Opera Omnia Luigi Einaudi

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte I: Il credito dello Stato Sabaudo all’aprirsi della guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1908

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte I: Il credito dello Stato Sabaudo all’aprirsi della guerra

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 175-184

 

 

 

49. – Cominciando il discorso dei “debiti” contratti per la guerra di successione spaguola, dobbiamo dire anzitutto di quelli i quali pesavano già sul bilancio piemontese all’aprirsi del 1700. Il credito pubblico di uno stato si misurava allora, come oggi, dalla solidità delle finanze in tempi normali, dalla proporzione delle entrate già consacrate al servizio del debito pubblico e dal margine tuttora esistente nelle entrate ordinarie e sicure a garanzia dei capitalisti, a cui si chiedeva denaro a mutuo. La misura del credito pubblico parrebbe forse più facile per tempi nei quali anche il credito degli Stati avea carattere reale, poiché i creditori davano a mutuo con garanzie reali su certe entrate pubbliche determinate nel contratto, od addirittura acquistavano, col patto del riscatto, i tributi, la cui riscossione garantiva il servizio del prestito. Sicché, potrebbe ragionarsi, uno Stato godeva credito fino a quando poteva impegnare o vendere tributi o redditi demaniali d’esazione liquida e sicura; e, finiti questi, trovavasi ridotto al regime degli spedienti. Ma una conclusione siffatta, se non sarebbe oggi accolta, nemmeno era buona per quei tempi. Troppo vivo era il ricordo di imposte straordinarie sugli interessi del debito pubblico, malgrado le promesse sacre dei Principi, e contagioso pareva l’esempio di clamorose bancarotte di Stati forestieri, perché i capitalisti non andassero a rilento nell’imprestare, malgrado le garanzie più sicure, quando reputavano che, crescendo gli interessi del debito, sarebbe nato conflitto tra la fede giurata dal Principe verso i suoi creditori e la necessità di pagare con quegli stessi redditi, già gravati dal servizio del debito, le spese imprescindibili militari e civili dello Stato. La possibilità di far prestiti dipendeva certo moltissimo dall’abbondanza del denaro in cerca di impiego, dalle occasioni concorrenti di farlo fruttare, dalle vicende prospere od avverse della guerra; ma elemento primissimo di giudizio era la solvibilità dello Stato, e questa si misurava dalla proporzione delle entrate ordinarie di Corona, che poteva destinarsi a pagare gli interessi pattuiti coi creditori, senza danno delle altre necessarie spese pubbliche.

 

 

50. – Non era certamente ottimista e propenso, se danaroso, a mutuare suoi capitali al Principe quel progettista originale che, ancor prima della guerra del 1690/96, avea compilato un bizzarro quadro tripartito delle finanze piemontesi. Benché alquanto anteriore all’epoca nostra, lo riassumiamo, perché ci fa vedere l’opinione che s’avea, in ceti di persone pure istruite, delle condizioni finanziarie dello Stato[1]:

 

 

Redditi fiscali

Beni immuni

Redditi alienati

Gabella generale del saleCarne, corame e fogliettaDogana e tratta

Dacito di Susa

Dacito di Vercelli

Tabacco

Acquavita

Balena

Segreteria del Senato et altri piccoli redditi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Beni dei VescovatiBeni di AbatieBeni de’ frati antichi

Beni dei frati, acquistati, altre volte allodiali (T)

Beni di monache, antichi

Beni di monache acquistati, altre volte allodiali (T)

Beni de’ Cavalieri di Malta, delle loro commende et altri de’ SS. Mauritio et Lazzaro (T)

Beni antichi delle Cure

Beni costituiti in patrimonio a preti (T)

Beni feudali antichi et altri di nuova legge sottoposti solo alle Cavalcate

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Redditi altre volte della Corona che sono stati allienati parte gratiosamente et parte con titoli onerosi di un milione e più d’annuo redditoLi mollini di tutte le città e luoghi del Piemonte, forni, segreterie, pedaggi, redditi in denari,  bealere, pesche, edificij sopra le acque d’ogni sorta, resighe, battitori da carta, piste da olio, piste da riso, martinetti e t fucine, affaitarie, mollini da seta, canoni et altri fitti minutiIl tasso resta i due terzi allienato, parte con titolo oneroso, parte gratuito.

Il foraggio al pari alienato

Il sissidio militare resta in essere.

Il compartimento generale del grano il simile

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le conclusioni non erano certo confortanti: nella colonna di mezzo sono elencati i beni immuni dai carichi pubblici o soggetti solo al pagamento del tasso (segnati con 2); a destra di chi legge sono descritti i redditi che una volta spettavano alla Corona e che erano stati a poco a poco alienati in tutto od in parte e si trovavano posseduti dalli “vassalli, feudatari et altre persone commode, che nulla contribuivano allo Stato”. Al fisco rimanevano solo le gabelle descritte nella colonna a sinistra; ma di esse se “ne può fare puochissimo capitale” essendo “la maggior parte assignate” a imprescindibili spese pubbliche. Cosicché le finanze non avevano di liquido altro che un terzo del tasso, pochissimi fogaggi, e per intiero il sussidio militare ed il comparto dei grani. Poca cosa, dovremmo aggiungere noi, per allettare i capitalisti; poiché verosimilmente il tasso non ancora alienato era quello di più difficile esazione, e il sussidio militare ed il comparto del grano non si usavano alienare, quest’ultimo perché imposto ancora di anno in anno ed il primo perché doveva essere dichiarato solo nel 1700 carico perpetuo ed irrevocabile. Se si seguisse ad occhi chiusi l’anonimo, il giudizio nostro dovrebbe essere ancora più sfavorevole perché a suo parere i carichi pubblici reali, più di tre milioni di lire all’anno, insieme coi censi, crediti e carichi comunitativi (un altro milione di lire) eran pagati tutti dai pochi beni allodiali che formavano il “registro collettabile”. Se si toglie la lunga serie di beni immuni scritti nella colonna di mezzo, i beni allodiali registrati comprendevano, secondo l’anonimo, solo la “nona parte di tutti li beni del Piemonte”, e per giunta erano per metà occupati da ecclesiastici; eppure doveano essi soli, insieme colle gabelle, dare al Principe i mezzi per “mantenere la sua Corte et soldatesca per la diffesa dello Stato!”. Nessuna meraviglia che “le povere Comunità et particolari registranti siano affatto rovinati per il grave peso de’ Carichi” e che il margine per nuove imposte e nuovi debiti apparisse, al lume di queste riflessioni, scarsissimo per non dire nullo affatto.

 

 

La realtà era per fortuna assai diversa da queste lugubri previsioni. Innanzitutto era stranamente contrario a verità il calcolo della proporzione dei beni allodiali ai beni immuni. Dimostrammo sopra che non la nona parte del territorio piemontese, ma il 55.42% in superficie ed il 74.57% in reddito era occupato da beni allodiali e che del rimanente il 4.36% in superficie e 7.23% in reddito eran beni ecclesiastici che pagavano il tasso ed il 16.84% in superficie e l’1.51% in reddito erano beni comuni, i qual per altra via contribuivano a crescere il potere contributivo delle comunità, le più dirette responsabili dell’esatto pagamento dei tributi (p. 16). La ricchezza fondiaria su cui s’ergeva l’edificio tributario piemontese era dunque assai maggiore di quanto non immaginasse l’anonimo, e non era impossibile nei momenti di guerra fare nuovi appelli allo spirito di sacrificio dei registranti[2].

 

 

Quanto ai debiti pubblici o redditi alienati, che dir si vogliano, nessuno può negarne la rilevanza, anche senza andare alle esagerazioni dell’anonimo, il quale forte si lagna delle vendite avvenute pel passato dei mulini, forni, canali irrigatori, diritti di pesca, edifici mossi da forze d’acqua, segherie, cartiere, canapai, piste da olio e da riso, concerie, fucine, filande, ecc. Può darsi che quelle vendite siano avvenute a prezzi poco vantaggiosi per l’erario pubblico, quando addirittura non se ne fece concessione gratuita; ma l’obbiezione, non buona per i nostri tempi nei quali le vendite di beni demaniali si facevano con assai cautela, ed anzi si pensava già a revocar le concessioni gratuite antiche, si spunta contro la scarsissima attitudine dello Stato ad esercitare quelle industrie ed alla tendenza verso uno sviluppo vie maggiore della industria privata.

 

 

Più ragionevole la lagnanza sulle vendite avvenute dei diritti di pedaggio, passaggio sui fiumi, dei diritti di bannalità pei forni e mulini, e delle piccole gabelle locali; perché da un lato n’era rimasto depauperato l’erario e dall’altro i comuni ed i signori, che n’erano divenuti possessori, potevano giovarsene per angariare i popoli e per ostacolare quelle riforme favorevoli al commercio interlocale che al governo soltanto poteva riuscire di compiere unificando e abolendo le minute angherie gravanti sul traffico. A quanto ammontasse il reddito di questi pedaggi e gabellette alienate, non è possibile sapere di preciso; da un’inchiesta compiuta circa il 1700 dall’ufficio delle finanze intorno alle “Gabelle tenute da diverse Città e terre per le quali i popoli sentono il peso senza che si sappi con qual fondamento siansi quelle imposte” si ricava che il reddito annuo delle gabelle, altri imposti, pedaggi e diritti di porto saliva a L. 386.999.1.4 all’anno, delle quali ben L. 264.913.13.4 spettavano alla città di Torino, 19.556 a Vercelli, 15.916.13.5 a Cuneo, 11.000 ad Asti, 10.000 a Cherasco, 7855 a Pinerolo, 6298.13.4 a Savigliano, 6000 a Chieri, 5916.10 a Mondovì, 3951.5 a Fossano, 3443.15 a Racconigi, 3070 a Carignano, 2695 a Carmagnola, 2691.11.3 a Biella, 2101 a Rene, 1800 a Cavallermaggiore, 1380 a Saluzzo, 1250 a Villafalletto, 1000 a Vico, ecc. ecc.[3] Ma si potrebbe dire che il passaggio che coll’andar del tempo s’era operato delle piccole gabelle e dei pedaggi agli enti locali fosse stato in tutto dannoso; poiché quei tributi per la loro indole erano adatti alla tassazione locale, né d’altra parte città e comunità potevano far a meno di redditi propri per sopperire alle non piccole spese comunali. Notizie precise intorno all’ammontare dei diritti, pedaggi e dazi minuti riscossi dai feudatari e dai privati, ci fanno invece difetto; né potremmo nemmeno approssimativamente calcolare a quanto ammontassero i redditi di Corona tolti in questa maniera al fisco. Ma forse non importa indugiarsi troppo su questo punto, perché in tempo di guerra i capitalisti si inducevano ad imprestiti sulla garanzia sovratutto dell’esazione diretta del tasso e delle gabelle principali; ed il debito pubblico allora si intendeva costituito non dalle alienazioni riscattabili fatte di feudi, diritti signorili, pedaggi ed altri diritti locali minuti, ma dalle alienazioni del tasso e delle gabelle; e su queste è d’uopo perciò insistere.

 

 

51. – Un calcolo sulle alienazioni delle entrate pubbliche s’era fatto nel 1702 dall’ufficio delle finanze e qui ne riportiamo le risultanze[4]:

 

 

REDDITI ALIENATI

CAPITALE DEL DEBITO

INTERESSI O PROVENTI

Tasso alienato dal 1568 al 1683

L. 7.946.127

11.336.014.18.4

354.982

648.145. 3. 7

dal 1684 al 1697

3.389.887.18.4

293.163. 3. 7

Fuogaggi

1.118.548.10

65.473.17. 2

Gabelle generali Gabelle unite

3.745.780

4.782.583.10.3

187.557.16

275.974. 0.11

Sale

15.174. 5

Imbottato

876.563.10.3

38.744.14.11

Acquavite e tabacco

26.500

Tratta e dogana

9.500

570

Casa della dogana

48.000

2.400

Dacito di Vercelli

45.088

2.264. 5

Carte e tarocchi

57.652

2.763

Gabellette,  pedaggie moliniecc Carni e vino di Moncalieri

11.600

128.100

580

9.387

Molini di Carmagnola

24.000

1.550

” di Asti

67.000

4.130

Pedaggio di Chiavasso

12.000

600

” di Carmagnola

13.500

675

Redditi di Ormea

1.852

Segreteria e Tabellione Segretaria D’Asti

25.500

76.000

1.020.16. 5

4.736.15.5

” di Cuneo

24.000

1.200

” Pref. Pinerolo

6.000

100

“ di Barcellona

20.500

750

d’Ivrea

147

Tabellione del Monferrato

1.519

TOTALI L.

17.441.246.18.7

1.003.716.18.1

 

 

Il quadro compilato sugli elementi forniti dall’ufficio delle finanze non comprende però tutto il debito pubblico piemontese all’aprirsi del secolo XVIII. Il tasso alienato importerebbe infatti, secondo il calcolo delle finanze, un gravame annuo di interessi di L. 648.145.3.7. Nel bilancio generale del 1700 inscritta invece nella spesa una somma di L. 885.666.7.3.2 per alienazioni sul tasso; e nel conto di tesoreria generale figurano spese L. 881.321.12.3.7 per lo stesso motivo, oltre a L. 6.476.1.11.7 comprese nel conto della tesoreria di milizia[5]. Le cifre preventive del bilancio e consuntive dei conti dei tesorieri collimano per modo da non lasciar dubbio sulla esattezza della cifra di 885 mila lire circa da mettersi al posto di quella di L. 648 mila del calcolo delle finanze. La spiegazione della discrepanza fra le due cifre sta in ciò che nella cifra maggiore son compresi gli appannaggi, che evidentemente sono esclusi dalla cifra minore. Il serenissimo principe Emanuel Filiberto di Savoia Carignano godeva da solo di non appannaggio di L. 207.141.9. Forse non opportuna la collocazione che si fa nei bilanci e nei conti degli appannaggi in una partita unica insieme colle alienazioni; e certamente noi non potremmo attribuire agli appannaggi un valore capitale come hanno le altre alienazioni del tasso, poiché in tal caso converrebbe attribuire un valore capitale anche a tutte le spese pubbliche permanenti dello Stato. Rispetto agli interessi annui, appannaggi e alienazioni aveano però questo di comune che in amendue i casi un certo ammontare del tasso veniva venduto a terzi (principi godenti appannaggio o capitalisti mutuanti) e “smembrato dal regio demanio”, in modo che principi e privati ne diventavano proprietari. Sono quindi L. 237.521.3.8.2 (differenza fra la cifra del calcolo finanze e quella del bilancio 1700) che occorre portare in aumento degli interessi del debito pubblico.

 

 

Un’altra aggiunta d’uopo fare: quella degli interessi dell’introggio per la disinfeudazione del 1698. Abbiamo già (p. 13) discorso dell’origine dell’imposto delle 308 mila lire; e dicemmo allora come esso traesse sua ragion d’essere dalla necessità di abolire le infeudazioni posteriori al 1671. Qui aggiungiamo poche cifre intorno al capitale ed agli oneri annui di questo debito. Il capitale versato era stato di L. 6.170.740.9.4.6, il cui interesse al 5% importava L. 308.537 all’anno. Agli ex infeudanti fu appunto concesso questo reddito, ed a dare i mezzi di pagarlo alle finanze fu istituito il nuovo imposto delle 308 mila lire[6]. Sono dunque L. 6.170.710.9.4.6 in capitale e L. 308.537 in interesse che bisogna aggiungere all’ammontare del debito pubblico.

 

 

Su alcune discrepanze minori tra il quadro ed i bilanci-conti riguardo alle alienazioni sulle gabelle, si può passare sopra, essendo spiegabili, per ragioni di contabilità, che tacciamo per non recar soverchio fastidio con la narrazione di cose minute. Come pure ci sia consentito di non dire le ragioni, troppo prolisse ad esporsi in disteso, per le quali crediamo necessario di aggiungere alle alienazioni permanenti sulle gabellette quelle di 4369 lire in interessi e 70 mila lire in capitale del dacito d’Asti al conte Facello e di L. 3500 in interessi (70 mila lire in capitale) sui redditi della cascina del valentino ad un certo Gay[7], ed alle alienazioni sulle segreterie e sul tabellione l’appannaggio del dritto del tabellione del Piemonte al principe di Carignano, calcolato in L. 50.106 l’anno. Anche qui dubbia la convenienza di dare all’appannaggio un valor capitale, tanto più che il quadro dell’ufficio delle finanze non lo attribuisce alle L. 1519 annue concesse sul tabellione del Monferrato in appannaggio all’istesso principe di Carignano. Neppure si può dare un valore capitale alle 55 mila lire che rendevano annualmente le due gabelle piccole dei soldi 2 per emina di grano e dei denari 2 per libbra di carne che erano godute dalla città di Torino, perché il Principe intendeva di poterle avocare a sé, senza nulla pagare alla città. I trattenimenti e le pensioni onerose, iscritti nel bilancio della spesa del 1700 per L. 86.445.7.1 di proventi annuo, debbono anche essere tenuti in conto, perché riscattabili solo col pagamento di un due milioni circa di capitale.

 

 

Nel quadro delle finanze nulla è detto del debito che ora si direbbe e “fluttuante” o di tesoreria e dell’altro che potrebbe chiamarsi “latente”. Al debito fluttuante sarebbero da ascriversi le L.. 787.159.16.8 in capitale e le L. 55.101.3.9 in interessi dovuti ai gabellieri francesi De Roddes, Paissilier e C. per l’anticipata fatta alle finanze quando aveano nel 1698 ottenuto l’appalto generale delle gabelle piemontesi. Così pure le L. 861.635.11.10 inscritte nel bilancio del 1700 come rimborsabili ai banchieri che l’avevano imprestate a breve scadenza. Molto più difficile da calcolare è il debito latente, costituito da spese fatte e non pagate. Dallo studio accurato condotto su questo argomento dal dottor Prato nella sua monografia sul Costo della guerra (Parte II, Capo I, tabella grande), si apprende che la commissione di liquidazione nominata nel 1715 avea riconosciuto l’esistenza di L. 340.055.15.8 (L. 149.845.2.6 di capitale e L. 190.008.4.2 di interessi) di debiti contratti prima della guerra del 1690 e di L. 653.591.7.11. (L. 508.913.11.11 di capitale e L. 141.677.16 di interessi) per debiti dipendenti dalla guerra del 1690/96. Tenendo calcolo degli interessi accumulati dal 1700 al 1715, potremmo calcolare circa 250 mila lire per i debiti anteriori al 1690 e 550 mila lire per i debiti della guerra del 1690/96, i quali probabilmente esistevano al principio del secolo: in tutto 800 mila lire; a cui aggiungendo un 150 mila lire per debiti colla società granatica, non compresi nelle cifre precedenti, si rimane poco al disotto del milione di lire.

 

 

Riassumendo, ecco un quadro complessivo del debito pubblico piemontese al principio del secolo XVIII. Non ripetiamo i particolari già compresi nel quadro compilato sui dati dell’uffizio delle finanze:

 

 

REDDITI ALIENATI

CAPITALE DEL DEBITO

INTERESSI O PROVENTI

Debito del pubblico perpetuo
Tasso

L. 11.336.014.18.4

648.145. 3. 7

Fuogaggio

1.118.548.10

65.473.17. 2

Imposto delle 308.000 lire

6.170.740. 9. 4

308.537

Gabelle generali

4.782.583.10. 3

275.974. 0.11

” piccole dei soldi 2 per emina di grano e den. 2 per libbra di carne della citta di Torino

55.000

Gabellette, pedaggi, mulini e redditi demaniali Quadro finanze
Dacito D’Asti
Cascina Valentino

 

128.100

268.100

9.387

17.256

70.000

4.369

70.000 (?)

3.500

Censi alla città di Torino

635.000

31.777

Segreterie e tabellione

76.000

4.736.16. 5

TOTALE

24.386.987. 7.11

1.406.897.18. 1

Debito pubblico fluttuante
Anticipata dei gabellieri generali a 7%

787.159.16. 8

1.648.795. 8. 6

55.101.3.9

121.470. 3. 9

Debiti con banchieri a 6, 7 e 10%

861.635.11.10

66.369

Debito pubblico latente
Debiti anteriori al 1690

250.000

1.000.000

25.000

” per la guerra 1690-96

550.000

Società granatica

150.000

Diversi

50.000

TOTALE Debito pubblico

26.035.782.16. 5

1.553.368. 1.10

Appannaggi (cifre a calcolo)
Tasso

230.000

282.000

Tabellione

52.000

Trattenimenti e pensioni onerose

86.445. 7. 1

TOTALE Redditi alienati

1.921.813. 8.11

 

 

52. – Le entrate annue dello Stato si aggiravano in media nel 1700/1702, tra ordinarie esatte ed ordinarie alienate, sui 3 milioni di lire (cfr. le tabelle riassuntive contenute nel capitolo VI). Il debito capitalizzabile ammontava a poco meno di 3 volte le entrate annue e l’onere degli interessi, degli appannaggi garantiti con alienazioni di tasso e di tabellione e delle pensioni onerose di poco superava il 21 delle stesse entrate. Oggi il debito dello Stato italiano (debito consolidato, redimibile, variabile, fluttuante e vitalizio, dedotte le attività finanziarie del tesoro e le attività disponibili), è all’incirca il settuplo in capitale ed i due quinti in interessi e oneri annui delle entrate effettive ordinarie dello Stato. In Inghilterra il capitale attuale del debito è quintuplo e il servizio annuo costa da un quinto ad un sesto delle entrate annue dello Stato. In Francia il capitale del debito è da otto a nove volte, e l’interesse è un terzo delle entrate totali dello Stato. Nel Giappone il capitale del debito è uguale a tre volte e mezzo, e il servizio del debito (perpetuo, redimibile e vitalizio) costa da un sesto ad un settimo delle entrate annue ordinarie dello Stato. Se il paragone, per ragion di tempo, dei progrediti mezzi di ottenere credito e dell’espansione grandiosa dei bilanci pubblici, non potesse sembrar fuor di luogo, potremmo dire che il Piemonte del 1700, trovavasi in una situazione finanziaria, per quant’è alla pressione del debito pubblico, più salda che non la maggior parte dei grandi Stati moderni. Per tenerci al secolo XVIII, ricorderemo che il debito della Repubblica Veneta intorno al 1740 era in capitale circa 12 volte più grande e assorbiva pel servizio annuo più del terzo delle rendite ordinarie dello Stato[8]; e che nel 1700 il cento dello scacchiere della Gran Bretagna poteva riassumersi così[9]:

 

 

Entrate

Spese

Fondo di cassa al 29 settembre 1966

L. st. 426.809.14. 5

Interessi del debito pubblico

L. st. 1.250.883.17.9

Entrate nette ordinarie

4.343.786.15.10

Spese civili

699.345.12.5

Entrate straordinarie ottenute mediante accensione di debiti

1.115.284.15.10

Spese milit.

1.250.988. 0.8

TOTALE

L. st. 5.885,881. 6. 1

Entrate Somma destinata alla riduzione del debito pubblico

2.360.318.16.9

Fondo di cassa al 29 settembre 1700

324.344.18.6

TOTALE L. st.

5.885.881. 6.1

 

 

Il capitale del debito pubblico britannico nel 1700 era di 12.607.080 lire sterline, di cui appena L. st. 3.200.000 erano debito consolidato. Di qui le forti somme che ogni anno, anche di pace, bisognava accattare per restituire debiti fatti a breve scadenza. Il capitale del debito era il triplo e gli interessi assorbivano circa il trenta per cento delle entrate nette ordinarie dello Stato.

 

 

Anche paragonata a questi esempi, contemporanei o poco distanti, la situazione del Piemonte non può dar luogo a giudizi sfavorevoli. Il margine lasciato libero dal pagamento dei debiti era, è vero, assorbito dalle spese normali: da 2.760.000 a 3.000.000 lire per l’azienda militare, da 250 a 500 mila per le fabbriche, fortificazioni ed artiglieria, da 800 mila ad 1 milione di lire per la casa reale, 600 mila lire per gli appannaggi non garantiti con l’alienazione di tassi, ma pagati direttamente dalle finanze, da 200 a 250 mila lire per gli ambasciatori, circa 700 mila lire per le spese giudiziarie e civili (Consiglio di Stato, Cancelleria, Senati, Camere dei Conti, finanzieri, intendenti, stipendiati diversi, opere pie, ecc.) in tutto da 5 a 6 milioni di lire all’anno. Il resto andava in spese diverse e straordinarie. Era un bilancio che in tempi normali presentava un margine di circa un mezzo milione di lire per gli imprevisti e che era privo di elasticità per le spese straordinarie di guerra; ma qual è il bilancio odierno il quale possa colle risorse ordinarie provvedere all’aumento straordinario delle spese militari durante una guerra, non diciamo micidiale e lunghissima come fu quella di successione spagnuola, ma di qualche mese appena. Noi sappiamo d’altra parte[10] che in tempo di guerra s’usava largamente sospendere e ridurre il pagamento degli stipendi, assegni, pensioni, appannaggi, ciò che in oggi si osa fare solamente nel lontano Giappone, dove fortissimo il sentimento patriottico, facendo in tal modo acquistare al bilancio una cospicua disponibilità; sappiamo che anche allora in tempi di guerra si ricorreva a mezzi straordinari e che i creditori dello Stato crucciavansi sopratutto di sapere garantiti i loro redditi su entrate ordinarie e sicure della Corona. Ora, niun dubbio vi era che il tasso non alienato batteva ancora sulle 650 mila lire e che del reddito delle gabelle non era alienata neppure una decima parte. Su questi due redditi di Corona, antichissimi e sicuri, era possibile trovare denari a prestito, assicurando i creditori con alienazioni ed ipoteche di prim’ordine; né la rinuncia a circa 450 mila lire di rendita (a tanto ammontarono all’ingrosso gli interessi del nuovo debito perpetuo creato durante la guerra) poteva scuotere la solidità del bilancio piemontese. Si poteva fare a fidanza sull’aumento naturale delle entrate pubbliche – allora l’aumento si limitava però alle gabelle – per sperare di colmare il vuoto del bilancio; né mancavano spedienti per rattoppare le falle in alcuni anni di tranquillità e di saggia amministrazione. Nel 1700 nessuno poteva immaginare che l’acquisto del Monferrato, d’Alessandria, della Lomellina, della Valsesia, del Delfinato, del Pragelato, e della Corona di Sicilia prima e di Sardegna poi avrebbero in breve ora consentito alla finanza piemontese maggiori ardimenti e data nuova sicurezza ai creditori dello Stato.

 

 

Anche senza pensare ad ingrandimenti territoriali, il debito pubblico piemontese era un impiego di capitale raccomandabile ed in allora pregiato. Ne è prova il tasso di interesse moderato a cui le finanze trovavano danari a prestito. Quella parte del tasso che era stata alienata dal 1568 al 1683 importava interessi variabili dal 0.66 al 9 5/8 per cento; ma gli estremi erano rari e rispondevano a circostanze specialissime di alienazioni fatte in tempi non chiari. In media il tasso d’interesse risultava del 4.46 per cento; e nemmeno una decima parte delle alienazioni era stata fatta ad un interesse superiore al 6 per cento. Il tasso alienato dal 1684 al 1697 portava in massima parte interessi al 5%, ma siccome v’erano alcune partite vendute a saggi diversi, inferiori quasi tutti al 5 e nessuno maggiore del 6%, l’interesse medio risultava del 4.66. Sappiamo già che l’interesse per il debito garantito sull’imposto delle 308 mila lire era stato calcolato al 5%. Il fuogaggio, pur essendo tutto alienato fin dal 1544-1638, quando più elevato era il tasso dell’interesse, non fruttava ai creditori in media più del 5.45%. Ciò per i debiti contratti direttamente dallo Stato, mercé la vendita dei suoi redditi fissi ed ordinari. Per le gabelle si usava di solito, come si dirà meglio in seguito, altro sistema, ricorrendosi all’intermediazione della città di Torino, la quale riceveva in amministrazione le gabelle dal fisco, obbligandosi a pagare ai creditori l’interesse. Orbene anche qui l’interesse era del 4 e del 5%, a seconda della data di creazione del debito, salvo per i debiti vitalizi, regolati al 10 per cento. All’aprirsi del secolo XVIII il tasso d’interesse normale a cui lo Stato piemontese s’assoggettava era insomma del 5% per i debiti perpetui e del 10.% per i debiti estinguibili alla morte del mutuante. L’interesse si innalzava al disopra di quello normale del 5 per cento nel caso del debito fluttuante, contratto con banchieri o commercianti. Ad esempio la compagnia francese dei gabellieri generali avea fatto nel 1698 un’anticipazione alle finanze di quasi 800 mila lire, ma avea voluto che il tasso d’interesse fosse stabilito nel 7%, trattandosi di fondo destinato al commercio ed usato a lucrare quel guadagno. Il debito coi banchieri di L. 861.636.11.10 esistente nel 1700 dividevasi in tre parti, di cui l’una di L. 118.779.11.10 era al 6%, la seconda di mezzo milione era al 7%, e la terza di L. 242.856 era al 10 per cento. Notisi, a spiegare il tasso eccezionalmente alto, che cotesti erano mutui a breve scadenza, simili ai nostri buoni del tesoro moderni, che i banchieri pretendevano l’interesse commerciale, che non v’erano garanzie ipotecarie e che, se a quei tempi era difficile ai capitalisti trovare buoni impieghi a lunga scadenza, l’usura a brevi periodi s’esercitava su vasta scala ed a tassi altissimi.

 

 

Non andrebbe lungi dal vero chi affermasse che nel primo settecento la condizione degli Stati, nelle epoche di grandi accensioni di debiti pubblici, era profondamente diversa da quella di oggidì. Oggi gli Stati trovano spesso il loro tornaconto nell’emettere buoni del tesoro ed obbligazioni redimibili a breve scadenza a tassi abbastanza moderati durante la guerra, salvo a consolidare il debito al ritorno della pace a tassi miti; e tanta è la massa di capitale accumulato nelle banche in depositi temporanei che riesce agevole l’emissione dei buoni e titoli di debito fluttuante. Due secoli fa, pochi erano i banchieri e scarsissimi i loro depositi, preferendo i privati tenere nascosti i loro capitali infruttuosi nei forzieri o sotterrati nelle cantine. All’aprirsi d’una guerra le finanze non potevano fare appello ai banchieri, salvo per somme irrisorie ed a tassi usurai, e quindi preferivano alienar tassi ed erigere monti, ossia chiedere capitali addirittura ai privati che li possedevano e che si decidevano a trarli alla luce del sole dietro la promessa di solidi investimenti; e soltanto quando le riserve monetarie dei capitalisti privati erano esaurite o la sfiducia era generale si ricorreva al credito usurario dei banchieri. Queste in riassunto le vicende consuete del credito pubblico che ci apparecchiamo a descrivere nella loro storica sequenza per il periodo nostro.

 

 



[1]A.S.M.E. Memanio, Donativi e Sussidij, M. 4, n. 20. Nota de’ Redditi della Corona alienati et de’ redditi non alienati et de beni che non pagano alcun tributo nel Piemonte. La data del manoscritto può desumersi dall’affermazione dell’anonimo essere passati 45 anni dall’ultima imposizione dalla cavalcata. Ora le ultime cavalcate del secolo XVII furono imposte nel 1637, 1646, 1652 e 1691. I 45 anni certamente non decorrono dal 1891, perché nel 1736 il comparto del grano, il sussidio militare e i fogaggi, citati nel quadro, erano stati soppressi, e per altri motivi ancora che sarebbe troppo lungo esporre. D’altra parte le date del 1662-45 e del 1646-45 ci porterebbero al 1697 e 1691, date pure esse inammissibili perché appunto nel 1591 si era imposta la cavalcata. È necessario supporre che la ricordanza delle date precise si fosse affievolita, e che lo scrittore facesse rimontare all’incirca al 1640 l’ultima imposizione della cavalcata; ipotesi forse la più vicina al vero anche per ciò che in altra parte del suo scritto l’anonimo si lagna fortemente che vassalli e feudatari più non concorrano per “la manutentione di S.A.R. et diffesa delle sue Piazze, come facevano avanti l’anno 1640”. Assumendo questa data, lo scritto risalirebbe al 1656 o poco dopo.

[2]Le cervellottiche proporzioni del nostro anonimo probabilmente fanno il paio con le querele di scrittori e storici d’altri paesi, italiani e stranieri, contro l’estendersi minaccioso delle immunità ecclesiastiche e feudali e il progressivo sottrarsi di quasi tutto il territorio al diritto imposizionale del Principe. Negli editti e nelle gride si usavano parole grosse, poiché l’esagerare i mali sembrava allora buona arte di governo; ma è dubbio se alle parole minaccianti sovente il finimondo rispondessero i fatti. Almeno i fatti da noi assodati pel Piemonte dimostrerebbero l’oppotunità di ricerche esatte e precise, estese a tutta Italia, sulla distribuzione della proprietà fondiaria nelle sue varie specie di allodiale, ecclesiastica e feudale.

[3]A.S.M.E. Donativi e feudi, M. 4, n. 13. Redditi de’ siti provenienti dalle fortificationi o demolitioni loro delle Città e terre del Piemonte come pure delle Gabelle che sono dalle medesime possedute.

[4]A.S.M.E. Demanio, Donativi, e Sussidij, M. 4, n. 17. Ricavo delle alienazioni seguite sovra li redditi demaniali (1 luglio 1702).

[5]Cfr. EINAUDI – B. e C. 1700-713. Tabelle IV bis e XI bis.

[6]A.S.M.E. Donativi e feudi, M. 4, n. 13. Stato generale delle infeudazioni.

[7]A.S.F. 2a. Capo 9, p. 2, n. 9. Bilancio dei 1700.

[8]R. Commissione per la pubblicazione dei documenti finanziari della Repubblica di Venezia. Serie seconda. Bilanci generali. Vol. III, pag. 304-307 e passim.

[9]Return on the Pubblic Income and Expenditure. Ordered, by the House or Commons, to be printed 29 July 1869. Part I, n. 366-I, pag. 22-23. Part. II, n. 366-I, pag. 298.

[10]Veggasi a tal proposito la dimostrazione del dott. G. PRATO in Costo della guerra, ecc, parte II, capo VI.

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