Opera Omnia Luigi Einaudi

I nuovi organi dello stato. Corporazioni e consigli tecnici

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/08/1924

I nuovi organi dello stato. Corporazioni e consigli tecnici

«Corriere della Sera», 15 agosto 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 790-793

 

 

 

A sostituire gli ordinamenti del «vecchio ed oramai esaurito organismo dello stato demo-liberale», e dare all’ideale dello stato fascista quel contenuto concreto di cui invano sinora filosofi e politici erano andati in cerca, due istituti sembrerebbero finalmente, dopo molte alternative di esaltazione e di abbandono, prescelti: «sindacati nazionali» e «consigli tecnici». Che cosa sono?

 

 

Procedendo per eliminazione, notisi intanto che non si tratta di novità germinate dal suolo italico dopo l’ottobre 1922. I sindacati nazionali non sono altro che le vecchie associazioni di mestiere, operaie e padronali, da rosse o bianche trapassate al segno littorio. Qualche differenza c’è; di cui la prima è l’aspirazione a creare un certo legame o corrispondenza tra sindacati operai e sindacati padronali, sicché gli uni non ignorino gli altri ed amendue si sforzino di contemperare gli interessi contrastanti; e la seconda sarebbe per l’appunto il fine nazionale di incremento della produzione, fine che dovrebbe sovrastare agli interessi collidenti e li dovrebbe indurre alla collaborazione. Che se questa non potesse ottenersi per spontaneo accordo, un organo superiore – impersonato in un fiduciario dello stato fascista – dovrebbe indurre col consiglio o coll’impero della legge le due parti a collaborare.

 

 

La definizione ora data è formulata in linguaggio ordinario, spoglio da ogni paludamento verbale. Ma forse il linguaggio ordinario è meglio atto a mettere in luce come nessuna essenziale novità sia contenuta nella parola «nazionale» appiccicata a quella «sindacato». Sempre fu detto che anche le parti avevano un punto di contatto nell’interesse comune della massima produzione; e sempre fu tentato, attraverso consigli di conciliazione, corti di arbitrato, conferenze dei segretari delle confederazioni avverse di giungere ad una soluzione che salvaguardasse gli interessi delle due parti e quindi l’interesse comune. Neppure l’intervento dello stato fascista è una novità; ché di intervento dello stato sempre si ebbero esempi più o meno fortunati. La disputa si ridurrebbe dunque a sapere quale mezzo tecnico sia più efficace a risolvere i contrasti fra capitale e lavoro; e sarebbe atto di superbia veramente eccessivo quello dei dirigenti le attuali corporazioni – le chiamano anche così, risuscitando una vecchia parola medievale, caratteristica di tutt’altri istituti quando asserissero di essere stati più fortunati nel pacificare dei loro predecessori. Ché dall’ottobre 1922 finora è mancata una condizione essenziale di giudizio: la libertà degli operai di associarsi a loro piacimento, di pagar contributi agli uomini di loro fiducia, di scioperare quando ne avevano voglia. Anzi, quando parve che taluna classe operaia serbasse fede agli antichi dirigenti, fu subito fabbricato un decreto, il quale dava autorità ai prefetti di manomettere la proprietà privata degli operai riuniti in sindacati di colore spiacevole al partito dominante e sulla base di tal decreto qualche commissario governativo oggi si attenta persino a chiamare in giudizio il fiduciario degli operai perché consegni a lui, dagli operai aborrito, le somme che all’altro erano state volontariamente consegnate.

 

 

Neppure si può parlar di novità a proposito dei «consigli tecnici», che sarebbero associazioni volontarie in cui uomini esperti di questa o quella industria, o commercio od arte liberale si riuniscono per discutere i problemi urgenti, stendere relazioni, formulare conclusioni, da presentare al potere esecutivo od a quello legislativo dello stato e degli enti locali. Sempre ci furono cotali congressi, comitati, corpi tecnici, associazioni; sempre stesero relazioni, alcune delle quali diventarono celebri; sempre formularono voti, che governi e parlamenti tennero in grande o piccolo o nessun conto. Né la novità può consistere nell’aspirazione dei consigli tecnici a dar forza obbligatoria ai loro voti; ché da molti anni una scuola politica, principalmente belga e cattolica, parla di un «parlamento professionale»; e sono pubblici un discorso inaugurale all’Ateneo torinese di Francesco Ruffini e una relazione senatoria in cui tali concetti sono largamente discussi a proposito della riforma del nostro senato; né consta che la letteratura fascista nuovissima abbia aggiunto alcunché a questi memorandi documenti. Ma forse si deve riconoscere che il fascismo intende dare nuovo significato ai due concetti notoriamente vecchi. I sindacati o corporazioni «nazionali» ed i «consigli tecnici» non dovrebbero essere istituti per sé stanti, capaci di risolvere problemi particolari: conflitti tra capitale e lavoro, ordinamento dell’industria, problemi vari economici e culturali. Se questo soltanto fossero, anche i fascisti riconoscono che gli istituti da essi vagheggiati rassomiglierebbero troppo alle vecchie leghe o confederazioni operaie e padronali, ai vecchi consigli superiori, dell’istruzione, del lavoro, dei lavori pubblici, della statistica, del commercio, dell’industria, delle miniere, della pubblica beneficenza. L’antico regime, pur non chiamandoli «tecnici», aveva moltiplicato questi consigli ed aveva reso obbligatorio ai ministri sentirne e talvolta seguirne il voto; sicché a non pochi parevano divenuti un vero flagello, atto soltanto a sminuire la responsabilità ministeriale, e fu dato plauso al nuovo regime, quando dapprincipio ne spazzò via un gran numero tra quelli più ingombranti.

 

 

Non di così poco si contentano gli ideatori del nuovo stato fascista: quei vecchi concetti dovrebbero invece da particolari trasformarsi in generali, dovrebbero diventare la colonna maestra, l’essenza dello stato nuovissimo. Come ciò possa accadere, non si sa con precisione. Si può soltanto indovinare che l’attuale regime ancor vivente nella carta statutaria, debba essere messo da un canto, perché individualistico, atomistico, anarchico, disadatto a rappresentare le grandi forze organiche del paese. Che cosa rappresenta infatti un parlamento, eletto dal suffragio universale, ossia da una moltitudine di uomini, elettori perché genericamente uomini? Null’altro che la confusione, il disordine delle menti e delle volontà, l’incapacità a generare un governo forte e duraturo.

 

 

Siano invece gli uomini organizzati in corporazioni; ciascuno nel suo gruppo; e votino in esso per la formazione di consigli tecnici particolari, rappresentanti gli interessi locali e provinciali e regionali, distinti per industrie, commerci, arti, professioni, impieghi. Ed i consigli tecnici creino un parlamento nazionale, diviso in uno o più rami, con metodi elettorali da discutersi.

 

 

Il parlamento sarà così l’emanazione non più di atomi dispersi, ma di organismi vitali; rappresenterà le grandi correnti di interessi e di idee: le maestranze cittadine, le plebi rurali, i proprietari grandi e quelli piccoli, gli industriali, i commercianti, l’esercito, gli intellettuali, gli artisti. Tutte le classi, tutti i ceti si faranno sentire nel nuovo Areopago. Al posto dei politicanti generici, legifereranno gli interessati ed i competenti. Il governo che uscirà da queste assise sarà un governo forte. Il nuovo ordine di cose sarà nel tempo stesso conservatore e progressivo.

 

 

Tale l’idea. Ne esamineremo in un altro articolo il valore e la portata.

 

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