Opera Omnia Luigi Einaudi

I preliminari della riforma tributaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/11/1909

I preliminari della riforma tributaria

«Corriere della Sera», 12 novembre 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 802-808

 

 

La riforma tributaria è ritornata a formare argomento di discussione in seguito alle notizie di studi intrapresi all’uopo dal ministero delle finanze; ed è da credere non si tratti di un discorso estivo, poiché l’estrema sinistra sembra ne volesse fare un caposaldo della sua azione parlamentare. Alle antiche aspirazioni riformistiche si vorrebbe oggi far fare un passo decisivo, profittando ed invocando l’esempio che ci viene dalla Francia (riforma Caillaux) e dall’Inghilterra (bilancio di Lloyd George).

 

 

Senonché l’esempio straniero che si ama citare spesso senza saperlo valutare esattamente, ci indica altresì la strada che da noi si dovrebbe seguire per non fare infrangere ogni, anche più moderato, disegno di riforma contro ostacoli insormontabili. Il Lloyd George ha potuto proporre di accrescere il gravame sui redditi maggiori (2,50% di imposta addizionale sui redditi di almeno 125.000 lire annue per la parte eccedente le 75.000 lire) perché esiste già e fu perfezionata a poco a poco attraverso ad un’esperienza di tre quarti di secolo una imposta (income tax) la quale colpisce ed accerta i redditi, distinti prima nelle loro diverse categorie e poi insieme raggruppati. Essendo i redditi conosciuti, almeno con una certa approssimazione, fu possibile al Lloyd George e sarebbe stato possibile, senza fare a lui alcun torto, ad un qualunque altro ministro delle finanze, colpire i redditi più elevati. In Francia la intrapresa si presentava grandemente più difficile, poiché, dato il sistema di contribuzioni dirette indiziarie vigenti, i redditi dei contribuenti non erano conosciuti. Il Caillaux dovette quindi proporre di istituire, al posto delle esistenti, destinate a scomparire, nuove imposte dirette sui terreni, sui fabbricati, sui redditi mobiliari e personali; imposte miti, proporzionali; e conosciuti, mercé loro, i molteplici redditi dei contribuenti, propose di farne la somma e di istituire, per il complesso dei redditi, una seconda imposta complementare e progressiva, con larghissime esenzioni. Quale abbia ad essere il successo della riforma tributaria francese, se sarà approvata, ancora non si può dire; poiché non si sa se le imposte parziali sulle diverse specie di redditi saranno praticamente congegnate in modo da scoprire i redditi. Probabilmente alla lunga il sistema funzionerà abbastanza bene, come oggi funziona in Inghilterra; ma non è azzardato affermare che i risultati saranno soddisfacenti solo fra parecchi anni.

 

 

E in Italia? Se i disegni Sonnino e Giolitti-Gagliardo incontrarono così scarso favore, una cagione principalissima si deve trovare nel fatto, di cui tutti sono persuasi, che mancava a quei disegni, come mancherebbe ad un qualunque altro disegno che improvvisamente dovesse essere applicato, una condizione preliminare, senza di cui non è immaginabile il buon funzionamento di una qualunque imposta, progressiva o non, complementare o principale, sui redditi: voglio dire la conoscenza dei redditi che devono essere colpiti dall’imposta.

 

 

Le egregie persone che in Italia ogni tanto propongono una imposta generale sui redditi dimenticano sempre questa circostanza, secondaria forse ai loro occhi, ma in fatto di importanza principalissima e pregiudiziale, che cioè in Italia i redditi non si conoscono. Per quanto la cosa sembri incredibile, nulla di meno esatto. Di solito la difficoltà viene girata col ricordare che da noi già esistono le tre imposte dirette sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile; e poiché queste tre imposte colpiscono già partitamente tutte le forme possibili di reddito, si dice: facciamo la somma dei redditi accertati dalle imposte esistenti e su questa somma, quando essa superi le 5.000 lire o le 10.000 lire, collochiamo una seconda imposta complementare progressiva. Così diceva il progetto Giolitti-Gagliardo, e così in fondo dicono i regolamenti per le imposte di famiglia istituite dai municipi. Anche a Milano, l’imposta di famiglia, pure non precludendosi la via ad accertamenti ulteriori, assume come base e reputa esatti i redditi accertati agli effetti delle tre imposte dirette sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile.

 

 

Ora è d’uopo dire ancora una volta ciò che è nella coscienza di tutti, che qualunque nuova imposta la quale si basi sugli accertamenti attuali sarà sempre una imposta sperequata, e perciò incomportabile? La nuova imposta non potrà mai avere un sistema proprio di accertamento dei redditi, ma dovrà sempre basarsi sui redditi accertati agli effetti delle tre imposte dirette. Per sapere e dimostrare con un certo fondamento di verità (si tratta di argomenti gelosissimi in cui non basta la pubblica fama, che è di solito la universale invidia) che il contribuente Tizio ha un reddito complessivo di 10.000 lire all’anno, è d’uopo sapere che egli riceve, ad esempio, 2.000 lire dalle proprietà di terreni, 2.000 lire da crediti ipotecari o cambiari, 1.000 lire da azioni industriali e 5.000 lire dall’esercizio di una professione o commercio. Solo dopo che le cifre componenti il reddito sono state ad una ad una analizzate e dibattute fra contribuente e fisco, solo dopo che su di esse sono intervenute le decisioni delle competenti magistrature, è possibile fare la somma coll’affermare che il reddito di Tizio è di 10.000 lire all’anno. Così si fa in Inghilterra ora, così si farà in Francia quando il progetto Caillaux sarà divenuto legge, e così si fa in tutti i paesi dove le imposte sul reddito complessivo sono razionalmente congegnate. Non si fa questione di proporzionalità o progressività, non si argomenta contro l’imposta globale sui redditi, quando si fa una affermazione di semplice buon senso, quando si enuncia la lapalissiana verità: che per fare una somma bisogna conoscere gli addendi e bisogna che gli addendi siano omogenei. Per affermare che Tizio ha un reddito totale di 10.000 lire, bisogna sapere che i suoi redditi parziali sono 2.000 (terreni) + 2.000 (crediti) + 1.000 (azioni) + 5.000 (professione) e bisogna ancora che queste cifre parziali 2.000, 2.000, 1.000 e 5.000 siano omogenee e quindi sommabili, siano cioè tutte lire italiane del sistema monetario vigente attualmente nel nostro paese o ad esso riducibili.

 

 

Ora – molti purtroppo lo dimenticano – gli addendi che dovrebbero formare la somma del reddito del contribuente italiano in parte non sono conosciuti ed in parte non sono omogenei. Innanzi tutto, per una parte dei redditi, quelli agrari, gli addendi non sono omogenei. Ognun sa che la principale fonte di reddito in Italia è ancora la terra; ed ognun sa che i redditi della terra nella grande maggioranza delle provincie italiane sono ancora valutati in base ai vecchi catasti. Il che vuol dire che i redditi della terra sono nella maggior parte d’Italia ancora rappresentati da cifre numeriche 100 o 1.000 o 10.000, le quali sono pure cifre contabili senza alcuna connessione con la realtà e senza la possibilità, neppure lontanissima, di potere essere ridotte a lire italiane odierne. I catasti parlano, è vero, di lire, scudi, ducati ecc. ecc., ma sono cifre ideali, che erano già irreali all’epoca della formazione del catasto (uno o due secoli or sono) e che sono ora affatto intraducibili in linguaggio monetario attuale. Per di più, il reddito attuale dei terreni non ha alcun rapporto col reddito dei terreni all’epoca della formazione dei vecchi catasti, il che rende la confusione addirittura inestricabile.

 

 

I guai sono minori assai per quanto si riferisce ai redditi dei fabbricati, ma non sono nemmeno lievissimi. Ho già avuto occasione di rilevare altra volta come l’ultima revisione dei redditi sui fabbricati rimonti al 1889, ossia a vent’anni fa. Dopo d’allora è venuta la crisi edilizia, che ha ridotti i redditi di taluni centri ad un punto, da cui si rialzarono poi in maniera diversissima ed è venuto di recente il rialzo degli affitti, il quale ha fatto sì che le vecchie case siano valutate secondo il reddito minore che esse davano nel 1889 mentre le nuove sono tassate secondo il reddito attuale. Ove si vogliano tassare i redditi dei fabbricati secondo quella giustizia comparativa, che in materia tributaria è la sola giustizia imperiosamente richiesta, una revisione accurata dei redditi si impone.

 

 

Gravissima è infine la sperequazione per quanto ha tratto ai redditi mobiliari. È noto che i redditi soggetti all’imposta di ricchezza mobile si distinguono in cinque categorie che all’incirca si possono enunciare così: A 1, redditi dei capitali dati a mutuo allo stato, provincie e comuni (imposta 20% del reddito); A 2, redditi a mutuo a enti morali, società e privati (imposta 15%); B, redditi del capitale misto a lavoro, e cioè delle industrie e commerci (imposta 10%); C, redditi del lavoro puro in professioni ed impieghi privati (imposta 9%); e D, redditi dipendenti da stipendi, pensioni ed assegni fissi pagati dallo stato, dai comuni e dalle provincie (imposta del 7,50%). Queste cinque categorie si comportano in modo diversissimo rispetto alla verità negli accertamenti. Quelli della categoria A 1 e D sono tassati, trattandosi di redditi pagati dallo stato, dalle provincie e dai comuni, con precisione, talché neppure un centesimo sfugge all’imposta. Quelli della categoria A 2 si dividono in due parti i redditi dei mutui ipotecari da una parte, che, per la pubblicità del contratto, sono subito conosciuti dalle agenzie delle imposte e tassati intieramente ed i redditi dei mutui chirografari e cambiari, i quali si occultano con facilità grandissima e son noti in parte solo quando appartengono ad enti aventi obbligo di pubblicità nei bilanci o quando il credito diventa litigioso o inesigibile ed il creditore, per salvare qualcosa del capitale, deve ricorrere ai tribunali diventando così noto il credito al fisco, il quale giunge a tassarlo solo allorquando gli interessi sul credito stesso non si possono più esigere.

 

 

Quanto alla B (industrie e commerci) ed alla C (professioni ed impieghi), si sa come vanno le cose. I redditi sono accertati abbastanza esattamente a carico delle società anonime, dei loro impiegati e degli enti morali, i cui bilanci sono pubblici. Rispetto ai contribuenti privati, spinti dalla elevatezza dell’aliquota (15 e 10% del reddito), essi cercano di sottrarre ad ogni costo i redditi duramente guadagnati agli artigli del fisco, e ci riescono in non trascurabile misura. L’ing. Nicola ha di recente pubblicato sull’Economista di Firenze uno studio sui difetti gravi dei nostri metodi di accertamento dei redditi mobiliari; e da alcune interessanti tabelle contenute nel suo studio si ricava, ad es., che il reddito medio dei commercianti nel reparto nutrimento è nel regno di lire 838 all’anno ed a Milano di lire 1.449, che le professioni sanitarie rendono in media nel regno 900 lire appena all’anno ed a Milano 2736, che le professioni legali rendono appena 1.497 e 3.190 lire rispettivamente, e le professioni tecniche fruttano soltanto 1.014 e 3.331 lire. Questi redditi medi, già così bassi, sono quelli dei contribuenti colpiti dall’imposta; e l’ing. Nicola ha calcolato che nelle grandi città italiane appena un terzo dei professionisti esercenti indicati nelle guide è compreso nei ruoli delle imposte; cosicché quei tali redditi sarebbero quelli medi dei professionisti già arrivati a notevole rinomanza e sugli altri eminenti.

 

 

È chiaro che su queste fragilissime basi (redditi dei terreni sperequati e rappresentati da cifre contabili senza alcun significato, redditi dei fabbricati sperequati anch’essi per la antichità della ultima revisione generale del 1889, redditi di ricchezza mobile conosciuti nella loro integrità solo per la categoria A 1 e D e totalmente o parzialmente ignoti per le categorie A 2, B e C) non si può assolutamente costrurre un buon edificio tributario; e tanto meno si può assidere, come è pur ovvio avvenga, quella imposta generale sul reddito, che dovrebbe essere la attuazione più perfetta della giustizia tributaria. Oggi l’imposta generale sul reddito sarebbe giusta solo nell’apparenza, ma ingiustissima di fatto; colpirebbe a caso i contribuenti più disgraziati o meno astuti e lascerebbe sfuggire molti, magari di gran lunga più ricchi dei primi. Perciò ho intitolato questo articolo: I preliminari della riforma tributaria. Si faccia pur questa; ma sia preceduta da una revisione accurata dei metodi di accertamento. Non è certo una impresa facile quella di studiare ed attuare i metodi più adatti ad accertare i redditi. Né son problemi i quali si prestino a brillanti campagne parlamentari e giornalistiche; trattandosi di complicate questioni tecniche, le quali devono essere studiate con la maggiore ponderazione. Sono problemi preoccupanti anche dal punto di vista finanziario, perché un buon metodo di accertamento non si può scompagnare dalle aliquote tenui e le nostre sono purtroppo elevate.

 

 

Nessuna persona equa e ragionevole oserà dunque, credo, mettere in dubbio che, prima o magari contemporaneamente alla riforma nella ripartizione dell’imposta, occorra compiere la riforma nei metodi di accertamento dei redditi. Laddove i redditi sono noti, almeno approssimativamente, è possibile pensare ad attuare i postulati della giustizia tributaria. Laddove, come è da noi, predomina l’ignoranza e la diseguaglianza nell’accertamento, ogni riforma non può che aggravare i malanni della sperequazione esistente a cui ci siamo, in mancanza di meglio, già adattati. Questo è l’ostacolo primo che importa rimuovere.

 

 

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