Opera Omnia Luigi Einaudi

Gioele Solari[1]

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1949

Gioele Solari[1]

«Nuova antologia», 1949, n. 3554, pp. 14-23

 

 

 

Ci conoscemmo sui banchi dell’università, nell’aula al pian terreno dove Ronga leggeva le lezioni di istituzioni di diritto romano alle otto del mattino. Aula piena, come non usò poi, a quell’ora; ma tant’era il terrore incusso dal professore, che, volenti o nolenti, tutti ci si andava. Non era una lezione divertente; ché, al par del pandettista Anselmi, il Ronga leggeva, alla maniera d’un tempo, le sue lezioni ed, in aggiunta, esigeva all’esame la ripetizione letterale di ciò che era stampato nel libro di testo. Faceva una curiosa impressione sentir parlar Ronga di schiavi, di liberti, di manomissione, di adozione, di agnazione come se il diritto romano fosse diritto vigente nell’anno di grazia 1891-1892. Ancor più curiosa era l’impressione che si aveva di Anselmi: bianco di capelli, con lunghi favoriti, posto lassù in alto sulla cattedra dell’aula III, quella a gradinate; anch’egli ripetitore di dispense sulle quali si poteva ancora leggere ad un certo punto: «qui il professore ha dovuto interrompere le lezioni, perché gli studenti sono partiti per la guerra di Lombardia». Era un ricordo della guerra del 1859. Nella stessa aula, scarsamente frequentata all’ora di Anselmi, si assiepava la folla di studenti e di laureati alle quattro del pomeriggio, quando entrava Mattirolo, diritto come un fuso, elegantissimo, in cilindro e prefettizia, e dall’alto della cattedra dava inizio solennemente allo spettacolo. Ad ogni volta erano invero per me cagion di stupore la perfezione della frase, il rigore del linguaggio giuridico, e sovratutto l’arte, non uguagliata forse da nessuno dei proceduristi italiani venuti prima e poi in gran fama, con la quale Mattirolo rendeva viva e parlante e quasi drammatica una disciplina che, a studiarla sui libri, a noi studenti pareva la quintessenza della noia, voglio dire la procedura civile. Bisognava vedere quei giovani dottori in legge, praticanti in studi di avvocati famosi, bersi avidamente le parole del cattedratico e far segni di assenso e di compiacimento. Era la lor pratica quotidiana di principianti, la vicenda delle citazioni, dei termini, delle comparse che essi, compiaciuti, vedevano sintetizzata, teorizzata, idealizzata. Si sentivano orgogliosi di quel che facevano, anche se si trattava di cose umili; e perdonavano volentieri al professore se, qualche volta, agli esami, per comunicare la bocciatura, Mattirolo aveva chiamato ad alta voce il vecchio dignitoso bidello, mai visto altrimenti vestito che in marsina.

 

 

Solari frequentava le lezioni di tutti i professori, anche quelle del buon Ferroglio, lo statistico che nel parlare e nello scrivere dimostrava una antipatia invincibile per la sintassi; ed era capitato nella statistica quando i dottori aggregati, scomparsi poi anche dalle università ex-sarde, avevano facoltà di insegnare qualunque materia. Ma era uomo colto, fornito di buone letture; e sovratutto era uomo buono ed allora si sussurrava che, a causa della sua integrità, i frammassoni torinesi gli avessero affidato per tanti anni l’amministrazione del «tronco della vedova», che pare fosse il fondo per la beneficenza. Della bontà gli studenti, non di rado crudeli, profittavano per far baccano ed ordire scherzi di uccelli volanti di cartone, lanci di pallottole di carta e simiglianti malvagità. Agli scherzi si reagiva in pochi. Reagiva Solari, il quale tra gli studenti aveva una particolare autorità, derivata da una sua quasi doppia vita. Studiosissimo e diligente, stimato dai professori, trovava modo e tempo di accompagnarsi ai peggiori capiscarichi della goliardia di allora. L’associazione universitaria non era una cosa seria come divenne poi o fastidiosa come all’epoca dei guf; ma un’accolta di buontemponi, orditori di feste carnevalesche rumorose ed allegre. Talvolta, come quando l’economista prof. Cognetti de Martiis diresse al «Rossini» la rappresentazione data da dilettanti studenti di commedie plautine da lui tradotte, od erano organizzate mostre satiriche ed umoristiche, gli studenti facevano opera di cultura. Ma per lo più erano balli e serate; dalle quali si tenevano lontani coloro che avevano timore di far brutta figura per mancanza di pecunia. Solari, sia che un dieci o venti lire al mese di più le avesse, sia l’indole gioviale gli procacciasse amici numerosi, era intrinseco al tempo stesso di studiosi e di festaioli; e data d’allora la sua amicizia con la famiglia Lupi che per generazioni condusse e conduce tuttora le recite dei burattini, gioia di tanti bambini ed adulti torinesi, tenute nel teatro che un tempo, per essere attiguo al palazzo d’Angennes, si chiamava con quel nome. Il palazzo dove, se la memoria non mi falla, Gian Giacomo Rousseau fu servitore, era passato poi in proprietà ai Ruffini. Francesco Ruffini narrava, non senza compiacimento, come egli di casa potesse recarsi a vedere i burattini nella loggia rimasta annessa al palazzo. Quando alcuni mesi fa mi incontrai ad un ricevimento con uno dei Lupi, spontaneo fu in ambedue il ricordo che chi ci aveva fatto conoscere era il comune amico Solari. Il quale diede allora cominciamento alla raccolta della folla di amici nei ceti più varii e non di rado strani di Torino e del Piemonte; dai finanzieri e dagli industriali incontrati ai tavolini del ristorante Molinari posto all’angolo di via Santa Teresa e piazza Solferino e frequentatissimo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, ai mendicanti e vagabondi incontrati nelle vie della vecchia Torino tra via Stampatori, via Botero, vicolo Santa Maria ecc. Ad un certo momento egli aveva preso stanza in via Botero 4 bis, presso una vedova la quale, per non perdere una pensione, aveva sposato solo in chiesa un presidente di tribunale a riposo. La stanza era ampia e dotata di alcova per il letto; sicché le pareti erano in gran parte libere per i libri che cominciava a crescere. Al di sopra degli scaffali campeggiava un gran ritratto di una amica di gioventù di Solari, a lui devota e morta anzi tempo; alla cui memoria egli rimase sempre attaccato, senza che la buona signora Clara ne abbia mai, nonché mosso querela, sentito la minima invidia. Quella stanza, pessimamente illuminata, era fin da allora meta di studenti e di amici, in cerca di consiglio e di aiuto. Cominciò allora quella raccolta di schede e di appunti sulle letture da lui fatte, che divenne miniera meravigliosa di idee e di notizie per gli studiosi. A ragione Solari ricorda con compiacimento quelle fatiche bibliografiche; e chi non ebbe mai la pazienza metodica di accumulare e sistemare appunti e schede è costretto, oltreché ad ammirare ed invidiare, ad augurare che quel materiale prezioso, quando non serva più al suo autore – e ciò accada, per il bene della scienza, fra anni moltissimi – sia depositato, a monito ed aiuto per le generazioni venture, in qualche pubblica biblioteca.

 

 

Dubito che i finanzieri, commercianti ed industriali conosciuti da Solari al Molinari abbiano saputo apprezzare la sua qualità di dotto; e sono sicuro che parecchi gli avranno dato il titolo di «professore» per cortesia, persuasi che egli invece in qualche modo appartenesse alla loro confraternita. Invero, per essere dotato di singolarissima attitudine di immedesimazione nel pensiero e nei sentimenti altrui, Solari diventa subito commerciante con i commercianti, avvocato con gli avvocati, agricoltore con i contadini, maestro elementare con gli insegnanti dell’ordine primario e, va da sé, continua ad essere amatissimo collega dei professori di scuole medie, con i quali per tanti anni ebbe comunanza di vita. A causa del biblico nome egli, rampollo di cattolicissima nobile famiglia bergamasca, fu reputato da molti ebreo; e non esitò talvolta, sentendosi fare da qualche frammassone la rituale grattatina al palmo della mano, a rispondere collo stesso metro, lasciando in dubbio, a causa delle risposte non sempre pienamente informate, i suoi interlocutori. Ma non escludo che parecchie informazioni intorno ai riti ed ai segreti della società egli abbia saputo in siffatta maniera ottenere. Negli anni del fascismo, pochi dissero a gerarchi ed a strumenti supini del regime tante verità quante, senza mandar nessuno a riferirle, ne disse loro in faccia Solari. Ma gerarchi e pedissequi dovettero mandar giù l’amara saliva, perché egli diceva la verità in maniera simpatica, sicché il colpevole poteva sempre immaginare di aver salva la faccia e sopportava da lui quel che in bocca d’altri sarebbe parsa ingiuria. Talché, quando taluno di noi od uno studente si trovava, per cose dette o fatte, a qualche malo passo, chi andava in prefettura od in questura a chiedere notizie, a spiegare la faccenda, a cercar di trar fuori un disgraziato giovine dal fermo? Solari, sempre Solari. I più induriti poliziotti non sapevano resistere al fascino della umana simpatia che si sprigionava da quell’uomo che, senza mai dare ad essi ragione, lasciava intuire che egli si metteva nei loro panni, che apprezzava le difficoltà del mestiere e dell’ufficio, e, stringendo la mano al peggior arnese di polizia, lo restituiva per un istante alla dignità di uomo ed alla stima di se stesso. Giovava a lui la maestria nell’uso della bella barba rossa, che egli sapeva e sa volgere a rimprovero, ad incitamento ed a sollazzo. Conobbi due barbe parlanti: una era quella di Albert Thomas, capo un tempo della C.G.T. francese e poi segretario generale dell’Ufficio internazionale del lavoro; e la seconda è la barba di Solari. Un giorno che a Ginevra ebbi occasione di intrattenermi a lungo col Thomas, non feci attenzione tanto alle cose da lui dettemi, che, se male non ricordo, avevano l’intonazione di genericità consueta tra persone che non si conoscono a fondo, quanto al commento che egli ne faceva lisciando o tenendo sospesa in aria od abbandonando a sé la bella barba fluente. Quella barba diceva: bada che se le parole sono queste, esse vogliono precisamente significar quest’altra più precisa idea. Ed il colloquio traeva significato da quelle più precise dichiarazioni non dette. I movimenti della barba tengono luogo, per Solari, dei gesti delle mani e dei moti dei muscoli dei mobilissimi visi napoletani. Solari, durante la lezione, non guarda gli studenti negli occhi, ché i suoi sono volti all’insù quasi spaziassero nel vuoto; ma tiene ugualmente in soggezione gli ascoltatori colla sapiente manovra della mano sulla barba. Rossiccia un tempo, ora di color pepe e sale, è oggetto sorprendente di terrore, stupore ed ammirazione per i bambini. Bisogna vedere i miei nipotini in gran travaglio tra il terrore di quella barba semovente e la forza irresistibile che li spinge ad avvicinarsi per tirargliela. A furia di piccole grida di spavento, di cauti avvicinamenti e di arretramenti rapidi, i piccoli giungono alla meta agognata, che è di mettere le mani in quella misteriosa foresta, che essi non usano incontrare tra i famigliari. Ma quella barba vuol dire bontà e simpatia umana, e procaccia contraccambio di simpatia e di opere buone. Persino tra i reietti della società Solari è riuscito a procacciarsi benevolenza; e nessuno mai gli torse un capello o gli recò danno quando, stanco di lavorare sui libri sino alle due o alle tre della notte, egli scendeva a prendere un po’ d’aria ed a rinfrescarsi mani e viso nell’acqua fresca della fontanella della piazzetta di Santa Maria a quattro passi dal numero 4 bis di via Botero. Altri, nello scorgere i soliti due o tre figuri seduti vicino alla fontana, avrebbe girato alla larga. Egli, invece, attaccava discorso; si interessava ai casi loro, compativa alle loro disgrazie; sicché borsaioli o peggio lo rispettavano e, pur non intendendo bene quel che facesse quel bizzarro tipo di uomo il quale prendeva anche lui il fresco di notte per le vie della vecchia Torino, avevano finito per ricorrere per qualche lecito aiuto al «professore» che parlava loro come se essi fossero uomini a lui uguali. A ciò era spinto dalla simpatia che egli sentì sempre per gli uomini che stavano in giù nella scala sociale. Quanto ci sia di socialistico nella sua dottrina, lo ha egli stesso analizzato negli scritti contenuti nella presente silloge. In quell’ultimo decennio del secolo passato, egli fu tratto, con altri, sebbene ciò fosse alieno dalla sua indole, a partecipare alla lotta politica. Amico della più parte dei giovani che, dopo i moti del 1898, avevano diffuso il verbo socialistico nei villaggi piemontesi, dove la polizia inavvedutamente li aveva mandati in confino, – e ricordo solo Morgari, Casalini, Norlenghi, Sambucco, Sacerdote – un bel giorno si trovò essendo scomparsi od in gattabuia i compagni, ad amministrare il «Grido del popolo», settimanale del partito socialista. Non so come se la cavasse, sovratutto a cagion del difetto di quattrini per pagar carta e tipografia; e, non ricordo bene se per cercare quattrini o in giro di propaganda, egli in quel torno si indusse perfino a far discorsi sovversivi nelle campagne piemontesi, attorniato da compagni plaudenti e da poliziotti sospettosi, che tutti domava con la giovialità del tratto e della parola.

 

 

Finita l’università, che il desiderio di conseguire, dopo quella di giurisprudenza, la laurea in lettere e filosofia, fece sì che si prolungasse per lui alquanto, cominciarono gli anni duri, quando Solari dovette pensare a guadagnarsi il pane quotidiano. I redditi di casa, se pur qualcosa giungeva sino a lui, sempre pietoso verso le narrazioni di miseria dei coloni della famiglia (quando lo visitai ad Albino nel bel quartiere avito, dove ancora abitano, in case comuni o divise ed in giardini comunicanti il fratello monsignore, la cognata, la sorella, i nipoti, ebbi l’impressione che il vicin suo mezzadro, già divenuto proprietario della parte di uno dei fratelli Solari, praticamente avesse già fatto sua, con acconcie rotture di tramezzi, anche la parte del Gioele) erano spesi a pro di fratelli e nipoti, dei quali ogni tanto si scopriva uno nuovo vivente a dozzina gratuita presso lo zio. Solari non ebbe figli; ma alla mancanza supplivano i nipoti, che ritengo gli siano devoti per il tanto bene che ne ebbero di consigli e di aiuti. Ma tra il 1896 e il 1900 la vita fu dura per lui, come per tutti coloro i quali non disponevano di una fortuna bastevole a formarsi una casa ed una famiglia. Il primo insegnamento pubblico lo tenne con un incarico di italiano e storia e geografia in una scuola tecnica posta nel quartiere della Cittadella. Sebbene Solari fosse subito divenuto l’amico del direttore e dei colleghi di ruolo, le ore erano parecchie e rese faticose dalla scolaresca formicolante di ragazzetti non ancora sgrossati.

 

 

La scuola tecnica ora si dice di avviamento od unica; e la fatica di domare ed educare quelle turbe non lasciava davvero troppo tempo libero allo studio. Si aggiungano le ripetizioni private ed i piccoli incarichi remunerati a 30 o 40 lire al mese per 10 mesi dell’anno, qua e là, ad es., presso la Scuola di commercio annessa all’Istituto, un tempo internazionale e fiorente, dove insegnavo anch’io ed impartì lezioni Attilio Cabiati per compenso non maggiore. Quando fu aperto un concorso alla cattedra di filosofia nei licei e Solari andò al liceo di Cuneo, le ansie cessarono e la vita parve più promettente, anche se lo stipendio iniziale giungeva alle consuete 123,25 lire al mese, senz’altra aggiunta visibile. A Cuneo, ebbe molti allievi che gli rimasero sempre devoti, e basti ricordare i due figli del senatore Galimberti; e vi sarebbe rimasto se la maggior vicinanza a Torino non gli avesse, dopo qualche anno, fatto preferire la minor sede di Carmagnola. Poi vennero la libera docenza in filosofia e diritto; i concorsi vinti; le cattedre a Cagliari ed a Messina, dove lo raggiunse la chiamata a Torino. La città non l’aveva mai abbandonata, sebbene fosse scrupolosissimo nell’insegnare anche quando si trovava nelle isole; ma la stanza al n. 4 bis di via Botero era affittata a modico prezzo; e forse il trasporto o la conservazione dei libri gli avrebbe recato altrove maggior dispendio. In Piemonte aveva amici dappertutto, che lo avevano caro e lo invitavano a passare in campagna la domenica o le feste. A casa mia venne ogni anno dopo il 1899, sebbene il ricordo della pessima strada, fangosa di argilla, che collegava la abitazione con la provinciale posta a circa due chilometri e dove, per non essere stata ancora, come fu poi, inghiaiata, dopo le piogge si affondava a mezza gamba, sia uno dei ricordi spiacevoli delle sue peregrinazioni nella campagna piemontese.

 

 

Come Solari riuscisse e riesca a lavorar tanto, lui che dà l’impressione di non star mai fermo; prima fra Messina o Cagliari o Torino, ed Albino; ed ora fra Torino, Bergamo, dove per qualche tempo ebbe casa, Albino e le case degli amici, è un mistero, la cui soluzione si trova nella capacità di straniarsi dal mondo circostante e di attendere a meditare ed allo scrivere, col sussidio delle schede e degli appunti che sempre reca con sé in una busta di cuoio, veneranda per lungo uso. Giova a renderlo atto all’isolamento nello studio l’essere alquanto sordastro, sicché i rumori esteriori non lo turbano; ma più gli giovano le solerti cure della signora Clara, che, quando fu sicuro di rimanere stabilmente a Torino, scelse a compagna della sua vita. I due formano una tra le coppie singolari della vita universitaria italiana. Lui segnalato tra i dotti, e nei rapporti con i colleghi ed in genere con gli uomini indulgentissimo alle debolezze innocue ed ai peccati veniali, ma severissimo nelle cose grosse che toccano l’onore e la morale. Lei scarsamente ansiosa di passare per intellettuale; ma fornita di vividissimo ingegno naturale, di sano giusto giudizio, di singolare buon senso. Sicché la signora Clara non inquieta il «professore» per quanto riguarda la meditazione e gli agevola lo studio, togliendogli quei piccoli fastidi che rendono infelice la vita dei meditanti. Nelle horae subsecivae è mirabile vedere i segni di assenso che il filosofo fa alle cose dette dalla signora. «Non ha studiato all’università» – conclude compiaciuto – «ma nel giudicare di uomini e di avvenimenti vede meglio di noi». Nella quale sentenza concordano tutti coloro che conoscono i due, non li sanno oramai immaginare separati e vissero ore di angoscia quando anni fa per qualche tempo la signora Clara parve in pericolo di vita.

 

 

Un gran giorno per Solari fu quando, fattosi vacante un quartierino nel palazzo dell’Accademia delle scienze di Torino, egli poté ottenerlo in affitto. Il vecchio palazzo, non ancora restaurato all’interno, era popoloso di topi e di scarafaggi; ed alla caccia notturna dei molesti coinquilini si addiceva non di rado al lume della candela l’uomo più singolare il quale abitasse quella casa: Vincenzo Armando. Dimorava questi da tempo immemorabile al pian di sopra a quello dove stava Solari e probabilmente i due piani erano un tempo uno solo, diviso in due per cavarne stanze per gli impiegati dell’Accademia. Armando, il quale non aveva seguito alcuna scuola fuor delle elementari ed era figlio di un valletto di casa di Genova, era divenuto bibliotecario della insigne raccolta di libri d’arte militare donata ai duchi di Genova dallo storico marchese di Saluzzo ed insieme segretario e curatore della biblioteca dell’Accademia. I suoi emolumenti non superavano, nell’insieme, le 200 lire al mese; e da quelli trasse per lungo tempo i mezzi per fare ad ogni due anni un viaggio a Parigi, dove frugava tra i libri esposti dai librai ambulanti lungo la Senna e s’era fatto amici gli antiquari di libri più reputati della capitale francese. Autodidatta, era divenuto uno dei più dotti bibliografi d’Italia. Di lui rimangono brevi monografie preziose di storia piemontese ed il grande primo indice del «Giornale storico della letteratura italiana». Quei due, Armando e Solari, erano tipici abitatori del palazzo delle scienze; veri frati laici, coadiuvati il primo dalla sorella e il secondo dalla moglie nel condurre vita cenobitica in quelle stanze basse, dove colle mani si toccava la volta e ad ogni passo, in ogni luogo si incontrava uno scaffale e si potevano agevolmente prendere in mano i libri della bicentenaria Accademia, tesori di erudizione, dove tutta una vita poteva concludersi, perseguendo fantasmi del passato od indagando le vicende del pensiero umano. Fuori, il sole e la vista di quella piazza S. Carlo che, con piazza S. Marco di Venezia, è uno dei più stupendi salotti nei quali in Europa si possa passeggiare all’aria aperta o sotto i portici circostanti. Armando morì in tempo per non vedere il rinnovamento, pur richiesto dalle esigenze statiche ed edilizie, dell’interno del palazzo; e Solari fu cacciato via dal fracasso dei muratori i quali tempestavano ad abbattere volte al di sopra di lui. Che fu perlomeno una villana condotta dei reggitori d’allora dell’Accademia verso un socio non tra gli ultimi.

 

 

Cominciò allora, la peregrinazione dei libri di Solari, accelerata dai bombardamenti. In quanti luoghi quella raccolta abbia trovato rifugio, fra Torino, Bergamo, Savigliano, Ivrea (in casse ospitate dagli Olivetti accanto a quelle dei libri dell’amico Martinetti), è disagevole narrare. Ora i libri hanno trovato parziale onorevole stanza in un appartamento di borgo S. Secondo, dove Solari può per la prima volta in vita sua a Torino, godere di quei comodi di impianti interni, che sempre aveva reputato fuor del suo stato; ma in parte hanno ancora dovuto richiedere, insieme con quelli di Martinetti, ospitalità nelle stanze dell’Accademia.

 

 

Ad acquistar libri aveva Solari già dato cominciamento negli anni universitari, al tempo medesimo nel quale s’era delineata la sua vocazione alle ricerche che doveva poi perseguire tutta la vita. A me nello stesso torno di tempo nell’inverno del 1892-93 l’occasione della scelta era stata offerta dalla apertura del laboratorio di economia politica ad opera del professore Salvatore Cognetti de Martiis. Questi non aveva in aula la parola stimolatrice; non era un logico e un teorico, e perciò pareva non potesse avere una scuola. Ed invece la ebbe, perché insegnò ai giovani un metodo di studio, che egli disse dello studio dei «fatti» invece che delle teorie; ed in sostanza era il metodo della serietà, della fatica, della pertinacia nel ricercare e sistemare la materia prima della indagine intrapresa, dello scrupolo nell’interpretare quella materia grezza di dati e dello sforzo di limitare le proprie conclusioni a quelle poche le quali sicuramente potevano essere ricavate dai dati raccolti. In quelle due stanzette ottenute in prestito dal laboratorio del prof. Bizzozero, trasferitosi allora negli edifici della facoltà di medicina al Valentino, Cognetti aveva raccolto riviste, statistiche ed inchieste ed assegnava agli allievi – assistente Eugenio Masé Dari, infaticabile nello scrivere e nel discorrere, primi alunni Luigi Albertini e Pasquale Jannaccone; e poi, insieme con me, l’ing. Barberis, divenuto generale del genio navale, che pubblicò sul «Giornale del economisti» una monografia sulle ferrovie negli Stati Uniti, con dimostrazioni sullo spostarsi dell’epicentro ferroviario, l’ing. Magrini, finito ispettore del lavoro, Matteo Matteotti, fratello di Giacomo ed altri molti, fra cui, dopo un intervallo di studi umanistici e politici, Giuseppe Prato – temi i quali esigevano elaborazione di tabelle statistiche senza fine, lettura di rapporti ufficiali, di verbali di interrogatori di inchieste economiche, particolarmente inglesi. Fu allora che Jannaccone sunteggiò in un manoscritto parzialmente rielaborato poi per la «Biblioteca dell’economista» la colossale inchiesta sul lavoro inglese, che Albertini lesse pagine senza numero per scrivere la dissertazione di laurea sulle otto ore di lavoro, che io mi sorbii migliaia di pagine in foglio a doppia colonna per la mia dissertazione di laurea sulla crisi agraria inglese. Cognetti che stava nel Laboratorio dalle 9 alle 12 e dalle 16 alle 20 tutti i giorni, ci dava il buon esempio; e la fatica ci pareva più leggera vedendo che il nostro professore faticava e prendeva note più di noi. Cognetti non riuscì, come ambiva, a rinnovare la scienza economica ponendola su basi induttive; ma riuscì a persuadere i giovani che stavano attorno a lui a non correre dietro ai grandi sistemi, a non ambire subito a costruire nuove teorie ed a porsi ognora la domanda: quella tale generalizzazione, quella legge corrisponde ai fatti? Se no, perché? Che cosa dicono in realtà i fatti, i dati? Fu quella una dura scuola di modestia, di dubbio, di peritanza, di stupore dinnanzi alla sicurezza di color che «sanno» e, sapendo, sentenziano e concludono; laddove il maestro ammoniva: «prima di sentenziare, meditare se veramente conoscete quel di cui parlate».

 

 

Solari seguiva, fin dai banchi di scuola, altri maestri: Emilio Brusa e Giuseppe Carle. Ricordo l’aula di Brusa, frequentatissima nella prima ora del corso ufficiale, assai meno popolosa nell’ora del corso libero. Pochissimi, ed a stento, riuscivano a seguire il filo del ragionamento dell’oratore. Se Ronga spaventava per l’esigenza delle risposte letterali, Brusa ugualmente severo terrorizzava per la difficoltà di seguirne e interpretarne il pensiero. Correva un suo testo, chiaro si; ma in tutto diverso dal corso professato nell’aula. Uscivano dispense; ma poiché sembra fossero scritte dall’insegnante, poche pagine all’anno si aggiungevano a quelle precedenti. Perciò ognuno doveva «arrangiarsi» con gli appunti presi a scuola; e questi, passata la prima impressione di aver capito, parevano subito indecifrabili. Brusa, che nello scrivere era rigoroso, nel parlare non finiva mai un periodo. Il suo discorso era un seguito di parentesi, le une nelle altre incastrate, nessuna delle quali era chiusa. Gli allievi disorientati, annaspavano; e guardavano come alla loro tavola di salvezza a Solari, il quale se ne stava solo, non nel primo banco, ma nell’ultimo, distaccato da tutti gli altri. Quelli del primo banco, reputando di procacciarsi così una meno difficile promozione, assistevano imperterriti anche alla lezione del corso libero e dopo un altro seguito di parentesi non finite, accompagnavano il professore da via Po sino in corso Vinzaglio all’angolo di corso Vittorio Emanuele dove il Brusa dimorò finché visse. Quando gli fui poi collega e talvolta salii nel suo studio, vidi quanto il Brusa valesse. Il suo diritto penale di scuola classica era una finestra aperta nel mondo delle idee. Il grosso dei suoi libri era di filosofia e di principi generali di diritto. Ma a scuola aveva bisogno di un interprete. Vedeva le idee legate le une alle altre ed invano, con le sue parentesi, tentava di far intuire a noi, inesperti, quanto fosse intricato quel suo mondo ideale. Per il diritto penale positivo, l’interprete era Carlo Righini di Sant’Albino, che, libero docente, si era fatto ripetitore di Brusa con grande sollievo degli studenti, i quali tiravano il fiato ascoltando, messi in spiccioli, gli alti insegnamenti del maestro. Per i principii generali, soccorrevano gli appunti di Solari. Come facesse a mettere ordine nelle parentesi non finite di Brusa non so. Certo è che a chi riusciva, prima degli esami, ad avere il soccorso di quegli appunti, pareva di essere tratto dal mare a riva.

 

 

Ma il vero maestro di Solari fu Giuseppe Carle. Non ho sotto gli occhi la Vita del diritto e le Origini del diritto romano, i due volumi sui quali studiavamo filosofia del diritto e storia del diritto romano, delle cui cattedre il Carle era rispettivamente titolare ed incaricato; e non posso sostanziare i miei ricordi con citazioni dirette. Massiccio nell’aspetto, montanaro nell’andatura, giungeva nell’aula undicesima, al primo piano, come se si accingesse a scalare una parete difficile delle Alpi. Il paragone con Nani, che nella stessa aula insegnava storia del diritto italiano, era suggestivo. Tanto più Nani era elegante, facile parlatore, capace di far passare la breve mezz’ora dandoci con la faconda insinuante voce l’illusione di aver visto chiaro nelle tenebre del diritto medioevale, in cui pure egli aveva condotto ricerche rigorose e nuove, altrettanto Carle era faticoso e duro. Si vedeva che la stessa ricerca della parola adatta ad esprimere il pensiero lo stancava. Alla fine della lezione mentre egli si tergeva il sudore dalla fronte, a noi pareva di aver compiuto personalmente una conquista nell’aspra via del sapere. Era divenuto leggendario il suo procedere per tre. Le idee nella filosofia del diritto, le istituzioni politiche e giuridiche nella storia del diritto romano non erano mai sole; né a coppie. Esse procedevano di scuola in scuola, di epoca in epoca sempre tre a tre; tesi, antitesi e sintesi. E le idee e le istituzioni erano le une dalle altre generate in modo trinitario. Ciò da un lato facilitava l’apprendimento mnemonico; ma dall’altro lato esigeva una rimeditazione, dinnanzi alla quale molti soccombevano. La contemplazione dello sforzo mentale al quale in modo evidente il maestro si assoggettava nella scuola per trovare la parola adatta ad esprimere il pensiero, il gesto medesimo della mano e del braccio con cui Carle, trovata la parola, sembrava la volesse scagliare su di noi, perché col suo peso fisico si fissasse sulle nostre menti, tutto ciò spaventava piuttosto che attrarre. Quelle idee che non morivano mai, nessuna delle quali era vera o falsa; ma tutte contribuivano, per reciproca compenetrazione e sintesi, a creare un nuovo mondo di concetti, che a loro volta altri ne generavano con processo continuo, sembravano appartenere ad un mondo troppo diverso da quello ordinario, perché ci si sentisse tentati ad entrarvi. Anche per l’indole chiusa e per il disturbo delle pubbliche faccende alla cura delle quali fu presto chiamato, Giuseppe Carle non ebbe perciò scolari. Il solo Solari ne continuò la tradizione; sebbene tutti possano dalla lettura dei saggi contenuti nel presente volume agevolmente persuadersi quanto poco pedissequamente egli abbia seguito l’insegnamento del maestro. Scomparsa la trinità, che tanto sospettoso fascino destava in noi, resta il metodo che ricostruisce, attraverso a sottili legami di consenso e di contrasto, l’arricchimento progressivo del pensiero dei grandi teorici del diritto. Un laico, quale io sono, sarebbe colpevole di imperdonabile presunzione se si attentasse a giudicare la sostanza dell’insegnamento di Solari. Guardandolo dal di fuori, parmi di assistere di nuovo, dopo tanti anni, come nell’aula di Carle, al travaglio faticoso e fecondo dell’indagatore il quale non mai sazio di quel che ha appreso, di quel molto che sa, si sforza di trovare nuovi rapporti fra idea ed idea, fra autore ed autore, di indagare il continuo perfezionamento, l’incessante mutarsi e compenetrarsi reciproco del pensiero dei grandi pensatori da lui studiati. Lo scolaro di Solari non assiste più, come facevamo noi nell’aula di Carle, all’incedere solenne processionale delle correnti d’idee le quali di lezione in lezione si trasformavano e si inseguivano, eppure le ultime recavano ancora le tracce delle prime formulazioni. Il mondo d’idee in cui si muove Solari è più vario e duttile; la sua materia ideale è plasmata in forma meno sistematica. Ma resta o sembra almeno a me che resti il concetto fondamentale che nessuna teoria viene fuori improvvisa dal nulla, distaccata dalle teorie che la precedettero; ma tutte sono legate o per svolgimento o per contrasto le une alle altre; ma ogni pensatore è legato da vincoli ideali a chiunque abbia veramente pensato sul medesimo problema qualcosa di duraturo. Sovratutto io, laico, traggo dalle pagine di Solari un insegnamento che invece non traevo dalla parola di Carle. Questi faticosamente comandava; ed, ubbidendo al comando, a noi pareva di esserci impossessati della verità. Invece Solari consiglia di studiare e quando espone i legami sottili i quali legano storicamente a vicenda il pensiero degli Spinoza, degli Hegel, dei Kant, dei Fichte, dei Comte sempre sembra ammonirci: non crediate, leggendomi, di sapere tutto intorno alla storia del pensiero filosofico giuridico; non crediate sia facile l’interpretazione del pensiero di coloro che hanno detto qualcosa degna di essere meditata. Troppe cose noi non conosciamo; troppi legami non conosciamo perché noi si possa essere contenti di quel che abbiamo detto o scritto. Ben più, ben più rimane da indagare e da scoprire che non sappiamo, di cui non supponiamo neppure l’esistenza.

 

 

Credo che qui si debba vedere la ragione sostanziale dei tanti scolari di Solari. Chi, ignaro delle sue consuetudini, avesse assistito alla discussione delle dissertazioni di laurea presentate dagli allievi prediletti di Solari, di quelli che si sapeva più meritevoli per ingegno e per scrupolo scientifico, avrebbe certamente avuto l’impressione che il candidato fosse l’ultimo degli studenti, tante erano le critiche, talvolta ruvidamente esposte, che al suo scritto erano mosse dal relatore. Ognuna delle dissertazioni discusse con Solari è sempre stata occasione per l’esaminatore di una critica minuta frutto di lunga revisione delle fonti studiate o dimenticate dal candidato. Ma, chiusa la discussione, sgombrata l’aula dagli astanti, veniva il momento del giudizio sintetico e, se il lavoro era meritevole, alla critica ammonitrice sottentrava il giudizio finale incoraggiante.

 

 

I suoi studenti lo hanno sempre amato. Lui solo, almeno a Torino,trattava e tratta tutti gli studenti, senza distinzione di ceto, di sesso o di età, col tu; e tutti hanno sempre sopportato da lui strapazzate da cavar talvolta le lagrime. Ma più Solari li strapazzava, più li rimproverava rudemente per quel che non avevano faticato e studiato, più gli studenti lo amavano e lo amano. Sapevano e sanno che ai rimproveri ed alle critiche seguì e segue sempre l’aiuto: di consigli, di libri, ai appunti estratti dall’arsenale inesauribile delle schede accumulate in più di cinquant’anni di letture sistematicamente condotte ed assimilate. Se a qualche giovine Solari non largisce né rimproveri né consigli, quello è il segno della condanna inesorabile e definitiva. Colui potrà nella vita ottenere successo; potrà persino brillare nel mondo accademico. Ma la sentenza è pronunciata: là dentro non v’è stoffa di studioso serio, non v’è l’ansia dell’apprendere, non v’è coscienza delle infinite cose che non si sanno, non è sentita la necessità della meditazione. Solari con i dilettanti , con gli improvvisatori, con i genialoidi, con gli scopritori ventenni di nuovi orizzonti, con i propagandisti, con i fideisti, con i presuntuosi, non ha mai avuto e non avrà mai nulla a che fare.

 



[1] I colleghi della Facoltà giuridica dell’Università di Torino e gli scolari più affezionati hanno voluto rendere omaggio a Gioele Solari, professore di filosofia del diritto, ed ora emerito, in quella facoltà, raccogliendo, nella Miscellanea dell’Istituto giuridico (vol. II, editore Giappichelli in Torino), un volume di Studi storici di filosofia del diritto, che il Solari aveva pubblicato sparsamente in riviste scientifiche ed in atti accademici spesso non agevoli a consultarsi. Il volume dà testimonianza insigne del contributo dato dal Solari agli studi di storia della filosofia del diritto e sarà preceduto da questa prefazione del suo amico e collega Luigi Einaudi, nella quale si rievocano ricordi aneddotici su un uomo, la cui vita fu ed è dedicata esclusivamente allo studio ed all’insegnamento. (La «Nuova Antologia»).

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