Opera Omnia Luigi Einaudi

Gli indici della vita italiana di un cinquantennio (1861-1911)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/04/1911

Gli indici della vita italiana di un cinquantennio (1861-1911)

«Corriere della Sera», 19 aprile 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 308-315

 

 

 

 

Il progresso avvenuto nell’economia del paese dopo l’unificazione non può essere valutato con la stessa esattezza con cui si misura il crescere del bilancio dello stato, perché troppi fatti sfuggono alle indagini ufficiali. Tuttavia qualcosa di approssimativo si può dire, benché ci si muova su terreno statisticamente infido. Maestri valutava poco dopo il ’60 la produzione lorda agricola della terra italiana a 2 miliardi e 859 milioni, attribuendo 2 miliardi e 13 milioni ai prodotti vegetali ed 846 milioni ai prodotti animali; ond’è che il ricavo lordo per ogni ettaro poteva presumersi in 124 lire. Oggi, il Valenti giunge a 6 miliardi e 816 milioni di lire di produzione della terra e la arrotonda a 7 miliardi per tener calcolo delle industrie secondarie, fra cui l’allevamento degli animali da cortile e la relativa produzione del pollame e delle uova. Al prodotto medio di 124 lire per ettaro del 1860 risponde dunque attualmente un prodotto medio di 359 lire, più che doppio. Solo in qualche regione di montagna la produzione per ettaro si abbassa a quelle 124 lire che erano, or è mezzo secolo, la media di tutt’Italia (122 lire media delle montagne dell’Italia centrale e 124 lire media delle montagne meridionali). L’Italia centrale nel suo complesso tocca le 196 lire di produzione lorda per ettaro, l’Italia meridionale con le isole 200 lire e l’Italia settentrionale 371 lire. Né, chi sappia i segnalati progressi da noi compiuti nella coltivazione della terra ed ammetta che alcune plaghe d’Italia sono fra le meglio coltivate e le più intensamente produttive del mondo, può dubitare che il passaggio dai 3 miliardi del Maestri ai 7 miliardi del Valenti rappresenti il progresso reale dell’agricoltura italiana.

 

 

Anche grandi furono i passi fatti nelle altre industrie estrattive: i minerali che verso il 1860 valevano 28.103.816 lire all’anno, ora valgono 77.789.324 lire. Lo zolfo in ispecie progredì da 20 a 32 milioni, i combustibili fossili da 1 a 5 milioni, il minerale di ferro da 2 a 7 milioni, il piombo ed argento da 3 a quasi 6, lo zinco da 10 mila lire a 12 milioni e mezzo, il mercurio da 57.000 a 3.600.000 lire, le piriti da 26 mila a 2.250.000 lire. Nella lavorazione dei minerali, cinquant’anni fa si calcolava in 36 milioni di lire il prodotto annuo delle officine mineralurgiche. Oggi la medesima produzione è valutata in 483 milioni. Era di pochi milioni il valore annuo dei prodotti chimici industriali, adesso giungiamo a 134 milioni; e nel totale son comprese industrie che contano per grosse cifre: 21 milioni per l’acido solforico, 14 milioni il solfato di rame, 10 di carburo di calcio, 14 le polveri piriche, la balistite, la dinamite ed altri esplodenti, 52 milioni i perfosfati e concimi diversi. Da 95 a 400 mila tonnellate è progredita la produzione del marmo; ed il valore dei marmi, pietre ed altri prodotti delle cave oggi supera i 50 milioni di lire all’anno.

 

 

Si lagna, e non a torto, l’industria della seta di essere in crisi e di essere decaduta dalla preminenza di che un tempo godeva nel mondo: Giappone e Cina premono sul mercato mondiale coi loro bozzoli e colle loro sete a buon mercato. Pur tuttavia, quale splendida e tenace resistenza noi abbiamo opposto alle avverse vicende del mercato! Producevamo 15 milioni circa di chilogrammi verso il 1860 e ne produciamo ora 50 milioni. Il prezzo alto permetteva agli agricoltori di cavarne 83 milioni di lire; pur coi prezzi diminuiti, oggi se ne ritraggono da 150 a 200 milioni di lire. La seta greggia ricavata dalla lavorazione pesava 1.100.000 chilogrammi per un valore di 100 milioni; ora, non bastando più i bozzoli nazionali, ne importiamo per 18 milioni e mezzo di chilogrammi dall’estero, e riusciamo così a produrre da 5 a 6 milioni di chilogrammi di seta greggia all’anno. L’esportazione sericola dall’Italia si aggira su un valore di 600 milioni di lire all’anno, mentre all’epoca dell’unificazione oscillava tra i 150 ed i 200 milioni.

 

 

Dei progressi dell’altra grande industria tessile, la cotoniera, può giudicarsi dal fatto che or fa mezzo secolo la quantità del cotone greggio lavorato nelle filature italiane non superava i 150.000 quintali; mentre ora ha toccato i 2 milioni di quintali. L’importazione delle diverse qualità di lana (materia prima dell’industria laniera), è cresciuta da 70 a 200.000 quintali all’anno; dal che si può giudicare dell’impulso dato a questa industria. Quante industrie, che quasi non esistevano, sono sorte, dopo l’unificazione in Italia: primissima quella della utilizzazione delle forze idrauliche, che si limitava ai piccoli mulini, alle numerose minuscole cartiere, alle ferriere locali disseminate lungo fiumi e rivi! Verso la fine del secolo XIX: erano ancora solo 300.000 i cavalli di forza idraulica effettivamente utilizzati. Adesso, nel breve periodo di quindici anni, da quando cioè la trasmissione elettrica dell’energia a distanza si rese economicamente possibile, più di 700.000 cavalli di potenza effettiva furono strappati ai corsi d’acqua e sparsi per tutte le nostre terre ad animare le più svariate industrie. Il primato che l’Italia vantava fin dal medio evo per le opere d’irrigazione, lo va adesso conquistando altresì per la utilizzazione del carbone bianco. Ingegneri ed industriali di ogni paese convengono da noi ad ammirare ed a studiare impianti colossali, giunti, in quest’anno del giubileo, ad un milione di cavalli effettivi ed apprestantisi a duplicare ben presto la cifra bene augurante.

 

 

Per altri indici ancora si conosce il cammino percorso dagli italiani nel mezzo secolo dopo conseguita l’indipendenza e l’unità. Nel 1862 l’importazione dall’estero toccava gli 830 milioni, mentre l’esportazione stava a 577 milioni. Nel 1910 l’importazione è arrivata ai 3 miliardi e 235 milioni, l’esportazione a 2 miliardi e 56 milioni. Sono quadruplicati i valori del traffico internazionale in cinquant’anni; e, se ci pare di essere tardi in confronto al piccolo Belgio, alla montagnosa Svizzera ed alla aperta Inghilterra, sopportiamo senza angustia alcuna uno sbilancio commerciale di 1 miliardo e 200 milioni, mentre nel 1862 lo sbilancio di appena 300 milioni sembrava minacciare gravi malanni. La navigazione progredì anch’essa e, benché per difetto di omogeneità dei dati non sia facile risalire nel tempo oltre il 1881, il progresso compiuto nel trentennio da 5 milioni e mezzo di merce sbarcata a 20 1/4 e da 4 a 61-3 milioni di merce imbarcata lascia intravvedere il ben più forte cammino percorso nel cinquantennio. I bastimenti a vela che nel 1862 erano poco meno di 10.000 e giunsero a 18.000 nel 1870 sono bensì diminuiti a 4.800 con una stazza di 450.000 tonnellate contro un massimo nel passato di quasi un milione; ma i bastimenti a vapore da una cinquantina nel 1862 (10.000 tonnellate) sono cresciuti a 600 con circa 550 mila tonnellate di stazza. La potenzialità complessiva del nostro naviglio mercantile è così cresciuta da due terzi di milione a due milioni di tonnellate.

 

 

La rete ferroviaria giungeva nel 1861 a2.571 chilometri ed il prodotto lordo batteva sui 70 milioni di lire. Oggi la sola rete delle ferrovie di stato supera i 13.000 chilometri ed i prodotti del traffico, nel 1909 – 10, hanno superato i 481 milioni di lire; alle quali cifre andrebbero aggiunte quelle delle ferrovie esercitate dai privati, delle tramvie e delle linee automobilistiche aperte al pubblico. La statistica postale dava un prodotto nel 1866 di meno di 16 milioni di lire e quella telegrafica di 32-3 milioni. Nel 1909-10 si accertarono invece 103 milioni di reddito delle poste, 202-3 dei telegrafi ed 11 1/2 dei telefoni.

 

 

Le classi più numerose, non sono state ultime ad aver tratto beneficio dalla più rigorosa vita pulsante nei campi e nelle officine dell’Italia unita. Nessun indice migliore può darsi dell’elevarsi economico e sovratutto morale di un popolo, del crescere dei depositi nelle casse di risparmio. Sebbene sia oggi di moda presso taluni (per fortuna non presso tutti) lo spregiare siffatta maniera di previdenza come antiquata e non moderna, il risparmio è ancora e rimarrà per un pezzo la più elevata virtù di cui possa dar prova un popolo che guardi al futuro e voglia sacrificare il godimento momentaneo al miglioramento delle generazioni venture. Mentre le altre, le nuovissime forme di previdenza, sono sempre, più o meno, forzose, il risparmio è un atto volontario, individuale, che significa un elevamento nel carattere morale di chi lo compie. Orbene, noi dobbiamo essere orgogliosi nel contemplare l’affinarsi del popolo italiano nell’esercizio della virtù risparmiatrice. Al primo gennaio 1862 non esistevano le casse postali di risparmio ed il numero dei libretti in corso presso le ordinarie casse di risparmio era di 384.812 per il valore di 188.410.587 lire. V’erano provincie che al risparmio davano un contributo irrisorio. Nel 1864 vi era un libretto per ogni 60 abitanti in tutto il regno; e se nella Lombardia, nell’Emilia, nella Toscana si poteva noverare un possessore di libretti sopra 22 abitanti, se nell’Umbria e nelle Marche vi era un libretto ogni 41 abitanti, si notavano altresì provincie in cui il rapporto dei libretti alla popolazione era troppo esiguo: nelle Calabrie invero appena una persona su 6.232, nelle Puglie una su 8.573 e negli Abruzzi e Molise una su 10.926 aveva un deposito presso le casse di risparmio.

 

 

Oggi il quadro è profondamente mutato: al 30 giugno 1910 s’avevano, invece di 384 mila, ben 2.233.508 libretti di deposito presso le casse ordinarie di risparmio e 5.280.782 libretti presso le casse postali. In tutto 7 milioni e mezzo di depositanti, oggi forse cresciuti ad 8 milioni, quasi un quarto della popolazione italiana. Il credito dei depositanti, che non giungeva ai 200 milioni cinquanta anni fa, al 30 giugno 1910 era cresciuto a 2 miliardi e 380 milioni presso le casse di risparmio ordinarie ed a 1 miliardo e 657 milioni presso le casse postali. Nel 1911 senza fallo supereremo di qualche centinaio di milioni i 4 miliardi, cifra più di venti volte maggiore di quella da cui s’erano prese le mosse dopo il 1860. Ed ho trascurati i 72 milioni di depositi presso le casse rurali, i 67 milioni di risparmi depositati presso i monti di pità, i 317 milioni affidati in somme modeste alle banche cooperative, i 452 milioni di risparmi presso le banche ordinarie, i 183 milioni di piccoli depositi degli istituti di credito ordinari. Ogni regione partecipa al benefico moto. Al 31 dicembre 1909 su i miliardo e 586 milioni che allora erano serbati dalle casse postali di risparmio, 617 milioni appartenevano all’Italia settentrionale, 580 alla centrale; ma il mezzogiorno e le isole, che nel 1862 non giungevano, in tutte le casse, ai 3 milioni di lire, possedevano alla fine del 1909, nelle sole casse postali, 377 milioni di lire di depositi. E chi sa come nelle casse postali del mezzogiorno sia grandissimo il contributo dei contadini di ritorno dall’America conclude che, se è lunga ancor la strada da percorrere per la redenzione dei lavoratori del mezzogiorno, il centuplicarsi dei risparmi in quella regione annuncia l’alba del giorno che i nostri figli vedranno.

 

 

Il crescere dei risparmi popolari prova che l’Italia nuova non fu matrigna ai lavoratori. Basti citare alcune cifre di salari correnti intorno al 1859 per vedere il lungo cammino compiuto dopo d’allora. Nella filatura del cotone gli uomini adulti guadagnavano da lire 1,07 (media dei minimi), a 1,50 (media dei massimi), al giorno; nella tessitura del cotone da 0,98 a 1,53, nella tessitura della lana da 1,20 a 1,35, nella fabbricazione della carta a mano da 0,85 a 1,20 lire al giorno. Le donne filatrici nell’industria della seta andavano da lire 0,79 (media dei minimi) a 0,97 (media dei massimi) al giorno. Come quelle cifre sembrano oggidì lontane! I filatori di cotone del Piemonte oggi guadagnano da 3 a 4 lire, i tessitori di lana di Schio da 4 a 5 lire, gli operai addetti alla fabbricazione della carta da 2,70 a 3,50, le filatrici dell’industria della seta già alcuni anni fa non si contentavano di meno di 1-1,25, ed in seguito il loro salario è cresciuto. Senza tema di errare, noi possiamo concludere che il salario reale delle popolazioni lavoratrici, ossia non il salario in moneta, ma la quantità di derrate, di merci, di alloggio, di beni in genere che esse si possono procacciare col salario monetario è cresciuto di più del 100% nell’ultimo cinquantennio. Il rincaro dei viveri è un fatto certo; ma vero, come fatto materiale, più rispetto agli anni che volsero dal 1880 al 1900 che non rispetto al periodo 1860-80 in cui i prezzi erano spesso più elevati degli odierni; ed è vero sovratutto come fatto psicologico di malcontento di chi, riuscito ad assaporare i benefici della civiltà, a lui prima contesi del tutto, vorrebbe più largamente goderne. Del quale desiderio non è lecito muovere lagnanza, come quello che è stimolo ad operare ed a volere; purché non tolga, in questa ora di ricordi, di rammemorare il molto, forse il più (se è vero che il maggiore sforzo sia il primo), che già fu ottenuto.

 

 

Ed è un popolo, oltreché meglio provveduto di beni materiali, più pronto, in parte almeno, a far suoi i benefici intellettuali della civiltà ed a giovarsi dei moderni strumenti tecnici di progresso. Nel 1861 erano 72 gli analfabeti maschi ed 84 le analfabete donne su 100 abitanti. Nel censimento del 1901 le proporzioni erano ridotte al 51 ed al 60% e probabilmente nel censimento imminente del 1911 saranno ancor più scemate, avvicinandosi, se si pon mente alla degressione di prima, al 40 ed al 50 percento. Se badiamo soltanto agli uomini da 21 anni in su, vediamo che l’analfabetismo, dal 1872 al 1901, è diminuito dal 60,2 al 43,9%; mentre l’analfabetismo femminile ribassa dal 77,4 al 60,4 percento. In complesso, tra uomini e donne, in Piemonte, l’analfabetismo negli individui al di sopra dei 21 anni è diminuito, dal 1872 al 1901, dal 44,7 al 22,9%, in Lombardia dal 45,8 al 26,4; e son le percentuali minime. Le Calabrie discesero dall’86,6 al 79,8, la Basilicata dall’87,3 al 78,7, la Sicilia dall’84,9 al 73,2, la Sardegna dall’85,6 al 69,6. È lecito credere che nel 1911 il miglioramento apparirà più decisivo; poiché quello avvenuto fin qui, se è confortante per le regioni industriali d’Italia, addita, nell’eloquenza delle sue cifre, quale sia il dovere primo dello stato nell’ora presente.

 

 

Risultanza ultima delle condizioni economiche e sociali della vita di un popolo è l’atteggiarsi suo nella vicenda perenne delle nascite e delle morti. Nascite sovrabbondanti e morti numerose sono proprie dei popoli miserabili, imprevidenti, deboli; come l’equilibrio nelle nascite e la limitazione della mortalità sono reputati quasi concordemente indici di civiltà più alta, più ricca, più previdente. Orbene, nel quinquennio 1863-67 il numero dei matrimoni era stato in media per anno di 7,5%. abitanti. Fu nel 1906 del 7,77, nel 1907 del 7,70 e nel 1908 dell’8,30 permille. La nuzialità non ha dunque una tendenza a scemare, il che significa che l’amore alla vita familiare non si è allentato dopo un cinquantennio di nuove maniere di vita sociale. Scemarono invece le nascite, che dal 38%.abitanti nel quinquennio 1863-67 discesero ad una media del 32 nel 1906, del 31,50 nel 1907 e del 33,1%, nel 1908. Non abbiamo che da lodarci di questa diminuzione, poiché indubbiamente una percentuale di nascite annue di 38 per ogni mille abitanti dà luogo ad un aumento disordinato ed improvvido della popolazione, che, per difetto di mezzi e di cure, è destinata a venir meno in troppo tenera età.

 

 

Gli italiani, per ora, sanno tenersi lontani dall’egoismo dei francesi, i quali non vogliono sacrificare i loro comodi alle cure della figliuolanza ed han perduto perciò parte della loro forza di espansione; e neppure indulgono in un incremento improvvido che ben tosto abbasserebbe il tenore di vita delle masse e ne crescerebbe la mortalità. Di ciò è prova il discendere della mortalità dal 30,60%. abitanti all’anno nel 1863-67 al 20,78 nel 1906 ed al 20,73 nel 1907. Nel 1908 la mortalità crebbe al 22,56%; ma sarebbe stata del 20,30 soltanto se il terremoto non avesse mietuto nelle Calabrie e in Sicilia ben 77.283 vittime. dunque il 10%. della popolazione che il benessere cresciuto e la lotta contro la malaria e la pellagra e le malattie infettive sottraggono oggi ogni anno alla morte in confronto di mezzo secolo fa: circa un terzo di milione di persone all’anno che morirebbe se oggi durassero le condizioni di vita di un tempo. La statistica delle cause di morte ha inizio solo col 1887; ma pur dimostra quale sia stato il successo nella battaglia combattuta contro le malattie che anzitempo distruggono l’organismo umano. Su 1.000.000 di abitanti l’asfissia e l’apoplessia nel parto uccidevano nel 1887-89 ben 108 persone; nel 1907 solo 22. La diminuzione proporzionale è da 534 a 13 (sempre per ogni milione di abitanti) per il vaiuolo; da 655 a 242 per il morbillo; da 337 ad 87 per la scarlattina; da 886 a 225 per la febbre tifoidea; da 825 a 167 per la difterite e laringite crupale; da 595 a 125 per le febbri e la cachessia da malaria; da 191 a zero per la dissenteria; da 103 a 33 per la scrofola disseminata e lupa; da 115 a 48 per la pellagra. Chiudo così questa rapida e monca rassegna del progresso dell’Italia nostra dopo l’unificazione. Quel terzo di salvati dalla morte riassume tutto un mondo di fatti e di idee. Spiega come gli italiani siano oggi, pur crescendo di 400.000 all’anno invece che di 180.0000, più ricchi, più ardimentosi, più capaci di cercare all’estero nuove vie e di ritornare in paese a rendere possibili nuove ascese. Possano i nostri nepoti, quando fra cinquant’anni celebreranno il centenario dell’Italia una, constatare con orgoglio che nuove lotte contro l’ignoranza e la morte furono combattute e vinte, contro la malaria che aduggia la terra ed uccide gli uomini e contro le iniquità e le oscurità nuove che si ergeranno in futuro per impedire agli uomini di elevarsi a più nobili ed elevate e libere forme di vita.

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