Opera Omnia Luigi Einaudi

Governo parlamentare e presidenziale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 31/12/1944

Governo parlamentare e presidenziale

«La nuova Europa», 31 dicembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 85-92

Riflessioni di un liberale sulla democrazia (1943-1947), Olschki, Firenze, 2001, pp. 90-95

 

 

 

 

In un articolo, nel quale ho letto un riferimento assai benevolo al mio ritorno in Italia, “il politico” definisce «pura astrazione» un quadro da me delineato sul Risorgimento liberale del tipo di governo con un primo ministro. Che questi, una volta designato, scelga i suoi colleghi in guisa che rappresentino le forze parlamentari da cui è stato designato, ma con scelta insindacabile e che il gabinetto così costituito debba governare come un tutto unitario, cessando i singoli ministri di rappresentare i partiti, da cui trassero origine, pare al “politico” «un punto di arrivo ideale» piuttostoché «una situazione concreta in continuo svolgimento, attraverso la quale è necessario tendere a quel punto». Ed “il politico” aggiunge che qui si scambia il governo parlamentare (tipo inglese) con quello presidenziale (tipo americano, o svizzero, quest’ultimo però, fatto capitale, collegiale).

 

 

Vorrei, senza fare alcun riferimento alla situazione politica attuale italiana, offrire qualche chiarimento intorno ai due tipi di governo, quello parlamentare e quello presidenziale, che la “dottrina” classica considera come assai diversi l’uno dall’altro e quasi contrapposti. Ma la “dottrina” è stata fabbricata dai cultori del diritto pubblico, i quali argomentano dal testo delle costituzioni scritte e si accorgono delle consuetudini solo quando esse sono codificate in trattati venerandi per l’autorità degli scrittori.

 

 

Sarebbe parlamentare quel governo, il quale deriva sostanzialmente la sua origine, costituzione autorità dalla camera elettiva, nasce in virtù di un voto di fiducia e muore in conseguenza di un voto di sfiducia della stessa camera; e questo sarebbe il tipo dominante nella Gran Bretagna e nei Dominions e quello che correva o tendeva ad affermarsi nei paesi scandinavi, nell’Olanda, nel Belgio, nella Francia e nell’Italia di prima il 1922. Sarebbe presidenziale quel governo, il quale trae la sua autorità dal voto diretto degli elettori. Questi (Stati Uniti) scelgono il presidente ed il presidente a sua volta sceglie i membri del gabinetto, responsabili solo verso di lui e non verso le due camere del congresso, del quale non sono mai parte ed al quale non possono neppure presentarsi. Le due camere discutono, in assenza dei ministri, le proposte di legge presentate dal presidente, e modificate o sostituite dalle commissioni delle due camere ed, a parità, i disegni di legge offerti dai singoli rappresentanti o senatori.

 

 

Il legame fra il potere esecutivo (presidente) e quello legislativo (congresso) si crea attraverso ad “amici” ufficiosi del presidente, membri di una delle due camere e sostenitori in esse delle idee e delle proposte dell’”amministrazione”. Il sistema funziona, nonostante attriti non piccoli, in virtù di quella mirabile capacità di adattamento alle istituzioni esistenti, che è propria degli anglosassoni. Recentemente, il signor Cordell Hull ha iniziato una mutazione di fatto nei rapporti fra “amministrazione” e “congresso” per mezzo di relazioni orali presentate ai senatori ed ai rappresentanti riuniti in sedute ufficiose (informal), e con rapporti quotidiani coi membri più influenti dei due corpi, intesi a tenerli al corrente dei propositi dell’amministrazione e ad eccitare i pareri di essi, innanzi che si traducano in realtà. Siamo ancora lontanissimi dal sistema dei voti di fiducia; ma si tende a creare un ponte tra i due poteri, cosicché il legislativo sia informato preventivamente delle intenzioni dell’esecutivo e diminuisca così il pericolo di un voto contrario al fatto compiuto, da parte del congresso e specialmente del senato, come quello che impedì la ratifica del trattato di Versailles.

 

 

Il caso svizzero è peculiare. Non tanto perché l’esecutivo (governo) è nominato dall’assemblea nazionale, ossia dai membri delle due camere invece che dal voto popolare, come accade per il presidente americano, e neppure perché non esiste un “presidente”, capo dello stato o capo del governo, ma solo un collegio di ministri, che è nel tempo stesso posto a capo dello stato e del governo ed è presieduto a turno da uno dei suoi componenti, fornito di poteri puramente cerimoniali; quanto perché la consuetudine ha profondamente innovato nella lettera la costituzione, la quale prevede la nomina quadriennale. Sia nei cantoni come nella confederazione, la consuetudine ha mutato di fatto la nomina dei membri del collegio governante da quadriennale (in genere temporaneo) in vitalizio. Non si può parlare di cariche a vita in senso stretto, ma di cariche le quali durano, come dice la terminologia anglosassone, during good behaviour, finché il ministro reputa di essere in grado di adempiere convenientemente al proprio ufficio. Vi furono consiglieri federali (ministri) i quali si dimisero o non accettarono la rielezione per ragioni di famiglia, di salute o di età o per mutate circostanze politiche (è il caso recentissimo del Pilet Golaz); sono rarissimi i casi di consiglieri non rieletti, quando essi allo scadere del quadriennio avessero nuovamente posto la loro candidatura. Una volta eletto a far parte del governo, il ministro rinuncia all’esercizio della professione liberale od alle cariche economiche lucrative prima coperte. Se dopo quattro od otto anni lo si mandasse a spasso gli si farebbe un torto grosso, che l’opinione pubblica guarderebbe di traverso. Come potrebbe egli riconquistare la clientela o riottenere la perduta carica? Il diritto di non rielezione rimane in vigore come valvola di sicurezza; ma di fatto non è esercitato se non rarissimamente. Ad agevolare le volontarie dimissioni per ragioni di età o di malattia, sono stati via via stabiliti termini relativamente brevi per l’acquisto del diritto a pensione; e ad accentuare la stabilità sono adottate in un numero sempre maggiore di cantoni norme di divieto di esercizio di professioni private per i consiglieri di stato in carica.

 

 

Se il “vitaliziato” sia un istituto il quale possa applicarsi nei nostri paesi non so; ma par lecito affermare che esso è uno dei fattori, e non il minore, di quella buona amministrazione per cui la Svizzera può essere additata ad esempio agli altri paesi del mondo. Forse non è favorevole ai voli dei “grandi” uomini o degli uomini “di genio”; ma è dubitabile se al buon governo dei popoli giovino più gli uomini “grandi”, ovvero quelli semplicemente “savi”.

 

 

Più complicata è la trasformazione del tipo di governo parlamentare via via avvenuta nei paesi riuniti dal simbolo della corona britannica. La teoria dice che gli elettori eleggono i membri della camera dei comuni e che questa è la vera sovrana: fa e disfà i ministeri, fa leggi, può fare qualunque legge, anche la più innovatrice, eccetto, dice la dottrina, quella di cambiare gli uomini in donne e viceversa. La realtà d’oggi – frutto di un’evoluzione storica la quale non data né dalla seconda né dalla prima grande guerra, ma ha origini assai più lontane – è tutta diversa. La camera dei comuni non fa né disfà i ministeri, non vota mai leggi le quali abbiano origini nella camera medesima e vota quasi sempre e soltanto i disegni di legge che le sono messi innanzi dal governo. Essa ha ancora un compito importantissimo: che è quello di interrogazione e di critica dell’operato del governo. Colle interrogazioni, i deputati obbligano il governo a render conto delle proprie azioni, colle critiche essi riescono a variare in meglio od in peggio i disegni di legge. Talvolta, la camera vota contro taluna singola proposta del gabinetto; ma i voti contrari non fanno crisi, come la buonanima di Depretis legiferò laconicamente tant’anni fa a proposito di un voto a lui contrario del senato italiano: «il senato non fa crisi». La camera dei comuni registra, accetta le crisi che sono imposte al gabinetto, all’infuori dell’aula, da quella forza indefinibile che si chiama l’opinione pubblica. Nei grandi momenti storici, quando l’opinione pubblica diventa agitatissima, anche la camera dei comuni si commuove, ma la commozione non giunge al voto contrario.

 

 

Essa è legata, come i vassalli al signore feudale, da una specie di giuramento di fedeltà. Come il vassallo era leale e fedele verso il signore, così il membro della maggioranza è leale e fedele verso il primo ministro, e quello della minoranza verso il capo o leader dell’opposizione. Si può votar contro nelle faccende tecniche, di minor conto. Chi votasse contro nelle cose di gran momento, senza prima sciogliersi solennemente, con una lettera scritta, datata e sottoscritta, dal vincolo di fedeltà verso il capo, sarebbe squalificato per sempre. Si resta persone onorevoli e si può aspirare in avvenire ad una carica di governo, solo quando si sia chiesto lo scioglimento dall’obbligo di fedeltà. Solo così si soddisfa al dovere della loyalty, della leale osservanza del dovere di fedeltà al capo.

 

 

Non si tratta qui di reminiscenze feudali; ma di istituti nuovi, imposti dalla complicazione della vita moderna. Quando lo stato adempieva a pochi e ben definiti uffici, e gli impiegati erano in scarso numero, ci si poteva prendere il lusso di cambiare ministri e ministeri, di lasciar proporre e fare le leggi ai singoli deputati. Ma da quando la macchina amministrativa e quella legislativa si sono complicate ed ingrossate a dismisura, si è dovuto riconoscere che la macchina si sarebbe incantata e non avrebbe più lavorato, se non ci fosse stato un capo che vi mettesse ordine. Ordine rigoroso nel calendario, anzi nell’orario della camera dei comuni; tante ore ed anzi tanti minuti alle interrogazioni; tanti giorni ed ore alla discussione dei disegni di legge; tali giorni, ben misurati, alle questioni di politica interna ed internazionale od ai problemi della guerra. Ordine nella distribuzione del lavoro amministrativo fra i membri del governo. Occorre un capo per tenere a segno gli ottanta e talvolta più membri del ministero, fra ministri, sottosegretari, commissari, segretari parlamentari, segretari privati, tratti dalle due camere, e guidare la decina o quindicina di membri del gabinetto propriamente detto ed i cinque o sei membri del gabinetto di guerra.

 

 

Epperciò è sorta ed è ingigantita la figura del primo ministro. Trent’anni fa, in nessun testo di legge era menzionato il primo ministro. Era già allora il primo personaggio del regno; ma, quando i comuni si recavano alla sbarra della camera dei signori a sentir leggere il discorso della corona, il primo ministro era un commoner qualunque, mescolato alla folla degli M.P. (members of parliament). Oggi, le elezioni si fanno nel suo nome ed in quello del capo della o delle opposizioni. Gli eletti della maggioranza debbono fedeltà a lui, perché sono stati da lui presentati agli elettori; e nello stesso modo gli eletti della minoranza debbono fedeltà al loro capo, perché si presentarono agli elettori sotto la sua egida. Il capo della maggioranza è anche il primo ministro; ed il capo della minoranza è il futuro primo ministro, è colui che ha l’ufficio di dimostrare che le proposte del governo sono disadatte, monche od addirittura cattive. Anche questo è un ufficio pubblico. Come il primo ministro forma il ministero in carica, così il capo dell’opposizione ha dietro di sé un’ombra di ministero (shadow cabinet); ed ambi i ministeri, quello in carica e l’altro che gli si oppone, stanno l’uno di fronte all’altro seduti in prima fila, nella camera dei comuni. Dietro, e parecchi di essi in piedi, sta la folla dei deputati, i back benchers. I primi riescono facilmente a parlare; i secondi stentano assai a farsi innanzi; e si dichiarano fortunati se riescono a colpire l’occhio dello speaker (presidente della camera) e ad ottener licenza di parlare. Il capo dell’opposizione è un personaggio ufficiale; è remunerato con uno stipendio ed ha stanze apposite, con qualche impiegato, affinché egli possa sostenere il carico senza troppo disagio.

 

 

Come immaginare che, in ambiente siffatto, la camera dei comuni possa originare essa una crisi politica? La crisi nasce fuori della camera; quando il primo ministro segue una politica la quale ha condotto all’insuccesso o non e più conforme all’opinione pubblica, manifestata nei giornali, nei comizi, nelle adunanze dei partiti e dei gruppi politici. Neppure allora la maggioranza abbandona il suo capo. Questi riceve qualche lettera di fedeli, i quali dichiarano di non poter più far parte del partito di maggioranza. Ma sono poche ed i più, mormorando, restano ligi alla bandiera. Spetta al capo sentir la voce del tempo e dimettersi, affinché il re, capo dello stato, possa scegliere nella maggioranza un altro primo ministro. Per lo più, il primo ministro prega il re, – nei Dominions il viceré o governatore suo rappresentante – di usare della prerogativa di indire nuove elezioni, affinché gli elettori, interrogati, decidano chi, tra il primo ministro in carica ed il capo dell’opposizione, debba assumere il potere. La decisione spetta in realtà non a tutti gli elettori, ma ai soli indecisi, agli incerti, i quali col loro spostamento fanno inclinare il grosso del numero da una parte o dall’altra. Gli elettori conservatori o laburisti o liberali, che siano ben fermi nelle loro convinzioni, contano poco nell’agone elettorale. Il loro voto si sa a priori quale è; ed e sempre voto di minoranze relativamente piccole. Decisivo è il voto di coloro, i quali stanno a vedere e si voltano verso l’una o l’altra parte, a seconda del successo ottenuto, o dell’insuccesso subito dal governo e dell’attrattiva esercitata dal programma del capo dell’opposizione.

 

 

Il quadro che ho tracciato del governo parlamentare è testimonianza di una profonda trasformazione avvenuta in esso. Come negli Stati Uniti, la figura ed i poteri del presidente sono dominanti; così sono passati al primissimo luogo nella Gran Bretagna, nell’Australia, nella Nuova Zelanda, e nell’Unione Sud Africana, nel Canada e nell’Irlanda la figura ed i poteri del primo ministro. Le camere elettive hanno pur sempre compiti di grandissimo momento, ché la discussione dei progetti di legge e la critica degli atti di governo acquistano ognor più importanza nelle nostre complicate società moderne. Tutto fa credere tuttavia che di fatto, se non nella dottrina, sempre tarda a teorizzare la realtà, si assista nel mondo contemporaneo ad un avvicinamento sempre maggiore fra i due tipi di governo, presidenziale e parlamentare. Sopravviverà forse questa sola distinzione: che il tipo presidenziale americano è rigidamente codificato nella legge scritta; mentre il tipo del primo ministro all’inglese è più sciolto, perché regolato dalla sola consuetudine. Se il primo tipo non diede luogo a rotture violente, ciò si deve non alla rigidità del sistema, ma al senso di rispetto alla legge proprio di quei cittadini ed ai poteri di interpretazione del valore della legge, arrogatisi dalla corte suprema ed oramai non contraddetti da alcuno. Se la scioltezza della consuetudine inglese non degenerò in licenza, ciò è dovuto forse alla sana imperturbabilità del medio uomo britannico, il quale, posto dinanzi ad una novità, comincia a dire: è assurdo, e poi sentenzia: non è scritto nella Bibbia; e finalmente, se la novità s’impone con l’evidenza del bene, conclude: l’ho sempre detto!

Torna su