 3,1, delle polveri da 1,1 a 1,9, della cicoria da 0,9 a 1,7, del glucosio da 0,6 a 0,9, degli zuccheri da 1,2 a 73,9, della raffinazione degli oli minerali da 0,1 a 0,3, dei fiammiferi da 2,4 a 8,6, del gas luce ed energia elettrica da 2,0 (1895-96) a 7,3 milioni all’anno. L’imposta di fabbricazione è la forma moderna per eccellenza dei tributi sui consumi: non più vessazioni all’entrata nelle grandi città o sulla minuta vendita; ma l’esazione del tributo presso i fabbricanti, che l’anticipano al fisco e la compenetrano nel prezzo, in guisa che al consumatore passi quasi inavvertita. L’imposta non provoca attriti continui ed irritanti tra il fisco ed una moltitudine di consumatori; ma pone a contatto i gabellieri e pochi grandi industriali. Le imposte di fabbricazione non possono essere moltiplicate all’infinito, perché sarebbero troppi gli industriali da sorvegliare; e di fatto si riducono a poche voci: spiriti, alcolici, zuccheri, surrogati del caffè, consumi certo non di primissima necessità e che son tassati in tutti i paesi. Noi abbiamo aggiunto i fiammiferi, il gas luce e l’energia elettrica; ma non pare che l’imposta abbia arrestato sensibilmente l’espansione dell’industria e del commercio. Basta pensare che in Italia si producevano 47 miliardi e 689 milioni di fiammiferi nel 1896-97 e se ne producono ora (1904-905) ben 62 miliardi e 608 milioni, di cui circa un terzo va all’estero; che nel 1898-99 si consumavano 124 milioni di metri cubi di gas e 219 milioni di ettowatore di energia elettrica: e nel 1904-905 le cifre sono salite a 173 e 621 milioni rispettivamente. La fortuna delle imposte di fabbricazione è stata in gran parte meritata; e sarà grande anche in avvenire, se si sapranno temperare alcune asprezze inutili nelle aliquote, specialmente per gli zuccheri, il cui consumo è di gran lunga inferiore a quello che sarebbe se, ridotta l’imposta, il prezzo potesse ridursi ad una lira od ottanta centesimi al chiligramma. Dazi di consumo sulla via di una progressiva abolizione; dogane arrestate nel loro sviluppo da tariffe troppo elevate, ed imposte di fabbricazione in rapido e promettente incremento: ecco quanto ci dice il rapporto della Direzione delle gabelle. Ed è molto, perché ci indica la direttiva delle riforme necessarie ed utili nel campo de’ tributi sui consumi.

 

 

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