Opera Omnia Luigi Einaudi

Giornalisti e leghe

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/11/1944

Giornalisti e leghe

L’Italia e il secondo risorgimento, 18 novembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 571-579

Giornali e giornalisti, Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 31-41

 

 

 

 

Il problema dei giornalisti è, nonostante i numerosi punti di contatto, distinto da quello dei giornali. Esso è stato posto un mese fa dal congresso delle leghe dei lavoratori britannici, il quale ammise nell’aula, dove si tenevano le sedute, solo i giornalisti iscritti alla lega. Per rappresaglia, i direttori dei giornali britannici decisero di boicottare le sedute del congresso, astenendosi dal pubblicarne i resoconti. Non so se ed a quale compromesso si sia giunti in Inghilterra; ma so che la questione è importante sia per quanto riguarda la libertà di stampa, sia per quel che tocca il diritto dei lavoratori del giornale ad organizzarsi per la tutela dei loro interessi.

 

 

Si premetta innanzitutto che il problema non tocca il diritto indiscutibile dei redattori, cronisti, collaboratori ed altri lavoratori intellettuali del giornale di organizzarsi in associazioni intese a difendere gli interessi economici e morali dei loro soci.

 

 

Il problema è unicamente quello di sapere se, al diritto indiscutibile delle associazioni giornalistiche ad esistere, corrisponda l’obbligo dei direttori dei giornali di assumere soltanto giornalisti iscritti alla associazione. Il che vuol dire esclusione dal lavoro giornalistico di tutti coloro i quali non siano iscritti alla associazione.

 

 

Faccio astrazione dal quesito connesso, ma non identico, se l’iscrizione possa avvenire ad una tra parecchie associazioni concorrenti o debba aver luogo presso una sola associazione, la quale, essendo unica, dovrebbe avere necessariamente carattere pubblico. Il quesito è importantissimo, ma non è peculiare alle associazioni giornalistiche e deve essere discusso a parte, per non confondere problemi differenti.

 

 

Il problema dell’obbligo generico dell’appartenenza ad una qualunque associazione (lega, sindacato, ordine, ecc.) è più generale; ma nel caso dei giornali esso assume aspetti singolari, i quali toccano davvicino l’interesse pubblico.

 

 

Quale motivo addusse il congresso 1944 delle leghe dei lavoratori britannici a sostegno del rifiuto di ammettere nell’aula delle sedute giornalisti i quali non fossero iscritti all’associazione? Pare che il motivo addotto fosse questo: che solo un giornalista giudicato degno di far parte dell’associazione giornalistica presenti le garanzie morali necessarie richieste a chi deve compilare un rendiconto imparziale, oggettivo, non tendenzioso di una discussione, di un fatto, di un avvenimento.

 

 

Il motivo era bene scelto; ed era in verità il solo che potesse essere addotto. Il congresso delle leghe operaie, come la camera dei comuni, od il consiglio comunale o la qualunque assemblea, o comizio, o consiglio di ente pubblico o privato ed in generale la persona od ente la quale compia fatti od assuma posizioni, discuta, agisca in modo che i suoi atti o decisioni o parole possano presentare un interesse per il pubblico, può essere considerato come un fornitore di notizie, di giudizi, di discussione ai giornali; ed ha un interesse a che le notizie, i giudizi e le discussioni giungano al pubblico in modo rispondente a verità.

 

 

Questo, del rispetto alla verità, è il solo interesse che abbia carattere pubblico e sia rispettabile. Non è interesse pubblico e non è rispettabile il desiderio dei congressi, parlamenti, consigli, comizi, enti e persone che le notizie ed i fatti siano riferiti esclusivamente da proprî affiliati, obbligati a seguire quelle che siamo stati abituati a sentir chiamare le “direttive” del fornitore delle notizie e dei fatti. Se l’obbligo della iscrizione del giornalista alla lega volesse dire che, nel compilar rendiconti e nel narrare fatti, il giornalista deve seguire le direttive o gli ordini della lega, dove mai andrebbe a finire la libertà di stampa? Durante il ventennio fascista non esistettero giornali nel nostro paese, perché i giornalisti dovevano ubbidire a “direttive”. C’è forse differenza tra il ricevere direttive da un ministero della stampa e propaganda ovvero da una lega o dal gruppo o partito il quale comanda alla lega? Assolutamente no. Perciò la lega non può arrogarsi il monopolio di fornire le notizie al pubblico, col mezzo di giornalisti ubbidienti alle direttive della lega.

 

 

Difatti, sembra che il congresso britannico pretendesse soltanto che l’iscrizione alla lega fosse lo strumento necessario ed efficace a garantire l’indipendenza e l’imparzialità del resocontista. Il congresso, fornitore di notizie, afferma cioè in sostanza che la iscrizione alla lega non è richiesta nell’interesse proprio, egoistico di fornitore di notizie, ma in quello generale, pubblico della consecuzione della verità. Non la tutela propria mosse il congresso; bensì quella del pubblico desideroso di conoscere la verità e di non vederla contraffatta dall’interesse di parte o di classe. Il terreno era indubbiamente bene scelto, poiché nessuno può affermare che sia invece interesse pubblico che i fatti od i dibattiti giungano a notizia dei lettori dei giornali in maniera difforme dalla verità.

 

 

Il problema sembra ora chiarito e si riduce al punto se l’appartenenza alla lega giornalistica sia garanzia di verità.

 

 

Vi son casi nei quali l’interesse pubblico ha richiesto per determinati uffici la appartenenza ad un ordine: degli avvocati, dei medici, degli ingegneri, dei notai, ecc.

 

 

Si può dubitare sino a qual punto siano valide codeste ragioni; ma non si può contestare che esse traggono dalla concorde esperienza dei tempi e dei luoghi un notabile fondamento.

 

 

È lecito estendere il ragionamento da questi pochi casi a quello dei giornalisti? Si può asseverare che la appartenenza all’ordine dei giornalisti sia prova delle qualità intellettuali e morali richieste per la trascrizione fedele e veritiera dei fatti e degli avvenimenti?

 

 

Le qualità intellettuali si provano per gli avvocati, i medici, gli ingegneri, i farmacisti, i notai con esami sostenuti dinnanzi a commissione universitarie o statali. Dobbiamo istituire scuole di giornalismo e diplomi o lauree come condizione alla appartenenza all’ordine o lega o sindacato dei giornalisti? Nessuna idea può apparire più ingenua e lontana dal raggiungimento dello scopo come la scuola di giornalismo. Questa fa il paio con altre scuole balorde, come degli organizzatori sindacali, che vedemmo istituite nel ventennio passato allo scopo preciso di rendere spregevole e ridicola la funzione coperta. Vedemmo giovanotti diplomati far da sopracciò nei sindacati operai e padronali in luogo dei soli organizzatori degni di questo nome, che sono gli uomini venuti su dal piccone di muratore, dalla zappa di contadino, dall’ufficio di direzione e venuti su perché chiamati dalla fiducia dei compagni. Così dei giornalisti. Orator fit. Non esistono scuole di oratoria. Oratori si nasce o si diventa per esperienza. Non esistono cattedre o scuole di giornalismo. Solo giornalisti falliti possono dedicarsi a questo secondo mestiere. Un giornalista nato o fatto si ride dei professori di giornalismo. È bene che i giornalisti conoscano storia od economia o filosofia; ma devono essere storie od economie o filosofie vere, non ridotte ad uso dei giornalisti. È bene che i giornalisti sappiano scrivere; scrivere, casomai, si apprende nei licei e nelle facoltà di lettere, non in scuole per giornalisti. E non occorre affatto aver licenze liceali e lauree in lettere per avere idee e saperle mettere per iscritto.

 

 

Manzoni e Leopardi non avevano licenze e lauree; né Benedetto Croce si laureò mai in nessuna università. Winston Churchill, grande giornalista, fu pessimo scolaro; né portò a termine, pare, regolarmente gli studi. Nessuno dei veri grandi giornalisti del nostro tempo attribuì ai papiri delle lauree e dei diplomi, anche se li possedeva, il menomo peso. Furono giornalisti nonostante e non mercé le lauree ed i diplomi.

 

 

Ove si lasci da un canto questa buffa storia delle dimostrazioni da darsi, con una qualche maniera di esami, della attitudine ad essere iscritti nell’ordine giornalistico, resta la prova della attitudine morale a dir la verità. C’è qui un barlume di vero; ma direi che esso sia limitato ai corpi chiusi. È vero ed è necessario che le facoltà universitarie e le accademie scientifiche e, in un campo diverso, i circoli di società valutino attentamente le qualità morali di coloro i quali aspirano ad entrare nella facoltà od accademia o circolo. Vi è una cattedra vacante in una facoltà composta di 12 membri e concorrono due scienziati, ambi valorosi, dei quali il primo ha maggior valore scientifico, ma è noto come attaccabrighe o scontroso con gli allievi, od ha una vita privata dubbia? È chiaro che gli undici votanti preferiranno quasi sempre ad unanimità l’aspirante valoroso scientificamente, sebbene in grado minore dell’altro e lasceranno che l’uomo più celebre e giustamente più celebre gridi all’ingiustizia ed alla camorra. Essi lo hanno valutato anche, come era loro stretto dovere, al punto di vista morale e, avendolo trovato calante, hanno preferito l’uomo più modesto ma inattaccabile.

 

 

Quel diritto di esclusiva, il quale necessariamente deve essere esercitato nei piccoli corpi chiusi, come le facoltà e le accademie, può essere esteso ai grandi corpi aperti, come le associazioni dei giornalisti? Le differenze sono notevoli. Là, non si tratta di un problema economico. Il professore resta professore, anche se da Siena non è chiamato a Firenze, o da Parma a Pavia. La non chiamata non toglie all’insegnante o all’aspirante accademico i mezzi di vita. Invece, il rifiuto di iscrizione in un sindacato giornalistico, toglierebbe, se l’iscrizione fosse necessaria per esercitare la professione, la possibilità di vita all’escluso. Vogliamo ricostituire la scomunica medievale e, per giunta, affidarne l’esercizio ai concorrenti del giudicabile? I consigli dei sindacati giornalistici sono composti di giornalisti; e sarebbe atroce se a costoro fosse data facoltà di negare ad un giovane (od anche ad un anziano o vecchio) il diritto di esercitare il mestiere, sotto pretesto di inettitudine a dire la verità. Se un giornalista si è reso moralmente indegno, siano i tribunali ordinari od i giurì d’onore a condannarlo per i reati o per le indelicatezze commesse. Nessun direttore di giornale vorrà assumere al suo servizio un condannato per reati comuni. Nemmeno a questi si nega, tuttavia, la possibilità dell’ammenda; e si fondano patronati per i liberati dal carcere allo scopo di facilitare ad essi la ripresa del lavoro e la redenzione. Il problema è di costume morale e deve essere risoluto caso per caso dai direttori dei giornali, i quali, nell’interesse proprio, sono i migliori tutori della illibatezza della impresa da essi governata. Sarebbe immorale che il giudizio sulla moralità dei giornalisti fosse pronunciato dai soci dei sindacati giornalistici, i quali hanno un interesse economico alla limitazione del numero di coloro i quali hanno il diritto di esercitare la professione. Risusciteremmo in pieno la vecchia corporazione, non quella viva e vigorosa dei comuni medievali, ma quella decadente dei secoli XVII e XVIII, quand’era divenuta mancipia dell’assolutismo; e la risusciteremmo nel suo contenuto peggiore, che era il diritto di esclusiva aris et focis dei giovani aspiranti ad esercitare un mestiere.

 

 

Se escludiamo il diritto delle associazioni giornalistiche a giudicare, come maestri, delle attitudini intellettuali, e, come magistrati, della dignità morale dei giornalisti, che cosa rimane del problema posto? Unicamente questo: e l’associazione dei lavoratori del giornale lo strumento adatto a garantire al pubblico che i rendiconti e le notizie ed i commenti pubblicati dai giornali siano veritieri e non tendenziosi? Qui siamo giunti al nocciolo sostanziale del problema; e qui la soluzione è una sola: non esiste il giudice, perché il solo fatto del porre il problema dimostra che chi lo pone è nemico della verità e della libertà di stampa.

 

 

Esiste invero un solo criterio per giudicare se una affermazione o un principio o una notizia sia vera o falsa: la libertà di contraddirla. Chi afferma che può esistere un giudice della verità, della tendenziosità, della capziosità, afferma necessariamente, trattandosi di sinonimi, che è lecita la censura della stampa, che è cosa buona esista qualcuno il quale dichiari che quello è il rendiconto esatto, che quella è la notizia vera, che quello è il commento o giudizio imparziale. Chi afferma ciò, afferma necessariamente che deve esistere un ministero della stampa e propaganda, il quale abbia diritto di segnare le “direttive” ai direttori dei giornali e di censurarne l’operato. Che il censore si chiami ministero della stampa e propaganda e trasformi i giornali in bollettini della voce del padrone; o si chiami associazione dei giornalisti, non monta. Salvo che in tempo di guerra e per le notizie relative alla guerra, nessun censore di nessuna specie e sotto qualsivoglia nome, è tollerabile in paese libero.

 

 

Dobbiamo dunque rassegnarci alle notizie tendenziose, se non apertamente false ed ai commenti capziosi, se non chiaramente calunniosi? Ebbene sì. La tendenziosità e la capziosità sono inevitabili in ogni notizia ed in ogni commento o giudizio. Che cosa è uno scrittore il quale non abbia i suoi occhi per vedere, il suo cervello per giudicare? Egli è un manovale del giornalismo, non un giornalista. Non v’è occhio che veda come vedono altri occhi, non v’è cervello che giudichi come gli altri cervelli. Se esistono, quelli sono occhi di un cieco, cervelli inetti a pensare. Ogni cronaca, ogni rendiconto, ogni giudizio se è vivo e pensato deve offendere, come scorretto e tendenzioso e capzioso, qualcuno che ha visto o giudicato lo stesso fatto con altri occhi e con altro cervello.

 

 

Nulla di più irriverente alla libertà del pensiero di andar cercando rimedi a siffatto irrimediabile e necessario e benefico stato di cose. L’oratore in un’assemblea o in un comizio non può sperare di ottenere imparzialità, la imparzialità da lui desiderata, nemmeno se egli fornisce il testo preciso del discorso da lui pronunciato al giornalista; poiché è diritto assoluto, irrecusabile del giornalista di tagliare, sfrondare e riassumere il discorso secondo il criterio suo proprio; e tagliando, sfrondando e riassumendo ricreare il discorso secondo detta il suo cervello, quello del giornalista e non quello dell’oratore. È chiaro che la eccellenza nell’arte giornalistica sarà conseguita da colui il quale riesce ad immedesimarsi siffattamente nel pensiero dell’oratore, da riprodurlo o riassumerlo con la fedeltà ed obbiettività massima; ma è chiaro altresì che l’eccellenza raggiunta è opera esclusiva insindacabile del giornalista. Chi si lagna della infedeltà nei rendiconti, dimostra di essere uomo di cattivo gusto. Nove volte su dieci è un esibizionista, il quale pretenderebbe che i giornali si occupassero di lui e dei suoi cosidetti pensieri, sebbene egli sia il signor “nessuno” ed i suoi pensamenti siano rifriggiture di nozioni mal digerite. Quell’una volta su dieci, in cui la querela abbia un certo fondamento, il, chiamiamolo così, danneggiato ha diverse maniere di ristabilire quella che a lui pare la verità. La peggiore di tutte è la richiesta di una rettifica, per mano di usciere o per atto di cortesia, al giornale colpevole di tendenziosità o di capziosità. Se non si tratti di rettificare fatti o dati precisi, la rettifica finisce di essere più lunga della notizia o del commento tendenzioso e la richiesta dell’inserzione offende il diritto sacrosanto del direttore del giornale di comporre il giornale secondo i criteri i quali paiono buoni a lui e di non lasciarsi trascinare a polemiche e controrettifiche e spiegazioni quasi sempre inconcludenti e noiose.

 

 

Esistono sempre giornali di altri partiti, di altre tendenze, i quali saranno ben lieti di ospitare, non rettifiche (le quali indicano la mancanza di ogni più elementare senso di buon costume giornalistico in chi, facendole, non si limita a restaurare dati precisi di fatto senza apprezzamenti o controversie), ma riesposizioni o rielaborazioni di pensiero o di condotta letteraria o politica od artistica. Che cosa sono i giornali di parti avverse se non mezzi di far giungere al pubblico la espressione di pensieri contrastanti? E non è forse uno dei tanti modi di esprimere pensieri contrastanti quello di narrare il medesimo fatto in maniere differenti, di giudicare pessimo quell’atto o giudizio che altri considera ottimo? Il pubblico, nel contrasto, è il solo giudice sovrano. È ovvio ed è bene che i giornali di parte, dove i fatti e i giudizi sono necessariamente tendenziosi, siano letti soltanto dai seguaci risoluti di quella parte e dagli avversari altrettanto decisi a cercare motivi di polemica; ed è ugualmente ovvio che il grande pubblico si rivolga invece di preferenza ai giornali i cui direttori si sforzano di raggiungere la obbiettività massima compatibile con la fralezza della natura umana. Ma è anche ovvio e necessario che gli uni e gli altri giornali non siano frastornati dai rompiscatole, sempre pronti ad accusare di tendenziosità o di parzialità o di incompiutezza ed a pretendere rettifiche ed integrazioni. Costoro, i rompiscatole, meritano ed ottengono, in regime di vera libertà di stampa, una sanzione decisiva; il silenzio. Silenzio di tomba sui loro atti e misfatti, sui loro pensieri o pensamenti.

 

 

Sino a che non si giunga all’ingiuria, alla diffamazione od alla calunnia, il giornale deve essere libero di scrivere e non scrivere, di far rendiconti lunghi o brevi, di esporre notizie nel modo che meglio talenti al direttore, di giudicare bene o male, di ragionare colla testa o coi piedi. Si può essere sicuri che, in regime di libertà compiuta di stampa, il giornale sistematicamente tendenzioso o falsificatore sarà giudicato tale anche dai lettori e vedrà ridursi la sua tiratura e la sua pubblicità. Se vorrà, nella gara quotidiana, sopravvivere, dovrà correggersi da sé. Se non lo farà, andrà a fondo.

 

 

L’ingiuria, la calunnia e la diffamazione sono materia di tribunali penali. Fummo, in Italia, indulgentissimi in proposito; e converrà cambiar metro. Norme severe, se necessario, dovranno essere introdotte ed osservate per punire i calunniatori, gli ingiuriatori ed i diffamatori a mezzo dei giornali, alla pari dei colpevoli ordinari di calunnia, di ingiuria e di diffamazione. Anzi più. La circostanza che il reato fu compiuto a mezzo della pubblica stampa deve essere considerata come un’aggravante e la pena deve essere perciò accresciuta e non diminuita. Se l’opinione pubblica incoraggerà i giudici ad essere severissimi, spietati contro i reati di giornalismo, grande giovamento ne ritrarrà la nostra missione.

 

 

Junius

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