Opera Omnia Luigi Einaudi

I contadini alla conquista della terra italiana nel 1920-930

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1939

I contadini alla conquista della terra italiana nel 1920-930

«Rivista di storia economica», IV, n. 4, dicembre 1939, pp. 277-308

 

 

 

1. – Negli anni dal 1920 al 1930 si compì in Italia una rivoluzione agraria, della quale i giornali parlarono all’inizio quando, mossa dalle passioni suscitate dalla guerra e dal mito russo, fu detta “occupazione della terra” ed era violenta ed effimera; e tornarono a parlare poi, quando si chiamò “bonifica integrale” e fu dallo stato volta alla trasformazione delle terre malariche e nude che la forza isolata del contadino non poteva domare. La rivoluzione compiutasi in quel mezzo ebbe altra indole e fu opera di contadini isolati, i quali ad uno ad uno fecero propria terra coltivata o prossima a quella coltivata, che prima spettava ai “signori”. Della rivoluzione “spontanea” che tacitamente ebbe luogo in Italia si fece storico Giovanni Lorenzoni nel volume, costrutto con rigore scientifico e scritto con penna commossa, che qui si vorrebbe riassumere e commentare[1].

 

 

2. – A ridurre ad un numero nitido parlante il mutamento avrebbe fatto d’uopo conoscere quanti erano all’inizio, nell’immediato dopo guerra, i proprietari terrieri italiani e quanti erano divenuti alla fine del decennio, quando a sua volta si iniziava un nuovo ciclo economico che per brevità diremo della “grande crisi”. Ma appunto noi non abbiamo mai saputo e non sappiamo esattamente quel numero; ché le statistiche degli iscritti nei ruoli dell’imposta fondiaria o quelle degli addetti all’agricoltura nei censimenti o l’altra delle aziende agrarie offrono all’uopo indizi malsicuri. Chi voglia abbozzare per somme linee il quadro, dica che la superficie territoriale dell’Italia è di 31 milioni di ettari, che di questi poco meno di 2,5 sono improduttivi, ed altri 12 milioni hanno carattere silvano-pastorale. Restano 16,5 milioni di ettari di superficie lavorabile, ossia composta di seminativi semplici od alberati, di terreni a culture legnose specializzate (viti, olivi, agrumeti ecc.) e di prati e prati-pascoli permanenti. Durante la guerra e nel dopo guerra 1 milione sui 16,5 milioni di ettari lavorabili divenne proprietà di contadini coltivatori diretti: 750.000 ettari passando a favore di 375.000 contadini che erano già prima proprietari, e 250.000 ettari a favore di 125.000 nuovi proprietari. Io non so in quale maniera le cifre riassuntive ora ricordate e quelle particolari per le varie regioni italiane che saranno riassunte in seguito siano state messe insieme. Essendo abituato a guardare più ai fatti singoli che a quelli di massa, più ai casi arbitrariamente scelti dall’indagatore che alle medie dedotte da migliaia di osservazioni “oggettive”, più ai bilanci tipici “fabbricati” da Le Play che a quelli costrutti in seguito ad inchieste condotte da centinaia di inquirenti rigorosamente tenuti al guinzaglio da precisi meditati questionari, non so in che misura i dati riassuntivi sovra ricordati rappresentino la realtà oggettiva. Potrebbe darsi che gli ettari conquistati dai contadini nel dopoguerra fossero più o meno di un milione, che i conquistatori fossero più o meno di 500.000 e che la somma spesa fosse più o meno di 6 miliardi. Se anche i numeri veri di ettari e di contadini si dilungassero per qualche centinaio di migliaia e quello delle lire per qualche miliardo da quelli calcolati, non mi meraviglierei né griderei alla inutilità della indagine. Quel che monta è il quadro d’insieme e sono i fatti particolari rilevati. Resta il fatto fondamentale: non mai, né prima, né, sinora, dopo, si assisté nel nostro paese ad un trapasso così grandioso di terra, forse un sedicesimo della terra lavorabile, da una classe sociale ad un’altra. I due censimenti, del 1921 e del 1931, recano traccia profonda del mutamento avvenuto nella condizione sociale dei capi delle “famiglie” naturali agricole:

 

 

 

1921

%

1931

%

Aumento o diminuzione

Fatto uguale a 100 il numero del 1921, quello del 1931 è:

Agricoltori in terreni proprii

1.392.642

35,5

1.537.862

39,4

+ 145.220

110,4

Fittavoli

249.926

6,4

423.373

11,8

+ 173.447

169,4

Coloni

452.358

11,6

587.506

15,0

+ 135.148

129,9

Giornalieri operai di campagna ed addetti all’agricoltura

1.821.399

46,5

1.360.036

34,8

– 461.363

74,7

 

3.916.325

100

3.908.777

100

 

 

Scema fortemente il numero dei salariati, della gente posta al soldo altrui e cresce il numero degli “indipendenti”: coloni, soci del proprietario, fittavoli conduttori, a propria ventura, dell’impresa e proprietari coltivatori diretti. La situazione è nel decennio nettamente mutata, “quasi capovolta” dice Lorenzoni. Quanto più salda appare la compagine sociale di un paese nel quale le famiglie viventi alla giornata al soldo altrui sono ridotte da poco meno della metà a poco più del terzo; ed i più o vivono su terra propria o dispongono come soci o come imprenditori della terra e dei suoi frutti!

 

 

3. – Il movimento di conquista della terra si estese a tutta Italia. La punta si toccò nell’Italia settentrionale: 450.000 ettari acquistati dai contadini, il 7,1 per cento della superficie lavorabile. La pianura vi contribuì con 300.000 ettari (8,6 per cento); la collina con circa 123.000 (7,5 per cento), la montagna, dove la proprietà della poca terra lavorabile era già frazionatissima, con soli 33.000 ettari (2,6 per cento). In alcune zone agrarie il mutamento è quasi violento: nelle provincie di Varese e di Como e nell’altipiano milanese il 63,5 per cento della superficie lavorabile in collina ed il 48,1 per cento in pianura passa in proprietà di piccoli coltivatori. A Vicenza si arriva in complesso al 18,9 per cento (20,3 per cento in pianura), a Verona al 17,6 per cento, a Treviso al 15,3 per cento.

 

 

Nulli i trapassi nella Venezia tridentina, scarsi nella Venezia Giulia e nella Liguria dove la terra era già frazionata, più intensi nel Piemonte, dove nella collina e nella pianura la superficie occupata dalla proprietà coltivatrice crebbe rispettivamente del 3,4 ed del 4,9 per cento. La diffusione della mezzadria, la quale rende soddisfatto il contadino e limita il mercato delle terre, fece sì che nell’Italia centrale fosse minore che altrove l’incremento della proprietà coltivatrice: 3,5 per cento della superficie lavorativa. Soltanto nella montagna carrarese e nella pianura pisana l’accrescimento giunge all’11,2 ed al 13,7 per cento; ma nell’insieme della Toscana restiamo sul 2,8 per cento, nelle Marche sul 3,1 per cento, nell’Umbria sul 2,9 per cento. Nel Lazio, dove il movimento dell’occupazione delle terre era stato vivace, si sale al 4,5 per cento della superficie lavorativa. Nell’Italia meridionale il movimento si fa di nuovo più intenso, allargandosi al 5,3 per cento dell’intera superficie lavorativa: 4,5 in montagna, 5,3 in collina e 6,2 in pianura, con medie regionali le quali giungono al 6,9 per la Campania ed al 6,8 per le Puglie. Qui si raggiunsero punte notevoli: come nella pianura media interna di Terra di Bari, dove la proprietà coltivatrice conquistò il 26,1 per cento della superficie lavorabile. Nullo in Sardegna, a causa della natura silvo-pastorale di tre quarti del territorio e della possibilità data ai contadini di innalzarsi esercitando l’industria pastorale, il movimento fu invece vivace in Sicilia, dove giungiamo a percentuali medie del 14,1 per la provincia di Caltanissetta, del 12,7 per la piana agrigentina, del 14,1 per la collina di Trapani. Ben 139.802 ettari, distribuiti su 341 fondi, 253 dei quali ex-feudi di superficie superiore ai 200 ettari, furono quotizzati in Sicilia tra il 1919 ed il 1930.

 

 

4. – Quali le cause le quali diedero nel dopo guerra all’incremento della proprietà coltivatrice un impulso così vivo e, in paese così vario come l’italiano, tanto diffuso, sì da fargli assumere aspetto quasi “di uno sconvolgimento o di una rivoluzione sociale?” Il Lorenzoni addita nell’emigrazione e nella guerra le due grandi forze le quali operarono a modificare l’animo del contadino ed a dargli i mezzi di attuare il suo eterno sogno: conquistare lo strumento del suo lavoro e della sua vita, la terra.

 

 

5. – L’emigrazione, che nel 1876-78 toccava appena la media di 360, superava nel decennio 1906-915 quella di 2.200 emigranti su 100.000 abitanti, con un massimo assoluto di 872.598 persone nel 1913, il doppio dell’incremento naturale della popolazione in quell’anno. Dapprima europea e temporanea l’emigrazione ha inizio nel settentrione e qui diventa transoceanica nell’ultimo ventennio del secolo scorso; ma poi rapidamente scema nel nord coll’ingrossare dell’industria, mentre d’un tratto nasce e cresce nel mezzogiorno indirizzandosi verso i paesi d’oltre mare e specialmente verso gli Stati Uniti. Le rimesse degli emigranti ebbero gran parte nella trasformazione agricola nostra. A quanto ammontassero non è possibile sapere con precisione; ma un calcolo eseguito, dopo accuratissima indagine, dal Lorenzoni medesimo per la Sicilia dava 106 milioni di lire vecchie per il solo 1907; ed altri sondaggi ci fanno arrivare per i 19 anni del 1905-6 al 1924-25 a 312 milioni all’anno per i compartimenti meridionali ed a quasi un miliardo di lire correnti nuove all’anno per tutta Italia nei 24 anni dal 1902 al 1925. Dopo il 1925 le frontiere estere ad una ad una si chiudono; e la crisi economica respinge anzi alcuni dei vecchi emigrati; sicché nel 1933 i rimpatriati d’oltre oceano superarono gli emigrati. Frattanto il rivolo d’oro in alcuni anni era divenuto torrente ed aveva prodotto effetti miracolosi. Il Lorenzoni che è un trentino dell’Anaunia “ricorda la trasformazione prodigiosa della vallata, e come sentisse dire che dove si macellava un bue al mese, se ne abbattessero ora due la settimana e come i debiti scomparissero e gli usurai con loro. Rivede sorgere le casette degli “americani” dai colori vivaci, linde, pulite, e rinnovarsi ed abbellirsi i paesi che già allora invitavano i forestieri a passarvi l’estate. La viabilità si sviluppava, le scuole si popolavano, i prati si coprivano di fruttiferi e la “Merica” non era più un favoloso e temuto mondo lontano, ma quasi un prolungamento del proprio, una vera colonia demografica di là degli Oceani come quelle del Mar Nero per i Greci antichi, ove stava oramai una popolazione più numerosa di quella rimasta in patria” (p. 172).

 

 

I contadini meridionali, i quali ritornavano dall’America, sistemati gli affari, pagati cioè i debiti e primi quelli dell’onore, “a volte comperavano la casa del vicino, a volte innalzavano la propria di un piano, dotandola di un balcone sulla via, suprema ed ambita distinzione, a volte fabbricandola nuova. Le casette degli “americani” si distinguevano subito a colpo d’occhio. Pagati i debiti e sistemata la famiglia, che fare coi rimanenti risparmi? Impiegarli nella realizzazione del sogno massimo di ogni bravo contadino: nell’acquisto della terra che gli darà pane, indipendenza ed accresciuta dignità sociale. Ma la terra nel mezzogiorno, la terra comperabile scarseggiava, ed era carissima. Essa si divideva in terra intensivamente coltivata, limitata ai dintorni dell’abitato, ed in terra estensivamente coltivata o latifondo, diffuso specialmente in Sicilia, nella Calabria, nella Lucania ed in qualche parte delle Puglie (Foggia). La prima era proprietà della borghesia, alta, media, piccola; il secondo, il latifondo, sovratutto della nobiltà. La più desiderata era la terra coltivata, vicina al paese, alberata, generalmente fertile e comoda da lavorare. I contadini tornati dall’America ne chiedevano almeno qualche pezzo, e grande fu lo stupore dei “signori” quando videro presentarsi non più l’antico giornaliero implorante lavoro, ma un uomo nuovo, dal capo eretto che offriva danaro sonante. Offriva, anzi prezzi altissimi, ai quali era difficile resistere. Primi a cedere furono i piccoli proprietari borghesi, la situazione dei quali era divenuta difficile per il progressivo rialzo dei salari, dovuto alla rarefazione della mano d’opera, conseguenza naturale dell’emigrazione, poi, più lentamente, gli altri proprietari “marginali”. “Il piccolo proprietario civile è destinato a sparire”: era il ritornello che negli anni precedenti alla guerra si sentiva ripetere in tutto il mezzogiorno. E di fatto lentamente spariva. Una classe scendeva, un’altra saliva. Dall’America continuavano ad affluire i denari ma l’offerta di terre diminuiva, una volta liquidate le situazioni “marginali”…. “Noi siamo stretti del latifondo come in una cerchia di ferro”, mi dicevano i contadini nel 1907-908, e “soffriamo le pene di Tantalo. La terra si stende intorno a noi invitante, ma non la possiamo toccare”. Su 750.000 ettari, quanti ne occupava il latifondo siciliano in quell’epoca, solo poche migliaia erano passate, prima della guerra, nelle mani dei contadini. Esso rimaneva dunque nel complesso “una muraglia impenetrabile”, e tale sarebbe per lungo tempo rimasto se non fosse sopraggiunta un’altra forza più rivoluzionaria e più efficace dell’emigrazione: la guerra” (p. 175-6).

 

 

6. – La guerra mutò l’animo del contadino. In trincea questi si sentì e fu detto l’uguale del signore. Tornato al paese, non poté e non volle riprendere le abitudini di ossequio di un tempo. La formula della terra ai contadini forse pronunciata per la prima volta nell’aula del Senato dal marchese Tanari, poi al congresso socialista di Bologna nel 1919, corse d’un subito ed infiammò tutta Italia. I contadini mossero all’assalto della terra.

 

 

“Il procedimento era sempre lo stesso, semplice, impressionante, pittoresco. La mattina di buon’ora i contadini si raccoglievano all’uscita del paese in gruppi più o meno numerosi, armati chi di fucile chi di zappa, chi di tutti due; e, montati a cavallo, la bandiera rossa o tricolore e la fanfara in testa, partivano per il fondo designato, che avrebbe dovuto essere un fondo “incolto”. Arrivati sul posto piantano in mezzo al fondo la bandiera e ai quattro angoli issano cartelli col nome del gruppo occupante. Qualcuno si mette di guardia armato. Altri comincia a lavorare. Se occorre, si rimane sul posto anche di notte, anche sotto la pioggia, attendati. Se il latifondo è tenuto da qualche gabellotto amico della mafia c’è da temere aspra resistenza o fiera riscossa, e bisogna opporre risolutezza a risolutezza, armi ad armi. A volte, all’occupazione di un medesimo fondo aspirano due partiti rivali, o due paesi vicini, o due diverse cooperative od associazioni. Si fa allora a gara fra chi arriva prima o più in forza.

 

 

Conflitti fratricidi sono possibili se all’arma benemerita non riesca ad intervenire in tempo. Il movimento assume dal 1919 al 1920, specialmente in Sicilia, in Calabria e nel Lazio, proporzioni preoccupanti. Le terre invase ammontano a varie decine di migliaia di ettari”. (p. 203-4).

 

 

Mentre i governi cercano di frenare, legalizzandolo, il movimento di occupazione delle terre nel mezzogiorno coi decreti Visocchi del 2 settembre 1919 e Falcioni del 22 aprile 1920, le agitazioni agrarie della valle padana, diffondono il terrore nelle campagne settentrionali. I proprietari ed i fittavoli, nel Ravennate anche i mezzadri, boicottati, vedono morire di fame e di sete il bestiame. Le donne si mettono di guardia dinnanzi alle porte delle stalle per impedire ai “krumiri” di entrare a mungere le vacche.

 

 

Braccianti e mezzadri combattono gli uni contro gli altri per il privilegio esclusivo dell’uso delle trebbiatrici. L’istituto della proprietà terriera, indifeso, sembra volgere al tramonto.

 

 

L’Opera nazionale dei combattenti, fondata nel dicembre del 1917, ma organizzata nel gennaio 1919, con un capitale di fondazione di 300 milioni, avrebbe voluto che le terre incolte, di cui a mano a mano disponeva, fossero prima trasformate; od almeno concesse temporaneamente in affitto, in poderi sufficienti, a contadini in attesa che questi dessero la prova della loro attitudine a trasformarle, sia pure col suo aiuto. Ma ai contadini eccitati dal desiderio della terra e da spirito ugualitario, gli indugi appaiono troppo grandi o le esigenze tecniche fonte di privilegi.

 

 

7. – Se eccitava i contadini alla conquista violenta della terra, la guerra creava nel tempo stesso le condizioni per la sua conquista pacifica. Quel che in Romania, in Bulgaria, nella Serbia, nella Cecoslovacchia, nelle tre repubbliche baltiche, in Finlandia fu sovratutto l’effetto della cacciata delle classi proprietarie forestiere e dello spossessamento di quelle nazionali, in Italia seguì alla svalutazione monetaria. Se questa sia necessariamente connessa colla guerra, se con un’altra più coraggiosa politica tributaria e finanziaria se ne sarebbero potuto evitare almeno gli eccessi oltre l’assolutamente inevitabile, è problema storico, che qui non importa discutere[2]. Certo si è, che dalla guerra alcune classi agricole uscirono impoverite o distrutte ed altre arricchite e forti. La svalutazione monetaria, movendo il legislatore pauroso delle ripercussioni dell’opera sua sulle moltitudini, ad irrigidire, coi vincoli dei fitti, redditi falcidiati dal crescere delle imposte e delle spese di riparazione dei fabbricati e di gestione delle terre, impoverisce e talora rende tragica la sorte dei moltissimi medi e grandi proprietari, i quali non coltivano direttamente le loro terre. Arricchivano i fittaioli, i quali vendevano le derrate a prezzi crescenti e pagavano fitti divenuti di fatto irrisori; arricchivano i mezzadri puri, alla foggia toscana, a cui il rigiro continuo del bestiame, di proprietà padronale, consentiva di impadronirsi in un lungo tempo del valore intero delle scorte vive, lasciando al proprietario la proprietà della coda; miglioravano grandemente la loro situazione i piccoli e medi proprietari coltivatori, i quali riuscivano, con miracoli di lavoro, a provvedere alle esigenze del fondo, nonostante l’assenza degli uomini validi; e crescevano i salari dei contadini obbligati ed avventizi, fattisi rari sul mercato per la concorrenza delle industrie belliche. Già nel 1920 e nel 1921 la classe contadina aveva visto che, essendo la più forte economicamente[3], essa poteva ricorrere a mezzo meno incerto di quel che non fosse la violenta occupazione per strappare la terra alla classe vinta. Ed offerse, per aver terra, moneta, di cui i contadini non sapevano e non sanno che fare, e che non tutti i proprietari impoveriti avevano compreso essere una merce la quale ben presto avrebbe avuto una potenza d’acquisto uguale da un quarto ad un sesto di quella antebellica.

 

 

Il Lorenzoni descrive con efficacia grande i metodi di trapasso o pacifico della terra. La quale ebbe due momenti; ed il primo lo direi della paura nei proprietari e dell’incertezza stupefatta nei contadini: “Le occupazioni e le agitazioni fecero su molti proprietari una impressione disastrosa. Presi dal panico, molti vendettero. Si ebbero allora prezzi fortemente influenzati dal momento politico, dei quali però non sempre profittarono i contadini. A costoro le organizzazioni socialiste e talvolta le cattoliche andavano predicando ch’era meglio attendere; la terra sarebbe venuta da sé nelle loro mani, fra poco. Ma intanto altri agiva: individui più furbi e non sempre estranei alle organizzazioni, i quali, mentre sconsigliavano i contadini dal comperare, comperavano essi stessi sottomano, presentandosi ai proprietari come “salvatori” disposti ad acquistare a proprio rischio terreni in tempi così torbidi. E così li avevano per poco. Poi li tenevano in serbo in attesa di rivenderli ai contadini a prezzi ben più elevati, e giocando di nuovo la parte di “benefattori”” (p. 218).

 

 

Il secondo momento è, col ritorno della sicurezza dopo il 1922, dell’immaginato tornaconto a vendere da parte dei proprietari e del vantaggioso comprare da parte dei contadini: “Dopo il consolidamento del fascismo al governo dello stato, il fattore dominante nell’animo dei proprietari non fu più la paura del bolscevismo, ma il prezzo. Chi poteva offrire di più a chi era disposto a vendere eliminava gli altri concorrenti. Poteva offrire di più chi aveva guadagnato o risparmiato di più, od aveva maggior bisogno d’un determinato pezzo di terra, o nutriva maggior fiducia nell’avvenire ed era perciò disposto a sacrificare tutto il suo capitale mobile nella speranza di presto ricostruirlo con i proventi di una terra che avrebbe migliorata. Era più pronto a vendere chi si fosse trovato in maggior bisogno di danaro, sia per estinguere debiti, che in quell’epoca s’era tanto corrivi a contrarre, sia per impiegare il danaro altrove, sia per consumarlo, concedendosi una vita più larga, dopo tanti anni di strettezze. A volte furono i grandi proprietari che vendettero o dovettero vendere porzioni dei loro terreni più o meno vaste o addirittura, ma assai di rado, tenute intere. Né furono sempre i peggiori. Ci furono vittime che avrebbero meritato miglior sorte; proprietari cioè, che s’erano indebitati per migliorare le loro terre e che, sorpresi in pieno dalla rivalutazione della lira e dal ribasso catastrofico dei prezzi, non poterono più mantenere gli impegni. Più spesso furono più corrivi a vendere i piccoli proprietari borghesi; ai quali la terra coi salari elevati rendeva assai meno di quanto avrebbe loro reso il ricavato dalle vendite impiegato in fondi pubblici od altri investimenti sicuri” (p. 220).

 

 

9. – Il contadino pagava la terra acquistata sovratutto col danaro proprio: tratto, dice il Lorenzoni, nel mezzogiorno sovratutto dalle rimesse degli emigranti, nel settentrione dai guadagni del tempo di guerra o del dopo guerra. Queste sono, osservo io, le occasioni esteriori. La cagione profonda della conquista della terra era nello spirito: rimesse e guadagni non furono serbati da tutti – anche tra i contadini vi sono le sottospecie dei risparmiatori che vanno avanti e di coloro a cui, per ogni lira guadagnata, quelle spese hanno la maligna costumanza di essere fatte di ventun soldi -; ma da coloro i quali valutavano più l’indipendenza futura del godimento presente. Epperciò in fondo al milione di ettari conquistati dai contadini e dei cinque a sei miliardi di lire spese per conquistarli, vi è la tradizionale calza di lana: “Il avait vécu de privations, épargné sou sur sou. Chaque année, quelques pièces blanches allaient rejoindre son petit tas d’écus enterré au coin le plus secret de sa cave…. En guenilles, pieds nus, ne mangeant que du pain noir, mais couvant dans son coeur le petit trésor sur lequel il fondait tant d’espérances, il guettait l’occasion, et l’occasion ne manquait pas. “Malgré tous ses privilèges, écrit un gentilhomme en 1755, la noblesse se ruine et s’anéantit tous les jours, le Tiers – état s’empare des fortunes”…. Mais il est sur qu’avant de subir la dépossession totale, le seigneur obéré s’est résigné aux aliénations partielles. Le paysan, qui a graissé la patte du régisseur, se trouve là avec son magot. “Mauvaise terre, Monseigneur, et qui vous coute plus qu’elle ne vous rapporte”. Il s’agit d’un lopin isolé, d’un bout de champ ou de pré, parfois d’un ferme dont le fermier ne paye plus, plus souvent d’une métairie dont les métayers bésoigneux et paresseux tombent chaque année à la charge du maitre” (TAINE, “L’ancien régime” p. 452).

 

 

Così hanno sempre venduto i nobili ed i “signori”[4] appartenenti alla categoria che Lorenzoni così scolpisce: “V’è la nobiltà feudale assenteista che vede nella terra un titolo di dominio, una fonte di rendita od una ricchezza ipotecabile e null’altro, e nei contadini dei sudditi…. Questa nobiltà che secondo i fisiocrati doveva essere “disponibile” per le cariche pubbliche onorarie, di sovente era ed è scialacquatrice. S’indebita con estrema facilità, copre d’ipoteche i suoi fondi che man mano le sfuggono, andando ad impinguare i suoi antichi amministratori o fattori, od affittuari, o passando ad altri proprietari, fra cui contadini che dispongano di mezzi. In una mia recente visita in Calabria un perito del luogo diceva: – Che importa se il barone X va in rovina? Centinaia di contadini ne acquisteranno la terra e sarà un bene per tutti” (p. 140).

 

 

Sempre accadde che nobili, signori e contadini, se fatui o imprevidenti o poltroni, vendano le terre. Talvolta ad altri nobili o signori che Lorenzoni pur tratteggia con penna maestra: “V’è la nobiltà che risiede nelle sue tenute, le amministra bene, le migliora, e considera il contadino bensì come un dipendente, ma anche come un collaboratore: e sa essere giusta ed umana…. Talvolta, pur di non sacrificare vecchi e provati dipendenti perché non più redditizi, rinuncia ad un soprappiù di rendita, come quel “buon vecchio gentiluomo” così ben descritto da Addison nello Spectator “mistura di padre e di padrone, che manteneva in servizio i suoi dipendenti sino alla più tarda età e pensionava sin il suo vecchio cane e il suo vecchio cavallo”. Questa nobiltà è profondamente attaccata alla terra, e vede nella proprietà più una funzione sociale da adempiere che una fonte di rendita. Essa non è disposta a vendere, se non forse qualche fondo periferico, per migliorare, col ricavato, i rimanenti, come voleva Jacini, che ne era uno dei più cospicui rappresentanti. Non di rado anzi si presenta sul mercato della terra come “domanda”, quando ad esempio voglia dotare il più largamente possibile i proprii discendenti ed attenuare così gli effetti della libera divisibilità dei fondi” (p. 140-41).

 

 

Più spesso la terra è venduta ai contadini provvisti di risparmio o di credito. Lorenzoni constata che i veri contadini sono restii a comprar terra a credito. Talvolta il credito consiste nel pagamento a rate, a saggio di interesse normale, in tre o quattro anni; tal’altra in prestiti da compaesani ed amici a saggi non di rado inferiori a quelli correnti. Più di rado il danaro è assunto a mutuo da banche, e per lo più non da piccoli contadini, ma da affittuari i quali si illusero di preveder bene l’avvenire, guardandolo con occhio roseo.

 

 

Tra i contadini, comprarono sovratutto affittuari, piccoli proprietari particellari, compartecipanti (più che mezzadri puri alla toscana, contenti del loro stato e poco propensi a mutarlo), talvolta, nel Biellese, nella Brianza, nel Veneto, in quel di Terni, operai industriali bramosi di un po’ di terra per aver casa ed orto. Non di rado calarono giù a comprar terra nel colle o nella piana montanari cacciati dalla aridità del terreno o dall’alto costo della coltivazione dei terreni alpestri. Gente veneta acquistò terre nelle Romagne, nel Mantovano e fin nel Piemonte. Avigliano nella Lucania è un vivaio di laboriosi agricoltori per le contrade vicine.

 

 

10. – I prezzi di acquisto, in quegli anni e specie dal 1923 al 1926, crebbero fortemente e spesso parvero ad ambe le parti altissimi. Taluni esempi ricordati dal Lorenzoni stupiscono a primo tratto. Ad Albenga terreni orto-frutticoli furono venduti dapprima in ragione di 4 o 5 lire il metro quadro; poi di 10 di 15 di 20 sin 25 lire il metro quadro, ossia in ragione di 250.000 lire l’ettaro. Nel piano di Ansidonia (Aquila) una coppa (mq. 622, pari ad un sedicesimo di ettaro) di terreno seminativo vicino all’abitato fu venduta per 4.000 lire, ossia in ragione di 64.000 lire l’ettaro; e due altre, cioè mq. 1.244 per 40.000 lire, che vuol dire in ragione di 320.000 lire l’ettaro. Nel Veneto da tre o quattromila lire l’ettaro per seminativi arborati si salì a 30 e 40 mila lire, e dove la proprietà era frazionata, a 60 – 70 mila lire, mentre nella zona frutticola in sinistra dell’Adige si arrivò sino a 100.000 lire. Il prof. Ronchi afferma che, per il Veneto, nel 1919-20 i prezzi segnano un aumento modesto, nel 22-24 triplicano, nel 24-27 decuplicano; poi scendono a due terzi od a metà del prezzo più alto che s’era pagato. In provincia di Bologna da 5.000 lire l’ettaro nell’immediato dopo guerra, si salì a 24.000 nel 1926; nel Ravennate le “larghe” toccarono le 17 mila lire l’ettaro; i terreni frutticoli nel Massese e nel Lughese le 42.000 lire. Nella costa tirrenica calabrese buoni oliveti specializzati raggiunsero o superarono le 100.000 lire l’ettaro; sulla costa jonica 300 ettari di seminativi furono venduti in ragione di 18 – 24 mila lire l’ettaro se nudi e di lire 48 mila se arborati (p. 221).

 

 

Lorenzoni non ritiene che i prezzi dei terreni abbiano seguito la curva del deprezzamento della lira: “In un primo tempo sotto l’influenza del momento politico, furono più bassi; poi salirono più rapidamente, raggiungendo un massimo fra il 23 ed il 26, quando in seguito ad una momentanea, intensa ripresa della emigrazione, affluirono dall’America ingenti somme che si gonfiavano per il cambio. Vi fu un’epoca in cui un dollaro valeva dalle 25 alle 35 lire. A Rende (Cosenza) incontrai un contadino che in soli due anni di soggiorno in America (nel 22-23), ove faceva il terrazziere, poté inviare alla famiglia il corrispettivo in dollari di 36.000 lire” (p. 221).

 

 

Più chiaro il parallelismo tra le variazioni dei fitti e quelle dei prezzi dei terreni. Ed altri fattori influivano: “Generalmente i prezzi erano in proporzione inversa della superficie contrattata; e cioè tanto più elevati quanto più piccola essa era, fenomeno che si riscontra in tutti i paesi. Oltre le cause generali che influivano sul livello dei prezzi, altre ve ne erano di carattere locale, o individuale, come scarsità di terre nel territorio di un comune, ove c’era molta domanda, oppure preferenze individuali per una data particella che doveva servire ad arrotondare una proprietà od a ricuperare alla famiglia un possedimento perduto. Complicati elementi psicologici entravano qui in gioco, dei quali non si può esaurire l’enumerazione. La finezza del contadino è proverbiale, come la sua tenacia. Propostosi un fine, lo accarezza, studia i mezzi per raggiungerlo, s’informa di qua e di là delle occasioni favorevoli, gioca di abilità e di astuzia e normalmente fa un buon affare. Ma può essere che la passione gli prenda la mano ed allora, pur di riuscire nell’intento, eccede nello spendere, ed avvengono casi come quelli di cui abbiamo dato qualche esempio” (p. 221-2).

 

 

11. – La terra fu acquistata dai contadini in due maniere principali. Sovratutto quando si trattò di piccoli appezzamenti a cultura intensiva il trapasso ebbe luogo direttamente fra proprietario, indotto dai debiti o da altre ragioni, a vendere, ed il contadino desideroso di quel campo o di quel vigneto od oliveto. Anche in questo caso, un sensale agevolava gli approcci, definiva le modalità del contratto ed era rimunerato con adeguata mancia. Non di rado, specie quando trattavasi di tenute o fondi di una certa importanza, il trapasso si operò a mezzo di intermediari. Dei quali diversi sono i tipi.

 

 

“Vi è l’intermediario speculatore che compra per rivendere senza nulla aggiungere o modificare nella composizione o nell’ordinamento del fondo. È il più frequente nel settentrione e nel centro d’Italia e non è necessariamente un male. Nel Piemonte ad esempio l’attività intermediaria è di antica data e viene onestamente esercitata. Dopo l’abolizione dei vincoli feudali questi intermediari facilitarono grandemente il trapasso delle terre nobiliari dalle mani degli ex signori feudali a quelle dei borghesi e dei contadini. La stessa frequenza delle operazioni e la concorrenza di varie ditte rendevano meno facile l’usura. Ed anche nel rimanente d’Italia non mancarono, pur essendo assai rari, esempi del genere.

 

 

Sennonché nel dopo guerra si improvvisarono ovunque (non escluso il Piemonte) speculatori su terreni, ben diversi dai tradizionali e rispettabili ora detti. Si trattava di individui isolati o più spesso di gruppi di pochi individui formatisi lì per lì, i quali, cogliendo il momento opportuno, si lanciavano nel pericoloso gioco.

 

 

Approfittando del momento in cui o per natura del bolscevismo o per gli alti prezzi offerti i proprietari erano più disposti a vendere, si recavano da loro, si accordavano sulla somma, ne pagavano una parte, firmavano il compromesso (che nel cremonese veniva chiamato “il preliminare” e cercavano poi subito di rivenderlo per un prezzo naturalmente più elevato.

 

 

Il “preliminare” era divenuto un titolo come un altro, il quale circolava per diverse mani prima di terminare in quelle del vero acquirente, nella gran maggioranza dei casi un contadino. Solo in questo momento il contratto di compra vendita veniva perfezionato; ma come prezzo di acquisto non si indicava quello effettivamente versato dal contadino bensì quello originariamente pattuito. Per tal motivo è impossibile conoscere con precisione la differenza tra i due prezzi; ma tutti i nostri informatori sono concordi nel dire che essa era rilevante e che talvolta il prezzo finale risultava raddoppiato.

 

 

Se i capitali propri non fossero bastati, gli speculatori li trovavano a prestito con incredibile facilità presso qualche banca, specialmente se invece di individui isolati si fosse trattato di gruppi solidali. Così con scarsa disponibilità propria ed eliminando fra di loro la concorrenza gli intermediari facevano affari di milioni; e milioni guadagnavano. Essi accorrevano con particolare diligenza alle aste, ove, eliminando con espresso e tacito accordo la concorrenza reciproca, potevano con poche migliaia di lire acquistare fondi d’un valore dieci volte maggiore. A tali gruppi di speculatori improvvisati e spregiudicati il popolo aveva affibbiato il nomignolo di “Bande”. Vi erano la Banda Bonnot che operava in Piemonte e Lombardia, la Banda dello Zoppo in Toscana, le “bande nere” altrove.

 

 

Poi venne anche per tutti costoro la nemesi. L’arco troppo teso si spezzò. La rivalutazione della lira capovolse la situazione; i ribassi cominciarono, prima lenti e poi rapidi, e chi non riuscì a liquidare in tempo o continuò ad illudersi ed a speculare sul rialzo, precipitò, e fallì trascinando nella caduta le banche che troppo alla leggera e contro l’interesse medesimo dei veri agricoltori lo avevano sovvenzionato” (226-27). In Piemonte si calcola gli intermediari speculatori siano intervenuti per il 64 per cento dei terreni della piana; meno in collina e meno ancora in montagna. Il Turbati, autore della relazione regionale, li chiama un “male necessario” perché senza di essi molti trasferimenti non sarebbero avvenuti. A volte si contentavano di modesti guadagni, e ciò va detto specialmente di coloro che già prima della guerra usavano occuparsi del commercio di terreni; a volte arrivarono a lucrare fino al 30 per cento sul prezzo d’acquisto.

 

 

In provincia di Treviso: “il trapasso delle terre più di frequente ebbe luogo con l’intervento di privati intermediari che si fecero pagare molto cari i loro servigi, se, a quanto assicura il Ronchi, relatore regionale, fra i primi venditori e gli ultimi i prezzi subirono delle maggiorazioni da mille a duemila lire fin’anche ad otto dieci mila lire per ettaro. Per uno stesso terreno si poteva avere l’intervento di vari intermediari, ognuno dei quali guadagnava da mille a millecinquecento lire per ettaro, portando attraverso questa catena alla già accennata maggiorazione dei prezzi. A tale speculazione parteciparono non di rado anche gli stessi contadini, che vendevano le loro primitive piccole proprietà a prezzi elevati e ne compravano, ben conoscendo uomini ed ambienti, a prezzi più bassi, altre più ampie” (p. 44).

 

 

In provincia di Ravenna: “i migliori mezzadri e molti piccoli affittuari in questo periodo comperarono la terra sempre direttamente dal proprietario, raramente vi fu l’intervento di intermediarii o si ebbe ricorso al credito bancario o privato…. Con l’avvento del fascismo…. il fenomeno continuò anche con maggiore intensità. I contadini potendo disporre di somme di danaro talvolta notevoli, illusi che i prezzi delle derrate si mantenessero a così alto livello, acquistarono quasi affannosamente la terra. La continua ricerca fece salire i prezzi dei terreni sino a 45.000 lire l’ettaro, e i proprietari, allettati da prezzi che mai avrebbero sognato di realizzare, vendettero. In questa corsa alla terra furono trascinati anche quei contadini che non possedevano se non una parte del danaro occorrente; ma che se lo procurarono ricorrendo al credito ed impegnandosi con ammortamenti onerosi. Naturalmente passati i tempi “dell’oro” tali contadini dovettero vendere la terra, rimettendovi il proprio capitale e non pagando spesse volte che una parte del debito contratto” (p. 54).

 

 

Nella Val di Chiana la formazione della proprietà coltivatrice risale “ai primi anni del dopo guerra quando quel territorio fu teatro di tremende sanguinose lotte politiche, le quali spaventarono i proprietari e li resero meno tetragoni a vendere. Ma non volendo vendere direttamente ai contadini, per non incorrere nel pericolo di lente e malsicure riscossioni, accettarono l’intervento di intermediari speculatori, i quali addirittura infierirono su quella fertile ma tragica plaga. Si costituivano improvvisate società di tali intermediari, talvolta composte di gente priva di scrupoli, avida, astuta che sfruttava ad un tempo e la paura del proprietario e la fame di terra e l’ignoranza del contadino. Il popolo battezzò una di queste società “la banda dello zoppo” dal nome con cui era conosciuta una combriccola di malandrini da strada che in quel torbido tempo molestava gli abitanti. “È difficile” scrive il Bandini “stimare anche approssimativamente di quanto fosse rincarato il terreno arrivando nelle mani del contadino, dato che i contratti di compra-vendita furon fatti con cifre fittizie; tuttavia possiamo ritenere che in taluni casi fosse anche raddoppiato, mentre normalmente esso era aumentato di metà o di due terzi”. I contadini pagarono generalmente il prezzo pattuito agli intermediari o ai proprietari senza far debiti ma profittando di una dilazione di due o tre anni per una parte della somma. I prezzi si aggirarono (terreni fertilissimi seminativi-alberati) sulle 25 mila lire all’ettaro, che il Bandini ritiene eccessive. Egli stima che nel 1930 gli stessi terreni non valevano più che 12.000 lire” (p. 57).

 

 

12. – Quale il fine perseguito dal contadino a mezzo dell’acquisto della terra? Il Lorenzoni pare distingua il fine ideale da quello concreto: “Il sogno del contadino sarebbe evidentemente di formarsi una proprietà autonoma, la quale gli dia indipendenza e modesta agiatezza con l’indefesso lavoro. Solo il proprietario coltivatore autonomo realizza in sé il miglior tipo di contadino (p. 224)…. Soltanto a questi competeva nell’antico parlare toscano il nome di contadino che era titolo di onore, come oggi “Bauer” per i tedeschi. Autonomo è il contadino che possiede terre di estensione e qualità sufficienti per mantenere la propria famiglia. Se la terra da lui posseduta può venir coltivata dalle forze lavorative famigliari senza ricorrere ad estranei, tranne che nelle punte di lavoro, la proprietà si dice coltivatrice. Se invece l’ampiezza dell’azienda, oltre il lavoro famigliare, richiede l’impiego stabile di qualche salariato o un notevole ricorso ad avventizi, la proprietà si chiama capitalistico-coltivatrice, per usare la terminologia proposta da Serpieri. Il contadino autonomo del secondo tipo è da noi piuttosto raro (ed è gran peccato), mentre è il tipo prevalente in Germania ed in parte della Francia…. Il contadino – proprietario autonomo si può dire veramente che stia al sommo della scala formata dalle varie categorie rurali. Purché la terra che egli possiede abbia un margine di produttività che gli permetta di far fronte ad annate difficili o ad improvvise crisi e non sia indebitato pericolosamente, egli si sente sicuro ed indipendente nel suo piccolo regno. Per lui e forse solamente per lui vale l’adagio: “è povero il contadino che vuol esserlo”” (pp. 128-129).

 

 

Lorenzoni rimpiange spesso che la rivoluzione agraria del decennio 1920-30 non abbia condotto alla creazione di un numero maggiore di proprietari autonomi. Il contadino italiano si contentò spesso di toccare meta più modesta: quella della proprietà particellare. È particellare il contadino proprietario il quale non possiede terra sufficiente per viverne, ma che deve cercare lavoro anche altrove, occupandosi come affittuario come colono o come avventizio. Nella grande maggioranza dei casi nel dopo guerra venivano contrattate non proprietà rurali organiche il cui possesso significasse autonomia, ma piccole particelle.

 

 

“Ci fu bensì chi riuscì ad acquistare qualche podere o qualche azienda organica, ma furono pochi. Li troviamo più numerosi che altrove nella pianura padana e fra la classe degli affittuari; o in Romagna e nel centro d’Italia, fra i mezzadri. Naturalmente solo chi disponeva di molto denaro poteva aspirare a tali acquisti: quindi o arricchiti di guerra o emigranti fortunati, questi ultimi specialmente numerosi nel mezzogiorno. Qualche bella unità organica venne pure costituita attraverso la quotizzazione di qualche demanio comunale o di università agrarie: ma, nella regola dei casi, fu proprio in queste quotizzazioni che, per contentare il maggior numero di gente, si peccò frazionando in piccole particelle e in modo del tutto irrazionale terreni a cultura estensiva” (p. 224 – 25). Si ha, leggendo Lorenzoni, l’impressione che egli lamenti la cecità dei contadini, i quali non comprendevano l’ideale vita rustica.

 

 

“Che cosa volevano le masse? Terra, terra. Tutti la volevano, specialmente i più poveri. Or quando si è in molti a dividersi una torta ristretta, ne tocca ad ognuno un piccolo pezzetto. Ecco la caratteristica fondamentale delle quotizzazioni dei latifondi attraverso le cooperative, nel dopo guerra: ripartire la terra fra il maggior numero di persone. E quando in qualche comune – come a Caltagirone, ad esempio – ci fosse stato un partito che, ponendo in primo luogo l’esigenza tecnico – economica, volesse una colonizzazione razionale con unità organiche di 10-12 ettari, ed un altro che prometteva a tutti un po’ di terra, sia pure un ettaro o due o tre al massimo per ciascuno, quest’ultimo invariabilmente aveva partita vinta sul primo. Invano le cattedre ambulanti di agricoltura si affannavano a dimostrare che era assurdo dividere le terre in così piccoli appezzamenti e che per colonizzare bisognava, se mai, formare unità di 10-15 ettari. La popolazione si ribellava a questi concetti” (pp. 237-38).

 

 

Lorenzoni ricorda una visita a Seui, nella Barbagia meridionale sarda: “Per recarmi dal paese al demanio comunale che si voleva dividere dovetti percorrere otto chilometri in automobile e due ore a cavallo traverso una landa montuosa cespugliata semidesertica, solo qua e là coperta di seminativi o di pascoli. E non giunsi che alla metà della vasta estensione. I terreni migliori erano distanti altre due ore e giacevano in fondo ad una valle malarica ed abbandonata. Tali terreni si voleva venissero divisi in piccoli lotti agli abitanti di Seui!” (p. 238). L’indignazione di Lorenzoni dinnanzi alla pretesa tecnicamente ed economicamente irrazionale è logica; ma il desiderio dei contadini di partecipare ugualmente e tutti alla proprietà della terra occupata colla violenza o quotizzata legalmente è ugualmente logico. Se quella terra non spetta più all’antico “signore”, se gliela si può togliere senza pagarla o pagandola a prezzo minore di quello corrente, perché del vantaggio debbono fruire solo alcuni privilegiati e non tutti? Se si vuole che il contadino riconosca, nell’intimo della sua coscienza, essere “giusto” che la terra sia acquistata dal vicino e non da lui, fa d’uopo che la terra sia venduta al più alto offerente e che egli possa dire a se stesso: “non la volli perché era troppo cara”. La conquista del milione di ettari compiuta col sudato sacrificio di cinque o sei miliardi di lire fu conquista sacra e feconda, perché fatta da chi possedeva il danaro sonante per pagarla.

 

 

13. – Non tutti seppero conservare la terra acquistata. Nella lotta per la terra vi furono i vinti. Talvolta fu vinto il meritevole. Vidi io stesso, in quegli anni di febbre, lavorar di piccone e di badile tre giovani robusti laboriosi fratelli e guadagnar, con fatica ammiranda, giornate da 25 a 35 lire al giorno. Volevano comprare la terra ambita e faticarono e risparmiarono finché ebbero messa insieme la somma necessaria. Ma, tra la firma del compromesso e la celebrazione dell’atto pubblico, fallì la banca custode dei risparmi; ed essi dovettero spogliarsi persino della terra che già possedevano per colmare la perdita subita nel rivendere l’acquistato a prezzi nel frattempo ribassati.

 

 

Questi però sono casi isolati. La sconfitta fu quasi sempre dura necessaria sanzione di imprevidenza. Nell’altopiano lombardo, dove il 40 per cento della superficie agraria e forestale era trapassata ai contadini, accadde che talune cooperative eccitassero i contadini a comprare a credito. Se i prezzi alti fossero durati, i compratori avrebbero pagato. Poiché precipitarono, anch’essi dovettero cadere.

 

 

“Ci fu chi era entrato in possesso d’un terreno valutato 40.000 lire con un pagamento iniziale di sole 8.000 lire: situazione pazzesca anche in tempi normali. Venuta la crisi tutti costoro scomparvero. I loro terreni tornarono agli antichi proprietari o furono venduti per poco all’asta…. Nella provincia di Milano a sud dei fontanili si dovettero rivendere 625 ettari su 3.135 di nuova formazione; nella Lomellina 261 su 5.250, in altre zone della stessa provincia 337 su 2.390; in provincia di Cremona 145 su 2.021; in provincia di Brescia 800 su 4.146; ossia in totale il 17 per cento dei nuovi acquisti…. In Piemonte, nel 1933, la peggiore situazione si aveva nelle colline dell’allora provincia di Alessandria. Nel Novese e nell’Astigiano circa il 30 per cento delle nuove piccole proprietà, in generale le meno ampie, erano state rivendute e da un quarto ad un terzo delle rimanenti si trovava in condizioni talmente disagiate da far prevedere un’imminente retrocessione; nel Monferrato non molto frequenti furono i casi di totale alienazione; ma quasi il 40 per cento dei nuovi proprietari aveva rivenduto parte più o meno grande del fondo e circa metà degli altri si trovava in difficilissime condizioni…. Nel Veneto nella provincia di Udine fu dovuto rivendere dal 20 al 30 per cento della superficie novellamente acquistata; ma compratori furono quasi sempre altri coltivatori diretti. In provincia di Vicenza il Ronchi calcola ad ettari 9.200 su 29.542 la superficie rivenduta, circa il 50 per cento della quale però passò ad altri contadini, il resto a piccoli commercianti, oppure tornò agli antichi proprietari” (pp. 256-57).

 

 

Ricordo ancora talune cifre riassuntive: in provincia di Verona rivenduti 12.700 su 39.140 ettari di nuovo acquisto, ma solo 3.600 ettari a non contadini; in quella di Treviso la classe contadina perse non più di 3.000 ettari su 30.471; in quel di Bologna 165 su 3.000; a Ferrara appena 92 contadini furono costretti a rivendere 839 ettari, ossia il 7,5 per cento della nuova proprietà; a Parma 401 su 3.000 nuovi acquirenti, a Piacenza 111 su 1.000. A Ravenna la superficie rivenduta toccò i 3.048 ettari, circa il 17 per cento dello acquistato; nella Toscana 2.936 ettari su 24.104, poco più del 12 per cento; nell’Umbria 280 proprietari per 980 ettari, pari al 10 per cento dell’acquistato. L’esperienza del mezzogiorno non è diversa. Suggestivo è il modo tenuto da un vinto per conservare la proprietà del fondo acquistato.

 

 

“Un coltivatore diretto aveva acquistato, ricorrendo al credito, un poderetto nel comune di Urbino. A un dato momento, non potendo più fronteggiare il debito troppo grave, affittò il suo podere per un certo numero di anni. Il canone pagatogli per intero all’inizio dell’affittanza, per tutto il suo periodo, scontando gli interessi, servì a liquidare il suo debito. Egli poi sullo stesso podere venne per convenzione assunto come mezzadro, il che gli offerse la possibilità di vivere e di mantenere la proprietà del podere. Era dunque mezzadro di un suo affittuario” (p. 258).

 

 

In complesso nell’Italia settentrionale, ove le cadute furono più numerose, circa il 30 per cento, qui più lì meno, dei nuovi piccoli proprietari dovette abbandonare in tutto o in parte le posizioni raggiunte; nell’Italia centrale e meridionale circa il 10 per cento, nella Sicilia un po’ di più e nella Sicilia nessuno.

 

 

“Ma non tutti coloro che dovettero vendere possono considerarsi vittime della crisi e dell’assestamento monetario. Anche in tempi normali alcuni sarebbero caduti. Vi è sempre chi si dipinge le cose più facili di quello che sono; e l’esperienza lo punisce della sua presunzione. Non è cosa agevole diventare proprietario; e forse lo è ancor meno mantenersi tale; specialmente se la proprietà è piccola e manchino riserve, od all’inverso se la proprietà è troppo grande per le proprie forze. Altri si ingannò sulla fertilità presunta del terreno e lo pagò troppo. Altri ancora fu colpito da sventure famigliari: malattie, morti ecc. o da disastri naturali: la siccità, la brina ecc. La gelata del 1929, che colpì specialmente l’Emilia, costrinse molti a disfarsi della terra acquistata e non ancora per intero pagata. Altri fu vittima di fallimenti di banche, non a lui imputabili; altri della propria insufficiente capacità tecnica, come fu il caso non infrequente di artigiani od operai industriali, improvvisatisi agricoltori o di montanari trasportatisi in un ambiente agrario loro totalmente nuovo. Altri ancora soccombette perché gli mancò la forza di restringersi nelle spese personali; altri infine perché nel momento decisivo non trovò una mano amica che gli porgesse aiuto” (p. 273).

 

 

Al posto dei vinti subentrarono per lo più, forse per due terzi, altri contadini, che avevano in serbo un gruzzolo, insufficiente a comprar terra a prezzi elevati; ma bastante per comprarla a prezzi bassi. Il rimanente fu comprato, se vicino alle città, da liberi professionisti o da industriali o da banchieri o commercianti per costruzioni o ville di piacevole soggiorno o impiegarvi risparmi, mentre le terre più lontane ritornarono agli antichi proprietari o passarono ad arrotondare proprietà più vaste di confinanti.

 

 

14. – Non pochi di coloro i quali avevano errato nel comprare o nel comprar troppo, riuscirono però a salvarsi. Non assunsero più famigli in aiuto alle proprie braccia. Fecero tutto da sé, crescendo la fatica. Quando il maggior lavoro non bastò, ridussero i consumi: “Invece di pane bianco si mangiò pane di segale o di orzo o di castagne o polenta o patate, si abolirono la carne o il vino o tutti e due. Il companatico fu di cipolle, di fichi d’India, di fave, di erbe raccolte per i campi, ecc.

 

 

Un contadino della pianura trevigiana, che aveva acquistato un fondo di tre o quattro ettari e lo difendeva a corpo perduto, mi diceva: “Non mangio più pane, ma solo polenta e insalata. Non prendo più il caffè, ma soltanto latte, che non ha bisogno di zucchero. Abbiamo abolito la carne e il vino, non fumo più. Di divertimenti non se ne parla, e vedrò se riuscirò così a cavarmela”. In Calabria mi riferivano (1936): “da lungo tempo non mangiamo più pane di frumento ma di orzo o di farina di castagne; oppure fave”. Lo stesso in Sicilia nel 1933; non come regola generale ma per superare mediante queste privazioni il momento difficile che aveva colpito singole famiglie” (p. 272).

 

 

Costoro meritavano di vincere, insieme con quegli altri i quali avevano comperato col risparmio proprio o ricorrendo con prudenza al credito.

 

 

Lorenzoni analizza le ragioni del successo. Primissime e decisive le qualità personali. Nella lotta continua, ora per ora, anno per anno, fra l’uomo e le forze amiche od avverse della natura, vince “chi ha il braccio più saldo e l’occhio più esperto, chi sa durare nella fatica e contentarsi di poco, e non lasciarsi illudere dalla prosperità, o abbattere dall’avversità. Un contadino dei dintorni di Benevento, che dal nulla si era fatto un bel podere di 8 – 10 ettari e che già altra volta ho citato, mi diceva : “Guai se il contadino dimentica che ai sette anni grassi seguono sempre i sette anni magri. Io ho resistito alla crisi, perché quando la gallina costava 14 lire non la mangiavo, perché avrei mangiato 14 lire; e perché quando gli altri andavano al caffè, io lavoravo, e tutto quello che guadagnavo lo impiegavo a comperare nuova terra e a coltivarla meglio. La terra non tradisce chi l’ama e le è fedele. Essa è sicura pagatrice”” (p. 261).

 

 

Contadino, capace di acquistare e di conservare la terra, non è sinonimo di coltivatore della terra: “Contadino vero non è il bracciante che lavora precariamente la terra sotto il comando e la direzione altrui, ora qui ora lì, nelle operazioni più faticose, ma anche più semplici; che non ha nessuna responsabilità e nessuna esperienza degli affari; che non ha sposato insomma la terra e le sue sorti. Contadino egli può diventare ma dopo lungo tirocinio” (p. 261).

 

 

L’osservazione di Lorenzoni è esatta, quando si riconosca che anche i braccianti possono “diventare” contadini veri. Nelle regioni dove la costituzione sociale agraria è solida, la coesistenza di proprietà grandi, medie e piccole è la migliore delle scuole. Il giovane comincia come servitore di campagna, salariato nelle proprietà maggiori; poi col risparmio, acquista carro, attrezzi, buoi e mobili di casa, prende moglie e si fa mezzadro o fittaiolo. Col tempo, se ha prosperato potrà diventare proprietario. Spesso, anche se acquista qualche terreno o forse anche un fondo autonomo continua a star come mezzadro nel fondo antico. Lorenzoni che osserva il fatto nelle Marche, lo dice “curioso” e lo spiega sia col desiderio di “godere dei vantaggi insiti alla mezzadria”, che diventano più tangibili, quanto maggiore è la proprietà del mezzadro, sia con motivi psicologici e cioè con l’amore del contadino a questa forma di contratto basata sopra un’associazione fra padrone e mezzadro che, nelle Marche, è anche comproprietario del bestiame. Vivo in una regione di mezzadria, dove i mezzadri, senza far tanti ragionamenti, neppur pensano di andare a stare sul terreno acquistato, quando questo dà ad essi reddito minore del fondo mezzadrile. Si acquista terra come riserva per la vecchiaia, per i figli in soprannumero, come nucleo per la formazione graduale di una proprietà autonoma. Questa è solida se e quanto più vien su adagio.

 

 

15. – Fattore essenziale di successo è la donna. “Accanto al capo, anzi tutt’uno con esso, in una famiglia ben ordinata, sta la sua moglie, la massaia, la quale, mentre l’uomo presiede ai lavori ed al buon ordine esterno, pensa alla casa e spesso lavora anche nei campi. Dalle sue virtù di lavoro e di risparmio, dal suo prestigio, dal suo tatto dipende più che metà del buon andamento della casa e dell’azienda. O non v’è un proverbio tedesco che dice che: “la donna può portare via nel suo grembiule più roba dalla casa di quanto il suo uomo possa farvi entrare coi carri?”” (p. 263).

 

 

“In un paese dell’Irpinia visitai parecchi poderi di formazione post-bellica fondati da ex-emigranti, tutta brava gente; ma l’uno di questi aveva (fatto rarissimo) una donna ubbriacona. La sua casa era piena di lezzo e ripugnante; e l’azienda mezzo in rovina.

 

 

In un comune della Sicilia, visitando due case vicine, appartenenti a due “burgisi”, trovai che nell’una regnava il più perfetto ordine e da ogni angolo traspariva un certo benessere, mentre nell’altra dominavano disordine, incuria e miseria. “Come si vede” dissi io al mio compagno “che questo dispone di assai meno terra del primo!”. “Tutto al contrario” egli mi replicò: “il primo ha in affitto tre salme, il secondo sei. Ma il primo ha una donna bravissima, qualifica che non andrebbe certamente attribuita alla seconda”.

 

 

Nei dintorni di Roma, a destra ed a sinistra di uno stesso stradone stavano due poderi colonizzati nel medesimo anno (1921) su terreno di identica qualità e press’a poco della stessa estensione (ett. 5). L’uno era fiorentissimo, coperto di fruttiferi e di ortaggi, con un pozzo scavato dal neo-proprietario che dava acqua abbondante. La famiglia era numerosa ed attorno al padre ex-combattente si raccoglievano i due figli sposati con lui conviventi. L’altro era squallido e misero. La ragione? Il proprietario di quest’ultimo aveva perduto la moglie, non aveva prole, lo aveva affittato ad un nipote scapolo che non s’intendeva di agricoltura e non amava la terra” (pp. 263-64).

 

 

Contadino proprietario non è l’individuo. È la famiglia provvista di capo. Il quale può essere uomo o donna.

 

 

“In una colonia della Sabina che avevo visitato quattro anni fa vi era una famiglia particolarmente bene organizzata. Ritornatovi di recente, il quadro non era più il medesimo e me ne resi ragione, quando seppi che la madre, sotto la quale convivevano tre famiglie consanguinee, era da più di un anno morta” (p. 264).

 

 

Ricordo anch’io una donna dei miei paesi, madre di quattro figli, che la grande guerra gli aveva portato via, mentre la morte l’aveva resa vedova. Assunse qualche famiglio, lavorò accanitamente, risparmiò, acquistò nuova terra; e quando tre figli ritornarono alla terra – il quarto si era onorevolmente collocato in città – poterono trovar pronte tre case, una per ognuno di essi. Ma occorre che un capo ci sia e che al suo comando gli altri ubbidiscano.

 

 

“Nella famiglia agricola ognuno, maschio o femmina, giovane o vecchio ha necessariamente il suo posto, le sue mansioni ed i suoi doveri. Essa è paragonabile ad una ciurma, dalle azioni combinate della quale dipende se la nave cammini od affondi. In una tale famiglia il centro dell’interesse e della felicità non sta né può stare nel benessere di questo o quest’altro componente, ma in quello della famiglia in totale, nel “focolare domestico” al quale sapientemente gli antichi facevano presiedere Hestia. Così molti problemi che tormentano le famiglie borghesi ivi non esistono. E la sera, dopo il duro lavoro compiuto in comune, si seggono tutti in buona armonia al desco famigliare.

 

 

…. A tener insieme tale mondo occorrono però facoltà non comuni, quali si possono formare solo con una tradizione di lunghi secoli, traverso una concezione quasi a dire religiosa ed insieme realistica della vita, che è propria di tutti i rurali. Ma occorre che nei capi tali qualità siano particolarmente vive, perché l’esempio è tutto. Sull’altopiano a nord ovest di Sciacca incontrai nell’estate del 1933 un eccellente contadino, medio proprietario coltivatore, che viveva nel mezzo di un suo bel podere. Seduti all’ombra presso la porta della sua casa spaziosa (di tra gli olivi ed i festoni delle viti, ombreggianti di verde l’oro delle messi, si vedeva tremolar l’azzurro mare africano) ragionammo a lungo. Chiesi fra il resto all’ospite se fosse contento dei suoi figliuoli che avevo visto preparare con lui il terreno dell’aia, per battervi il grano e come avesse fatto ad educarli. Mi rispose: “Signore, io sono contento dei miei figliuoli e li ho educati così come mio padre educò me. E poiché io fui obbediente al padre anche i figli miei furono e sono obbedienti a me. Chi obbedisce sarà obbedito. Mi sono anche ricordato che quando un padre ha vizi non può rinfacciarli ai figlioli. La sapete la favola dei granchi di Meli?” “No”. “Un granchio grande camminava avanti ai suoi piccoli, poi si voltò e li vide camminare tutti storti. – Perché camminate così? – li rimproverò il granchio. Ma padre, noi facciamo come voi fate -“. Ma perché le cose camminino bene è necessario che il capo della casa possa dignitosamente ritirarsi senza dipendere dai figli quando le sue forze siano divenute meno. In Dalmazia si cita questo proverbio popolare: “Se il padre dà denaro al figlio ridono in due; se il figlio dà danari al padre piangono in due”. Il costume tedesco dell’”Altenteil” (che già i Greci di Omero usavano) sembrami perciò ottimo” (pp. 264-65).

 

 

Guai infine se la terra è data, senza uopo di sacrificio, a chi non la merita! “La terra insomma rimane in ultima analisi a chi se la merita, a chi ha sopportato per essa i maggiori sacrifici, a chi l’ha conquistata. L’esempio dei coloni della Montesca, ai quali il barone Franchetti aveva regalato la terra e condonati i debiti, e dei quali ben pochi tuttavia ne rimasero in possesso, è oltremodo istruttivo. E non lo è meno il caso di quotizzazioni a sfondo politico di demani comunali o di latifondi, assegnati ad una moltitudine di gente non tutta preparata a riceverli, o le assegnazioni per poco prezzo di terre a mutilati fatte con scarsa discriminazione. Ciò che l’uomo ottiene senza pena, lo apprezza poco e lo difende meno. “Ciò che ho raggiunto facilmente mi ripugna, solo ciò che mi sono conquistato con la forza mi dà gioia””.

 

 

Altri fattori di successo sono ricordati dal Lorenzoni: il numero dei famigliari, la qualità del terreno, la cultura propizia, le stagioni favorevoli, l’andamento dei prezzi, l’organizzazione dei mercati e del credito ecc. ecc. Ma son fattori esteriori, che i probi e laboriosi dominano, ma dai quali sono sopraffatti gli oziosi ed imprevidenti.

 

 

16. – Fin qui la storia scritta da Lorenzoni di un movimento, il quale lascierà traccie profonde nella struttura economica e sociale del nostro paese. Il quadro di Lorenzoni è assai più ampio, più ricco di sfumature, più nutrito di particolari di quanto non appaia dal riassunto; e questo perciò non lo sostituisce. Forse anche i fatti da me scelti non sono quelli o non sono tutti quelli che sarebbero stati scelti da lui.

 

 

Dovrei, per concludere il riassunto, dire qualcosa della parte terza. Dopo la esposizione dei fatti (parte prima) e la analisi di essi (parte seconda) le proposte (parte terza). Ma, poiché qui non parla più lo storico, ma l’economista sociologo preferisco non avventurarmi su un terreno che mi costringerebbe a discutere tesi di politica economica, materia litigiosa e contestabile. Lorenzoni è innamorato della proprietà autonoma, del “maso chiuso” alto – atesino e guarda con sospetto alla proprietà particellare ed allo spezzettamento della terra. Ad attuare l’ideale del quale è innamorato, egli in verità chiede poco alla coazione legislativa, e sovratutto auspica il diffondersi spontaneo di costumi successori, che ha riscontrato fecondi di compattezza famigliare, di progresso agricolo e di stabilità sociale.

 

 

Forse è bene, in questa rivista dedicata alla storia, analizzare più che il merito delle sue conclusioni, il loro fondamento ideale. Se dovessi riassumere in una frase il suo ideale di società agricola direi: Lorenzoni vorrebbe che il contadino da “cafone” si trasformasse in “Bauer”. Ambi i vocaboli hanno un contenuto di nobiltà.

 

 

“Cafone vuol realmente dire contadino. In una mia visita a Marcianise entrai nella casa di un buon agricoltore, il cui figlio sposato mi ricevette cordialmente e mi mostrò l’azienda, in assenza del padre. Volevo chiedergli se anch’egli facesse il contadino, ma nella fretta gli domandai: “Tu che fai?” “Il cafone, signore,” mi rispose con semplice dignità” (p. 425).

 

 

Ma al “cafone” meridionale ed al “particolare” settentrionale troppe volte il lavoro prestato sul proprio fondo non basta a vivere; troppe volte essi debbono integrare il prodotto della terra posseduta col salario guadagnato su terra altrui. Se il padre viveva sul suo, i tre o quattro figli, quando si dividono, perdono l’indipendenza. La esigenza della uguaglianza nella divisione delle terre comunali o baronali o paterne, ecco, agli occhi di Lorenzoni, il gran nemico del perfetto stato sociale agricolo. Egli registra con dolore l’opinione unanime dei contadini italiani in prò dell’eguaglianza assoluta ereditaria: “Presso Mentana una vedova ancor robusta e forte da me interrogata a quale dei suoi dieci figli avrebbe lasciato il podere acquistato nel dopoguerra dal defunto marito ex-combattente “Ma a tutti un pezzo eguale, signore, altrimenti correrebbe il coltello”” (p. 368). L’unanimità del contadino italiano fa meditare Lorenzoni, il quale ha dinnanzi agli occhi l’ideale del “maso chiuso” alto atesino, del podere sufficiente a far vivere la famiglia, non divisibile, trasmissibile ad uno solo dei figli, signore della casa paterna, quasi patriarca obbligato ad aiutare e sorreggere i cadetti.

 

 

“Col sistema del maso chiuso almeno uno dei figli sta bene, sta bene la classe contadina come tale, la quale ha una sua propria dignità, un suo proprio rango nello stato: il contadino proprietario non è un “cafone”, ma un, se pur minuscolo, re di Yvetot. I fratelli cadetti trovano appoggio in lui; nella solidarietà e nel buon nome della famiglia e della stirpe. Con tali precedenti infatti, coll’esperienza acquistata, con l’educazione ricevuta, e con il piccolo capitale loro dovuto dall’assuntore del fondo possono trovare occupazione in altre attività economiche o in impieghi pubblici e privati…. Fra questo sistema aristocratico che favorisce la famiglia più che i singoli individui e l’altro democratico, che tratta tutti alla stessa stregua e periodicamente li condanna ad un basso tenor di vita od alla proletarizzazione o a lavoro e stenti successivi, preferiamo il primo” (p. 377).

 

 

L’ideale del proprietario contadino che basta a sé, che, erede di una tradizione, la conserva attraverso alle generazioni sul podere, legato al nome della famiglia e rifugio a giovani ed a vecchi, ha dato colore e calore al libro di Lorenzoni. Egli riconosce che nel sistema italiano della libera commerciabilità e divisibilità l’offerta dei terreni è massima e che questa è certamente la ragione principale per cui tra noi fu possibile quella formazione “spontanea” di piccola proprietà coltivatrice rivelata dalla sua inchiesta la quale mancò in Germania, terra d’adozione del “Bauer”, del proprietario coltivatore autonomo, sovrano sulla sua terra, a cui egli basta e che gli basta. Ma quella commerciabilità e quella divisibilità, subito aggiunge, sono anche la causa principale dell’eccessivo frazionamento e della eccessiva dispersione dei fondi; e qui è il danno massimo, il pericolo dei pericoli che Lorenzoni e i suoi collaboratori vogliono combattere.

 

 

17. – Ogni qual volta prendo in mano i volumi di Le Play e ne rileggo le magnifiche analisi dei diversi tipi di società modello, stabili, inquiete e disorganizzate e la sua dimostrazione del vincolo necessario fra la stabilità sociale e la persistenza delle famiglie – i Bauern tedeschi ed i contadini proprietari dei masi chiusi alto atesini sono l’incarnazione della famiglia ceppo leplayana -; ogni qualvolta penso alla distruzione che fatalmente attende ogni edificio agrario costrutto dal lavoro e dalla rinuncia della generazione fondatrice, mi sento tratto a dire con Le Play e con Lorenzoni: qui sta, nella conservazione e nell’incremento del podere tecnicamente ed economicamente perfetto, la salvezza di una solida società agricola. Ma poi mi accorgo che quello è un sogno ideale e, facendo storia debbo registrare[5] esperienze diverse dal sogno. Debbo constatare che l’ideale del podere tecnicamente ed economicamente perfetto, dell’unità agraria tramandata di generazione in generazione nella medesima famiglia, del contadino re nella sua casa e nel suo fondo, uguale ai potenti della terra, ai signori della guerra, ai re della finanza, degno di sedere, cappello in testa, nei consigli nei quali, all’ombra della quercia secolare, gli “anziani” consultano col re intorno alle cose di stato, che questo ideale fiero ed alto è inconsapevolmente e profondamente radicato nel cuore della maggior parte forse degli italiani. Non di tutti; ché altri sono nati a prestar servizio altrui, ad essere impiegati, salariati, commessi, pedissequi di chi è atto a comandarli, sulla terra, nelle fabbriche, nei negozi, negli uffici. Costoro mormorano ed invidiano chi li comanda; ma odiano ancor più il rischio e, se risparmian qualcosa, schivano le cure, che dicono noie, degli investimenti diretti, od acquistano carte a reddito fisso. Costoro rendono servizi preziosi; ma da essi altro non si può attendere se non ubbidienza. Qualunque società morrebbe se fosse composta solo di gente ubbidiente. Fortunatamente i più degli italiani sanno o sentono di non essere nati a servire altrui. Per lo più “sentono”, anche se non sanno, quando valga l’indipendenza a rendere la vita degna di essere vissuta. Lorenzoni vede che l’anelito dell’indipendenza sta al fondo del moto per la conquista della terra: “Era la proprietà, anzitutto, che essi volevano come datrice di indipendenza e di sicurezza più che di maggior reddito. E l’ebbero. È dubbio se un piccolo proprietario, sia pure autonomo, guadagni come un buono e tipico mezzadro. In una mia recente visita a Campi Bisenzio sentii uno di tali nuovi piccoli proprietari rimpiangere l’epoca in cui era mezzadro su quel medesimo podere di 7 ettari che aveva acquistato e pagato. “Ero meno gravato di imposte, potevo maggiormente fruire dell’assistenza sociale; e se l’annata era cattiva il padrone mi dava dei soccorsi”. Certo, nove volte su dieci, il piccolo proprietario deve lavorare di più; ma esso si sente libero e indipendente; e ciò vale un prolungamento della giornata di lavoro” (p. 249).

 

 

Additando ai contadini desiderosi di indipendenza e di sicurezza un ideale altissimo, ma ai più irraggiungibile, di podere famigliare, posto al di là della volontà e della disponibilità del proprietario e proponendo di incoraggiare la formazione di questo tipo di proprietà piuttostoché di quello particellare, egli si pone di fatto contro il moto spontaneo delle masse contadine. Non dò qui, in sede di storia del passato, alcun giudizio. So che stanno di fronte due tendenze: l’una di coloro i quali hanno visto una meta – il contadino re nel maso chiuso – e, reputandola preferibile ad altre, vogliono che lo stato ne incoraggi la formazione e la persistenza, ad occasione della colonizzazione delle terre nuove, dei trapassi ereditari, degli ammontamenti delle minime incoltivabili particelle di terreno risultanti dalla mania ugualitaria degli eredi. L’altra è di coloro i quali credono che la vita vera non sta nel “podere” materia inerte, ma nell’”uomo” che lo costruisce e lo conserva; e, riservando allo stato la ragione di intervenire quando esso stesso sulle terre redente crea il podere o quando la pazzia degli uomini ha frantumato la terra oltre ogni limite della possibilità tecnica di lavorarla, si inchinano alla volontà dei 375.000 contadini già proprietari, i quali tra il 1920 e il 1930 hanno acquistato brandelli di terra più o meno ampi per arrotondare e crescere la proprietà antica e dei 125.000 i quali per la prima volta sono diventati signori di un pezzo di terra. Non tutti hanno conquistato l’autonomia, l’autosufficienza compiuta? Parecchi o molti dei proprietari esistenti debbono ancora porsi a servizio altrui? E che importa, se essi hanno cominciato a soddisfare il bisogno, forse solo istintivo e non ragionato, di essere indipendenti, di sentirsi qualcosa, di dire “questo terreno è mio, su questo terreno io edificherò od amplierò la mia casa?”. Il podere contadino non nasce, nove volte su dieci, bell’e fatto come Minerva dalla testa di Giove. È costruito, a “pezza” a “pezza”, a frusto a frusto, da chi ama la terra e la vuole e si sacrifica per averla. Sì, è vero, talvolta siamo portati a meditare dinnanzi allo spettacolo di gente sordida, la quale conduce vita grama e la infligge ai figli, perché tutta intesa a crescere il gruzzolo dei soldi necessari ad acquistare nuova terra. Val la pena, siamo indotti a ripetere con Lorenzoni, che ad ogni generazione i figli siano costretti a spingere “come Sisifo, se avranno salde reni, il sasso in alto”; donde, terminata con la loro fatica la vita, il sasso rotolerà di nuovo in basso, in attesa che altri lo respinga in alto e così via senza fine (p. 375)? Sì, val la pena, perché noi non possiamo sostituire la nostra gioia alla gioia degli altri; perché quel contadino, il quale a noi pare sordidamente volto a tiranneggiare sé ed i famigliari per la conquista della terra, è contento di sé e della sua vita. Possiamo tentare di educarlo a sentire che la vita è più varia e più ricca di quella da lui condotta e che, forse, una maggior dignità di vita anche materiale non nuocerebbe alla consecuzione del suo ideale. Ma non possiamo sostituire al suo il nostro ideale, anzi dobbiamo riconoscere che una vita è bene spesa, anche se l’involucro di essa sia apparentemente sordido, quando essa è consacrata a procacciare ai figli quella stessa indipendenza che i padri avevano ereditato dagli avi.

 

 

18. – Perché, inoltre, chiudere l’idea dell’indipendenza entro le strettoie dei podere bastevole al mantenimento della famiglia? Ho l’impressione che gli economisti agrari i quali, al seguito di Lorenzoni, guardano con sospetto alla proprietà particellare, non si avveggano di essere fuor dei loro tempo. Quando vedo le particelle minime di terra, fornite di case o casette o capanne o soltanto di frasche, affoltirsi numerose a guisa di cintura all’uscir fuori dell’abitato dei comuni rurali e delle stesse città nostre grandi e piccole, quando lo spettacolo si rinnova, con intensità e profondità diverse, nel settentrione come nel mezzogiorno d’Italia, quando vedo i poderi ingrandirsi ed in talune regioni, trasformarsi in latifondi a mano a mano che noi ci allontaniamo da quella verde cintura alberata, io debbo riconoscere che la proprietà particellare non è un artificio non è un danno economico e sociale, anzi risponde ad un bisogno profondo degli uomini.

 

 

Sentono quel bisogno i giornalieri di campagna, i quali non sempre possono collocarsi a giornata e nel tempo disponibile desiderano possedere un terreno che fornisca alla famiglia luogo per l’orto, per l’erba da dare alla vacca od alla pecora, spazio e pastura a galline e conigli. Lo sentono gli operai e gli artigiani del borgo e della città, che sperano col tempo di costruir e costruiscono essi stessi la casetta, con l’orto, il pollaio, il frutteto dove essi trascorreranno e faticheranno il pomeriggio del sabato o la domenica.

 

 

Lo sentono i minuti negozianti, e gli impiegati, a cui il lavoro materiale nell’orto e nel frutteto è ozio piacevole, fecondo di piccole preziose risorse per il bilancio famigliare.

 

 

Lo sentono i cittadini, ai quali la stupida mania delle insulse corse domenicali in automobile non abbia tolto il senso del piacere di camminare a piedi e della gioia del riposo e della contemplazione della natura. Quanto più la popolazione cresce, tanto più cresce l’importanza del compito proprio della proprietà particellare; e non è compito inventato da noi che scriviamo intorno ai bisogni altrui, ma sentito da chi spende e fatica per soddisfare una propria esigenza. Una voce viene su, ammonitrice, dai campi e dice: “noi ben sappiamo quanto sia dura la fatica del lavorar di più e consumar di meno per conquistare un breve tratto di terreno; noi ben sappiamo che la terra acquistata non basterà ai nostri bisogni, che essa darà forse una remunerazione al lavoro che noi vi applicheremo ma non un interesse al capitale impiegato nel suo acquisto, che per cagion di essa noi saremo assoggettati ad imposte e perderemo il diritto a tutto o parte dei sussidi di disoccupazione e di assistenza a cui potevamo pretendere quando eravamo meri operai. Questo e ben altro sappiamo; ma ciononostante abbiamo voluto acquistare questo primo brandello di terra, perché sentiamo, entro il limite del suo possesso e del suo frutto, di non dipendere da altri, di essere anche noi signori e re in terra nostra, perché speriamo di potere in avvenire aggiungere a questo primo un secondo ed un terzo brandello crescendo a mano a mano la nostra indipendenza. Continueremo, forse, a prestare servizio altrui contro salario; ma un po’ per volta vi saremo sempre meno costretti dalla necessità. Serviremo se ci converrà servire.

 

 

L’essere noi stati capaci di comprar terra dimostrerà a tutti che noi non apparteniamo alla specie degli indolenti e degli imprevidenti; e perciò solo saremo meglio apprezzati da chi avrà bisogno dell’opera nostra. Si avrà fiducia in noi, nella nostra volontà e nella nostra attitudine a lavorare; e poiché potremo discutere ed aspettare, l’opera nostra sarà meglio valutata”.

 

 

Dinnanzi alla voce che viene dai contadini, voce confusamente sentita e non espressa, l’osservatore ha il dovere di inchinarsi. Se operai artigiani e contadini valutano tanto alto il soddisfacimento del bisogno dell’indipendenza, perché noi dobbiamo persuaderli che essi sono in inganno, che i loro conti sono sbagliati e che meglio avrebbero operato se fossero rimasti al soldo altrui?

 

 

19. – Hanno pagato troppo cara la terra? Non la pagarono mai tanto, quanto i cittadini fecero di certi pezzi di carta, ridotti, presto o tardi, in mano loro a valor zero. Pagò forse troppo quel contadino della provincia d’Aquila di cui dissi sopra, il quale offerse 40.000 lire per due coppe (1.244 mq.) di terreno vicino all’abitato? Prezzi consimili vennero pagati da uomini espertissimi in comuni rurali del Piemonte per terreni destinati ad orto e giardino e nessuno pensò che essi avessero commesso errore di giudizio. Quando, astrazion fatta dai prezzi di terreni che sono anche aree fabbricabili, e dai prezzi dei terreni a fiori della Liguria, ad orti a canapa della Campania, ad agrumeti della Conca d’oro, io vedo i relatori della magnifica inchiesta diretta da Lorenzoni registrare gli aumenti accaduti nei prezzi dei terreni fra il 1918 ed il 1926 come se si trattasse di fatto singolare, come se, nel passaggio, suppongasi, da 4.000 a 24.000 lire l’ettaro qualche torto fosse stato fatto ai contadini ultimi acquirenti, io mi chiedo: chi fu il maltrattato? Fa d’uopo astrarre dalle variazioni temporanee, dagli errori commessi da chi acquistò a credito e non poté aspettare la ripresa. Se si bada al risultato ultimo, forseché non era logico che i prezzi salissero da 4.000 a 24.000 lire l’ettaro, quando la lira si svalutava legalmente (R. D. 5 ottobre 1936) nel rapporto da 100 a 16? Il contadino, il quale nel dopo guerra acquistò e tenne a 24.000, pagò forse un centesimo di più di quegli il quale aveva nell’anteguerra pagato lo stesso terreno 4.000? Se egli riuscì ad acquistare a sottoprezzo, a 18 o 15 o 12 od 8 mila lire, il prezzo di mercato era o tendeva pure sempre a 24.000 lire; e la differenza risparmiata fu il guiderdone dovuto all’opera sua antiveggente e meritoria di speculatore in moneta e terre. Fu danneggiato chi vendette a 4.000 lire quel terreno, che egli, aspettando, poteva vendere a 24.000 lire, e poi si querelò contro le bande Bonnot e del zoppo e le mano nere che si impadronirono dei suoi terreni nel momento della paura e le rivendettero a prezzi quintuplicati o decuplicati? Duole vedere ceti antichi spogliarsi delle proprie ricchezze a prò di gente nuova: ma perché ragionare sul senno di poi? Quando le vendettero, i vecchi signori da anni, forse da generazioni, più non si occupavano delle loro terre, se non per incassar fitti ed accendere ipoteche. Erano un frutto secco, destinato a cadere al primo urto. L’urto venne ed ebbe nome di svalutazione monetaria dovuta alla guerra. I vecchi proprietari non ebbero l’intuito del mondo che mutava attorno ad essi; stolidamente immaginarono che l’unità monetaria dovesse rimanere invariata nei secoli, come per miracolo era rimasta nell’età dell’oro corsa dal 1815 al 1914, e credettero di essere accorti vendendo a gente che in fondo all’animo reputavano pazza, contadini e speculatori in terreni, i quali pagavano 5 o 6 mila lire quell’ettaro che ancor ieri si stentava a vendere a 4.000 lire. Accadde poi che savi furono i contadini e gli speculatori; ed allora i vecchi proprietari dissero di essere stati ingannati ed i relatori delle inchieste registrarono le querele, quasi fossero moralmente fondate. Di nuovo, non dò giudizio morale. Affermo che storicamente, la classe scomparsa non meritava per lo più di seguitare a tenere la terra e che le due classi di speculatori e di contadini, che ne presero il posto, furono strumento di avanzamento economico e sociale.

 

 

20. – Tre volte, dalla rivoluzione francese ad oggi, nel Piemonte che conosco vi fu un gran tramestio di terre: la prima volta tra il 1800 ed il 1820; la seconda tra il 60 e l’80 e la terza nel decennio 1920 -30. La prima volta furono travolti nobili ed ecclesiastici ed il posto fu preso da “signori” e da contadini; signori, i primi, per lo più di nuova estrazione ed intinti, si direbbe oggi nelle relazioni di inchiesta, di pece speculatrice; contadini particellari o fittabili, i secondi. I “signori” furono il nerbo del medio ceto che poi, nell’epoca del risorgimento, fornì allo stato ed al paese, ufficiali professionisti impiegati e contribuì a costrurre la macchina statale italiana. La seconda volta, andarono dispersi i resti del patrimonio ecclesiastico e quello di parecchi dei nuovi ricchi del tempo napoleonico. Strumento del trapasso, furono, tra il 60 e l’80, mercanti ebrei da poco emancipati, i quali non tennero la terra ma la trasferirono tutta ai contadini. Socialmente, l’opera dei mercanti ebrei fu più benefica di quella dei loro predecessori cristiani, perché, con differenze lievi – né la stabilità del metro monetario avrebbe consentito voli ardimentosi – e con agevolezze nei pagamenti a miti saggi di interesse, agevolarono, assai più dei cristiani, il passaggio della terra ai contadini. Nel decennio recente, 1920-30, furono finalmente eliminati dalla proprietà della terra non pochi dei discendenti dei “signori”, che nel 1800-820 avevano acquistato i beni dei nobili e del clero e non possedevano più le qualità che ai loro avi avevano consentito di conservarla per un secolo. Intermediari furono per lo più, accanto a taluna reputata casa di mercanti ebrei, uomini di nuovissima estrazione, cattolici di religione. Se non intervengano sconvolgimenti sociali profondi, i figli ingentiliti di codesti intermediari saranno il nucleo del ceto dei nuovi “signori” che prenderanno il posto di coloro che il vento avrà disperso ai quattro angoli del paese, raminghi di città in città al servizio pubblico o privato. Parecchi ne conobbi; e poiché li vidi più intelligenti, più laboriosi, più onesti dei venditori, forse non è azzardato supporre che probabilmente era accaduta la stessa cosa tra il 1800 ed il 1820, e che i nuovi “signori” del tempo napoleonico valevan di più dei nobili e dei beneficiati ecclesiastici scomparsi allora dall’elenco dei proprietari. Se, dopo il 1930, un inquirente tra quelli i quali fornirono poi al Lorenzoni tanto vivo parlante materiale di studio fosse capitato tra quei colli ed avesse interrogato i notabili del luogo: sindaco podestà segretario medico farmacista parroco, avrebbe sentito parlare di “bande” e di “mano nere” e di “combriccole” di speculatori, che muovevano all’assalto della terra arricchendo a danno dei “signori” che vendevano, e dei “contadini”, i quali compravano. Ma chi conosceva gli uni e gli altri vide uno di quei “signori”, il quale aveva rifiutato di vendere alla “mano nera” le terre al prezzo di offerta di 25.000 l’ettaro e ne parlava come di pendagli da forca, lasciar cadere, durante la vana cerca di chi non intendesse strozzarlo, in abbandono le sue terre, rinunciare al reddito che da altri investimenti avrebbe nel frattempo ottenuto e decidersi finalmente dopo dieci anni a vendere quella stessa terra a 23.000 l’ettaro. Non è chiaro che la “mano nera” sapeva a chi rivendere la terra ed avrebbe tratto meritato guadagno distribuendola tra i parecchi contadini i quali anelavano ad acquistarla? Dare, quando un podere è venduto e spezzettato, ad ogni contadino il suo, quella particella che lo “quadra”, che egli desidera ardentemente da anni, ma respinge con disprezzo quando gli sia offerta, e più la spregia quanto più la desidera, è compito che solo uomini segnati da Dio a quel mestiere sono atti a condurre a buon fine. Magnifica è l’opera degli istituti pubblici nelle terre nuove, nelle contrade redente dalla malaria, o conquistate sul latifondo. Lì si può fare opera “razionale”; lì si possono costruire poderi perfetti, dalle dimensioni meglio atte a far prosperare l’unità famigliare. Ma nelle terre vecchie, nelle zone agrarie dove le famiglie agricole sono assise da secoli, dove il lavorio di frantumazione e di ricomposizione è continuo, dove non si può costruir sul vuoto, ma bisogna tener conto di legami tenacissimi con questo o quel cantone, con questo o quel colle, e di odi e di invidie ancor più tenaci, il compito di far giungere “quella” particella a “quel” proprietario che ne ha il desiderio più vivo non può essere assolto da un funzionario, pur peritissimo in economia agraria, di un pubblico istituto. Bisogna sapere chi è colui il quale ha convenienza ad acquistare “quella” particella a 25.000 l’ettaro, quando ogni altro pagherebbe al massimo 20.000 lire. Bisogna costringer colui a pagare il massimo possibile oltre il prezzo di concorrenza delle 20.000 lire e costringerlo nonostante egli ostenti indifferenza, anzi dispregio profondissimo per quella terra in particolar modo. Alla fine, colui pagherà, se non tutte le 25.000 lire, più del prezzo che sarebbe da altri pagato; e si sarà fatto il vantaggio suo, ché egli voleva proprio quella terra e sarebbe stato infelice tutta la vita se non l’avesse ottenuta, ed insieme il vantaggio della collettività, ché egli e non altri era il contadino meglio atto a far fruttare quella particella, l’acquisto di essa perfezionando il suo meglio di qualunque altro podere. Per aver soddisfatto a codeste esigenze, lucrò e talvolta lucrò assai l’intermediario speculatore; ma il lucro suo non fu ottenuto a scapito altrui. Sua era la creazione del “podere perfezionato”, del “bisogno soddisfatto”, del “massimo vantaggio collettivo”; e suo perciò il prezzo del bene ideale di perfezione agraria così creato. Nessun “signore” avrebbe saputo creare quel bene; ché il signore vuol vendere tutto in blocco e indovina un tranello nella proposta di ogni contadino. Nessuna casa “antica” e “rispettabile” di mercanti di terre è atta a “creare” nella misura richiesta ad ogni tempo nuovo di gran trapassi di terre; perché ogni tempo ha una sua psicologia che le case antiche, viventi di esperienza passata e di tradizioni rispettabili, non sempre o non in tutto interpretano. Ad ogni tempo, nel 1820, nel 1860-80 e di nuovo nel 1920-30, dovevano venir fuori gli uomini “nuovi” diversamente tratti dai ceti che prima non avevano alcun posto segnato tra la gente “bene nata”: la prima volta nel 1800-820, mezzi “signori” del terzo stato, la seconda nel 1860-80, membri della diaspora ebraica impervia alle scomuniche contro i compratori di beni ecclesiastici; la terza e per ora l’ultima volta, nel 1920-30, uomini del medio basso ceto, mercanti di borgo, piccoli professionisti ed agricoltori dalla vista lunga. Se fossero rivissuti, gli intermediari del 1800-820 o del 1860-80 avrebbero nel 1920-30 sconsigliato i contadini dal comprare, ché gli aumenti nei prezzi dei terreni sarebbero ad essi, vissuti in tempi nei quali si contrattava in napoleoni d’oro, parsi stravaganti. A dare consiglio buono bisognava venissero fuori uomini abituati dalla guerra a non credere nella stabilità delle umane cose.

 

 

Ad ogni volta, l’opinione pubblica di coloro che, inetti a fare, commentano nei caffè, nei circoli e nelle farmacie l’operato altrui, disse che gli uomini nuovi facevano parte della “banda nera”. E di bande e di mano nere si discorse poi nelle inchieste e si narrerà nelle storie. Lo storico forse ricorderà il detto di quel relatore dell’inchiesta Lorenzoni che li definì “male necessario”. Perché “male” se fu necessario e se a questa gente nuova è dovuta in parte la grande rivoluzione agraria accaduta in Italia tra il 1920 ed il 1930?



[1] Il volume è la “relazione finale” dell’”Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice formatasi nel dopoguerra” decisa nel 1928 dall’”Istituto nazionale di economia agraria” per iniziativa del Presidente Arrigo Serpieri e condotta a termine nel 1938. L’inchiesta diede luogo alla pubblicazione di 14 relazioni regionali ed alla compilazione di parecchie relazioni complementari rimaste inedite; che rimarranno documento essenziale per la storia di un momento critico della economia agraria italiana. La relazione del Lorenzoni (Roma, 1938, pp. 437) reca il sottotitolo: “L’ascesa del contadino italiano nel dopo guerra”.

[2] L’ho discusso in “La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana”, volume conclusivo della serie italiana della collezione Carnegie sulla “Storia economica e sociale della guerra italiana”. (Bari, Laterza, 1933) e specialmente nei capitoli secondo e quinto.

[3] Ripetutamente, nella relazione L. parla della classe proprietaria come della più forte, dinnanzi alla quale, se non intervenissero altre forze esteriori – legislazione, associazioni ecc. – i contadini sarebbero costretti a trarsi indietro. Trattasi di un luogo comune ereditato dai libri di storia sociale fabbricati dagli epigoni del marxismo e dai socialisti della cattedra; ma tutto il libro di L. è la dimostrazione del contrario. Vince ed è forte chi acquista e paga, non chi vende e se ne va col denaro non più suo o destinato a sfumare.

[4] Che il Lorenzoni, indulgendo alla terminologia corrente chiama “borghesi”. Ma la categoria sociale del “borghese” è per nove decimi una invenzione libresca di eretici socialisti e di economisti accademici, venuti, con talun romanziere, al loro seguito e la parola non corrisponde affatto a quella, assai più varia ed appropriata, comunemente in uso in bocca ai contadini, quando vogliono indicare chi campa di cosidetto “reddito”, od attende alle professioni liberali, o ad impieghi o ad industrie o vive in città vestendo civilmente. Cfr. sui diversi significati della parola “borghese” il mio saggio “Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra”, in “La riforma sociale” del settembre – ottobre 1928 e di nuovo in “Saggi” p. 132 e segg., dove si legge un’analisi critica del saggio di BENEDETTO CROCE, “Di un equivoco concetto storico, la borghesia”, estratto dagli “Atti della Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli”, vol. 50, 1927.

[5] Le ho registrate in “L’unità del podere e la storia catastale delle famiglie”, nel quaderno del dicembre 1938 di questa rivista (pp. 303-330), nel tempo stesso in che Lorenzoni tracciava nel medesimo quaderno (pp. 281-302) il quadre del “maso chiuso” in “Il podere famigliare nell’alto Adige da Maria Teresa ad oggi”. Su Le Play e sui fondamenti della prosperità delle nazioni vedi, ivi, dello scrivente “Il peccato originale e la teoria della classe eletta in Le PIay”, nel quaderno del giugno 1936 (pp. 85-118).

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