Opera Omnia Luigi Einaudi

I crediti fondiarii dei Banchi di emissione

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/02/1897

I crediti fondiarii dei Banchi di emissione

«La Stampa», 3 febbraio 1897

 

 

 

Le leggi bancarie sono finalmente state approvate dal Senato; né, per quanto la Camera debba tornarvi su, è credibile che vi si apporteranno modificazioni notevoli.

 

 

Esse sono destinate ad esercitare una influenza profonda sulla vita economica dell’Italia negli anni venturi. Importa perciò continuarne brevemente l’esame già iniziato. Uno degli indizi più curiosi e nel tempo stesso dolorosi della follia collettiva degli italiani in materia bancaria ci è offerto dagli Istituti di credito fondiari annessi alle Banche di emissione. Il credito fondiario ha una storia lunga ed agitata in Italia; creati collo scopo di venire in aiuto alla massima industria nostra, l’agricoltura, gli Istituti di credito fondiario hanno servito invece a favorire la febbre edilizia e la smania di grandezza che si era impadronita di tutti, speculatori, uomini politici, fabbricanti di case, progettisti, ecc. Ora da alcuni anni stiamo scontando le conseguenze dei falli commessi; e fra quelli che più acerbamente si dolgono della funesta eredità lasciata loro dalle operazioni di credito fondiario, sono i Banchi d’emissione.

 

 

Avevano sperato di accrescere gli utili da distribuire agli azionisti, o di aumentare il proprio patrimonio; ed ora si trovano davanti ad uno spaventevole baratro nel quale minacciano di scomparire per sempre. Poche cifre bastano a svelarci a qual punto sia giunto il male che rode le basi su cui si fondano i tre nostri Istituti di emissione. Il conto corrente della Banca d’Italia verso il proprio Credito fondiario si elevava in media durante il 1896 a 46 milioni di lire, quello del Banco di Napoli a 45 milioni e quello del Banco di Sicilia a 2,250,000 lire.

 

 

Nessuna speranza vi è di ricuperare le somme esposte in conto corrente; ed anzi le condizioni difficili dei crediti fondiari fanno ragionevolmente temere che la responsabilità dei Banchi non debba limitarsi alle cifre sopra accennate.

 

 

Occorre un rimedio energico: separare del tutto la azienda del Credito fondiario da quella degli Istituti di emissione; e dare a quella i mezzi adatti per condurre a termine la liquidazione degli impegni contratti. A tale scopo è necessario che i Banchi si preparino a duri sacrifici; la misura solo ne sarà diversa, giusta le proposte del ministro del Tesoro, a seconda del più o meno buono stato finanziario degli Istituti stessi. Per estinguere il conto corrente di 46 milioni verso la Banca d’Italia, questa s’impegna a svalutare di 30 milioni il proprio capitale, facendo così una rilevante confessione di perdita, allo scopo di meglio regolare la propria posizione ed assidere i suoi conti e le sue previsioni per l’avvenire su basi più salde.

 

 

La differenza fra 30 e 46 milioni sarà coperta mediante cessione di beni di proprietà del Credito fondiario alla Banca, la quale ne potrà liberamente disporre sia vendendoli, sia facendoli servire di fondamento ad ulteriori operazioni intese a mobilizzarne il valore.

 

 

Estinto così il conto corrente, per impedirne la risurrezione sotto larvata forma, il Credito fondiario avrà facoltà di cedere a valore di bilancio oltre ai sedici suddetti milioni altri beni immobili; i rischi eventuali delle alienazioni peserebbero sugli utili annuali della Banca, ed il servizio del Credito fondiario rimarrebbe pienamente assicurato. Per Banco di Sicilia le cose procedono più lisce. Per estinguere il conto corrente di 2,250,00 lire, il Credito fondiario cederà 550 mila lire di immobili alla Banca, e questa svaluterà la propria massa di rispetto di una somma di due milioni, su cui 300 mila lire costituirebbero un prelevamento alla gestione del Fondiario.

 

 

Non è escluso però che migliorate le condizioni del Fondiario, esso possa restituire al Banco le somme ricevute. Al Banco di Napoli non si potevano imporre sacrifici consimili a quelli ora ricordati. Scomparso o quasi il capitale del Banco, questo non può in sé trovare la forza per riparare alle perdite enormi verificatesi nel Credito fondiario.

 

 

Di fronte ad un conto corrente di 45 milioni non esiste un patrimonio tale che possa sopportarne la perdita. Bisogna porre in grado il Credito fondiario del Banco di Napoli di fronteggiare intieramente da sé, senza concorso alcuno della azienda bancaria il servizio delle proprie cartelle di coprire gradatamente, ma completamente tutte le perdite accennate, ripianando via via il debito in conto corrente verso l’azienda bancaria.

 

 

La differenza, insomma, nei provvedimenti proposti a favore del Banco di Napoli da quelli indicati rispetto agli altri due Istituti sta tutta in ciò: che mentre le aziende bancarie della Banca d’Italia e del Banco di Sicilia sopportano esse in gran parte le perdite dei propri Crediti fondiari, cancellando il conto corrente attivo e svalutando il patrimonio sociale, invece nel Banco di Napoli, per mancanza di capitale da svalutare, il Credito fondiario deve provvedere da se stesso a riparare alle proprie perdite.

 

 

Un aiuto esterno però è necessario; e qui si manifesta la necessità dell’intervento dello Stato a rendere meno arduo il conseguimento dell’intento.

 

 

In Italia è radicato il malvezzo di far sempre capo allo Stato perché ripari agli sbagli di chi amministra i denari affidatigli dalla fiducia del pubblico; e sarebbe doloroso che ancora una volta, per ossequio ai funesti precedenti, si seguisse il consueto andazzo. Gli accorgimenti però, con cui lo Stato interviene a favore del Credito Fondiario napoletano sono tali che fanno perdonare la falsità del principio a cui si ispirano. I lettori della Stampa li conoscono già nelle loro somme linee ed hanno già potuto farsi un concetto esatto dell’accoglienza avuta nel Paese, a cui profitto essi furono escogitati.

 

 

L’interesse annuo attuale delle cartelle del Credito Fondiario è del 5 per cento lordo; perché il primo intento possa essere raggiunto il ministro ne propone la riduzione al 3,50 netto e la conversione degli antichi titoli in nuovi, estinguibili per sorteggio semestrale a partire dall’1 gennaio 1897. Per compensare i portatori delle cartelle del scemato interesse, si aumenterà il valore del loro credito per mezzo della garanzia dello Stato concessa ai nuovi titoli.

 

 

La garanzia dello Stato, non importerà nessun sacrificio materiale quando la liquidazione proceda oculatamente e si giunga a ricostituire il capitale perduto.

 

 

Le perdite non risulteranno minori di 40 milioni; ed a ciò si restringerebbero gli effetti della garanzia data dallo Stato, se l’onorevole Luzzatti non avesse escogitato un altro espediente.

 

 

Il Credito fondiario napoletano paga annualmente allo Stato per imposta di ricchezza mobile e per tassa di circolazione una fortissima somma; siccome l’interesse delle cartelle sarà ridotto dal 5 per cento lordo al 3 50 nette, non avvi più ragione alcuna perché lo Stato conservi una tassa su profitti inesistenti; dove manca la materia tassabile, manca evidentemente anche il motivo per esigere tributi.

 

L’azienda del Credito fondiario non verserebbe all’erario l’imposta e la tassa, ma passerebbe semestralmente all’azienda bancaria una somma corrispondente perché impiegata in titoli di Stato o garantiti dallo Stato col reinvestimento degli interessi ricostituisca i 40 milioni del conto corrente che rimarranno scoperti. Il progetto dell’On. Luzzatti è ingegnoso, come ingegnose sono parecchie altre fra le proposte presentate dall’insigne economista. La responsabilità dello Stato, ridotta ad una semplice garanzia morale di fronte ai portatori delle cartelle, i quali si veggono scorciati gli interessi ed impedito il giochetto dei rimborsi dei mutui con cartelle svilite; ed i sacrifici del tesoro pubblico trasformati in un lucro cessante per l’abolizione di tasse prelevate su aziende prive di profitti; tali i due principii che formano le proposte del ministro del tesoro.

 

 

Certo togliere l’emissione al Banco, e liquidarlo senz’altro parrebbe a taluni il rimedio più logico. E sarebbe senza dubbio il rimedio più economicamente rigoroso. Ma praticamente e politicamente comprendiamo che è cosa impossibile o difficilissima; non si può privare mezza parte d’Italia del suo unico Istituto di credito, perché le amministrazioni di esso l’hanno rovinato.

 

 

Ma finché il male del Banco di Napoli non sia scomparso, e l’Istituto non sia in buona convalescenza, pare a noi che il Governo, responsabile della futura amministrazione di essa, avrebbe dovuto riservarsi una vigilanza più diretta, e un sindacato più serio nella nomina dei consiglieri futuri.

 

 

È necessario infatti che all’opera che auguriamo feconda e benefica per le regioni meridionali non manchino le persone adatte a condurla a termine; una abusiva condiscendenza verso i debitori ipotecari potrebbe aumentare sgradevolmente lo scoperto ora valutato in 40 milioni, e rendere più effettiva la responsabilità dello Stato.

 

 

Liquidata così la eredità dei crediti fondiari, le immobilizzazioni dei tre Istituti di emissione scenderebbero da mezzo miliardo a 400 milioni. La legge 8 agosto 1895 imponeva alle Banche di liquidare tutte le partite immobilizzate entro il periodo di quindici anni. Il Governo non apporta mutamenti alla lettera della legge, e non impone un più breve termine per la liquidazione; ma cerca di spingere gl’Istituti con l’aculeo del tornaconto e stimolarli collo sprone della emulazione.

 

 

Agli oneri inevitabili di una meno pigra mobilizzazione dei 400 milioni, che oggi costituiscono la manomorta del credito, è necessario di contrapporre dei benefizi, sia temperando alcuni eccessivi rigori della legislazione bancaria vigente rispetto agli impieghi di fondi disponibili, onde ricavarne maggior frutto, sia alleggerendo i tributi bancari, che pesano in modo assai grave non pure sugli Istituti di emissione direttamente colpiti, ma eziandio per inevitabile ripercussione su tutta l’economia del credito italiano. Esamineremo altra volta gli stimoli ideali dall’on. Luzzatti per affrettare ed agevolare la liquidazione di quella che egli, con immagine smagliante e pittoresca, ha chiamato la manomorta del credito italiano.

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