Opera Omnia Luigi Einaudi

I guadagni del capitale in Italia

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 23/11/1905

I guadagni del capitale in Italia

«Corriere della sera», 23 novembre 1905

 

 

 

Noi ci troviamo in un momento singolare della nostra storia economica e finanziaria. Non passa settimana senza che un illustre economista straniero od un grave rapporto consolare contrasti gli enormi progressi fatti dall’Italia negli ultimi anni. Noi saremmo i giapponesi di Europa, secondo alcuni; e, secondo altri, nessuna nazione avrebbe progredito al pari di noi nell’ultimo quarto di secolo. E tutto ciò mentre gli italiani si ostinano ad enumerare le loro miserie e dubitano che il movimento innegabile dell’ora presente sia una pura fantasmagoria, un castello di carta che si sfascerà al soffio della prima tempesta di borsa. Forse vi è un po’ di esagerazione nell’ottimismo benevolo degli uni e nel pessimismo triste degli altri; ma sovratutto vi è una incertezza grande intorno al vero stato di fatto delle nostre industrie e dei nostri commerci. Indizi di progresso si possono addurre numerosi; ma ciò non impedisce che vi si oppongano quadri di miseria profonda e di stazionarietà economica in talune regioni d’Italia.

 

 

Spesso poi non è possibile affermare qualcosa con sicurezza, perché mancano i dati. Come non dovrebbe sembrare, ad esempio, facile la risposta a questa domanda: quali sono i guadagni medi dell’industria in Italia? Ogni giorno il tribuno socialista sciorina dinanzi agli occhi e più dinanzi agli appetiti dei suoi ascoltatori i meravigliosi profitti ottenuti dal «capitale» e denuncia le continue e spietate conquiste del capitalismo anonimo delle grandi società per azioni; ma sono discorsi materiati di impressioni vaghe e non corroborate da fatti.

 

 

Perciò abbiamo letto con interesse nell’ultimo fascicolo della Riforma sociale uno studio di Cesare Jarach sullo Sviluppo ed i profitti delle Società per azioni italiane dal 1882 al 1903. Non già che l’A. abbia inteso rispondere alla domanda che sopra ci siamo posti; poiché non è supponibile che industriali e commercianti confessino ad un ufficio statistico l’ammontare reale dei loro profitti e delle loro perdite. Sarebbe una ingenuità supporlo; come sarebbe ingenuo credere che i bilanci delle società per azioni – che ogni anno il Ministero d’agricoltura, industria e commercio pubblica in una serie di volumi enormi che formano una miniera inesauribile di dati – siano corrispondenti alla realtà. Troppe ragioni hanno gli amministratori delle società per azioni di non dire tutto il vero nei loro bilanci. e non ultima la necessità di sfuggire alle rapaci ugne del fisco che si abbatte sulle organizzazioni semi-pubbliche di capitale con una violenza alla quale non è possibile sfuggire, come vi sfuggono in parte gli industriali privati non astretti alla pubblicità dei libri e dei bilanci. Il giorno nel quale il legislatore si deciderà a riformare le leggi d’imposta sulla ricchezza mobile e di registro e bollo, sarà possibile avere notizie assai più esatte sui guadagni veri del capitale in Italia. Per ora è d’uopo contentarci di quelle approssimative che si possono ricavare dai bilanci delle Società per azioni e che il Jarach ha raccolte ed illustrate con una diligenza veramente ammirevole. Ma, per quanto parziali, le notizie così ottenute sono veramente preziose e ci offrono ampia messe di considerazioni interessanti. Un progresso negli investimenti di capitale nelle industrie organizzate a società per azioni c’è stato e notevolissimo. Se escludiamo, per motivi statistici che sarebbe troppo lungo il dire, le banche di emissione, le banche popolari, le cooperative, e le tre grandi società esercenti le reti ferroviarie mediterranea, adriatica e sicula, abbiamo che in ventidue anni, dal 1882 al 1903 il capitale investito nelle società per azioni si è accresciuto da 469 milioni ad 1 miliardo e 516 milioni. L’aumento non è stato continuo: sino al 1890 si progredì a passi di gigante, giungendo ad 1 miliardo ed 80 milioni. Poi venne la crisi infausta che a poco a poco ridusse il capitale delle società per azioni nel 1894 a 796 milioni; ma subito ricomincerà il movimento ascendente; prima lento che ci condusse nel 1897 ad 850 milioni; e poi più rapido che ci portò nel 1899 a 1.070, nel 1901 a 1.349 e nel 903 a 1.516 milioni. Insieme al movimento del capitale abbiamo un movimento analogo nei profitti; rispetto a cui si possono raggruppare i profitti medi in quattro periodi: un primo periodo di prosperità dal 1882 al 1888 in cui il profitto medio delle società per azioni italiane fu del 6,55 per cento; un secondo di crisi acuta, dal 1889 al 1893 nel quale i profitti precipitano allo 0,78 per cento; un terzo di liquidazione della crisi e di lenta guarigione che trascorre dal 1894 al 1898 ed in cui i profitti si aggirano intorno al 3,71 per cento; ed ultimo, il periodo di nuova espansione industriale e di rinnovellato rigoglio, che va dal 5,15 per cento. In media, i ventidue anni studiati hanno dato al capitale investito nelle industrie, nei commerci, nei trasporti, sotto forma di società anonime per azioni, una rimunerazione netta del 4,28 per cento all’anno.

 

 

È una cifra che fa pensare. In quel 4,28 per cento sono comprese le somme mandate a riserva; ed il calcolo naturalmente è fatto sul capitale più le riserve di tutte le società esistenti in ogni anno, dopo detratte dai guadagni delle società attive le perdite delle società passive. O che torna a dire che se i capitalisti italiani invece di investire i loro risparmi in intraprese che potevano divenire splendide ma potevano anche convertirsi in un disastro, avessero preferito di comprar rendita, avrebbero probabilmente guadagnato in media tanto quanto ottennero correndo rischi ben più elevati. La speranza è sempre l’ultima dea: ed è alla speranza di profitti eccezionali – ben di rado ottenuti – che noi andiamo debitori – e forse vanno debitori tutti i paesi del mondo – dall’investimento progressivamente crescente di capitali nelle società anonime. È un campo seminato di morti, di agonizzanti e di invalidi quello del quale si ha la visione trascorrendo le tabelle dello studio pubblicato dalla rivista torinese: ed in mezzo a questa squallida visione trascorre l’esercito dei vittoriosi che forse non costituisce la maggioranza dei combattenti. Ci sono delle industrie che – anche prese in blocco – sono singolarmente favorite: esempi le industrie del gas, e dell’acqua che non guadagnarono mai in media meno del 3,29 per cento ed ebbero profitti quasi costantemente oscillanti fra il 5 e il 9 per cento; quelle del cotone, i cui estremi sono il 3,49 e il 10,21 per cento: le alimentarie, fra il 3,41 e l’11,80 per cento. Accanto a queste ve ne sono altre che, anche prese nel loro complesso, sono stranamente convulse: come le industrie metallurgiche e meccaniche che vanno da una perdita di 3,98 per cento nel 1887 ad un guadagno di 9.41 nel 1899, le lane che oscillano da un – 7,69 ad un + 10,02 per cento intendendo per – le perdite e per i + i guadagni: il cuoio da – 5,79 a + 13,52 per cento; le società di credito oscillanti fra – 8,51 e + 10,42 per cento; e massime fra tutte le industrie edilizie che senza aver guadagnato mai più del 5,80 per cento giunsero nel 1889 a perdere il 118,34 per cento, nel 1898 il 44,02, nel 1899 il 44,05, nel 1900 il 30,95 del loro capitale! E maggiore apparirebbe il contrasto fra i guadagni eccelsi, che nel gas ed acqua raggiungono talvolta il 100 per cento e le perdite enormi che assorbono in brevi anni l’intero capitale, se si potesse scendere allo studio dei casi individuali.

 

 

Dunque l’Italia progredisce anche nell’impiego dei capitali in questa ultima e perfezionata forma di intraprese industriali che sono le società per azioni. Ma progredisce in materia interrotta e non sempre si conserva la giusta misura nel valutare le possibilità di guadagni e le convenienze degli investimenti. Si dirà che in tutti i paesi ci sono state delle crisi, e che la nostra del 1889-93 è in tutto simile alle famose crisi inglesi, austriache, tedesche ed americane di cui sono piene le cronache economiche.

 

 

Ed è vero. Ma la storia dovrebbe almeno servire a insegnarci qualcosa per il futuro. Il Jarach ha costruito due tabelle suggestive sulle variazioni dei capitali e dei profitti. A guardarle non si capisce il perché si sieno volute certe crisi. Perché, ad esempio, i capitalisti moltiplicarono dal 1882 al 1890 nientemeno che per 491 il capitale investito nell’industria edilizia, ossia in una industria che nel suo anno migliore rese appena il 5,80 per cento; mentre accorsero in tanta minor folla verso industrie che i fatti dimostrano più remunerative? è un mistero che prova come anche i capitalisti non sempre si tengono stretti al loro tornaconto beninteso e non si appaghino delle audacie ragionate e pensate; ma si slancino in guisa irriflessiva in una via che par buona solo perché la si vede corsa da altri. È da augurare che nel momento presente non si vogliano ripetere gli errori che condussero alla crisi del 1889-93: e che coloro i quali si sono impigliati in speculazioni senza base sappiano o siano costretti a ritirarsene.

 

 

Ricordiamoci che se nel 1882-88 si guadagnò in media il 6,55 per cento, nel 1889 si perdette l’1,95 per cento; e teniamo ben presente che i tempi prosperi hanno fine: e che, se si vuole impedire che l’arresto si converta in un disastro, è necessario sapersi trattenere dalle corse fatte all’impazzata. Solo così sarà possibile sostituire alla curva spezzata dei profitti del passato, una curva ascendente per l’avvenire in modo quasi continuo.

 

 

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