Opera Omnia Luigi Einaudi

Gli Stati Uniti fanno prestiti all’Europa?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1928

Gli Stati Uniti fanno prestiti all’Europa?

«La Riforma sociale», marzo-aprile 1928, pp. 110-117

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte I, pp. 41-50

 

 

 

1. – Ritengo degne di qualche meditazione le seguenti cifre. Nel 1926, ultimo anno per cui il sig. Hoover, Ministro americano del commercio, pubblicò un bilancio compiuto dei pagamenti internazionali degli Stati Uniti, questi investirono all’estero:

 

 

In nuove emissioni di obbligazioni…………………………..

milioni di dollari 1.002

In altri investimenti………………………………………………..

”             ”         330

In diversi modi……………………………………………………….

”             ”           25

                                     TOTALE

milioni di dollari 1.357

 

 

Somma cospicua, corrispondente a quasi 26 miliardi di lire italiane attuali, la quale ci dà un alto concetto della potenza finanziaria americana, del reddito e della capacità di risparmio dei cittadini di quel paese. E ci inspira altresì un senso di inquietudine per l’importanza dei debiti contratti dall’Europa e dagli altri paesi del mondo e per la crescente dipendenza economica europea verso gli Stati Uniti.

 

 

2. – Una seconda tabellina, che qui sotto si presenta, muta l’inquietudine in meraviglia. La tabellina è quella solita del dare e dell’avere degli Stati Uniti verso i paesi esteri, nello stesso anno 1926 e in milioni di dollari:

 

Dare

degli Stati Uniti ai paesi esteri

                             Avere

degli Stati Uniti dai paesi esteri

 

Per oro, argento coniato e in barre, importato……………………..

116

Per noli alle bandiere estere…………………………………..

62

Per spese dei turisti americani all’estero……………………………….

646

Per rimesse di immigranti spedite all’estero e spese di beneficenza fatte all’estero da enti americani………………………..

333

Per varie cagioni……………………

111

                     1268

 

 

Per sovrappiù delle merci esportate su quelle importate………………………………..

426

Per reddito netto degli investimenti di capitali americani all’estero, dedotta la spesa per investimenti stranieri negli Stati Uniti………………………………………….

667

Per varie cagioni………………………………..

167

 

1260

A saldo, dare degli Stati Uniti ai paesi esteri………………………………………………..

8

 

1268

 

 

 

Il significato delle cifre sovra riportate è chiaro. Se si tiene conto di tutte le partite di credito degli Stati Uniti verso l’estero e di quelle di debito, la somma si è che nel 1926 gli Stati Uniti ricevettero dall’estero di meno di quanto dovettero pagare.

 

 

Il sovrappiù delle esportazioni sulle importazioni e i redditi degli investimenti all’estero bilanciarono a mala pena i pagamenti fatti all’estero per acquisti di oro, per noli alla bandiera mercantile estera, per spese dei viaggiatori e rimesse di emigranti. Non restò nulla per fare nuovi mutui all’estero. Se gli Stati Uniti avessero fatto mutui coi loro propri mezzi, con la ricchezza da essi nuovamente prodotta nell’anno, il conto ne avrebbe dovuto recare qualche traccia, probabilmente in un supero ancor maggiore delle esportazioni sulle importazioni di merci. Al contrario, alla fine dell’anno essi rimasero con un debito, minimo se si vuole, di 8 milioni di dollari; ossia chiusero il loro bilancio annuo di entrata e spesa con un saldo debito. Normalmente, un privato, il quale saldi il bilancio di entrata e di uscita dell’anno con 8 mila lire dì disavanzo, non può prendersi il lusso di far prestiti agli amici su scala grandiosa; e, normalmente, la stessa cosa accade per le nazioni.

 

 

3. – Tuttavia, gli Stati Uniti in quell’anno, indubbiamente, mutuarono all’estero 1.357 milioni di dollari. Come si spiega il mistero di una nazione, la quale salda il bilancio annuo con 8 di passivo e ciononostante mutua altrui 1.357 milioni di dollari? Leggasi, a spiegazione piana dell’arcano, il seguente elenco delle fonti da cui gli Stati Uniti trassero i mezzi per mutuare all’Europa, al Canada, all’America latina ed al resto del mondo i 1357 milioni dollari. Questo, messo di fronte all’elenco dei prestiti americani all’estero, costituisce la bilancia dei pagamenti internazionali degli Stati Uniti in conto capitale, laddove quella precedente era la bilancia dei pagamenti internazionali degli Stati Uniti in conto esercizio. Da questo si deduceva che l’esercizio non aveva fornito i mezzi di far prestiti all’estero. Ecco le fonti in conto capitale:

 

 

Rimborso di prestiti precedenti dai paesi debitori esteri e ricavo della rivendita ai forestieri di investimenti diretti fatti antecedentemente all’estero…………………………………

470

Ricavo della vendita fatta da americani di titoli forestieri e

dell’acquisto da forestieri di titoli americani…………………..

298

Aumento dei saldi dei conti correnti di forestieri in America…………………………………………………………………..

359

Quote di rimborso dei debiti di guerra da parte degli Stati

debitori……………………………………………………………………

35

Varie………………………………………………………………………

32

Errori ed omissioni……………………………………………………

150

 

1344

 

 

L’elenco dimostra, che nel 1926 gli Stati Uniti praticamente non investirono all’estero neppure un dollaro di nuovo risparmio proprio. Il fatto non è accidentale; poiché le statistiche della medesima fonte ufficiale ci dicono che gli investimenti americani all’estero «fatti con nuovo risparmio americano dell’anno» andavano già diminuendo da 2.017 milioni di dollari nel 1921 a 429 milioni nel 1925; e che nel periodo dal 1920 al 1926 inclusi, se gli Stati Uniti impiegarono all’estero 3.232 milioni di dollari di risparmio nuovo, furono, contrariamente all’opinione comune, sopravanzati dall’Inghilterra, la quale tornò ad asserire la supremazia antica di esportatrice di capitali con 4.310 milioni di dollari. Se nel 1926 gli Stati Uniti esportarono 1.357 milioni, ciò fecero non con risparmio nuovo dell’anno, ma con denaro proveniente dagli stessi paesi debitori.

 

 

4. – In primo luogo gli Stati Uniti hanno mutuato all’Europa – per brevità assumo la parola Europa come sinonimo dei paesi che prendono denaro a mutuo dagli Stati Uniti – il ricavo del rimborso fatto da governi e privati europei di precedenti prestiti.

 

 

5. – In secondo luogo gli Stati Uniti ci fanno mutui coi denari ricavati dalla vendita a noi dei titoli nostri venduti sul mercato americano. Se la prima fonte indicava almeno che in passato l’America aveva mutuato all’Europa qualcosa e al momento dei rimborso ci mutuava una seconda volta la somma restituita e quindi, oggi, proveniente da produzione e risparmio europeo, la seconda fonte è veramente caratteristica. Il giro è questo: La società X europea emette un prestito di 10 milioni di dollari sul mercato di New York. Banchieri americani versano i 10 milioni di dollari alla società X; ma quei milioni li hanno ottenuti alla loro volta vendendo i titoli medesimi (o una serie precedente degli stessi titoli od altri consimili di più vecchia data) a capitalisti europei. In sostanza i 10 milioni di dollari sono mutuati da capitalisti europei a società europee, attraverso il mercato di New York. Quell’«attraverso» vuol dire che la banca americana preleva una mediazione sui prestiti da europei ad europei fatti col suo intervento.

 

 

6. – In terzo luogo, gli Stati Uniti ricavano il valsente dei mutui fatti all’Europa vendendo a noi loro propri titoli americani. E poiché i titoli americani sono negoziati ad un saggio di interesse relativamente basso, ciò vuol anche dire che gli europei acquistano titoli americani i quali fruttano il 5 per cento e vendono agli americani titoli propri i quali fruttano il 7 o 8 per cento. Gli Stati Uniti anche qui fungono da intermediari e ricevono perciò un compenso.

 

 

7. – In quarto luogo l’America riceve dall’Europa depositi in conto corrente a breve scadenza al 3 o al 4 per cento e si serve dei depositi stessi per fare all’Europa mutui a lunga scadenza ad un saggio d’interesse assai più elevato. Essa lucra una mediazione, in compenso del servizio reso di sostituire al deposito breve fatto dagli europei il mutuo lungo consentito, coi loro depositi, agli europei medesimi. Poiché la sostituzione comporta un certo rischio, un compenso è dovuto.

 

 

8. – Il fatto pare dunque constatato: gli Stati Uniti fanno mutui all’Europa con denari europei. Anzi il fatto è probabilmente ancora più significativo. Gli Stati Uniti fanno all’estero mutui per forse 40-45 per cento) all’ Europa e per il 55-60 per cento al Canadà, all’America latina e ad altri paesi; ma è probabile ricavino i mezzi prevalentemente (la proporzione esatta non è dichiarata) dalla sola Europa. E cioè gli Stati Uniti fanno mutui al mondo intiero (compresa l’Europa) con denari principalmente cavati dall’Europa.

 

 

9. – Constatato il fatto, resta da trovarne la causa: per quale ragione l’Europa invece di far coi denari propri mutui direttamente a sé stessa o agli altri paesi del mondo, preferisce far guadagnare fior di provvigioni agli intermediari americani e dare al mondo l’impressione di indebitarsi fin sopra gli occhi e di asservirsi agli Stati Uniti? Per una terza parte all’incirca, l’Europa non può fare a meno di agire così, trattandosi (cfr. metodo descritto sopra in primo luogo) di rimborsi obbligatori di vecchi mutui. Ma per il resto?

 

 

10. – Una sola spiegazione logica esiste. Credito è fiducia. Si apre credito volontieri a chi inspira fiducia; e per aprirlo si possono anche fare debiti. Il banchiere non fa altro. Egli non dà a mutuo a chi gli inspira fiducia neppure un centesimo di suo, ma esclusivamente denari dei depositanti. Perciò, il fatto constatato ci autorizza ad affermare:

 

 

  • Che l’Europa non ha «abbastanza» fiducia in sé stessa. Si dice «abbastanza» perché notoriamente esiste una massa enorme di mutui intra-europei conchiusi tra privati, e tra governi e privati europei; prova della fiducia che i debitori pubblici e privati hanno saputo inspirare ai risparmiatori loro connazionali. Ma esiste evidentemente al margine una schiera di risparmiatori, i quali non hanno fiducia nei governi e negli industriali (privati e società) del loro paese. Siano ricordi di scottature del tempo di guerra, siano timori persistenti di possibili sconvolgimenti monetari o sociali, sia il desiderio di sfuggire alle inquisizioni tributarie del proprio paese, questi risparmiatori, alcuni per una grossa ed altri per una piccola frazione delle loro disponibilità, preferiscono mettersi al sicuro investendo i loro risparmi in valori-dollaro e in depositi-dollaro.

 

 

  • Ossia l’Europa ha relativamente maggior fiducia nella stabilità del dollaro e della compagine politica, economica e sociale degli Stati Uniti che in quella propria ed investe perciò oltre Atlantico una parte dei propri risparmi.

 

 

  • Anzi, non di rado, l’Europa ha fiducia in sé stessa, ma solo fino ad un certo punto. Vorrebbe mutuar denaro ai propri industriali o società; ma desidera l’avallo di un terzo, dell’americano. Tale che non comprerebbe l’obbligazione emessa in paese dalla società X al 9 per cento, perché nutre qualche vago timore che la società non paghi, accatti pretesti e trovi avvocati pronti a cavillare dinnanzi ai giudici per coonestare i detti pretesti, o teme le perturbazioni della moneta, marco o franco o scellino o dinaro, in cui l’obbligazione è stilata, acquista volentieri l’obbligazione 7 per cento della stessa società X, emessa in dollari sul mercato di New York. Ha fiducia che la società, trovandosi di fronte a creditori americani (la sua obbligazione, abbenché da lui posseduta, rimarrà materialmente a New York ed intestataria apparente sarà sempre una banca americana), non tergiverserà, non cavillerà, e pagherà puntualmente interessi e capitale in moneta stabile.

 

 

  • Gli Americani si assumono, entro certi limiti, volentieri l’ufficio di avallanti. Stando al di fuori, non hanno i timori dei nazionali europei intorno ai loro compatrioti. Chiedono ed ottengono la comunicazione degli affari più gelosi e delle contabilità più segrete degli aspiranti ai mutui. Non hanno falsi scrupoli nell’esigere garanzie: fior di ipoteche strettissime, sorveglianza diretta sulla gestione dell’azienda, ecc., ecc. Ottengono vantaggi, per es., esenzioni d’imposte, a cui i mutuanti nazionali non possono pensare. Fidano grandemente nel proprio prestigio di cittadini di una potenza mondiale, a cui nessuno oserebbe recare il minimo sfregio. Per tutti questi servizi resi ai risparmiatori hanno ragione di ottenere un ragguardevole compenso.

 

 

11. – A poco a poco questa situazione, sconveniente per l’Europa, dovrà cessare. Ma non potrà cessare innanzi che i debitori europei abbiano saputo riguadagnarsi l’intiera fiducia di tutti i risparmiatori europei, anche di quei diffidenti o timidi posti al margine, i quali si contentano di un basso frutto dei loro risparmi pur di avere l’avallo americano. Poiché il riguadagnar fiducia è atto morale e poiché il risparmiatore è, per definizione, animale timido che non si può assolutamente persuadere con la propaganda, con le prediche, con le leggi, che si impaurisce anzi in proporzione dell’intensità degli inviti che gli si rivolgono, la situazione potrà modificarsi solo in seguito alla prova pazientemente data dai debitori di meritare la chiesta fiducia. Puntualità nel pagamento degli interessi, nel rimborso del capitale, assenza di cavilli, moderazione d’imposte, sicurezza contro espropriazioni a tipo sovietistico e contro eccessive limitazioni della libertà d’impiego dei risparmi, fiducia riposante in una giustizia posta al disopra delle parti, inaccessibile alle campagne esteriori giornalistiche ed altre (l’impassibilità  dei giudici del Massachusetts forse ha avuto qualche piccola parte nell’attirare risparmio europeo verso un paese in cui i giudici sono così tetragoni alle minacce di bombe e alle contumelie dei giornali avversari), stabilità monetaria: ecco alcune delle condizioni richieste per fare cessare la descritta inelegante emigrazione di risparmi dall’Europa all’America, con biglietto di ritorno a prezzo cresciuto.

 

 

12 – Frattanto, non è superfluo constatare l’errore dell’opinione volgare secondo cui gli Stati Uniti possono fare tante cose e fra l’altro mutuare miliardi di dollari all’Europa perché posseggono molti dollari, molto frumento, molto carbone, molto cotone, molto ferro, molto petrolio, molto ben di dio d’ogni fatta, tanto ben di dio che è una vergogna se lo facciano pagare, invece di regalarlo per niente ai miserabili europei affamati di vettovaglie, combustibili e materie prime. Le cifre esposte sopra fanno toccar con mano che non è conforme al vero la sequenza: prima dollari e poi possibilità di mutuare altrui i dollari; ma è invece vera l’inversa sequenza: prima meritare di ricevere da altri i dollari a mutuo; poi i dollari vengono e finalmente i dollari venuti possono essere rimutuati a più alto prezzo a chi li aveva prodotti. Prima ed al fondo di ogni ricchezza materiale esiste un fattore morale. I genovesi ed i veneziani non dominarono per secoli il commercio del mediterraneo e del levante perché fossero ricchi. Che ricchezza v’era su per le roccie sterili del genovesato o sulle palafitte della laguna veneta? Ma vivevano per quelle roccie e tra quelle lagune uomini laboriosi, tenaci, ardimentosi i quali acquistarono potenza e nel tempo stesso ricchezza, cacciando di seggio i bizantini, pur tanto più ricchi, più dotti, viventi in paesi più feraci ed ameni, con le materie prime del tempo a portata di mano. La culla della ricchezza americana non è stata nelle regioni del sud, ricche di cotone, nelle pianure centrali feconde di frumento, nelle terre a carbone, a ferro od a petrolio. Fu negli Stati della Nuova Inghilterra, nelle inospiti pietrose contrade poste tra New York e i confini del Canadà, dove la terra non dà messi, perché la roccia affiora dappertutto, dove le foreste vengono a stento, dove non ci sono miniere di nessun minerale, dove mancava tutto salvo l’energia indomabile dell’uomo. Gli uomini della Nuova Inghilterra contano, per ricchezza individuale, tra i primi degli Stati Uniti e si trovano in capo fila tra le genti le quali hanno saputo sfruttare le ricchezze naturali degli Stati Uniti. La regola con cui si formano i dollari è questa: mettete un presuntuoso, un incapace, un chiacchierone, un genialoide vicino ad una miniera d’oro e l’oro resterà sottoterra ed il presuntuoso, ecc., ecc., morirà di fame, accusando l’avarizia altrui della propria mala fortuna. Mettete un osservatore, un laborioso, un volontario deciso a non lasciare invano fuggire le occasioni su una roccia e su quella roccia sorgerà una città, le galee di tutto il mondo vi recheranno altri uomini laboriosi, materie prime e capitali, e da quella roccia e dalle contrade vicine verranno fuori frumento, cotone, ferro e ogni immaginabile grazia di dio.

 

 

Esistono in Europa miniere di ferro ricchissime in Francia, in Svezia, in Spagna, in Inghilterra; vi sono miniere di carbone in Westfalia, in Russia ed ancora in Inghilterra; terre nere a grano di gran lunga superiori a quelle americane, in Russia e in Ungheria; praterie e marcite inarrivabili in Olanda e in Lombardia; terre meravigliose per frutteti, agrumeti, giardini a fiori in Italia, in Spagna, nel mezzodì della Francia e tante altre possibilità esistono da emulare, in campi appropriati, e superare gli Stati Uniti.

 

 

Affinché da tutto ciò si ricavi assai più di quel molto che già se ne ottiene, affinché l’Europa ridiventi il centro del mondo economico, bisogna che i suoi uomini innanzitutto abbandonino il culto dell’oro e delle ricchezze materiali e diano pregio all’integrità di carattere, all’onestà, alla giustizia, al lavoro eseguito con intelligenza, con passione, con senso del dovere. Da sole, senza dubbio, l’elevazione morale e l’intelligenza creatrice non bastano; ma, se queste ci sono, dollari e resto verranno da sé.

 

 

NOTA – I dati commentati nell’articolo cono ricavati dalla punta del 10 dicembre 1927 dell’«Economist» di Londra. Sebbene, come fu avvertito nel testo, già negli anni precedenti si manifestasse la tendenza, che poi culminò nel 1926, non perciò sarebbe lecito prognosticare senz’altro che nel 1927 e poi la singolare situazione debba mantenersi invariata. Tuttavia, anche se gli Stati Uniti ritornassero a mutuare all’Europa risparmi nativi americani, le traccie dei colori del 1926 non potranno forse intieramente essere cancellate dal quadro futuro. Entro i limiti in cui esse dureranno, serberanno valore le considerazioni esposte nel testo.

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