Opera Omnia Luigi Einaudi

I danni di impugnare l’arma della tariffa doganale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 10/09/1921

I danni di impugnare l’arma della tariffa doganale

«Corriere della Sera», 10 settembre 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 342-347

 

 

 

Per dare un giudizio sulla convenienza e sui limiti di usare l’arma della tariffa doganale per ottenere dagli stati stranieri ribassi nei loro dazi contro le nostre esportazioni, bisogna anzitutto farsi una idea chiara degli effetti che la tariffa, ossia il dazio d’entrata sulle merci straniere nello stato, produce su di noi.

 

 

Coloro i quali consigliano l’uso di quest’arma ed i negoziatori che la adoperano, sono portati quasi spontaneamente a riflettere: «È un danno per il paese consentire l’entrata delle merci estere. Quanto più io terrò i dazi alti su di esse, tanto meglio riuscirò nel mio intento. Ogni ribasso di dazio da me consentito per ottenere un equivalente ribasso da parte avversaria sulle mie esportazioni, è una “concessione e un sacrificio” inflitto al paese. Quanto minori saranno i “sacrifici” di questo genere che io avrò dovuto consentire, tanto più avrò fatto il mio dovere e ritornerò in patria con la fama di abile negoziatore». Così parla il linguaggio corrente dei giornali, dei documenti parlamentari, delle relazioni ufficiali.

 

 

È evidente che il negoziatore guarderebbe il suo compito con tutt’altro occhio se invece si parlasse diversamente:

 

 

«Il dazio sulle merci estere è un danno per noi. Ribassare quei dazi e, potendo, abolirli sarebbe un “beneficio” indiscutibile per il mio paese. Io debbo “far finta” di volerli conservare per strappare al paese estero analoghi ribassi; ma il cuore mi sanguina nel fare una parte così contraria agli interessi del mio paese. Io so che gli interessi nostri e quelli del mio avversario coincidono su questo punto: che io avrei convenienza ad abolire tutti i dazi sulle merci estere ed a lasciar entrare queste liberamente. Se tornerà a casa, senza aver raggiunto questo ideale ed avendo mantenuto sino alla fine la mia posizione di finta, io so di aver fatto cosa dannosa al mio paese».

 

 

Quale di questi due linguaggi, quale di queste due posizioni eventuali risponde a verità? Dico a verità, perché è chiaro che ad un uomo e ad una nazione giova soltanto regolarsi sulla base di premesse vere, rispondenti alla realtà. Agire sulla base di premesse false, fantastiche, è sempre dannoso. Conduce al precipizio. Se il dazio contro la merce estera è un danno, un negoziatore può ad occhi aperti volere quel danno per raggiungere un certo risultato. Tutti gli economisti, ed essi per i primi, hanno detto che talvolta è necessario od utile ad un paese assoggettarsi a quel danno, per ottenere un certo risultato ed hanno elencato quei casi, riducibili in sostanza a due fondamentali: per assicurare una industria nazionale di guerra e per sorreggere i primi passi di un’industria nascente. Ma si deve premettere che il dazio sulla merce estera è, salvo le poche eccezioni sovra elencate, un danno, un sacrificio, un costo. Soltanto così, si può confrontarlo con certi vantaggi sperati, pesare il dare e l’avere e tirar le somme. Ma non giova ed imbroglia il problema partire dalla premessa falsa che il dazio sulla merce estera sia un bene per se stesso e che il ridurlo sia un «sacrificio» per noi, anziché un vantaggio. Sragionando così, non si capisce più niente, e si commettono errori infiniti pratici.

 

 

Tutto il problema si riduce dunque a sapere: il dazio sulle merci estere è per se stesso un danno o un vantaggio per noi? Io dico che è un danno. S’intende che io parlo di danno in senso proprio. Se, come succede ora, il danno esiste già, perché è già in vigore una tariffa doganale protezionista, il problema sarà se convenga crescere quel danno, accrescendo ancora i dazi, come si vuol fare ora in Italia, o se invece convenga ridurre a poco a poco il danno, abbracciando un altro sistema. Se i dazi esistono non si possono abolire d’un colpo, senza far nascere un altro sconquasso. Ma questo è un problema diverso, che merita di essere trattato a parte. Per ora pongo solo il problema: il dazio è un danno o un vantaggio? Coloro i quali asseverano che è un vantaggio, partono sempre da una stravagante fraseologia di «armi», «armati», «nemici», «lotta», «guerra», «sacrifici», la quale è assolutamente fuori di posto. Purtroppo, l’avere trasportato il linguaggio della guerra vera e propria nella materia degli scambi internazionali è uno degli ostacoli principali che si parano a chi vuole vedere entro il problema. Il mondo delle immagini belliche soffoca il mondo della realtà economica. Né vi sono solo i traslati bellici da combattere. Vi è il traslato o tropo della «inondazione» delle merci estere che minacciano di sommergere il paese; vi è il tropo del «tributo» che il paese nostro paga all’estero per comprare il frumento, il carbone, il ferro, ecc. ecc. Chi ci libererà dalle immagini, dai traslati, dai tropi in materia doganale?

 

 

Nella realtà, il fatto nudo e crudo, semplicissimo è questo: Ci sono due negozi di scarpe, uno a fianco dell’altro; il primo chiede 100 lire per un paio di scarpe, il secondo mi offre lo stesso identico paio di scarpe ad 80 lire. Se i due negozi sono amendue in Italia, nessuno dubita che io faccio bene a comprare le scarpe da 80 lire ed a lasciare in asso chi pretende 100 lire. Faccio bene alla mia borsa, e ciò è evidente. Faccio bene al paese, perché do un premio a chi lavora meglio ed a più buon mercato. Comprare da chi, a parità di qualità, vende a minor prezzo e lasciar fallire chi vende caro è potente incoraggiamento al progresso dell’industria, allo spirito di invenzione; è stimolo agli incapaci ed ai neghittosi a perfezionarsi ed a prendere amore al lavoro. Guai se i compratori, per un malinteso spirito di pietà, si comportassero diversamente! Sarebbe ben presto l’immiserimento universale.

 

 

Tutto ciò è noto, pacifico, incontroverso. Appena però, per ipotesi, tra le due botteghe è tirata una linea di confine, la gente comincia a sragionare. Se al di là del confine resta il negozio in cui le scarpe sono offerte ad 80 lire, diventa, per molta gente, doveroso comprare le scarpe a 100 lire, perché «nazionali». La offerta di scarpe «straniere» ad 80 lire diventa un pericolo: minaccia la «inondazione» di scarpe estere che soffocheranno la produzione di scarpe nazionali. Lasciare entrare quelle scarpe da 80 lire diventa una «concessione» che implica un «sacrificio» da parte nostra, sopportabile solo se lo stato estero si rassegna all’equivalente «sacrificio» da parte sua di lasciar entrare i nostri cappelli a buon mercato nel suo paese. Quelle scarpe ad 80 lire diventano il «nemico» che toglie lavoro agli operai nazionali ed impiego al risparmio nazionale. L’Italia diventa «tributaria» di 80 lire verso l’odiato straniero.

 

 

Bastiat, per mettere in burletta il tropo dell’inondazione, scrisse la celebre petizione al parlamento francese dei fabbricanti di candele, sego, lampade ecc. – si era nel 1848 – contro il «sole», questo miserabile concorrente straniero, il quale «inondava» di «luce» la Francia ad un prezzo ridicolo, zero, mentre la «perfida Albione» grazie alle sue nebbie «godeva» di una naturale protezione contro un nemico così perfido ed onnipotente, il quale, or si direbbe, esercitava un dumping a sottocosto contro di cui ogni difesa era vana.

 

 

In realtà, tutti questi tropi sono privi di buon senso. Ricevere una merce qualunque a buon mercato, invece che a caro prezzo, non è mai un sacrificio. Prendete ad uno ad uno gli uomini, prima che abbiano la mente ottenebrata da immagini stravaganti di «guerra» doganale, e troverete impossibile persuader loro che sia un male ricevere le scarpe ad 80 lire invece che a 100. Se, per assurdo e per miracolo, si trovasse un provveditore straniero il quale si impegnasse a fornire per niente, gratuitamente, tutte le scarpe occorrenti agli italiani, non dovremmo esserne contenti? Se le scarpe piovessero dal cielo bell’e fatte, come la manna nel deserto, non sarebbe ottima cosa? Rimarrebbero senza lavoro i calzolai, sento dire. Dopo un breve periodo di transizione, farebbero qualcosa d’altro. La civiltà è progredita sempre nel senso che certe cose, le quali prima richiedevano gran tempo e gran fatica, come il macinar grano, ora si fanno in assai meno tempo, quasi gratuitamente, in confronto a prima; e gli uomini ebbero campo a soddisfare altri bisogni, a cui prima neppure si pensava.

 

 

Comprare le scarpe all’estero ad 80 lire non toglie un minuto di lavoro a nessun lavoratore nazionale. Ciò diventa evidente, appena si rifletta che nessuno straniero, per nessuna ragione al mondo, ove si eccettui il caso singolare di indennità di guerra, ci regala le sue scarpe. Lo straniero, purtroppo, vuole essere pagato. Ciò implica, necessariamente, che noi dobbiamo pagarlo dando a lui nostre merci o nostri servizi. Non possiamo pagarlo in biglietti, di cui non sa cosa farsi; e neppure in oro, che noi non abbiamo. Anche se un paese ha dell’oro in circolazione, sta di fatto che quel paese non paga in oro. Nessun paese normalmente e salvo casi eccezionali, che qui non monta ricordare, paga in oro le merci che compra. Se, per assurdo, lo facesse, in pochi mesi rimarrebbe privo di tutto l’oro posseduto e non potrebbe pagar più e quindi non comprerebbe più. Dunque, quelle scarpe ad 80 lire noi le paghiamo con altre merci o servigi: con cappelli, con note d’albergo presentate a forestieri, con sete, con vino, ecc. ecc. Non occorre confonderci la testa a cercare con che cosa pagheremo o possiamo pagare. Basti fissarsi bene in testa che noi non compriamo se non possiamo vendere per altrettanto; che non possiamo essere inondati di merci estere se noi non inondiamo gli altri paesi per altrettanto valore di merci o servigi nostri; che non possiamo essere tributari di un centesimo o di un miliardo senza che gli altri paesi siano tributari verso di noi per altrettanto.

 

 

Dalla quale verità lampantissima, irrefragabile, discende che quel lavoro che noi non impieghiamo più nel fabbricare il paio di scarpe importato dall’estero, lo impieghiamo nel fabbricare quella cosa con cui noi paghiamo il paio di scarpe. Anzi lo impieghiamo meglio; perché noi abbiamo cessato di produrre, per ipotesi, il paio di scarpe e ci siamo decisi a produrre, ad esempio, cappelli, perché a noi tornava più comodo, meno costoso fabbricar cappelli. Invece di applicare un operaio per un giorno a produrre un paio di scarpe, abbiamo impiegato lo stesso operaio a produrre tanti cappelli con cui abbiamo comperato un paio ed un quarto di scarpe. A chi si toglie lavoro in tal guisa? A nessuno; e tutti stan meglio, perché hanno più cappelli e più scarpe a loro disposizione.

 

 

Chi si sia ben ficcato in testa queste verità elementari, sente nausea dinanzi alla fraseologia dei protezionisti. Lasciar entrare le merci estere non è un sacrificio, ma un vantaggio per noi. È un danno che gli stranieri mettano un dazio sulle nostre merci; ma non è questa una buona ragione per infliggerci spontaneamente da noi l’altro danno di non voler comprare le loro merci a buon mercato. Una tariffa doganale può essere o non essere un arma per ottenere ribassi di dazi dagli altri paesi a nostro favore; ma è un’arma che certamente offende in primissimo luogo chi la brandisce. Che gli altri paesi siano protezionisti, questo è un affare che riguarda sovratutto loro e riguarda anche noi, perché ci danneggia; ma non è una buona ragione per infliggerci da noi il danno ulteriore del protezionismo casalingo. Aprire le nostre frontiere alle merci estere non dipende affatto dalla circostanza che le altre nazioni seguano la stessa condotta verso di noi. Certuni si spaventano al pensiero che un paese solo apra le sue frontiere senza darsi alle importazioni estere, mentre gli altri paesi rimangono cinti di alte barriere daziarie.

 

 

«Noi non venderemo più niente; anzi non produrremo più niente. Gli stranieri ci venderanno tutto a così buon mercato, a prezzi così vili, che noi non avremo più la convenienza di fabbricar niente. La disoccupazione, la miseria infieriranno tra noi, per questa politica delle porte aperte. Ci saremo suicidati con le nostre stesse mani».

 

 

Tutto ciò è un sogno di mente inferma. Stati grandi e stati piccoli rimasero per decenni con le porte aperte. Nessuno è morto. Nessuno è rimasto, per questa causa, disoccupato. L’oro non andò via dal paese. La ricchezza continuò a crescere. Ed era naturale che non succedesse nessuno dei guai profetizzati nello spavento prima di vedere aprire le porte, per la ragione già detta e ripetuta: che gli stranieri non vendono niente per niente. Vogliono essere pagati e per esserlo devono rassegnarsi a ricevere da noi merci o servigi. Quindi noi seguitiamo a lavorare e non corriamo nessunissimo rischio di morire di fame. Quando si parta dalla verità sicurissima che noi abbiamo interesse e vantaggio nel comprare le merci estere il più a buon mercato possibile, e dall’altra verità che gli stranieri non possono, assolutamente non possono, vendere a noi neppure un chilo di loro merci, senza comprare da noi altrettanto valore di merci o servigi, ne discende logicamente essere assurda, incredibilmente grottesca, la nostra ostinazione a volere rincarare con dazi la roba che potremmo avere a buon mercato. Ciò equivale a contentarci di una scarpa sola invece di un paio intiero. Nella vita comune, chi ragionasse in tal modo sarebbe considerato sul serio soggetto da manicomio. Nella vita collettiva e politica, inesplicabilmente, molti ragionano così e quanto più sragionano, tanto più crescono in fama di politici pratici e possono aspirare alla dignità di sapienti negoziatori di trattati di commercio.

 

 

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