Opera Omnia Luigi Einaudi

I metodi della riforma tributaria e la importanza crescente della esazione per interposta persona (contribuenti-esattori, società per azioni ecc.)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/08/1912

I metodi della riforma tributaria e la importanza crescente della esazione per interposta persona (contribuenti-esattori, società per azioni ecc.)

«Rivista delle Società Commerciali», agosto 1912, pp. 826-837

In estratto: Roma, Offic. tip. Bodoni, 1912, pp. 40

«Rivista di politica economica», agosto-settembre 1912, pp. 1125-1144

 

 

 

Fra i tanti argomenti che si possono addurre a dimostrare la necessità e la convenienza di una riforma nel regime fiscale delle società anonime, uno importantissimo fu già ricordato, ma forse non ancora abbastanza sviluppato: che cioè non soltanto dal punto di vista dottrinale, ma anche dal punto di vista amministrativo, nessuna grande riforma tributaria può oggidì concepirsi la quale non tenga in primissimo luogo gran conto, anzi non si basi sopratutto sullo studio attento dei congegni amministrativi con cui la materia imponibile può essere accertata.

 

 

E poiché la società commerciale, anonima o in accomandita per azioni, è forse il più delicato e prezioso (per il fisco) di questi congegni amministrativi, non sarà inutile di vedere in qual modo le grandi riforme tributarie tentate o compiute dopo il principio del secolo 19esimo abbiano dovuto essere impostate dal punto di vista amministrativo. Naturalmente non è possibile parlare di una riforma tributaria soltanto per ciò che direttamente interessa le società per azioni; ed è appunto scopo di questo scritto di far vedere come il problema speciale del trattamento fiscale delle società per azioni si incastri nel problema generale della tassazione di tutti i contribuenti. Trarrò i dati per questa dimostrazione da un libro dottissimo e suggestivo del prof. Edwin E. A. Seligman su The Income tax, A study of the history, theory and practice of income taxation at home and abroad[1] (New-York, The Macmillan Co. 1911). Lo Seligman appartiene a quella pleiade di scrittori americani che hanno negli ultimi tempi innalzato la scienza economica ad un livello altissimo nella gara internazionale per la scoperta della verità.

 

 

Dotto nella teoria, ma sovratutto curioso delle applicazioni pratiche, egli ama mettersi a contatto coi fatti della realtà viva economica; cosicché, mentre la maggior parte dei libri che discorrono di riforme tributarie e delle auspicate imposte sul reddito sono illeggibili e noiosissimi, perché si limitano ad essere una esposizione dei principi informatori della riforma ed un panegirico della sua giustizia e bellezza, insieme ad una raccolta di obiurgazioni contro i reazionari, retrogradi, interessati che ne oppugnano l’avvento; questo del Seligman è invece interessantissimo e leggibilissimo; perché, – come si vuole da uno scienziato vero e non da un predicatore da comizio in cerca di voti o da un politicante desideroso di affermare la sua «competenza» finanziaria in vista della prossima combinazione ministeriale con tendenze democratico – sociali – egli, pur non tralasciando l’esposizione dei caposaldi delle leggi tributarie, ne studia sovratutto la genesi storica e parlamentare, i precedenti, i congegni amministrativi, i risultati pratici, il grado maggiore o minore di successo. questa si è vera comparazione internazionale fruttuosa, non quella che si legge di solito nelle discorse finanziarie, dalle quali, dopo che per anni ed anni avevo avuta la testa assordata intorno alla perfezione dell’imposta globale sul reddito inglese, non avrei ancora imparato, se per altra via non l’avessi saputo, che quella inglese non è né un’imposta sul reddito, né una imposta globale; e che l’amministrazione inglese ascrive il suo grande successo appunto al non essere quella un’imposta sul reddito, bensì sui redditi, precisamente come l’italiane imposte sui terreni, fabbricati e ricchezza mobile, ed al non essere globale sulla persona del contribuente bensì individuata alla origine sulle varie categorie di cose che producono i redditi.

 

 

A tacere dei minori – e tra i minori voglio espressamente ricordare e lodare per l’Italia il volumetto di A. Lia su L’Imposta mobiliare e la riforma dei tributi diretti in Italia (Torino. S.T.E.N), il quale, pur essendo un semplice agente delle imposte, ha compreso, meglio di tanti scienziati, quale sia la natura della vera indagine scientifica concreta in materia d’imposte -, tra le opere comparse negli ultimi anni io conosco solo un’opera che possa stare a paro con questa dello Seligman; ed è il volume di Jules Ingenbeek su Impôts directs et indirects sur le revenu, dove sono studiate nella loro effettiva realtà, ben diversa da quella che si deduce dalla lettera della legge e che si immagina leggendo i trattati della cosidetta scienza finanziaria, l’income tax inglese, l’einkommensteur prussiana, e la contribution personnelle belga.

 

 

Più dotto, più largo, più ricco di fatti storici inglesi ed americani lo Seligman, più scettico, più minuto quanto a fatti belgi e prussiani l’Ingenbleek, fautore il primo della Imposta diretta ed il secondo della imposta indiretta sul reddito; hanno scritto amendue dei libri nutriti e profondamente istruttivi. Io mi poggerò principalmente nullo Seligman per un motivo extrascientifico, che è, purtroppo, un atto di omaggio alla moda. Poiché la moda scientifica e politica in Italia insegna che l’ideale tributario è l’imposta progressiva sul reddito, non usufruirò nulla di ciò che dice l’Ingenbleek, il quale in fondo e molto ragionevolmente si tien fermo alle vecchie imposte sul valore locativo, sulle vetture, cavalli, domestici, automobili, cadute oramai in tanto discredito presso i politicanti di ogni specie e paese, i quali amano moltissimo l’imposta sul reddito, che si industriano a non pagare[2] e disprezzano le imposte suntuarie sul valor locativo ecc., che eventualmente dovrebbero assolvere[3].

 

 

E preferirò lo Seligman che è favorevole alla imposta progressiva e vuole introdurre l’imposta sul reddito nel suo paese; il quale, appunto per insegnare agli uomini politici degli Stati Uniti, da cui egli è ascoltatissimo, come deve essere organizzata l’imposta sul reddito, ha intrapreso queste sue fruttifere peregrinazioni intellettuali in Inghilterra, Francia, Prussia, Svizzera, Austria, Italia allo scopo di studiare sui fatti quali sieno i risultati delle applicazioni finora compiute dell’imposta sul reddito. Rendendo questo omaggio alla moda, la quale ritiene l’imposta sul reddito come il tipo più perfetto teoricamente di imposta, do prova della maggiore imparzialità che in me sia possibile, inquantoché io ritengo invece fermissimamente che la imposta sul reddito, come è da tutti concepita, sia  teoricamente imperfettissima; e di tale mia opinione ho dato una dimostrazione larga e corredata di prove numerose in una memoria letta nella tornata del 23 giugno della R. Accademia delle Scienze di Torino[4]. Tale

omaggio non è del resto contraddittorio, perché anche chi desidera instaurato un altro sistema di imposte, deve volere che il sistema per ora preferito dai più sia attuato sul serio e non diventi un obbrobrio di frodi, di corruzioni e di ridicolo.

 

 

Due sono le maniere principali secondo cui l’imposta sul reddito può essere concepita. Una è quella che alla francese dicesi da noi l’imposta globale ed in inglese chiamasi lumpsum tax; l’altra è quella che gli inglesi dicono esatta collo stoppage – at source method e in italiano direbbesi imposta per categorie con esazione, possibilmente, all’origine per ritenuta o per rivalsa. Il primo metodo si può dire indifferentemente proprio dei riformatori entusiasti ma ignoranti, ovvero della servitù burocratica; mentre il secondo, che è il metodo inglese e in parte anche italiano, si può chiamare il metodo dei riformatori pratici o sensati. Il primo metodo può essere detto dei riformatori entusiasti perché è quello che per il primo viene in testa alla buona gente che si mette a discorrere di riforma tributaria; che può essere capito anche dagli uomini politici i quali non abbiano voglia e tempo di studiare e riflettere e che da essi, benché poco abbiano studiato e meno riflettuto, può essere fatto comprendere, tanta è la sua semplicità, perfino ai più ottusi tra i loro elettori. Tizio ha 1000 lire di reddito all’anno? Paghi o non paghi in proporzione delle sue mille lire di reddito.

 

 

Più spesso il candidato dirà che Tizio non deve pagare, perché sa che tra i suoi elettori vi sono molti che hanno appena 1000 lire o che sperano di farsi piccoli si da non parere di avere più di 1000 lire di reddito. Caio ha 10.000 lire di reddito? Paghi l’alto papavero, il borghese ben pasciuto il 10 % di queste 10.000 lire. Sempronio ha 100.000 lire di reddito? Paghi il capitalista sfruttatore il 15 o 20 %, in attesa che giunga il giorno della palingenesi sociale, in che non esisteranno più né sfruttatori né sfruttati. Questo è il metodo dell’imposta progressiva e globale sul reddito. Progressiva, perché Tizio paga il zero per cento, Caio il 10 % e Sempronio il 15 – 20 %; globale, perché tutto il reddito nel suo complesso (lump-sum) è assoggettato all’imposta.

 

 

Che cosa vi può essere di più bello? di più giusto di più perfetto gridano i politicanti entusiasti agli elettori, il cui entusiasmo per non essere chiamati a pagar nulla deve tradursi in tanti voti a favore di chi promette l’immunità ai molti e la gragnuola ai pochi. Ma è anche il metodo dei riformatori «ignoranti», oltreché entusiasti; perché tutti essi discorritori ignorano che il sistema, dovunque fu sperimentato, ha fatto fiasco, salvo che in un unico paese ed è la Prussia. I fiaschi non si contano e sono la conseguenza ineluttabile della natura umana, come in realtà è stata, è e sarà in ogni Paese.

 

 

L’unico successo invece è la conseguenza di due singolarissime circostanze che raramente si verificano da sole ed ancor più raramente esistono insieme congiunte; tanto raramente che finora si sono trovate esistenti e congiunte nella sola Prussia dei tempi nostri; voglio accennare da un lato ad una burocrazia forte, onestà, che si crede superiore alle altre classi sociali ed investita dal Re e da Dio della missione di far regnare in terra tra gli uomini la giustizia, e dall’altro lato ad un popolo abituato, per lunga educazione, all’ossequio ed all’ubbidienza verso le autorità costituite. Malgrado la strapotenza della burocrazia ed il servilismo dei popoli verso di essa il successo prussiano è soltanto un mezzo successo; e per la sua singolarità stravagante conferma la bontà del secondo metodo. Il quale consiste in questo: di non tassare né Tizio, né Caio, né Sempronio sulle 1000 o 10.000 o 100.000 lire di reddito che essi hanno; ma di studiare ed analizzare quei redditi; scernendo ed isolando dapprima quant’è reddito di terreni, quanto di case, quanto di titoli mobiliari, di mutui, di industrie, di commerci, di professioni, di impieghi ecc.; e poi tassando ognuno di questi redditi all’origine (stoppage at source, letteralmente: fermo, sequestro alla sorgente), possibilmente presso chi paga, non presso chi riceve il reddito. Questo è il metodo inglese, e in parte italiano; è il metodo del buon senso, della ragion pratica, che tutti gli amministratori che si siano trovati a gerire un dicastero tributario prediligono e proclamano efficace, fecondo, capace di resistere alle frodi.

 

 

Il metodo della tassazione globale, che si potrebbe anche dire della tassazione all’arrivo del reddito presso il redditiere, è metodo destinato a fallire ogni volta che i contribuenti non siano, come per eccezione pare siano in Prussia, pecore pronte a lasciarsi tosare dal pastore burocratico; perché i contribuenti inglesi, francesi, svizzeri, austriaci, italiani, americani tutto son disposti a fare pur di non lasciarsi tosare: dire il falso, commettere spergiuro, piangere miseria, architettare contabilità contorte; finalmente non pagare e lasciar fare gli atti all’esattore per la dichiarazione dell’inesigibilità della quota.

 

 

Mentre il metodo della tassazione per categorie, che si può anche chiamare metodo della tassazione alla partenza del reddito dall’origine sua, è metodo sicuro, perché l’affittavolo non pagherà il fitto intiero al proprietario ma ne detrarrà l’imposta, dovendo altrimenti pagarla una seconda volta al fisco; perché la società per azioni non può sfuggire alla stretta fiscale, mentre l’azionista, l’obbligazionista, l’impiegato e l’operaio, quando avessero incassato cuponi, dividendi, stipendi e salari, rimarrebbero irraggiungibili; perché lo Stato, la provincia, il comune con tutta facilità possono trattenere l’imposta dovuta all’atto del pagamento del reddito. Il metodo può anche essere detto di tassazione per interposta persona perché si fonda sulla creazione di numerosi contribuenti fittizi (Provincia, comune, enti morali, società per azioni, banca ecc.) che non sono contribuenti in nome proprio, ma in nome altrui, essendo invece essi esattori semi pubblici per conto del fisco a carico dei veri contribuenti.

 

 

Il metodo della tassazione all’arrivo è infecondo fiscalmente. Passata la festa gabbato lo santo; chi vuol pagare l’imposta, quando ha già ricevuto il reddito e forse l’ha già consumato? Il metodo della tassazione alla partenza è invece fecondissimo; perché il contribuente è troppo contento di percepire il fitto, il dividendo, l’interesse, lo stipendio, il salario da chi è obbligato a pagarglielo per far troppo lo schizzinoso sul prelievo che precedentemente lo Stato ha fatto sul reddito quand’era ancor in mano di chi lo doveva pagare. La natura umana è fatta così, e ben poco savi sarebbero quei legislatori che volessero fare astrazione da queste proprietà essenziali degli uomini. Le quali proprietà non paiono nemmeno del tutto estranee alle pecore prussiane, se almeno si deve prestar fede alle malignità di coloro che affermano esser le frodi copiosissime pur sotto l’occhio paterno del pastore burocrate della Prussia.

 

 

La prima dimostrazione che nel libro dello Seligman si legge della eccellenza del sistema della tassazione all’origine in confronto al sistema della tassazione globale od all’arrivo è dato per l’Inghilterra del 1798 e del 1803. Tutti sanno, persino i pappagalli dei comizi elettorali, che l’income tax inglese ebbe origine nella celebre esposizione finanziaria (budget speech) fatta dal secondo Pitt il 24 novembre 1797. La legge del 12 gennaio 1798 assideva una imposta sul reddito globale, tenuto però conto della spesa dei contribuenti. L’insuccesso fu grande. Invece dei 4 1/2 milioni di lire sterline sperate, si incassarono appena 1.885.996 lire sterline, al lordo da spese di riscossione; e ciò, come avvertì Pitt, a causa «delle vergognose evasioni o meglio delle scandalose frodi che impedirono l’attuazione della legge».

 

 

Non ancora abbastanza ammaestrato, Pitt modificò, con la legge del 9 gennaio 1799, l’imposta in guisa da non tener più conto della spesa del contribuente, ma del solo ed intiero reddito suo. Era però ancora una imposta sul reddito globale, all’arrivo, come fu spiegato sopra. Pitt calcolava il reddito imponibile del paese a 100 milioni e, con un aliquota del 10 %, sperava di ricavarne 10 milioni. anche stavolta il successo fu meschino. Il gettito fu di 6.046.624 lire sterline nel 1779, di 6.244.438 nel 1800 e di 5.628.903 nel 1801. Nel 1802, dopo la pace di Amiens, l’imposta fu abolita.

 

 

Nel 1803, quando la guerra si rinnovò e richiese nuovi sacrifici di imposte dai contribuenti, Pitt aveva imparato la lezione insegnatagli dalle dure esperienze trascorse. La legge dell’11 agosto 1803 stabiliva una imposta di appena il 5 % sul reddito; e nonostante che l’aliquota fosse così stata ridotta della metà, dal 10 al 5 %, il gettito fin dal primo anno fu quasi uguale a quello che s’era ottenuto prima con imposta doppia: e cioè ben 5.341.907 lire sterline nel 1803, quando l’imposta era al 5 %, in confronto a 5.628.903 lire sterline nel 1801, con l’imposta al 10 per cento. Nel 1805 l’aliquota fu aumentata al 6 1/4 % e il reddito salì a L. 6.429.599; superiore cioè al massimo che prima aveva gittato quando era al 10. Nel 1806, sotto il ministero Grenville – Fox l’aliquota fu, durando i bisogni della guerra, aumentata al 10 %, ed a tale altezza rimase fino al 1815, quando fu abolita per la sopravvenuta pace.

 

 

Ebbene, mentre nel periodo 1799 -1801, coll’aliquota al 10 %, il gettito dell’imposta era diminuito da 6.046.624 a 5.628.903 lire sterline, nel periodo 1806 – 1515, colla medesima aliquota del 10 %, il gettito dell’imposta crebbe da 12.822.056 a 15.642.338 lire sterline. Dunque: reddito più che doppio di prima e reddito crescente invece che decrescente.

 

 

Quale la causa di sì felice mutazione? Una sola, ma essenzialissima: al posto della primitiva imposta globale sul reddito intiero ottenuto dal contribuente fu messa una imposta, quella che risorse poi e tuttora esiste, la quale è un conglomerato di cinque imposte diverse, sulle diverse categorie dei redditi, di cui ognuna è, per quanto sia possibile, esatta a carico della persona che paga e non di quella che riceve il reddito. L’imposta sul reddito della terra e dei fabbricati fu pagata dall’affittavolo del terreno e dall’inquilino della casa, i quali se ne rivalevano poi sul proprietario, deducendola dal fitto. L’imposta sugli impiegati governativi e degli enti pubblici fu ritenuta all’atto del pagamento dello stipendio dal governo o pagata dall’ente pubblico, salvo rivalsa sull’impiegato. Questa fu la ragione del successo della imposta inglese sul reddito.

 

 

Un perfezionamento amministrativo fu la causa che il reddito subito raddoppiasse e tendesse col tempo a crescere, che le frodi diminuissero di numero e che l’imposta venisse pagata senza troppe lagnanze dai contribuenti. Tuttociò risultò cosi evidente che l’atto del 22 giugno 1842, con cui su proposta di Roberto Peel l’income tax veniva ripristinata, riproduceva le modalità amministrative che avevano fatto la fortuna dell’imposta del 1803. Dopo d’allora il principio dello stoppage – atsource, della tassazione all’origine, rimase il cardine fondamentale della imposta sul reddito inglese.

 

 

Lo Seligman elencando le cause della fortuna avuta da questo tributo, afferma che la principale di esse e appunto «the system of the stoppage at source», il sistema della tassazione del reddito all’origine, possibilmente presso chi paga il reddito e non presso chi lo riceve. L’originaria imposta sul reddito globale fu abbandonata come impraticabile; e tutti i funzionari inglesi sono d’accordo nel ritenere che ogni tentativo di ritornare a questo primitivo e screditato sistema sarebbe cagione di disastri. Se c’è un punto a cui le autorità inglesi sono tenacemente attaccate, è questo sistema appunto di dividere l’imposta in categorie e di cercare per quanto sia possibile, di assicurare il gettito con la tassazione all’origine.

 

 

Un po’ per volta il sistema fu perfezionato, allargando il novero di quelli che in altro studio pubblicato su questa medesima rivista (vedi Le premesse dottrinali della riforma del regime fiscale delle società per azioni, fascicolo del 31 dicembre 1911) ho chiamato esattori semi -pubblici di imposte. Senza aver la pretesa di delineare compiutamente le vicende di questa progressiva formazione del tipo di esattore semi – pubblico, dirò che l’atto del 1842 obbligava i banchieri e tutte le persone incaricate di pagare gli interessi o cuponi dei titoli di debito pubblico di governi stranieri a fare agli Special Commissioners dell’imposta un rapporto su tali pagamenti.

 

 

L’atto del 1953 estese tale obbligo al pagamento di interessi dividendi di tutte le società straniere; e l’atto del 1861 l’allargò ancora a tutte le società coloniali. Ecco sorta la responsabilità del banchiere od altro agente finanziario pel pagamento delle imposte dovute da governi e società estere. Gli interessi o dividendi provenienti dall’estero e fluenti a favore di cittadini inglesi facilmente avrebbero potuto sfuggire al dovere tributario se non si fosse escogitato questo avvedimento di colpire interessi e dividendi mentre transitano attraverso la banca incaricata del pagamento. Se si riflette che l’industria bancaria tende sempre più ad essere esercitata da società per azioni, che queste non hanno modo di colludere coi capitalisti privati ai danni del fisco, si conclude agevolmente che la banca organizzata a forma di società per azioni è diventata e sempre più diventa cardine essenzialissimo di un esatto funzionamento della imposta sul reddito per i redditi provenienti dall’estero.

 

 

Senza l’ausilio della banca per azioni il gettito dell’income tax inglese subirebbe una falcidia gravissima. Il contribuente inglese se non vuole pagare l’imposta sui redditi provenienti dall’estero deve astenersi dall’incassare i redditi medesimi in Inghilterra, lasciandoli capitalizzare all’estero. Ma il giorno in cui si deciderà a farli venire in Inghilterra la banca, per mezzo di cui la rimessa verrà fatta, ne preleverà automaticamente l’imposta[5]. Nel 1860 le società ferroviarie furono dichiarate responsabili del pagamento dell’imposta dovuta dai loro funzionari, impiegati ed operai. Nel 1902 gli imprenditori, gli industriali ed in genere tutti coloro che impiegano altrui, furono obbligati a fare rapporto non solo dei nomi e della residenza dei loro impiegati ed operai, ma anche degli stipendi e salari pagati. E fin dall’origine le società per azioni avevano pagato l’imposta per conto dei loro azionisti ed obbligazionisti.

 

 

Così largamente esteso è il sistema di tassare, per ritenuta o salvo rivalsa, il reddito presso chi lo paga, che 1.009.935.926 lire sterline di reddito tassato nel 1908 – 1909, l’Imposta era pagata dai veri contribuenti, ossia dai percettori del reddito soltanto sulle lire sterline 17.396.798 di reddito degli affittavoli – e ciò per forza, non essendoci chi paghi il reddito agli affittavoli – e su parte delle lire sterline 408.703.837 degli industriali, commercianti e professionisti; dico su parte di questi 408 milioni perché una notevolissima parte di essi, forse la maggiore, è reddito di società per azioni od altre forme di società ed allora la imposta è pagata non dai veri contribuenti (azionisti, obbligazionisti, impiegati) ma dal contribuente – esattore per conto dello Stato. Si può dire, senza tema di errore, che più di tre quarti dell’imposta inglese sui redditi sono esatti non a carico dei veri contribuenti ma a carico di pseudo -contribuenti (affittavoli di terreni per conto del proprietario, inquilini per conto del padron di casa, governi, municipi, enti pubblici, società per azioni, banchieri ecc., per conto dei loro impiegati, azionisti, obbligazionisti, clienti ecc.) che il legislatore obbliga a diventare esattori per conto dello Stato.

 

 

Se l’imposta inglese sui redditi rende oggi circa 40 milioni di lire sterline (1 miliardo di lire italiane), e se le frodi sono praticamente limitate agli stranieri residenti in Inghilterra, ai prestatori di denaro ad usura, ai giornalisti, comici, grandi professionisti, alla gente vagabonda, ecc. ciò è dovuto a due fatti:

 

 

1)    tenuità dell’aliquota, almeno fino a questi ultimi tempi;

 

2)    L’esazione dell’imposta all’origine, prima che il reddito venga nelle mani dei veri contribuenti, i quali, se ci potessero mettere le mani sopra, non esiterebbero un istante a frodare il fisco.

 

 

Non si creda infatti che le tendenze fraudolenti siano proprie degli italiani. Gli inglesi, dove possono, non son da meno. Un membro del comitato d’inchiesta sull’income tax del 1904 ebbe ad esclamare: «Io sono stupito dinnanzi al particolare codice d’onore che impera nel paese. Un uomo che si taglierebbe il braccio prima di scrivere coscientemente una falsa dichiarazione, aspetterà invece di essere tassato, nella speranza che l’accertamento sia inferiore al vero. Ed egli si asterrà deliberatamente dal fornire informazioni che, secondo le leggi, è obbligato a dare e tuttavia crederà di non per compiuto alcuna azione disonorevole od illegale».

 

 

Ed un aneddoto tra quelli riferiti al medesimo comitato di inchiesta, merita di essere ricordato. «In un’adunanza dei commissari dell’imposta, uno di essi riferì: Qui c’è Tizio, che non fa mai alcuna dichiarazione. Lo abbiamo tassato per L. st. 300 di reddito negli ultimi due o tre anni e sempre ha pagato. Non credete opportuno di aumentare la tassazione? Il Presidente: Sì, sarà bene. Quanto? chiede il commissario: dobbiamo portare il reddito a 4.000 o 5.000 lire sterline? Presidente: mettiamo 50.000. Tizio pagò su 50.000 lire sterline, senza mormorare». Segno chiarissimo che il suo reddito superava le 50.000 lire sterline; e che, non essendo il suo reddito tra quelli (tassabili all’origine, il fisco difficilmente poteva conoscerlo, mentre a lui riusciva agevole la frode.

 

 

Se la frode è ridotta a limiti tollerabili, il merito, insieme alla tenuità dell’aliquota, va dunque attribuito alla tassazione all’origine, su quelli che, essendo i debitori del reddito, non hanno interesse a nasconderlo, anzi hanno l’interesse contrario a palesarlo integralmente, per non incorrere nel pericolo di dover parare due volte. Questo interesse è grandissimo sovratutto nel caso dei contribuenti – esattori per conto dello Stato i quali, come gli enti pubblici, gli enti morali e le società per azioni, hanno l’obbligo della pubblicità dei bilanci ed i cui amministratori sono responsabili della veridicità delle cifre scritte sui bilanci medesimi.

 

 

Onde diventa sempre più grande la convenienza per lo Stato di adattare i propri metodi di accertamento e di esazione delle imposte alle esigenze economiche e contabili di questi contribuenti – esattori. Non è possibile che lo Stato si serva unicamente negli utili dei contribuenti – esattori, come sono le società per azioni, trattandoli in materia contraria al vigoreggiar di essi. I contribuenti – esattori sono bensì uno strumento dell’azione fiscale, sono una condizione necessaria per il successo finanziario di un ordinamento tributario; ma è d’uopo che lo strumento sia adoperato in modo da non impedirne lo sviluppo, da non coartarne l’azione; anzi devono essere cercate le maniere con le quali lo strumento fiscale possa raggiungere il più alto grado di produttività propria perché allora soltanto è anche massima la produttività dell’imposta per il fisco.

 

 

Se questa è la lezione dell’Inghilterra: un miliardo di gettiti, con aliquota mite che partendo da zero per i redditi di 4000 lire italiane o meno, raggiunge solo al limite di (117.500 lire il 3,60 % per i redditi di lavoro ed il 5,80 % per redditi di capitale e tende appena all’8,60 % per i redditi superiori a 125.000 lire italiane[6], con un minimo di attrito tra contribuente e fisco; qual è la lezione della Prussia, di questo paese d’elezione dell’imposta globale, dell’imposta, come ho detto sopra, sulle pecore sottomesse alla dittatura burocratica? In Prussia, secondo la legge Miquel del 24 giugno 1891, il reddito imponibile, è quello globale, complessivo delle persone. è il sistema perfettamente opposto a quello inglese; ed ha avuto, bisogna riconoscerlo, un lusinghiero successo. Nel primo anno il reddito aumentò di un colpo da 79 1/2 milioni di marchi, quanto fruttavano le vecchie imposte abolite, a 115 milioni di marchi; e nel 1906 era giunto a 210 milioni.

 

 

Il successo, per quanto grande, è ben lungi però dall’uguagliare quello inglese. In breve ora il sistema prussiano fu imitato da quasi tutti gli altri Stati tedeschi, salvo la Baviera e due altri Stati minori; ed alle imposte di Stato si aggiunsero delle sovrimposte provinciali e comunali; cosicché il gettito dell’imposta di Stato e delle sovrimposte locali nel 1908 arrivava in tutta la Germania a circa 1.040 milioni di lire italiane. Il prodotto è uguale all’incirca in Inghilterra e in Germania; ma la pressione tributaria è ben più forte in quest’ultimo paese. In Germania il reddito minimo esente batte sulle 1.000 lire, in Inghilterra è di 4.000 lire. Basta questa differenza essenziale per dimostrare che in Inghilterra sono esenti forse i tre quarti dei contribuenti che in Germania sono tassati.

 

 

Inoltre in Inghilterra le attenuazioni d’imposta giungono sino alle 17.500 lire pei redditi in genere ed alle 50.000 lire per i redditi di lavoro; in Germania tutt’al più si arriva alle 12.000 lire. Sovratutto poi in Inghilterra le aliquote generali sono del 3,60 % pei redditi di lavoro, del 5,80 % pei redditi di capitale e tendono a toccare il massimo dell’8,60 % solo per i redditi superiori a 125.000 lire. In Germania, per ottenere lo stesso provento di un miliardo circa di lire, è d’uopo aggiungere tali e tanti centesimi addizionali al principale dell’imposta che l’aliquota complessiva ben di rado è inferiore al 10 % e soventi sale al 12 od al 15 %, non stando al disotto di alcune famigerate aliquote italiane dell’imposta di ricchezza mobile.

 

 

 

Il successo non è ottenuto soltanto al caro prezzo di molti e stretti giri di vite al torchio tributario, ma anche a prezzo di un sistema feroce di inquisizione fiscale. alla Camera dei deputati francesi, il signor Reinach parlando del sistema prussiano, giunse a dire: «In Prussia è stato necessario mettere in opera uno spionaggio intollerabile ed una delazione degradante; si interrogano i fornitori, i vicini, i domestici, i fanciulli, si tien conto dei pranzi dati in famiglia, dei sigari offerti agli invitati».

 

 

E che l’invettiva non sia esagerata è messo in luce da alcuni aneddoti gustosi, che si leggono in libri serissimi, come quelli dello Seligman e dell’Ingenbleek, e non furono oppugnati da nessuno. Ad un commerciante fu chiesto: «Usate voi il telefono per vostro uso privato, e cioè fuori dei bisogni d’ufficio?» Egli rispose: «No». Ma, quando si scoperse che egli aveva ordinato un palco al teatro per telefono, gli aumentarono l’imposta. Perché, evidentemente, usare il telefono per usi non commerciali vuol dire avere un reddito più alto.

 

 

Ad un pezzo grosso finanziario fu chiesto: «Quanti titoli avete venduto l’anno scorso? In che giorno e in che borsa li avete venduti? A che prezzo? Quale il nome della società di cui possedete dei titoli? Chi sono i vostri soci? Quanto risparmiate all’anno? Che cosa fate dei vostri risparmi? Come spiegate l’aumento del vostro reddito quest’anno? è desso proveniente da capitale? Se è così, da dove è venuto il capitale? Fu un dono? Chi ve lo fece? è il risultato di una vendita vantaggiosa? Se è così, dite tutto intorno ad essa». Ad un proprietario di case fu chiesto: «Intendete voi di aumentare i fitti ai vostri inquilini? Avete investito il denaro che avete ricavato l’anno scorso dalla vendita di quel certo mobilio?» Ad un affittavolo si domanda: «Quante vacche avete? Quanto latte e burro vi danno ognuna? Quante galline? Quanta paglia fu consumata dal vostro proprio bestiame e quanta ne avete venduta? Quale è il valore della frutta; vegetali ed altri prodotti agricoli che voi e la vostra famiglia avete consumato l’anno scorso? Il proprietario da cui voi affittate i vostri terreni ha davvero rimborsato l’anno scorso il debito ipotecario che aveva? Non avete stimato troppo alto il logorio dalle vostre macchine agricole?»

 

 

Ad un commesso viaggiatore fu domandato: «Quanto spendete ordinariamente nei vostri viaggi? Quanto per divertirvi? Quali sono le altre vostre spese?». Se in Italia o in Francia gli agenti delle imposte volessero abituarci a simili impertinenze di linguaggio, i contribuenti risponderebbero con delle male parole; e qualcuno, offeso di essere creduto capace di far la spia, farebbe passare un brutto quarto d’ora al disgraziato agente. In Germania si contentano di sentir dire alla tribuna del Reichstag che «il paese è coperto da un perfetto sistema di spionaggio»; e, dopo averlo detto, tranquillamente vi si sottomettono. Quando si discusse una modificazione alla legge vigente, mercé la quale si autorizzavano le commissioni a sottoporre ad interrogatorio contribuenti ed a richiedere da tutti (e non dalle sole società per azioni, come in Italia) la produzione dei libri, contratti, ricevute e qualunque altro documento utile, nessuno si alzò a parlar contro ad una norma che attribuisce al fisco i poteri più assoluti ed inquisitori.

 

 

Per sopportare una imposta, con aliquote cosi alte, e accertata con metodi così autoritari, bisogna essere dei tedeschi, e dei tedeschi del nord. Questa almeno è l’opinione di Seligman. «I metodi amministrativi usati in Germania e specialmente in Prussia, sono impraticabili altrove. In nessun altro paese la burocrazia è così potente. In nessun altro paese gli uomini sono così ossequenti di fronte alla burocrazia. In nessun altro paese del mondo sarebbe possibile mettere in atto una procedura così inquisitoria, come quella che si è veduto essere consuetudinaria in Prussia. E malgrado tutta questa rigorosità è assai dubbio se le frodi e le evasioni siano sensibilmente minori che in Inghilterra».

 

 

Ed è assai dubbio, aggiungiamo noi, che il sistema possa continuare a funzionare, sia pure mediocremente come oggi, quando in futuro la compagine sociale della Germania sarà mutata, la burocrazia sarà divenuta meno onnipotente, il Governo si sarà trasformato secondo i metodi parlamentari e la borghesia avrà acquistato coscienza della sua forza. Il sistema tedesco è il prodotto di una situazione particolarissima; e, ben lungi dal dover essere considerato come il tipo della perfezione, non dico teorica, ma semplicemente amministrativa, è di gran lunga inferiore al sistema inglese, il quale con a) procedura assai meno inquisitoria, b) aliquote di gran lunga minori, e c) la geniale creazione dei contribuenti fittizi, esattori per conto dello Stato, ottiene risultati fiscali uguali e rende ossequio ben più profondo alle esigenze della esenzione dei redditi minimi e mediocri dalle imposte dirette e della variazione dell’imposta a seconda dell’origine e dell’importanza del reddito.

 

 

Che il sistema della tassazione del reddito globale o della tassazione all’arrivo presso il contribuente sia una particolarità prussiano – burocratica, è dimostrato all’evidenza dal fatto che nemmeno gli altri tedeschi ne vogliono sapere. Applicato in Austria, il sistema ha fatto fiasco. «Malgrado una latitudine abbastanza ampia di poteri lasciata all’amministrazione ed una procedura che, sebbene non paragonabile alla Prussiana, può ciononostante essere considerata inquisitoria, i funzionari non sono in grado di accertare il reddito dei contribuenti con qualche parvenza di accuratezza e le dichiarazioni sono notoriamente manchevoli. Scrivendo cinque anni dopo l’approvazione della legge di riforma del 25 ottobre 1896, il professore Wieser richiamava l’attenzione sugli accertamenti notoriamente troppo bassi non solo nei distretti rurali, ma generalmente tra le classi più ricche, come tra le più povere della popolazione. Egli confessò mestamente che il pubblico non aveva nessuna disposizione a fare dichiarazioni nemmeno per metà giuste… Il dott. Mayer, alto funzionario governativo, è costretto ad ammettere che le frodi e le evasioni sono divenute epidemiche. Si crede che non più di un terzo od una metà del reddito effettivo può essere accertata. Così poco soddisfacenti sono stati i risultati degli sforzi per raggiungere il reddito reale che si dovette ricorrere, in proporzioni larghissime, a quell’articolo della legge che permette ai funzionari di stimare il reddito del contribuente secondo i segni esteriori e specialmente il fitto da lui pagato per la casa. In pratica il reddito è stimato a cinque volte il valor locativo dell’appartamento abitato dal contribuente. Cosicché, ciò che doveva essere una accurata imposta sul reddito ha finito di diventare una specie grossolana di imposta sul valor locativo».

 

 

Né migliori sono le condizioni di fatto nell’altra terra promessa della tassazione globale, voglio dire nella Svizzera. Qui l’imposta prende due forme principali: sul capitale e sul reddito. Di solito le due imposte coesistono, in proporzioni variabili, salvo nel cantone di Berna, dove esiste solo l’imposta sul reddito. La differenza tra i due tipi d’imposta è in gran parte puramente formale, perché è indifferente tassare col 0,50 % il capitale che rende 5 lire all’anno per cento o col 10 % il reddito. In ambedue i casi il contribuente paga 50 centesimi. La coesistenza delle due imposte permette però di prelevare i 50 centesimi una volta sola dalle 5 lire di reddito di lavoro, a titolo di imposta sul reddito, e due volte, a titolo di imposta sul reddito e di imposta sul capitale, sui redditi di capitale. Naturalmente l’esempio dato è immaginario, variando nei cantoni Svizzeri moltissimo le aliquote e le combinazioni tra le due imposte. Ma, comunque congegnate e combinate, le due imposte gareggiano tra di loro nel funzionare pessimamente. Avendo la pretesa di colpire il reddito all’arrivo presso i redditieri ed i capitalisti, questi si danno gran cura di fuorviare le ricerche del fisco.

 

 

Non c’è che l’imbarazzo della scelta nelle testimonianze del fatto notorio. «Nel cantone di Zurigo fu affermato nel 1897 autorevolmente su dati di fatto, che solo il 54 % della ricchezza era accertato. In una conferenza sulla questione della frode fiscale, tenuta nel 1895 da un funzionario fiscale, si concluse che le frodi crescono quattro volte più rapidamente dell’incremento della ricchezza. In Berna le condizioni non sono migliori; e si nota che in Appenzell e San Gallo nessuno pensa a pagare l’imposta dovuta. In altri cantoni gli abitanti considerano come cosa che va da sé che essi hanno quasi il diritto di non dichiarare più di un terzo del loro reddito; ed in altri luoghi è divenuto abitudine degli agenti delle imposte di chiedere direttamente ai contribuenti la cifra che essi si degnano di pagare. In Appenzell è divenuto de bon ton di dichiarare la frazione più piccola possibile del reddito. Non solo il pubblico non biasima il contribuente che nasconde la maggior parte della propria ricchezza; ma la gente al contrario è stimata in ragione della furberia posta nell’evadere al pagamento dell’imposta. In molte città si conchiudono regolari contratti fra il contribuente e l’agente delle imposte, in virtù di cui il contribuente, in cambio del basso accertamento, si obbliga a non trasferire la sua residenza in altre città. Soltanto quando le aliquote sono eccezionalmente basse e l’imposta è insignificante, essa ha un certo grado di successo. Ma, a mano a mano che l’imposta cresce ed acquista una posizione importante nel sistema tributario, dessa è votata all’insuccesso. Né si può dire che una delle due specie d’imposta abbia sull’altra qualche vantaggio. Se l’imposta sul capitale funziona male, l’imposta sul reddito funziona peggio».

 

 

L’Italia, che lo Seligman ha pure fatto oggetto dei suoi studi, insegna qualcosa? Si. L’Italia possiede una imposta sul reddito molto simile a quella inglese, ed è l’imposta di ricchezza mobile. Contrariamente ai nostri riformatori, i quali parlano dell’imposta inglese sul reddito come di qualche cosa che è ignoto in Italia, lo Seligman giustamente considera l’imposta italiana di ricchezza mobile né più né meno che un perfetto equivalente dell’imposta inglese. Due sole le differenze, anzi una, perché la seconda oggi è in gran parte scomparsa. La prima differenza, tuttora esistente, è formale.

 

 

L’imposta inglese colpisce anche i redditi dei terreni e dei fabbricati (categoria o schedula A), mentre in Italia quei redditi sono colpiti da due speciali imposte sul terreni e sui fabbricati. è una differenza puramente verbale, perché in sostanza è indifferente chiamare un’imposta col titolo di categoria A dell’imposta sui redditi, come in Inghilterra, ovvero con l’altro di imposta sui redditi dei terreni e dei fabbricati, come in Italia.

 

 

I redditi che l’imposta inglese tassa col nome di categorie B, C, D ed E dell’imposta sul reddito sono precisamente quelli che in Italia sono tassati col nome di categorie AI, AII, B, C e D dell’imposta di ricchezza mobile. Su questa differenza che ha fatto versare fiumi d’inchiostro ai nostri chiacchieroni finanziari è inutile fermarsi oltre. L’altra differenza era invece sostanziale ed era tutta a favore dell’imposta italiana. Infatti l’imposta inglese, fino al 1907, tassava i redditi di tutte le categorie colle medesime aliquote; e solo dopo il 1907 distinse i redditi personali da quelli di capitale, tassando questi più di quelli.

 

 

Fu necessaria un’agitazione di due terzi di secolo per raggiungere in parte il risultato, che fin dal 1864 si era ottenuto in Italia, quando con la legge istitutiva dell’imposta di ricchezza mobile i redditi furono distinti in redditi di lavoro puro, redditi misti (industriali e commerciali) e redditi di capitale puro, tassando questi ultimi coll’aliquota massima, quelli di lavoro con l’aliquota minima e quelli misti con aliquota intermedia.

 

 

Fuori di questa differenza, e salva sempre, s’intende, la diversa altezza dell’aliquota, le due imposte sono sostanzialmente uguali. Anche in Italia il reddito è tassato, dove è possibile, all’origine, ossia presso chi lo paga e non presso chi lo riceve. Lo Stato tassa i suoi impiegati e i suoi creditori per ritenuta; e nemmeno un centesimo sfugge per questo titolo all’imposta; tassa gli impiegati ed i creditori delle provincie, dei comuni, delle opere pie, degli enti morali ecc., traverso agli enti che pagano stipendi, salari ed interessi, salvo a questi enti il diritto di rivalsa; tassa gli azionisti, gli obbligazionisti, gli impiegati delle società per azioni, facendo pagare l’imposta alle società stesse, salvo sempre il diritto di rivalsa. In tutti questi casi, in cui il principio della tassazione all’origine, dello stoppage – at – source è applicabile, le evasioni sono notoriamente minime ed in parecchi casi, specialmente delle società per azioni, vi è talvolta sovra – tassazione di ciò che non è reddito ed è quota di ammortamento, di rischio ecc. ecc. dove l’imposta italiana di ricchezza mobile fallisce è precisamente là dove falliscono le imposte di tutto il mondo; e cioè nelle categorie in cui il principio dello stoppage – at – source, della tassazione all’origine è inapplicabile. Nelle categorie B e C, dei commercianti, industriali, professionisti privati, è impossibile andare alla sorgente dei redditi, perché partenza ed arrivo si confondono in una medesima persona: il contribuente che non riceve da nessun principale il suo reddito, ma lo guadagna direttamente dalla clientela e se lo tiene per sé, senza svelarlo ad alcuno.

 

 

Qui, come acconciamente nota lo Seligman, «l’agente delle imposte, disarmato non solo dalla legge (che non gli consente l’ispezione dei libri; e se lo consentisse, otterrebbe l’intento di farli scomparire o di farli fare inesatti) ma anche dalla forza della pubblica opinione, è praticamente incapace a controllare gli accertamenti e si contenta di fare una stima grossolana basata sopratutto sul fitto di casa pagato dal contribuente (proprio come in Austria!). Quasi nessuno pensa a fare una dichiarazione esatta del suo reddito; e nessuno immagina che gli accertamenti si avvicinino alla capacità contributiva reale dell’individuo. L’unico caso che stupirebbe un italiano sarebbe di vedere che il vicino ha dichiarato il suo reddito vero od è stato altrimenti tassato in misura proporzionata al vero reddito. Ciò produce ineguaglianze stridenti (shocking) fra i contribuenti ed una completa disorganizzazione fiscale».

 

 

Le cause dell’insuccesso sono due:

 

 

1)    la enormità dell’aliquota inutile riassumere le osservazioni dello Seligman, trattandosi di ben note faccende domestiche. Citerò soltanto la conclusione finale: «Mentre l’imposta sul reddito italiana ha alcune caratteristiche ammirevoli, come la tassazione all’origine (stoppage – at – source provisions) ed il principio della differenziazione dei redditi, le aliquote sono però divenute così enormi, che l’amministrazione ne è rimasta schiacciata e la coscienza pubblica si è obliterata». L’imposta sul reddito in Italia è prova segnalata della pazzia del tentativo di tassare i redditi con aliquote che non siano modestissime: the italian income tax, (dice proprio italian income tax, oh invocatori quotidiani dell’english income tax!) is a signal proof of the folly of the attempt to tax incomes at anything more than a very modest figure.

 

2)    Il fatto che in Italia il sistema della tassazione all’origine, dello stoppage – at – souce si applica soltanto ai quattro decimi dei redditi tassati. Di ciò il fisco non ha tutta la colpa, perché è una circostanza che in parte è apparente e in parte dipende dal grado di sviluppo dell’economia italiana.

 

 

Se in Inghilterra i 3/4 dei redditi sono tassati all’origine e in Italia solo i 4/10, la cosa dipende in parte dal fatto che i redditi fondiari ed edilizi in Inghilterra sono compresi nei 3/4 e in Italia sono esclusi dai 4/10. Se si includessero questi, le proporzioni non sarebbero straordinariamente diverse. E a tassare bene i terreni e i fabbricati occorre solo eseguire il catasto per i terreni[7] e dar opera alla revisione periodica, quinquennale del reddito dei fabbricati. Se non si esigono le imposte dovute per questi due generi di redditi, è perché o non si vuole o non si osa.

 

 

Oltre questa ragione apparente, ve n’è un’altra, la quale dipende, come ho detto, dal grado di sviluppo dell’economia italiana. In Inghilterra molti più redditi mobiliari si tassano all’origine, perché le industrie ed i commerci sono più frequentemente esercitati da società per azioni che da industriali e commercianti singoli, perché in Inghilterra i privati usano assai più frequentemente che in Italia tenere i proprii fondi presso le grandi banche per azioni e disporre per mezzo di assegni. Questa è la ragione sostanziale, oltre quella inenarrabile dell’enormità grottesca dell’aliquota, per cui è difficile in Italia tassare i redditi all’origine e sono più facili le frodi.

 

 

A mano a mano che l’economia italiana evolverà viemmeglio verso forme superiori di organizzazione industriale, che le società per azioni si sostituiranno alle imprese individuali, l’esazione dell’imposta all’origine diventerà più facile e le frodi diminuiranno. Del resto le istruttive relazioni del direttore generale delle imposte dirette sono probanti a questo riguardo l’imposta pagata dagli enti collettivi, ossia all’origine, dà gettiti rapidamente crescenti, mentre l’imposta pagata dai privati, ossia all’arrivo, dà redditi lentamente crescenti, stazionari o magari decrescenti.

 

 

Qui è dove il fisco italiano deve in parte dire: mea culpa. Poiché è nel suo interesse favorire quell’evoluzione economica che rende possibile la tassazione all’origine, poiché la esperienza italiana prova quanto siano brillanti i risultati della tassazione all’origine sugli enti collettivi pagatori dei redditi e sconfortante quella all’arrivo sui privati percettori dei redditi medesimi, poiché l’esperienza straniera insegna che l’unica maniera di far funzionare bene l’imposta sul reddito, nei paesi non asserviti all’inquisizione ed alla strapotenza burocratica, è la tassazione all’origine, ragion voleva che il fisco non ostacolasse anzi favorisse tutto ciò che la facilita.

 

 

La persecuzione fiscale contro le società per azioni non è dunque solo un’ingiustizia, ma un errore, un atto di suicidio. Il legislatore dovrebbe decidersi a considerare le società per azioni, alla pari delle provincie, dei comuni, degli enti morali, non come contribuenti veri e proprii ma come collaboratrici sue nell’esazione delle imposte; e dovrebbe adottare quei metodi di accertamento del reddito che fossero considerati come più adatti alla speciale natura della società «contribuente ed esattore per conto del fisco».

 

 

Sulle modalità delle riforme all’uopo necessarie non mi intratterrò, avendone già parlato altra volta su questa medesima rivista ed essendo esse state fatte in tempi recenti oggetto di studio ivi stesso e sulla mia Riforma Sociale da preclari ingegni. Qui sono pago di aver dimostrato ancora una volta come, anche a volersi mettere dal punto di vista generale di chi voglia riformare il sistema delle imposte sul reddito, il trattamento delle società per azioni è uno dei punti fondamentali, tipici della riforma; e non può dirsi che abbia inteso le esigenze veramente «moderne» della tecnica tributaria chi non sappia valutare l’importanza straordinaria e crescente che, data l’evoluzione odierna della economia, hanno le società per azioni ed in genere tutti gli enti collettivi e corporativi nell’ordinamento di un buono ed efficace sistema d’imposte

 

 

Chi ne volesse altre prove, le potrebbe trovare nell’indagine larga e precisa che lo Seligman fa, oltreché delle legislazioni vigenti sull’imposta sul reddito, delle proposte di introduzione dell’imposta medesima nei paesi che ne sentono tuttora la mancanza: ossia nella Francia e negli Stati uniti. Come ho avvertito sopra, io non sono d’opinione che la mancanza di un’imposta sul reddito sia straordinariamente deplorevole. Ma poiché essa è di moda, poiché i legislatori dei paesi che ancora non l’hanno credono di doversi coprire il volto dalla vergogna – e lo credono persino, cosa comicissima, i legislatori dei paesi come l’Italia che già l’hanno, e, immaginando di non averla, insistono per introdurne un duplicato! – cosi noi possiamo ammettere come un dato di fatto che l’imposta sul reddito sia desiderabile.

 

 

Dato ciò, è necessario che essa non sia una farsa, ma sia esatta sul serio. Appunto per questo in Francia l’imposta sul reddito proposta dal Caillaux si fondava non sul tipo tedesco, ma sul tipo inglese, dell’imposta per categorie, con l’applicazione più larga possibile della tassazione all’origine. Dal sistema prussiano il Caillaux aveva imitato solo quel tanto che anche il Lloyd George aveva ritenuto applicabile in Inghilterra: voglio dire l’idea di una super – tax, di una imposta complementare sul reddito globale. La super – tax inglese colpisce solo i redditi superiori alle 5.000 lire sterline la complementare francese di Caillaux avrebbe colpito solo i redditi superiori in complesso a 5.000 franchi.

 

 

Lasciando da parte ogni discussione intorno alla bontà o malvagità, convenienza o danno della super – tax o imposta complementare globale progressiva sul reddito, è doveroso affermare che questo è l’unico metodo ragionevole perché praticamente applicabile di imposta sul reddito. Alla base l’imposta sulle diverse categorie di reddito, tassate all’origine quanto più è possibile, allo scopo di diminuire le difficoltà di accertamento e ridurre al minimo le frodi. Questa base noi in Italia l’abbiamo già, teoricamente perfettissima, col nome di imposte sui redditi dei terreni, dei fabbricati e della ricchezza mobile. Si tratta solo di perfezionarne i particolari di applicazione, il che può essere tutto dal punto di vista del rendimento fiscale e della corretta ripartizione dell’onere tributario tra i contribuenti.

 

 

Al disopra della base, quando siasi compiuta l’indispensabile impresa dell’accertamento dei redditi per categorie – sono anni che predico la necessità di questi che ho chiamati i preliminari della riforma tributaria, ma è stata voce sparsa al deserto! – si può istituire una imposta complementare sul complesso dei redditi, quando il complesso superi una certa cifra, variabile da paese a paese, 125.000 lire in Inghilterra, 5.000 lire secondo Caillaux in Francia, 5.000 lire secondo Giolitti in Italia. Conosciuti gli addendi, sarà possibile fare la somma; ma voler tassare la somma prima di conoscere gli addendi è volere recitare una brutta farsa degna di saltimbanchi della politica e non di uomini di Stato.

 

 

E perciò che lo Seligman, fautore ardente dell’imposta progressiva, propugnatore tenace di un emendamento (il cosidetto 16esimo emendamento) alla costituzione americana, che renda possibile di istituire negli Stati Uniti quella imposta sul reddito che, votata dal Congresso nel 1894, fu dichiarata incostituzionale dalla Suprema Corte – è noto che la Suprema Corte americana ha diritto di dichiarare la incostituzionalità delle leggi, che vengono così senz’altro messe nel nulla; – nulla teme tanto quanto l’adozione di una imposta sul reddito tipo prussiano. La teme perché crede che una siffatta imposta sul reddito globale all’origine funzionerebbe così malamente da spargere il discredito sul principio stesso dell’imposta e renderne l’applicazione una farsa.

 

 

Egli, che non vuole né il discredito né la farsa, invoca per gli Stati Uniti l’applicazione dell’imposta per categorie e dello stoppae-at-source. Ed il primo fattore di cui egli vuol giovarsi nel suo progetto è precisamente la tassazione dei redditi per mezzo delle società anonime: the first element in the scheme would be the taxation of incomes through corporations; tassazione dei redditi degli azionisti, degli obbligazionisti, dei creditori, degli impiegati, degli operai, ecc., ecc.

 

 

«La utilizzazione, egli dice, delle società anonime semplificherebbe grandemente il lavoro amministrativo e frutterebbe una porzione assai importante (very substantial) dell’intiera imposta sul reddito; una porzione che negli Stati Uniti sarebbe più grande che in ogni altro paese».

 

 

Il principio dello stoppage – at – source dovrebbe essere applicato, altresì per i redditi degli impiegati pubblici, dei titoli di debito degli enti pubblici, dei terreni (dagli affittuari con sequestro, quasi si potrebbe dire, di parte del fitto, come in Inghilterra) e dei fabbricati (dagli inquilini). Il punto debole del sistema sarebbero al solito, come in tutti i paesi dei mondo, compreso l’Italia, i redditi professionali, commerciali ed industriali.

 

 

Ma lo Seligman spera che le frodi abbiano ad essere nel suo paese minori che altrove, per il grande numero delle società anonime, che esercitano moltissime imprese, le quali altrove sono lasciate ai privati. Onde si vede chiaro che è inutile accanirsi contro le frodi dei privai professionisti, industriali e commercianti, frodi che sono inevitabili in qualunque regime, essendoché l’uomo nasce frodatore e contrabbandiere; ma è necessario favorire e non ostacolare il sorgere di istituzioni economiche che, alla pari delle società anonime, sono congegnate per maniera da dovere diventare, sebbene involontariamente, le collaboratrici del fisco nell’accertamento dei redditi.

 

 

«Il successo», conchiude lo Seligman e mi piace di conchiudere anch’io il mio discorso con le sue parole, «il successo di un’imposta sul reddito dipende, forse più di ogni altra istituzione moderna, dai sistemi amministrativi adottati. Adottare semplicemente il principio dell’imposta sul reddito e promulgare una legge che ne delibera la imposizione non serve quasi a nulla. L’imposta funzionerà soltanto se noi sceglieremo un corretto sistema amministrativo ed elaboreremo uno schema che sia in armonia con le possibilità amministrative e col sentimento pubblico di ogni paese. Se noi scegliamo la via opposta ed osiamo troppo il risultato sarà necessariamente disastroso. Certi metodi, i quali promettono bene dal punto di vista della simmetria delle imposte, funzionano male in un ambiente democratico. Noi dobbiamo scegliere fra una perfezione ideale di teoria che non può essere applicata nella vita reale, ed un programma di efficacia pratica meno ambizioso, ma realizzabile».

 

 

Io vado più in là dello Seligman e non credo affatto alla «perfezione ideale di teoria» della imposta globale sul reddito alla prussiana; anzi la giudico teoricamente imperfettissima, come mi pare di aver dimostrato nella memoria già citata Intorno al concetto di reddito imponibile, ecc.; e concludo che la tassazione globale del reddito all’arrivo deve essere condannata perché, oltre all’essere teoricamente difettosa (del che a molti importa poco, bastando che essa sia simpatica) è, dal punto di vista amministrativo, un mostro destinato all’insuccesso.



[1] Oltreché i dati, anche parecchie tra le considerazioni fondamentali sui dati stessi sono dello Seligman, sebbene, naturalmente, io non mi sia potuto astenere dall’esporre e commentare i dati stessi a seconda di quella personale maniera di pensare che è propria di ognuno che scrive. Ad ogni modo ho avuto cura di mettere tra virgolette le frasi più probanti e calzanti dello Selignam.

[2] Vedansi per l’Italia le esilaranti rivelazioni della Riforma Sociale in articolo su L’Imposta di ricchezza mobile ed i nostri parlamentari, fascicolo di gennaio 1912.

[3] Cfr. lo studio di Alberto Geisser Della tassa domestici e di alcuni minori tributi locali, in Riforma Sociale, fascicolo di luglio-agosto-settembre 1912.

[4] Luigi Einaudi: Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema d’imposta sul reddito consumato. Un vol. in 4. Presso il Dott. Achille Necco, Piazza Santa Giulia 11, Torino e presso i librai, L. 5.

[5] Sul sistema del lasciare capitalizzare i redditi all’estero mi sono intrattenuto nella citata memoria pubblicata nei volumi della R. Accademia delle Scienze di Torino, Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposta sul reddito consumato. Intorno allo sconcio della doppia tassazione, che è la conseguenza del sistema inglese di tassare senza discernimento tutti i redditi provenienti dall’estero e di cui tanto si lamentano i governi coloniali, vedi in Riforma sociale del luglio/settembre 1912 l’articolo sui Doppioni internazionali d’imposta.

[6] Il sistema della tassazione all’origine non vieta infatti che, per i redditi bassi o medi, in Inghilterra il contribuente possa di sua iniziativa chiedere il rimborso totale dell’imposta dimostrando che il complesso dei suoi redditi, già tassati all’origine, è inferiore a 4.000 a 17.500 lire. Né vieta che ai più grossi redditieri, che hanno reddito superiore a 125.000 lire italiane, si possa imporre l’obbligo di dichiarare se il loro reddito complessivo, già tassato all’origine coll’income tax ordinaria, raggiunga appunto le 125.000 lire, nel qual caso allora essi saranno colpiti dalla super tax di 7 denari per lira sterlina, ossia del 2,80 % sulla parte di reddito che supera le 75.000 lire. Questa si è una pratica imposta globale sul reddito! Ma è chiaramente più agevole accertare il reddito globale di poche decine di migliaia di persone, tutte conosciutissime e poste in alto grado sociale, che non accertare il medesimo reddito globale per milioni di contribuenti. Il legislatore ha risolto il difficilissimo problema in modo semplice, l’unico praticamente tollerabile: ignorando in genere i redditi globali dei contribuenti; e tassando oggettivamente tutti i redditi, dove è possibile, all’origine; permettendo da un lato ai contribuenti piccoli di dimostrare la propria piccolezza per ottenere il rimborso totale o parziale dell’imposta già pagata ed obbligando dall’altro lato i pochi contribuenti maggiori a dichiarare che la somma dei loro redditi, singolarmente già tassati all’origine coll’income tax, supera le 125.000 lire italiane, per assoggettarli in tal caso alla super tax. Questo in succinto, salvo parziali modificazioni, il sistema inglese. Tra le modificazioni al sistema merita di essere ricordata quella per cui nella categoria D, dove i redditi spesso non possono essere tassati all’origine, trattandosi di redditi di industriali, professionali, commercianti, senz’altro si esimono dall’imposta i redditi inferiori a 4.000 lire, senza il giro ozioso del pagamento e del rimborso. Ma in tutti gli altri casi, quando il reddito può essere tassato dall’origine, anche i più piccoli redditi sono tassati, salvo domanda di rimborso. Il comitato d’inchiesta del 1906 accertò che, su 1.100.000 contribuenti, ben 700.000 avevano chiesto ed ottenuto rimborsi d’imposta totali o parziali; e la somma rimborsata era stata di 40 milioni di lire italiane. Il sistema funziona egregiamente, essendosi i contribuenti ad esso abituati. Quando, coll’atto del 1902, si introdusse finalmente quella differenziazione dei redditi, che in Italia esiste sino dal 1864, l’aliquota fu ridotta da 1 scellino a 2 denari per lira sterlina, ossia dal 5,80 % per i redditi in generale, a 9 denari per lira sterlina, ossia al 3,60 % per i redditi di lavoro e di industria personale che fossero inferiori a 50.000 lire italiane; ma, al solito, si fece pagare l’aliquota normale del 5,80 %, salvo rimborso della differenza a quelli che dichiaravano di avervi diritto. In seguito si escogitarono sistemi per evitare eccessivi pagamenti e rimborsi; ma il principio della tassazione integrale all’origine è mantenuto fermamente.

[7] Cfr. per una dimostrazione del come non si osi nemmeno far osservare da noi la legge del catasto: Luigi Einaudi e spectator. Per la perequazione catastale: come la grande impresa vien fatta degenerare innanzi che sia finita, in La Riforma Sociale, luglio-settembre 1912.

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