I prestiti pubblici durante la guerra – Parte II: I prestiti contratti coll’intermediazione e la garanzia delle città di Torino e di Cuneo
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1908
I prestiti pubblici durante la guerra – Parte II: I prestiti contratti coll’intermediazione e la garanzia delle città di Torino e di Cuneo
La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 185-230
53. – Cominceremo dai debiti conchiusi coll’intervento e la garanzia della città di Torino. Al qual proposito sarà bene di avvertire come il metodo di far debiti non direttamente, ma per mezzo del credito delle capitali o di altri enti, fosse frequentissimo negli Stati di antico regime. I Re di Francia trovavano conveniente di far stipulare le obbligazioni di debito dalla città di Parigi; in Roma il Pontefice ricorreva al credito della città e del Senato di Roma; nel regno di Napoli, alle operazioni di debito pubblico sovraintendevano le sei piazze della capitale[1]; a Milano s’era creato il “monte di S. Ambrogio” e molti debiti gravavano direttamente le “congregazioni”, ossia i corpi locali; a Genova non essendo possibile, per la confusione fra lo Stato e la Città dominante, creare debiti a nome della città che non fossero anche a nome della signoria, fungeva da intermediario il Banco di S. Giorgio. A Venezia, per la stessa ragione, gran parte dei debiti veniva contratta a nome delle città, monti ed opere pie di terraferma, delle procuratie di San Marco, e sovratutto (pei cosidetti capitali istrumentati) ad opera delle scuole di S. Rocco, della Carità, della Misericordia e di S. Giovanni Evangelista, e delle arti della seda, dei luganegheri, dei pistori e dei testori. Queste che erano potenti e ricche corporazioni di mercadanti e di artefici, ottenevano i capitali dai privati, dando malleveria per il pagamento degli interessi e la restituzione del capitale, e ricevendo in pegno dallo Stato talune determinate entrate[2].
Era insomma un sistema universalmente seguito questo che il sovrano non facesse appello direttamente ai capitalisti, ma vendesse alcune sue entrate alle cittàod a ricche corporazioni che aprivano quindi la sottoscrizione nel pubblico per la somma che dovevano consegnare alle finanze. Era un residuo delle antiche condizioni politiche e sociali dell’epoca dei comuni e del fiorire delle grandi corporazioni d’arti e di commercio o non si riteneva dicevole pel Principe diventare debitore dei suoi sudditi? Una ragione pratica della consuetudine sembra possa trovarsi in ciò che i capitalisti aveano maggior fiducia nelle città e nelle corporazioni, che erano istituzioni permanenti, su cui l’opinione pubblica e l’interesse dei mutuanti potevano aver presa, piuttostoché nelle dinastie regnanti, che potevano passare e nella parola del Principe che poteva esser dimenticata. Inoltre, in un’epoca di credito reale, i capitalisti volevano avere il possesso del reddito su cui il prestito era garantito, possesso immediato come nelle alienazioni del tasso, o mediato, come nei debiti conchiusi per mezzo delle città o corporazioni, le quali potevano quasi considerarsi come delegazioni di creditori (informino le odierne delegazioni europee del debito pubblico in Turchia, Egitto, Grecia, Cina, ecc.), amministratrici delle speciali branche di entrate gabellari date in pegno pel servizio del debito. Si aggiunga in fine la consuetudine che in tempo di guerra il nemico incamerava tutte le entrate pubbliche, eccetto quelle che fossero vendute a privati, a città o ad enti speciali. Oggi che s’usa dai conquistatori o dai rivoluzionari rispettare i debiti pubblici dei paesi conquistati o dei regimi scomparsi, non è necessaria altra cautela pei capitalisti; i quali allora cercavano di mettersi al coperto dalle confische, immaginando vendite di tassi o smembramenti di gabelle del debito pubblico a favore di città o corporazioni.
Il credito delle città e delle corporazioni aveva però un limite, che era dato dall’estensione del territorio su cui potevano esercitare la loro azione legale. In Piemonte si alienavano alla città di Torino le gabelle esatte nella cerchia cittadina e nei suoi “borghi e finaggio”; alla città di Cuneo i banchi del sale della vicinissima Borgo S. Dalmazzo. Quando tutte le entrate locali erano impegnate, diventava difficile emettere nuovi prestiti, perché la città di Torino male avrebbe potuto amministrare, ad es., una gabella esatta in Aosta, o Mondovì, o Pinerolo. Si ventilò bensì durante il nostro periodo l’idea di vendere alla città di Torino la gabella del sale della provincia torinese, fuori del territorio comunale, ma all’idea non si diede seguito. La limitazione che da cotesta circostanza era posta al credito pubblico era meritevole di nota perché la capacità dello Stato ad ottenere prestiti veniva per questo verso ristretta al reddito delle gabelle che s’esigevano nelle città a cui si affidava la emissione di prestiti. Esaurita questa fonte, rimanevano solo le alienazioni del tasso e le infeudazioni, di cui a suo luogo diremo i limiti.
54. – La prima operazione di credito della quale s’abbia notizia, si fu quella che nel 1703 s’innestò sulle due gabelle dette “piccole” delli soldi 2 per emina di grano e delli denari 2 per libbra di carne che si pagavano nella città di Torino; il che ci porge il modo di accennare agli strettissimi legami che correvano tra le finanze dello Stato e quelle della città di Torino. Già dicemmo come la città di Torino fosse esente da tutte le imposte ordinarie che gravavano sulla proprietà fondiaria, e come le sue case non fossero nella nostra epoca soggette ad alcun tributo (16); qui aggiungiamo che la città pretendeva di essere esente altresì da ogni tributo reale straordinario in tempo di guerra, argomentando specialmente da un istrumento del 6 dicembre 1632 nel quale annullandosi espressamente un’eccezione fatta in precedenti contratti e decreti, il duca Vittorio Amedeo I aveva solennemente dichiarata la città di Torino “libera, immune et esente da ogni carico straordinario imposto et da imporsi, etiandio che gl’imposti che si faranno per l’avvenire fossero dichiarati o s’imponessero per ordinari, per qualunque fatto e causa sì di pace che di guerra”. Il Duca si riservava solo la facoltà di imporre sussidi, donativi e prestiti sugli abitanti a titolo personale, senza poter molestare però la città, né imporre i terreni e le case del territorio. Era questo un semplice diritto di imposizione personale; e di quanto scarso valore fosse lo dimostravano il disuso e il pochissimo profitto che si riusciva a cavare dai cotizzi ed altre imposte non “reali”. La città riconoscente prometteva in cambio al Duca di “soccorrerlo a parte in caso di guerra in quello sarà di suo potere”. (D. XXII. 1078).
Questo il diritto tributario vigente per la capitale; ed è su così tenue base che i consiglieri del Principe doveano sillogizzare per indurre la città a contribuire alle spese pubbliche nei tempi di guerra. Ma siccome il credito della città in quei frangenti era solitamente messo a ben dura prova con l’emissione, di cui discorreremo, dei luoghi di monte, così i discorsi più commoventi sarebbero riusciti vani se non fossero stati appoggiati a qualche minaccia e se l’imposizione straordinaria di guerra non avesse preso le sembianze di un prestito grazioso. La minaccia era quella di avocare al fisco le due gabelle or ora ricordate, dette anche “gabelle piccole”, che dal 1634 erano esatte dalla città in seguito a permesso ottenuto dal duca Vittorio Amedeo I con biglietto del 20 ottobre 1634 (D. XXIV. 1059). La gabella dei due soldi per emina di grano si esigeva dai panattieri, osti, pasticcieri, tenitori di locande e di pensioni (donzene pubbliche), ed in genere da coloro che vendevano pane al pubblico. Erano esenti i maestri di scuola, i fornai che non facevano pane, i panattieri delle case reali e dei serenissimi principi e principesse. Non è detto, ma è chiaro che erano esenti altresì coloro i quali cuocevano il pane in casa per uso proprio, volendosi colpire soltanto lo smercio al pubblico. Obbligati tutti i panattieri ad andare a macinare le farine ai mulini della Dora affinché la città, che ne era proprietaria, potesse più agevolmente controllare il peso delle farine ed impedire le frodi. La gabella dei due denari per libbra di carne colpiva tutte le carni di bue, maiale, capretti e pecore vendute dai beccai, venditori al minuto, ecc. Erano esenti i capretti, agnelli e maiali comprati morti dai cittadini o fatti ammazzare in casa per consumo immediato o per salagione. Nessuno era esente dal pagamento del diritto sulle carni comprate nei pubblici spacci, nemmeno i provveditori delle case reali e principesche, salvo rimborso della gabella per la quantità venduta alle persone privilegiate nella misura stabilita caso per caso dalla Camera dei Conti (D. XXV. 1067).
Subito era nata controversia intorno alla natura di queste due gabelle, pretendendo il fisco che fossero demaniali e concesse a tempo dal Principe alla città in corrispettivo di straordinarie sue prestazioni. Cessata la causa per cui s’era dato il godimento temporaneo alla città, doveano le gabelle far ritorno alle finanze. Alle quali ragioni la città altre ne opponeva, valide a suo avviso e delle quali discorreremo sotto; ma alla fine, messa alle strette, se aveva voluto conservare il godimento delle due gabelle, avea dovuto rassegnarsi a sborsare, a tratto a tratto, egregie somme. Nel 1637, poco dopo la loro istituzione, Vittorio Amedeo I chiede che le due gabelle gli siano consegnate; e la città, protestando di annuire solo per soccorrere il Principe nelle sue distrette, le consegna per 5 anni. Nel 1642 la città paga 50 mila lire e conserva le gabelle per anni 3. Nel 1642 le gabelle sono ritornate alla città e questa paga 45 mila fiorini per conservarle per tre anni; nel 1658 altro prolungamento di un anno per 18 mila lire; nel 1659 di due anni in corrispettivo di 40 mila lire; nel 1660 di dieci mesi per 5 mila scudi; e così di seguito nel 1662, 1665, 1672, 1673, 1681, 1691 (D. XXII. 1081). Nel 1691 la città avea versato 200 mila lire in soccorso delle finanze ed avea ottenuto il diritto di aggiungere ai due soldi per emina di grano un altro soldo per meglio assicurarsi il rimborso della somma donata al Principe (D. XXIV. 1303).
Nel 1703 il Groppello ritorna alla carica, deliberato a cavar denari alla città, minacciandola di far ritornare alla città le due gabelle piccole e di mettere l’imposta personale sui cittadini riservata al Principe in virtù del contratto del 1632. Siamo ancora nella prima fase della guerra, quella dell’alleanza del Piemonte con Francia e Spagna; e potevano allora sembrare bastevoli questi piccoli mezzi a procacciare allo Stato gli aiuti necessari ad una guerra non troppo costosa e non combattuta sul suolo patrio. Per giungere al fine, che era di farsi pagar qualcosa dalla città, il Groppello parla forte e fa minaccie grosse. Il giorno di giovedì 12 aprile 1703, egli raduna a congresso l’avvocato generale Riccardi, il conte presidente Frichignono ed il conte senatore Dentis, rappresentanti gli interessi del regio patrimonio, il vassallo Mallet e il signor Piccia, sindaci, l’insinuatore David, mastro di ragione, ed il conte Nomis di Cossilla, avvocato della città di Torino, e senz’altro comincia: “Siamo in tempi di guerra e loro signori devono sapere che in tali congionture conviene fare spese straordinarie e trovandosi le R. Finanze esauste si è procurato di cercar qualche mezzi più opportuni per vedere in che modo più facile e convenevole questa Cittàpuotesse soccorrere le dette Regie Finanze”. Il prologo, per quanto condito di buone parole, era inquietante per sindaci, mastro di ragione ed avvocato della città i quali aveano già sentore dove il Groppello volesse andare a parare. Infatti, fin dall’anno prima, l’ufficio delle finanze avea pregato il mastro di ragione della città di compilare un conto dell’esatto e della spesa in conto delle due “gabelle piccole “, nientemeno che dal 1634 al 1701. La città, pur protestando di non essere obbligata a render conto veruno di gabelle indubbiamente sue, s’era affrettata a presentare un calcolo, dal quale risultava un incasso di L. 2.928.088.9.2; ma v’avea contrapposto una spesa di L. 3.814.697.8, dimodoché, rimanendo essa in credito di ben L. 886.608.18.10, pareva chiarissimo il suo diritto di conservare la gabelle fino a che non si fosse intieramente rimborsata di questo anticipo e dagli interessi. Dopo le avrebbe soppresse a favore del “publico”, quando non fosse piaciuto a S.A.R. di conservarle “come già ricevute” per “valersene ne’ bisogni della Corona e dello Stato”. Ricevuto il conto, l’ufficio delle finanze procede ad una minuziosa scomposizione dei dati, a giunge a risultati onninamente diversi. Suppongasi in primo luogo, dice il Groppello, che le due gabelle siano demaniali. In questo caso la città non potrà accreditarsi della somme pagate al Principe in scarico di suoi debiti verso il fisco, perché in questa maniera la città avrebbe pagato il Principe con denari appartenenti al Principe stesso; e nonché essere craditrice, la città risulterebbe ancora in debito di L. 1.969.261 incassate dalle due gabelle e non consumate in ispese di esazione o non pagate all’erario esplicitamente in conto d’esse. Suppongasi invece che le due gabelle non siano demaniali, e nemmeno della città, ma concesse per tempo limitato per il rimborso delle somme tutte volontariamente pagate dalla città alle finanze “senza che ne avesse obligatione”, sia che fossero pagate esplicitamente ovvero no in conto delle due gabelle. Il debito della città un po’ minore, ma pur sempre di L. 1.125.914. Vogliasi infine essere generosi verso la città; e si accrediti ancora delle somme pagate per donativi in occasioni di nascite, maggiori età, nozze principesche e per causa di guerra, ossia di somme pagate insieme con l’”universale Paese” e delle quali a stretta ragione essa non potrebbe chiedere il rimborso. Ebbene, anche in quest’ultimo caso, il più favorevole alla città, questa rimane in debito verso le finanze di L. 763.213. Avrebbero perciò le finanze il diritto non solo di incamerare le due gabelle, avendo oramai la città ottenuto il rimborso di tutte le fatte anticipazioni, ma di farsi pagare inoltre in L. 30.528 all’anno l’interesse al 4% del suo credito di L. 763.213[3].
Su questi calcoli dell’ufficio delle finanze il Groppello fondava le proposte che i delegati delle città doveano ascoltare quel giovedì 12 aprile 1703: “Avendo noi il diritto” così riassumiamo il suo cortese discorso, di incamerare le due gabelle piccole che ora vi fruttano 55 mila lire circa all’anno e di farci pagare l’interesse annuo di L. 30.528 sul nostro credito residuo, sono in tutto 85.528 lire che la città deve all’anno rimettere alle finanze. Voi sapete anche che la città nel 1699 ha imprestato alle finanze 2.056.506 lire ricevendone in cambio il diritto di esigere nel suo territorio la gabella di carne e corami detta comunemente dei macelli di Torino, il cui reddito annuo è appunto di L. 80 mila all’incirca[4]. Noi potremmo quindi proporre alla città di tenere per sé le due gabelle piccole e di non pagare al fisco le L. 30.528 d’interessi dovutigli qualora la città restituisse alle finanze la gabella alienata dei macelli di Torino. La città avrebbe dovuto cioè continuare a pagare gli interessi agli alienatari che aveano imprestato i 2 milioni, senza avere il reddito della gabella su cui i mutuanti erano garantiti. Questa operazione che il Groppello, forse ironicamente, chiamava col nome di “riscatto” della gabella dei macelli, non andava a scapito della città, perché questa conservava il possesso delle “gabelle piccole”, che le finanze potevano ad ogni momento incamerare e non pagava le 30.528 lire di interesse sull’indebito riscosso in passato. Poteva la città senza inconvenienti provvedere al pagamento degli alienatari tutti anche senza le 80 mila lire della gabella “riscattata” perché – e qui il Droppello tirava fuori un estratto di bilancio della città di Torino che egli s’era procacciato con acconcio pretesto – le entrate della città ammontavano a L. 380.451.19.8 e le spese a sole L. 309.136.16.3, lasciando un margine di L. 71.315.3.5. A queste conseguenze estreme non giungeva però il Groppello, il quale, consapevole dell’opportunità di “lasciar al largo la Città, a ciò possa supplire non solo al pagamento de’ suoi debiti, ma anche alle spese ordinarie e straordinarie, e mantenersi con quel decoro che conviene ad una Metropoli”, chiudeva il discorso dicendo che S.A.R. s’era degnata di ignorare per ora il credito di L. 763.213 e di rinunciare a farsi pagare le L. 30.528 d’interesse annuo che a stretta ragione Le erano dovute e si contentava di riscattare la gabella di carni e corami del reddito annuo di L. 80 mila, concedendo in cambio alla città la facoltà di continuar ad esigere le due “gabelle piccole”. Poiché il reddito di queste ultime era limitato a poco più di 50 mila lire all’anno, la differenza sarebbe stata pagata dalle finanze con un assegno sulla gabella di carni e corami[5].
Allibivano sindaci, mastro di ragione ed avvocato della città ai detti dell’accorto generale delle finanze, poiché in sostanza tutto il vantato “riscatto” si riduceva a questo: che la città invece di esigere, come avea fatto sinora, le 80 mila lire della gabella dei macelli e le 50 mila delle due gabelle piccole, avrebbe avuto soltanto queste e la promessa, non si sa quanto attendibile, di un supplemento dalle finanze sino a giungere a L. 80 mila all’anno. “Se tale era il volere preciso di S.A.R.” – rispondeva il conte Nomis di Cossilla, avvocato della città – “non haveva egli di che soggiungere e si sottometteva alli voleri del Real Sovrano. Ma per altro se l’A.S.R. si degnava che si potesse rapresentare con tutta sommissione, credeva quanto a sè di mancare alla propria coscienza, al servitio regio, et a quello del Publico, quando non si rapresentasse che era impossibile di attuare detta propositione et attuandosi sarebbe di gravissimo pregiudicio alla Città et al suo credito, quale per altro S.A.R. si è sempre degnata di far sapere alla Città che lo voleva conservare”. Sobrie e degne parole, le quali, insieme con tante altre pronunciate da alti magistrati, provano che a quei tempi non s’usava chinare il capo senz’altro ai voleri del Principe, anche se assoluto e imperioso, quando ragion voleva che a quelli si resistesse.
Noi non ripeteremo per disteso qui tutta la risposta del Nomis di Cossilla e le molte altre che egli ed i sindaci, la congregazione ed il consiglio torinesi per iscritto ed a voce fecero, opponendosi alle pretese fiscali. Essendosi il dibattito prolungato per parecchi mesi, le medesime cose furono ripetute ed ampliate parecchie volte, sì che giova meglio compendiarle in una.
Non essere le due gabelle demaniali, perché mai si disse che dal demanio fossero state separate o “smembrate”. Come ritenere demaniale una gabella che fu “addirittura dalla Città di Torino a sé et a Cittadini imposta con facoltà di aumentarla, diminuirla, deporla o ripigliarla a misura del bisogno”? Sono concetti tra di loro repugnanti. Spettare alla città le gabelle contrastate, come quelle che furono imposte “a sua suplicatione et a tempi limitati per soccorrersi ne’ suoi bisogni, massime nelle occorrenze del real servizio”. Non avvalorare la tesi del patrimoniale regio una sentenza camerale del 1670 da costui citata, perché in primo luogo dessa riguardava il nudo possessorio; e inoltre la città avea iniziato nello stesso anno il giudizio di revisione (rescritto del 19 luglio 1670) nel quale si proponeva di rafforzare le proprie ragioni con la comunicazione di nuovi documenti e specialmente del decreto del 21 maggio 1637, in virtù del quale veniva rimesso alle finanze il godimento delle due gabelle per cinque anni. Ora, come si può reputar demaniale un’entrata che la città rilascia spontaneamente e per tempo limitato alle finanze per soccorrerle nei loro bisogni? Se già fossero spettate al fisco, questo non avrebbe mancato di farsi “reintegrare” nel suo legittimo possesso, senza chiedere il consenso grazioso della città. Il Principe stesso avea dimostrato d’esser di ciò persuaso, quando – accordando in perpetuo alla città mediante finanza il godimento della gabella regia di denari 4 per libbra di carni e soldi 32 per rubbo di corami – disse che ne avrebbe avuto “lei sola … in piena proprietà et a perpetuità … il libero maneggio e possesso … unitamente alle altre due sue gabelle di d. 2 per libbra e d. 29 per rubbo delle carni” (D. XXIV. 1045). Che cosa voleva dir ciò se non alienare alla città una gabella indubitatamente demaniale (dei denari 4 per libbra di carni e soldi 32 per rubbo di corami), rendendola con questa vendita in tutto uguale a quell’altra gabella di denari due per libbra di carne che da tutti già si reputava di spettanza perpetua della città? E se questa spettava alla città senza uopo di alienazione da parte del fisco, come poteva essere demaniale?
Dimostrato il primo punto della non demanialità delle due gabelle, cadono le altre argomentazioni fiscali. Supponendo infatti – cosa non ammissibile – che il credito della città verso le finanze di L. 886.508.18.10 si sia inopinatamente convertito in un debito di L. 763.213, sarà questo tutt’al più un debito della città verso i suoi cittadini, che sarebbero stati soggetti ad una indebita esazione. Ma nessun dubbio nemmeno è possibile su di ciòperché la cittàè pronta a dimostrare ampiamente di aver soddisfatto ai suoi obblighi “con aver supplito ai pesi pubblici, quali dovevano sopra di essi essere repartiti”.
Ripugnare infine l’operazione di “riscatto” o meglio di gratuita restituzione della gabella di carni e corami alla ragion comune, per difetto di sufficienti garanzie per i creditori, censuari, montisti, ecc., ai quali la città deve pagare l’interesse annuo delle 80 mila lire. Consentiranno essi a sostituire alla garanzia sicura di una gabella perpetua del reddito di 80 mila lire quell’altra garanzia malsicura di una gabella, revocabile a libito della città, e fruttante solo da 50 a 56 mila lire all’anno? Malgrado la promessa delle finanze di pagare la differenza, e di conservare ai creditori l’ipoteca sulla gabella di carni e corami, la promessa potrebbe non essere ritenuta sufficiente da quei creditori i quali hanno voluto la consegna effettiva della gabella in mano della città, e non sarebbero forse pronti a contentarsi di una ipoteca campata in aria, senza il possesso della gabella data in garanzia. Ne seguirà da tutto ciò “notabile aprensione” e si “ritraherà ognuno a più fidarsi della Città”, con pericolo che “sia per declinare notabilmente il Credito di essa”. Vogliono le finanze, vuole il Principe giungere a questi estremi, quando si sa che “molti contano loro cautela su la Città o non su le Finanze”? In qual maniera procacciarsi somme a mutuo, quando si sia rovinato il credito della città, ben maggiore di quello del Principe? Come potrà la città di Torino “supplire alle spese innumerabili, casi et accidenti, che occorrono e si presentano e mantenersi col decoro che si conviene ad una Città che si gloria di risplendere sovra ogni altra fra le gemme della Real Corona”?[6].
Il Groppello, pur consentendo nella necessità di mantenere intatto il credito della città, tenevasi sicuro che le finanze avrebbero finito per aver ragione in un giudizio di rivendicazione della proprietà delle due gabelle piccole, poiché, vigendo il principio che tutte le gabelle fossero demaniali, qualora non constasse della loro concessione a titolo oneroso a terzi, a nulla valeva il possesso antico vantato dalla città. Alla peggio poteva il Principe costringere la città ad abolire le sue gabelle e poi subito ripristinarle a suo vantaggio. Ma tutto ciò avrebbe richiesto molto tempo e provocato attriti con l’amministrazione cittadina, dannosi sempre, dannosissimi in tempo di guerra. Cosicché, invece di guerra aperta, noi assistiamo ad un duello accortamente combattuto tra i rappresentanti del fisco e quelli della città, per chiedere gli uni molto e per dare gli altri la somma minore che si potesse. Insiste dapprima il Groppello che, lasciandosi in sospeso le questioni sulla demanialità delle gabelle e sui debiti trascorsi, sia accettata la sua proposta; e nel congresso del 12 aprile avrebbe voluto, nientemeno, che si radunasse il consiglio della città domenica 15 dello stesso mese. Oppongono i sindaci l’”effetto pregiudicevole al Credito della Città” e lo “strepito che havrebbe fatto il suono della Campana per la radunanza d’un Conseglio straordinario, massime nelle presenti congiunture”, ed avrebbero voluto una dilazione sino al consiglio ordinario della Pentecoste, che in quell’anno cadeva il 27 di maggio. Groppello rifiuta di lasciar trascorrere più di otto giorni; ed il Duca, a cui i sindaci ricorrono, si limita a promettere una dilazione competente da fissarsi dal generale delle finanze. La città, per tirare le cose in lungo, incarica il conte Nomis di studiare la questione, anche in compagnia “di uno o più altri Giureconsulti ma il Groppello, il quale non intendeva come la Città andasse ricercando Avvocati per consultare”, non vuol saperne di rinviare la convocazione del consiglio più in là di una delle prime feste di maggio. Il 2 di maggio, dietro le insistenze del Groppello, che vorrebbe avere le risposte della città per l’indomani, il conte Nomis, evidentemente bene istruito, dice d’aver già fatto “buona parte delle fattiche”, ed aggiunge che “travaglia incessantemente et ha licentiato ogni altro patrocinio”, ma volerci ancora un po’ di tempo. Il generale delle finanze risponde ai sindaci, impetranti nuove dilazioni, che egli “ha le mani legate”; e non può concedere nemmeno un giorno di più. Al colloquio era, per fortuna, presente l’eccellenza del marchese di Priero, il quale doveva recarsi in giornata alla Veneria dal Duca. Egli, come cavaliere dell’Ordine supremo della Santissima Annunciata, “benemerito della Corona e soggetto di gran talento”, potrebbe ottenere, dice il Groppello, ciò che io non otterrei. Ed infatti il Duca concede la dilazione chiesta sino alla Pentecoste[7]. Al termine fissato, il conte Nomis presenta il memoriale; ma il Duca fa rispondere dal Groppello che restava fermo nelle sue decisioni ed ordina si convochi il consiglio. Nel quale, però, l’accoglienza fatta al progetto dovette essere unanimemente contraria, se il Consiglio – rese umilissime grazie a S.A.R. delle “benignissime espressioni della real propensione per la continuazione della regale protezione verso questa sua fedelissima Metropoli e per la conservazione del suo credito e sussistenza” – delibera di non accettare le proposte fiscali, bensì di proporre al Principe la radunanza di un congresso composto di ministri fregi e di delegati cittadini “acciò possino proporsi successivamente al nuovo Conseglio da convocarsi quei mezzi, che saranno stimati più proprii e convenienti per meglio accertare col R. servizio la sussistenza della Città e l’adempimento delle obbligationi che specialmente li corrono per l’interesse de’ suoi Censuarii, Creditori e Montisti, e per mantenersi in stato di puoter continuare in ogni tempo a servire l’A.S.R., con quel totale zelo conforme ha fatto per l’adietro e che si gloriarà di fare in avvenire, non havendo la Città e li suoi Conseglieri che una sola volontà per obbedire con somma sommissione a’ cenni del suo real sovrano et un sol cuore per servirlo, come s’è già espressa in voce e per iscritto”[8]. In poche parole il Consiglio, malgrado le proteste di devozione e di obbedienza – tanto somiglianti alle frasi sapienti degli ordini del giorno con cui oggi si seppelliscono le proposte malevise sotto colore di maggiori studi e di volontà deliberata a fare meglio – respingeva le proposte delle finanze e continuava la politica dilatoria così bene iniziata dai sindaci e dalla “congregazione”[9]. Non ancora tuonava il cannone alle porte della città, quando tra l’ordine sovrano e l’approvazione del consiglio non passavano talvolta più di 24 ore.
I ministri del Principe e i delegati della città si radunano a congresso ripetute volte: il conte Leone, primo presidente del Senato, ed il marchese presidente Pallavicino, coll’assistenza dell’avvocato generale Riccardi e del patrimoniale generale Rombelli da un lato, i due sindaci Mallet e Piccia, il mastro di ragione David, l’avvocato della città conte Nomis ed il segretario Boasso dall’altro. Vivaci dovettero essere le discussioni e forse sarebbero durate ancora a lungo, senza lo scoppio improvviso delle ostilità con la Francia. Sette giorni dopo che era giunta a Torino la notizia della sorpresa di San Benedetto, il presidente Leone consegna (10 ottobre 1703) ai sindaci un progetto, secondo il quale in via di transazione il patrimoniale rinunciava alle sue pretese verso la città, qualora questa consentisse a pagare alle finanze 500 mila lire, di cui 100 mila nel 1703, 250 mila nel 1704 e 150 mila nel 1705, o più presto; se fosse possibile. In compenso le finanze concedevano alla città di continuare a godere le due gabelle piccole per altri 12 anni, a partire dal 1704, o più a lungo se ad essa riuscisse di dimostrare la verità dei crediti allegati, come si è veduto sopra. La città, tergiversando, avea già ottenuto che più non si parlasse del “riscatto della gabella delle carni e corami” e che le finanze rinunziassero ai loro vantati crediti per il passato. Per l’avvenire le finanze, considerando come demaniali le due gabelle piccole, le cedevano alla città per 12 anni mediante l’anticipazione di mezzo milione di lire[10]. Non si acquieta subito la città; ed allora il Groppello, passando alla offesa, comunica che il Duca voleva che il mezzo milione fosse pagato metà subito e metà nel 1704, e che i 12 anni, per cui le gabelle piccole erano concesse alla città, si restringessero a 10. Essere urgentissimo il bisogno delle finanze e necessario il pronto consenso del consiglio. Si raduna questo il 21 ottobre e vota il pagamento di 100 mila lire entro due mesi dall’interinazione del contratto, di 200 mila nel 1704 e di 200 mila nel 1705 alle seguenti condizioni: 1) Dichiarisi non essere le due gabelle demaniali, e quindi non obbligata la città a rendere alcun conto per il passato e per l’avvenire dell’incassato e dello speso; 2) Riservisi alla città il diritto di godere le due gabelle per anni 15, a partire dal 1704, a garanzia del rimborso del mezzo milione che si dovea ora anticipare ed in seguito fino a totale estinzione del suo credito verso le finanze di L. 886.509.18.10, che si dovea ammettere come giustificato dai conti già consegnati; 3) Rimborsata la città del credito antico e dell’imprestito nuovo cogli interessi, saranno le due gabelle abolite dalla città “senz’altro in solievo de’ Citadini et habitanti” 4) Siano la città ed i suoi cittadini ed abitanti liberi, con il pagamento di mezzo milione, da ogni molestia di contribuzioni straordinarie e di qualsivoglia spesa durante la guerra; 5) Ai capitalisti che impresteranno alla città le 500 mila lire, che essa deve versare alle finanze, si diano tutte le guarentigie e cautele concesse ai montisti ed inoltre una special ipoteca, fino ad estinzione dei loro crediti, sul reddito delle due gabelle piccole. Tralasciamo di ricordare, perché non pertinenti al nostro soggetto, parecchie altre concessioni e privilegi, relativi alla segreteria civile, ai regolamenti per gli osti e tavernieri, ai pesi e misure, ai trombetti, pubblicatori e giurati che la città voleva in questa occasione farsi confermare[11].
Pare che le richieste della città infastidissero il Duca e il Groppello perché a parecchie riprese il conte Nomis è pregato di ridurre il suo memoriale “a maggior brevità e con termini e parole equipollenti e tali che possino essere graditi a S.A.R. e di sodisfatione e cautella della Città e di quelli che somministraranno il denaro alla Città”. Più di un mese passa in questi stiracchiamenti a proposito di parole; poiché soltanto nella tornata del 26 novembre il sindaco Mallet è in grado di presentare il memoriale interinato alla congregazione[12]. In esso la “fedelissima Città di Torino, come s’è sempre stimata in obbligo e recato a gloria di rimostrare in tutte le occasioni il sincero e particolarissimo zelo con cui deve interessarsi di ogni suo possibile per li avvantaggi di S.A.R. e della sua corona”, protesta che suo desiderio sarebbe stato pure in queste contingenze di una guerra così improvvisamente suscitata a S.A.R. sagrificare con se stessa tutto quel maggior soccorso delle proprie sostanze che le fosse permesso”. Le rincresceva perciò “al sommo che, gravata dalle continue spese e molti debiti contratti in diversi tempi e massime nelle passate guerre”, non possa fare maggiore sforzo delle 600 mila lire concordate, pagabili metà nel 1703 e metà nei due anni seguenti 1704 e 1705. Protratto in compenso il godimento delle due gabelle piccole per 14 anni, a partire dal 1704. Lasciata impregiudicata la questione della demanialità, il patrimoniale del Duca rinunciava ad ogni pretesa riguardo al godimento avuto in passato e alla resa dei conti anche per l’avvenire; obbligandosi la città ad abolire le gabelle, quando, trascorsi i 14 anni, non riuscisse a dimostrare d’essere in credito verso il fisco[13].
55. – Chiudevasi in tal maniera il dibattito fra la città e il fisco con un pagamento di mezzo milione di lire, che avea natura intermedia fra l’imposta straordinaria e il prestito. Imposta, quando si ritengano le due gabelle di spettanza della città e le 600 mila lire pagate con un tributo imposto volontariamente, a tal fine, sui cittadini. Prestito, quando si accetti il concetto della demanialità e si considerino le 600 mila lire come anticipate dalla città al fisco, salvo rivalsa del capitale e degli interessi sul prodotto delle due gabelle ricevute dalle finanze in godimento per 14 anni. Qualunque sia l’opinione corretta, e la sostanza della cosa non muta gran fatto in amendue i casi, era questo certamente il primo sperimento che si faceva di appello al credito pubblico. Poiché, non avendo la città nelle sue casse il mezzo milione che s’era obbligata a dare alle finanze, fu giuocoforza aprire sottoscrizioni pubbliche tra coloro che offerissero capitali al 6 per cento, se dati a censo, ed al 5 per cento, se dati a credito, garantendoli, oltrecché con tutti i beni e redditi della città, con ipoteca speciale sulle due gabelle piccole. Dapprima la sottoscrizione s’era limitata a 250 mila lire, quante la città dovea pagare in quello scorcio del 1703; e la limitazione era voluta, poiché s’avea forse timore che non si trovassero sulla piazza capitali bastanti in cerca d’impiego e vogliosi d’impiegarsi in prestiti pubblici. Tanto era il timore che la sottoscrizione non riuscisse che parecchi consiglieri, fra cui il patrimoniale Rombelli, il segretario vassallo Boasso e il mastro di ragione David, aveano sottoscritto per 13 mila, 6100 e 6100 lire rispettivamente “a fine che ciò servisse d’esempio e di stimolo alli altri d’esporre i loro denari per maggiormente muoverli e risolverli (gli altri) a far tal impiego in tempo che si dubitava che non si potesse ritrovare la somma per servire le finanze”. Invece i capitalisti affluiscono volonterosi agli sportelli del tesoriere della città, sicché tra quelli invitati dai consiglieri e quelli volontariamente disposti a far censi o mutui, nasce una specie di gara “ognuno prettendendo d’essere de’ primi a colocar il suo denaro”. Alcuni degli ultimi oblatori, per non restare esclusi, si offrono di anticipare denari a censo al 5%, invece che al tasso offerto dalla città, che era del 6 per cento. Fra gli altri, l’abate di S. Martino, ha offerto 30 mila lire al 5 per cento. Grande è l’imbarazzo nell’amministrazione: si debbono accettare le ultime offerte al 5% e rinunciare alle prime sottoscrizioni al 6% e non si darà con ciò esca a “qualche doglienza massime (da parte di coloro) che hanno tenuto il loro denaro pronto et otioso et alcuni ricusati altri impieghi, et altri levato il loro denaro dove era impiegato?”. Non avranno a nascere querimonie contro gli ufficiali e consiglieri della città che in principio, dubitosi della buona riuscita dell’operazione, aveano promesso a taluni capitalisti che le loro offerte sarebbero state accettate? A togliere il consiglio dall’imbarazzo vengono dapprima i consiglieri sottoscrittori Rombelli, Boasso e David i quali dichiarano ripetutamente che non avendo “havuto altro fine che di servire la città et invitare col loro esempio li altri ad esporre volontieri li loro denari” si contentano dell’interesse del 5 invece di quello del 6% consentito dai loro contratti. Sovratutto poi le difficoltà sono scongiurate dal sempre vigile conte Groppello, il quale, edotto della grande concorrenza dei capitalisti, informa la città d’esser disposto a ricevere, oltre le 250 mila lire da consegnarsi nel 1703, anche le 250 mila lire promesse pel 1704/705 ed offre di rimborsare alla città l’interesse pel tempo dell’anticipazione. La città delibera innanzi tutto di sospendere le accettazioni di capitali al 6% che oramai ammontavano a L. 161.100; ed in pochi giorni, essendo il resto stato sottoscritto al 5%, le prime 250 mila lire sono versate nella cassa della tesoreria generale, con pieno gradimento del Duca, il quale con suo biglietto manifesta alla città il desiderio che essa si giovi del suo buon credito per procurare subito alle finanze il restante quarto di milione. Il consiglio, incoraggiato dal buon esito della prima sottoscrizione, delibera di riaprirla al 5%, e lieto di poter servire il sovrano, protesta di accollarsi intiero l’onere degli interessi sin dal primo momento, rinunciando generosamente ad ogni rimborso dalle finanze. Ma subito nascono di nuovo le stesse difficoltà; poiché erano appena stati fatti contratti al 5% per 77 mila lire, e altre offerte allo stesso tasso affluivano, che si presentano due capitalisti pronti a mutuare 16 mila lire al 4 e mezzo per cento. La congregazione fa sospendere per tre giorni le accettazioni di offerte al 5% ed ordina si facciano durante quel tempo contratti solo al 4 e mezzo per cento. Il capitale offerto al 4 e mezzo ammonta a 45.700 lire; ed il resto viene di nuovo offerto al 5% e prontissimamente sottoscritto.
L’esito della prima sottoscrizione non poteva essere più brillante. Mentre si dubitava di riuscire ad accattare al 6% il mezzo milione e si erano scaglionati i pagamenti sul dicembre 1703 e sul biennio 1704/705, in meno di 20 giorni (dicembre 1703) tutto il capitale sottoscritto per 161.100 lire al 6%, 293.200 al 5% e 45.700 al 4 e mezzo per cento. La città di Torino e lo Stato sabaudo doveano avere buon nome anche all’estero, se, quando la sottoscrizione era già chiusa, un cavaliere forestiero fa manifesto il suo desiderio di imprestare 100 mila lire al 5% alla città. Vittorio Amedeo II, desideroso di favorire questa introduzione di capitali stranieri nel suo Stato, insiste presso la cittàperché accetti le 100 mila lire anche a costo di rimborsare per la stessa somma taluni suoi antichi creditori; ma la congregazione non sa decidersi a disgustare i capitalisti cittadini e si assoggetta a mutuare egualmente le 100 mila lire, di cui forse avrà bisogno per fare provviste di grano durante l’inverno e la primavera entranti[14].
56. – L’esito ottimo del primo prestito pubblico conchiuso coll’aiuto della città di Torino, invogli le finanze, costrettevi del resto dall’incalzar delle spese di guerra, a nuovi appelli al credito. Quale reddito dare in pegno alla città a garanzia dei capitalisti?
Le finanze al principio del secolo doveano già alla città di Torino 635.500 lire per censi al 5% e le aveano alienata la gabella delle carni e corami (macelli) per un reddito annuo di L. 80.000. L’alienazione era stata fatta nel 1690 per il prodotto della gabella che s’esigeva sul territorio della città e suoi borghi ed all’interesse del 5% corrispondeva ad un capitale di L. 1.645.205. Nel 1699 la città avea consentito a ridurre l’interesse al 4% e per conservarsi ciononostante il possesso dell’intiera gabella avea pagato altre L. 411.301.5; e così in tutto L. 2.056.506.5. Non tutta la somma era stata pagata in contanti, perché la cittàs’era accollato il servizio intiero delle tre prime erezioni dei monti fissi di S. Giovanni Battista e parte della quarta erezione. Comunque sia di ciò, la gabella della carne e dei corami era oramai alienata; e per quanto la cosa nuocesse alle finanze, non v’era da ricavarne altro pro[15]. Rimanevano in proprietà delle finanze, ed esigibili nel territorio di Torino, la gabella dell’imbottato e l’altra della foglietta, gabella grossa degli hosti e cinque ottavi di ducatone (cfr. p. 6). L’imbottato non era in tutto libero, perché vi gravavano sopra le ipoteche di privati alienatari per un reddito annuo di L. 39.169.9.6; ma si poteva seguire e si seguì di fatto il sistema, già adottato con la gabella delle carni e corami per il servizio dei monti, di cedere alla città, insieme col reddito dell’imbottato, anche l’onere del servizio degli interessi agli alienatari.
Tutto ciò si vede più chiaramente ove si costruisca un quadro delle alienazioni esistenti nel 1700 e degli aumenti che vi si fecero in seguito fino al 1713. A mettere in chiaro i rapporti fra la città e le finanze, abbiamo infatti estratto dai bilanci generali della spesa la parte che si riferisce alle alienazioni sulle gabelle generali e sistematicamente ordinata la presentiamo qui ai lettori[16]. In queste tabelle è riassunta la previsione della spesa che le finanze doveano fare ogni anno per il servizio dei prestiti conchiusi coll’intervento della cittàdi Torino e di altri enti locali, come il Monte di Fede e Pietà. Le finanze pagavano direttamente gli interessi dovuti ai montisti di fede, ai montisti di Giovanni Battista per la quarta erezione dei luoghi fissi, ai montisti dei luoghi vacabili, ai censuari della città di Torino, agli alienatari sulla gabella dell’imbottato ed agli alienatari diversi. Invece la gabella di carni e corami era stata addirittura venduta alla città di Torino, che col suo provento pagava gli interessi dovuti ai montisti delle prime tre erezioni dei luoghi fissi di S. Giovanni Battista e ad altri suoi creditori. Pensavasi ora di vendere, dietro adeguato compenso, alla città di Torino la gabella dell’imbottato, accollando nel tempo stesso alla città l’obbligo di soddisfare direttamente gli interessi dovuti agli alienatari già esistenti.
Nella congregazione del 26 febbraio 1704, il sindaco conte Tarino Imperiale riferisce che il conte Groppello ha proposto alla città l’alienazione delle due gabelle dell’imbottato e della foglietta, ecc., mediante il pagamento al 5% del capitale di L. 1.300.000. Essere più che sufficiente il prodotto delle due gabelle a garantire il servizio del prestito, perché il reddito lordo era di 111 mila lire, da cui deducendo 6000 lire per spese diverse e 39 mila lire per gli interessi agli alienatari sull’imbottato, rimanevano di netto 65 mila lire circa. Sembra che, malgrado l’esito del prestito di mezzo milione, la città non si sentisse il coraggio a così breve distanza di tempo – erano appena passati due mesi dalla chiusura dell’emissione precedente – di fare altri prestiti per una somma così grossa; sicché propose che la alienazione si restringesse – alla gabella dell’imbottato e fosse fatta all’interesse del 6 per cento. Siccome la gabella dell’imbottato, al netto dalle spese e dagli interessi già dovuti, non fruttava più di 24 mila lire l’anno, erano appena 400 mila lire che la città voleva obbligarsi a trovare sul mercato. Ma dichiarando Vittorio Amedeo che sua ferma intenzione era di alienare, insieme coll’imbottato, anche la gabella della foglietta, gabella grossa degli hosti e cinque ottavi di ducatone, e che nessuna difficoltà vi era nel trovare 1.300.000 lire a prestito al 5%[17],tutta l’opera dei sindaci e consiglieri torinesi fu rivolta ad ottenere una riduzione nel prezzo di vendita. Facciamo grazia ai lettori delle numerose repliche e controrepliche fiscali e cittadine, le quali provano con quale attenta cura si vegliasse a mantenere l’integrità del patrimonio comunale contro le pretese esorbitanti del fisco. Diremo soltanto che la città volle, quanto all’imbottato, fare una media del reddito netto negli ultimi dieci anni, dal 1693 al 1702, escluso il 1703, anno in cui “è seguita la dichiaratione della guerra, il timore della quale ha causato una straordinaria introdutione di vini”; e si trovò che era stato di L. 59.590.12.3 all’anno. Per la foglietta e la gabella degli hosti la media risultò di L. 41.160; e così un reddito totale di L. 100.740.12.3, da cui togliendo le alienazioni sull’imbottato in L. 39.169.9.6, si avea un netto di L. 61.571.2.9. Dovendosi tener conto dei casi insoliti, che restano a pericolo dell’acquisitore, et in particolare quanto all’imbottato, il tagliamento di quantità grande di viti, et occupatione del paese dal nemico ed essendo necessario che la media assunta a base del calcolo sia abbondante affinché il reddito sia probabilmente e moralmente sicuro per cautela dei creditori non pareva alla città di cadere in errore fissando il prezzo di vendita in L. 1.200.000. Replicava il Groppello che la media dell’ultimo decennio riusciva troppo dannosa al fisco; che se si fosse fatta la media dell’ultimo triennio, si avrebbe avuto un reddito netto di circa 70 mila lire. Finirono per accordarsi sulle 63 mila lire di reddito netto e sul capitale di L. 1.260.000[18]che la città si obbligò a pagare entro il 16 giugno, con decorrenza degli interessi a favore dei vecchi e dei nuovi alienatari a partiie dall’1 aprile a carico della città e col godimento delle due gabelle dall’1 marzo. La differenza di un mese fra il giorno in cui la città cominciava a godere le gabelle e quello in cui prendeva inizio il pagamento a suo carico degli interessi, era stabilita perché la città potesse rimborsarsi delle spese di emissione del prestito, che si calcolavano in più di 6000 lire. Le lettere patenti di alienazione venivano firmate il 14 marzo 1704, interinate dal Senato e dalla Camera il giorno dopo e presentate al consiglio il 16 marzo. Il 29 settembre la città ordinava si pagassero in tesoreria generale L. 1930, ultimo residuo non versato della somma promessa di 1.260.000 lire. Anche questo prestito era dunque riuscito; e l’interesse del 5%, di cui s’erano gravate le finanze, non poteva dirsi eccessivo, se si bada all’imperversar della guerra in Piemonte in quel torno di tempo[19].
57. – Con le due operazioni di credito, delle quali dicemmo, la città, acquisitrice a tempo od a perpetuità di determinate gabelle, stipulava con i capitalisti contratti particolari di mutuo a censo od a credito. Suppergiù la stessa era la procedura quando si emettevano luoghi di monte, salvo che il contratto stipulato coi capitalisti assumeva forme speciali e dava luogo alla emissione di un titolo uniforme per tutti i montisti.
All’epoca nostra due erano i monti istituiti negli Stati di Savoia: il Monte di Fede[20]fondato il 3 febbraio 1653 ed amministrato dal depositario del Monte di Pietà di Torino, sotto l’alta sorveglianza e giurisdizione di un “conservatore” e con l’aiuto di un “regolatore di scrittura”; ed il Monte di S. Giovanni Battista[21], eretto il 22 aprile 1681 dalla città di Torino ed amministrato da un “conseglio del monte” di nomina municipale e composto di un “conservatore”, un “vice conservatore”, due “ufficiali ed un segretario”, aiutati da un tesoriere e da quegli altri impiegati che alla città paresse conveniente scegliere. Il monte aveva una dote costituita dai redditi impegnati espressamente per il pagamento degli interessi; la quale poteva essere di spettanza delle finanze nel qual caso il conservatore od il consiglio del monte avea poteri esecutivi amplissimi e rapidi per costringere senz’impacci di appelli e di sospensioni gli appaltatori od economi dei redditi impegnati al pagamento nei termini prescritti delle rate convenute di interesse oppure era stata venduta alla città di Torino, come accadeva per la gabella delle carni e dei corami, ed allora alla città spettava l’obbligo di pagare i frutti convenuti al consiglio del monte e contro di essa potevano esercitarsi i poteri esecutivi e giurisdizionali di quest’ultimo. Il monte era stato accresciuto a mano a mano con successive erezioni, che sarebbero le emissioni fatte di volta in volta per determinate somme a seconda dei bisogni; le quali si distinguevano progressivamente in prima, seconda, ecc. erezione e colla data dell’emissione. Ogni erezione comprendeva un numero fisso di luoghi del valore ognuno di scudi 100 d’oro d’Italia per il Monte di Fede e di scudi 40 d’oro del sole per il Monte di S. Giovanni Battista. “Luogo” corrispondeva perciò alle moderne obbligazioni di un taglio unico. Il valore non era espresso in “lire” od altre monete correnti, ma in “scudi”, moneta d’oro di valore immutabile. Per comodità delle finanze e dei montisti, il prezzo dei luoghi e l’interesse si pagavano però in monete correnti, al ragguaglio stabilito dagli ordini monetari. Ai nostri tempi lo scudo d’oro d’Italia, era reputato eguale a 7 lire e 6 soldi piemontesi e lo scudo d’oro del sole a 7 lire e 10 soldi; cosicché il luogo del Monte di Fede valeva 726 lire, e quello di S. Giovanni Battista 300 lire. “Per maggiore facilità e comodità de’ men pecuniosi et acciò ogni stato di persone possi gioire di questo pubblico beneficio” era permessa l’emissione di mezzi luoghi da 20 scudi o 160 lire per il Monte di S. Giovanni Battista. Era il taglio minimo a cui allora s’era giunti per favorire la diffusione dei titoli di debito pubblico; ed un qualche risultamento se n’era avuto. I luoghi si distinguevano in fissi, che ora si direbbero titoli di debito perpetuo, e vacabiii, che si estinguevano colla morte dell’acquisitore e fruttavano naturalmente un reddito maggiore. All’aprirsi del 1700 non s’era ancor tentata l’emissione di luoghi di tontina; ma si tentò durante la guerra e ne diremo perciò a suo luogo. Agli acquisitori dei luoghi di monte si rilasciava una cedola su pergamena ed a stampa, contenente il nome, cognome, patria, qualità del montista, il numero dei luoghi venduti, l’indicazione se fissi e vacabili, il prezzo d’emissione, il reddito annuo, i termini dei pagamenti, ecc. La cedola del monte era sottoscritta dal conservatore o vice conservatore, autenticata dal segretario, debitamente controllata e sigillata; e faceva l’istessa fede, in giudizio e fuori, come se fosse “istrumento giurato et insinuato”. Il reddito stipulato si pagava a quartieri (trimestri) maturati, con la quietanza semplice e gratuita dei montisti o loro procuratore. I posscssori di luoghi vacabili, quando non si presentassero personalmente, dovevano far constare con atto giudiziale autentico l’identità loro e del procuratore; e nell’atto dovea dirsi che il montista era vivo.
Privilegi amplissimi erano concessi al Monte ed ai luoghi di monte per allettare i capitalisti a vistosi prestiti. Brevemente le enumereremo, avvertendo che le cose dette qui sotto, pur riferendosi al Monte di S. Criovanni Battista, valgono con poche mutazioni anche pel Monte di Fede:
1) Giurisdizione speciale. – Già si disse che il consiglio del monte avea autorità di costringere gli appaltatori ed amministratori dei redditi costituiti in “dote” a pagare le somme dovute direttamente nella cassa del tesoriere del monte. Il rito seguito era “sommarissimo” e si cominciava subito dall’esecuzione reale e personale e dai sequestri, “sigillamento di denari ed effetti” delle gabelle. L’esecuzione non era ritardata dagli appelli, né l’appello era ammesso se prima non era pagato il reddito contestato al tesoriere del monte, applicandosi al debito pubblico il principio del “solve et repete”. Nessuna dilazione o mora mai poteva concedersi nei pagamenti; e, se concessa, reputavansi gli ordini “orrettizii e suirettizii” e si vietava loro ubbidienza. Le controversie tra montisti, e tra questi ed il monte o terzi erano giudicate dal consiglio con rito sommario e con sentenze aventi forza esecutiva malgrado l’appello al Senato. Ove il Senato revocasse le sentenze, nulla poteva pretendersi dal monte per ragione di indebito pagamento; la rivalsa s’avea solo contro chi indebitamente avesse riscosso.
2) Chi potevano egaere montisti. – Tutti i cittadini ed abitanti della metropoli, i vassalli e sudditi d’ogni stato, grado, dignità e condizione, tanto secolari che ecclesiastici, anche regolari d’ambo i sessi, i corpi, i comuni, i collegi e le università potevano comprar luoghi di monte. Né si eccettuavano i forestieri di qualsiasi nazione o dominio, benché di Stati non confederati col Principe o che avessero anzi avuto guerra con i suoi antecessori o fossero per muoverla a lui od ai suoi successori nel trono.
3) Della immunità da rappresaglie, dalle leggi d’ubena, da confische ed imposte. – Ad assicurare i forastieri si esentavano i luoghi di monte dalle rappresaglie, sequestri o riduzioni ordinate in odio dei sudditi di Stati guerreggianti col Piemonte, anche se le rappresaglie fossero concesse per denegata giustizia o ristoro di danno patito. Nell’istesso intento di assicurare gli stranieri le lettere patenti del 13 marzo 1705, in occasione di una nuova erezione del Monte di S. Giovanni Battista, li esentavano dalle disposizioni della legge d’ubena “in modo che tutti i possessori de’ luoghi de Monti possono disporre e rispettivamente succedere in essi luoghi quantunque forestieri o d’alieno dominio, dovendosi per l’effetto suddetto considerar come naturalizzati”.
Ad assicurare tutti, anche i nazionali, si prescriveva che i luoghi di monte fossero esenti da confische e sequestri “per qualunque delitto atroce et atrocissimo”, nonostante la condanna alla confisca dei beni e – anche nel caso che il delitto commesso fosse di “lesa Maestà divina et umana”, eccettuandosi unicamente la conversione all’eresia avvenuta dopo l’acquisto dei luoghi, e l’attentato diretto personalmente contro il Sovrano od i suoi successori alla corona.
Quanto all’imposte promettevasi l’immunità perpetua “da qualunque imposto, contribuzione e diffalco per qualunque causa pensata o impensata, eziandio di guerra, peste o altro caso, ancorché fosse tale che concernesse pubblica utilità o necessità dello Stato o della Corona” e malgrado che nessun altro mezzo potesse escogitarsi fuorché di tassare il reddito del monte. Nullo ed irrito proclamavasi ogni editto od ordine in tal senso.
4) Prerogative quanto ai sequestri. – Nessun sequestro poteva concedersi sui luoghi per causa di debito civile o criminale; nemmeno se la causa fosse privilegiatissima, come, ad es., un debito verso la Corona od il fisco. I seqnestri concessi da qualunque magistrato, ed anche di motuproprio sovrano, abbiansi per nulli ed invalidi; e gli ufficiali del monte siano astretti a non osservarli.
5) Prerogativa quanto alle ipoteche, al dominio, alle vendite ed alle liti possessorie o petitorie. – Nulla reputavasi ogni ipoteca o vincolo o condizione od obbligo imposto ai luoghi di monte, quando non fosse trascritto nel libro dove i luoghi erano registrati, né possa trascriversi quando contraddica ad altro vincolo od ipoteca già registrata. La trascrizione facciasi solo dietro esplicito consenso del possessore dei luoghi e per ordine del conservatore o vice conservatore; né alcuno che abbia acquistato luoghi dai precedenti possessori possa essere molestato se non per vincoli ed ipoteche ed obblighi anteriormente trascritti sul libro del monte. Né possano essere i luoghi ed i loro redditi impegnati o sequestrati, ecc., ecc. e sempre debbano i frutti pagarsi al possessore, salvo che vi sia vincolo o condizione trascritta come sopra detto.
Il possessore dei luoghi possa sempre alienare i luoghi di monte, malgrado qualunque lite iniziata o da iniziarsi sulla proprietà di essi, salvo che sia stata trascritta sul libro del monte la pretesa altrui alla proprietà, nel qual caso la vendita dei luoghi non sia valida prima della conclusione della lite. Ma “acciò tali liti non si rendino immortali”, se, passati due anni dal loro inizio, non sia intervenuta sentenza definitiva, ogni vincolo si reputerà tolto ed il possessore possa vendere i suoi luoghi, senza che agli acquisitori possa muoversi eccezione veruna.
Essendo libere le traslazioni dei luoghi per contratto tra vivi o di ultima volontà si reputi possessore legittimo colui a favore del quale siasi operato il trasferimento sui libri del monte; né siano ascoltate le eccezioni di chi pretenda essersi violate le solennità richieste nelle vendite, o mancare venditori od acquisitori, se vedove, pupilli, collegi, università, ecc. della capacità necessaria a contrattare. A tutte queste contestazioni sia “imposto … perpetuo silenzio … volendo che solamente s’intenda quello che si trovarà notato … ne’ libri pubblici dove [i luoghi] sono e saranno descritti e non altro”.
6) Prerogative quanto ai fidecommessi. – È noto qual grave incaglio alla libera trasmissione della proprietà fosse l’istituto dei fidecommessi. A togliere quest’inceppamento ed a crescere loro pregio, era proibito ogni fidecommesso generale pei luoghi di monte. Solo erano permessi i fidecommessi particolari, le primogeniture ed i maggioraschi per i luoghi espressamente indicati, purché fossero annotati nei libri del monte. Prima dell’annotazione, sia lecito al possessore liberamente vendere i suoi luoghi; né gli acquisitori possano essere molestati.
7) Dei casi di perdita e di trasmissione dei luoghi di monte. – Il montista che avesse perduto od a cui fosse stata rubata la cedola, poteva ottenerne un duplicato, che annullava la prima. Così pure una nuova cedola era rilasciata all’acquisitore dei luoghi od all’erede o legatario del montista defunto, annullandosi la cedola o patente prededente o dichiarandosi smarrita e nulla quando fosse stata perduta.
8) Dei libri e scritture del monte. – Con un sistema così largo di pubblicità e data la grande importanza che aveano le scritturazioni eseguite sui registri del monte, si comprende come si dovesse vegliare con assidua cura alla conservazione di essi. Perciò il consiglio del monte doveva gelosamente custodire i libri di tesoreria e di controllo, le quitanze, le fedi, ecc.; e tutte queste carte insieme colle cedole consegnate ai montisti, si consideravano “scritture pubbliche” e s’ordinava facessero fede in giudizio dinanzi a qualunque magistrato. Vietata peròla estrazione delle carte dall’archivio; e solo permessa la visione, con assistenza del conservatore o vice conservatore o d’uno dei due ufficiali, nelle stanze dell’archivio. Nulla qualunque ordinanza di magistrati, ministri, ecc., che ordinasse altrimenti e tenuto il consiglio del monte a non prestarvi ubbidienza. A garantire l’esattezza dei libri, questi siano numerati ed ogni foglio sia sottoscritto dal conservatore o vice conservatore, il quale nella prima pagina dichiarerà il numero dei fogli di cui il libro è composto.
9) Del diritto di riscatto perpetuo riservato alla Corona. – Nessuna prescrizione valeva contro questo diritto di riscatto che le finanze potevano esercitare in qualunque momento, perché: a) rimborsassero integralmente il capitale mutuato; b) riscattassero tutti i luoghi di monte spettanti ad un possessore, e non alcuni soltanto; c) dessero alla città ed ai montisti un preavviso di tre mesi. I montisti non avevano mai facoltà di ripetere il capitale mutuato[22].
58. – Malgrado le tante cautele per il sicuro e puntuale pagamento degli interessi e le pregiatissime prerogative concesse ai luoghi di monte, si durò dapprincipio una certa fatica nel farli entrare largamente nella estimazione pubblica. La tabella seguente ci fa conoscere l’incremento del debito pubblico sotto forma di luoghi di monte.
Dei Monti di Fede solo la prima e la terza erezione aveano avuto esito in tutto favorevole; mentre la sottoscrizione della seconda e quarta era stata più o meno al disotto del capitale offerto, malgrado che l’interesse (del 5 e mezzo per cento fosse allettatore. Dopo il 1668 non si fecero più emissioni di luoghi di fede, sia perché non fosse molto grande la fiducia dei capitalisti nelle garanzie offerte dal Monte di Pietà, sia per le elevate spese di amministrazione che ragguagliavano il mezzo per cento del capitale del debito. La città di Torino aveva credito più solido e si contentava di mitissime somme per le spese di amministrazione, le quali venivano a gravare quasi del tutto sul bilancio cittadino. Perciòa partire dai primi anni del regno di Vittorio Amedeo II furono sempre preferiti i Monti di S. Giovanni Battista. Gli anni di pace favorirono queste nuove specie di monti e per riflesso avvantaggiarono eziandio i Monti di Fede. La prima erezione di 3000 luoghi fissi di S. Giovanni Battista al 5% pel capitale di 900.000 lire, ordinata con l’editto del 22 aprile 1681, riuscì in tutto; e crescendo la fiducia pubblica, i luoghi erano stati collocati in maniera sicura.
Se i primi passi erano stati duri, a poco a poco i luoghi di monte cominciarono ad essere apprezzati; e di ciò abbiamo una prova certissima nel fatto che l’interesse dei luoghi di fede dal 5 e mezzo, poté essere in gran parte ridotto al 4% e così pure l’interesse dei luoghi della prima erezione del Monte di S. Giovanni Battista dal 5 al 4 per cento. La conversione dei luoghi di S. Giovanni Battista emessi nel 1681 fu fatta nel 1688, profittando di una forte somma che Madama Reale Giovanna Battista aveva riscosso in conto dell’eredità del padre suo, principe Carlo Amedeo di Savoia, duca di Nemours e d’Aumale. Subito il generale delle finanze (che era allora il conte Giovan Pietro Marelli) espone al consiglio della città di Torino il suo divisamento di ridurre l’interesse dei luoghi fissi del Monte di 9. Giovanni Battista dal 5 al 4%, offrendo ai creditori, che non avessero consentito, il rimborso del capitale alla pari. Il consiglio annuisce di buon grado, e con regio biglietto del 14 giugno 1688 la conversione ordinata. La più parte dei montisti s’adatta al 4 per cento; sennonché il Principe, che doveva impiegare i denari dell’eredità di Madama Reale nel riscattare debiti della Corona, l’anno seguente, con lettere patenti del 4 aprile e con istrumento dell’1 giugno 1689, riscatta 1673 luoghi (fra cui tutti quelli rimasti al 5%) per un capitale di L. 501.900, riducendo il monte da 900.000 a 398.000 lire[23].
Della conversione, benché felicemente riuscita, il merito principale andava all’eredita cospicua fatta da Madama Reale; cosicché la riduzione dell’interesse dal 5 al 4% per la prima erezione non impedì che per le seguenti si dovessero nuovamente pagare usure più alte ed anzi che durante la guerra del 1690/96 l’accoglienza fatta ai nuovi prestiti non fosse in tutto favorevole. L’insuccesso fu specialmente notevole nella seconda erezione del 3 dicembre 1689 in occasione della quale s’era commesso l’errore di offrire in vendita i luoghi fissi al 4 ed i vacabili all’8 per cento, mentre nel tempo stesso si vendevano tassi al 5 per cento. Il risultato fu che neppure un luogo vacabile fu sottoscritto e invece di un mezzo milione di lire si cavarono solo 73.950 lire dai luoghi fissi. Allora con l’erezione del 30 maggio 1630 si rialzò al 5 il tasso dell’interesse e, abbandonata l’idea dei vacabili all’8%, si promise un accrescimento del mezzo per cento a quei montisti delle due prime erezioni che avessero comprato luoghi della terza, in questa maniera riuscendo possibile stimolare le sottoscrizioni tanto nella seconda che nella terza erezione.
59. – Forse perché si ricordava che nessuna delle erezioni compiute durante la guerra precedente era stata intieramente accolta dai sottoscrittori, si tardò durante la nostra guerra ad emettere luoghi di monte, preferendosi le altre maniere di Prestito con la città di Torino che sopra abbiamo studiate; e fu soltanto in principio del 1705 che si pensò di ricorrere a questo mezzo di far denari. I primi discorsi si fecero il 23 febbraio tra il conte Groppello e il conte Goveano, sindaco della città per quell’anno. La città avrebbe preferito che a garanzia della nuova erezione le finanze le cedessero una gabella in proprietà, come s’era fatto per la gabella delle carni e corami e per le altre dell’imbottato e della foglietta. Ma dopo un minuto esame e “discutione particolare fatta d’ogni gabella come pure de’ redditi del regio demanio” si riconobbe che non vi erano gabelle da vendere alla città, non potendosi vendere, ad es., un solo banco del sale od una ricevidoria di dogana, od una accensa del tabacco, od anche parecchie di esse, quando il restante delle gabelle continuava a spettare alle finanze; poiché la vendita parziale avrebbe portato incaglio negli appalti e nell’esercizio delle gabelle. Si preferì quindi di garantire i nuovi monti sulla gabella del sale in primo luogo e sulla gabella della tratta e dogana in via sussidiaria; facendo obbligo agli appaltatori ed economi di pagare a quartieri le somme necessarie per il servizio del prestito addirittura nelle casse del tesoriere della città, senza passare pel tramite della tesoreria generale. La città aveva chiesto una somma per le spese di amministrazione, ed aveva insistito perché le finanze pagassero gli arretrati dal 1700 delle quote stanziate per le spese stesse per le erezioni precedenti; ma il Groppello rispondeva che le finanze erano in troppe angustie per poter occuparsi di arretrati e che “nelle presenti contingenze che tutto il paese tanto concorre straordinariamente, la Città possa anche lei concorrere con carricarsi delle spese et avarie del nuovo Monte senza chiamar cosa alcuna”. Finirono per accordarsi nello stabilire 1600 lire all’anno per spese d’amministrazione e nell’emissione di 2083 un terzo luoghi fissi al 6% per un capitale di 625.000 lire e di 750 luoghi vacabili al 10 per cento per un capitale di L. 296.000. Si vede che il denaro rincarava perché non vi fu neppure discussione sul tasso dell’interesse, fissato al 6%, mentre l’alienazione dell’imbottato e della foglietta s’era fatta l’anno prima al 5 per cento[24].
Messe d’accordo la città e le finanze, quelle che seguono sono pure formalità legali. Il Duca dirige l’8 marzo una lettera da Crescentino ai “Molto Magnifici suoi carissimi” sindaci e consiglieri della città nella quale. ricordando d’aver “sempre isperimentato un zelo distinto in cotesta nostra fedelissima Metropoli e nei suoi Consiglieri e Cittadini in tutte le occorrenze del servizio nostro singolarmente nella scorsa e corrente guerra con special nostra sodisfazione et aggradimento”, manifesta il desiderio che si faccia la nuova erezione dei monti; ed aggiunge che “acciò gli Acquisitori habbino non meno un’indubitata sicurezza per la cautela de’ loro capitali, che del pontual pagamento de’ proventi e che con inviolabil fede s’osservi il contratto perpetuo” gradira “estremamente … siano suggerite tutte quelle più opportune et efficaci cautele, che potranno maggiormente renderlo fermo e stabile per appagar intieramente l’animo di tutti gli acquisitori”. Essere lui dispostissimo ad accordare tutte le necessarie cautele “trattandosi massime di contratto di tanta premura e necessità per difesa della nostra Corona e dello Stato”. E chiude manifestando la persuasione “che col mezzo di questo ripiego verremo Noi a conseguir il fine, almeno in buona parte, dell’indispensabile soccorso, voi il merito d’haverci servito in congionture di tanta urgenza, e li sudditi nostri non men il sollievo che il vantaggio nell’impiegar le loro somme in un contratto di tanta sicurezza ed utilità”.
Il consiglio, udita la lettura del regio biglietto e le spiegazioni del sindaco, presta il 12 marzo il suo consenso alla nuova erezione, senza alcuna nuova condizione degna di nota, fuori di quella, già ricordata, per cui i luoghi di monte dovessero essere eccettuati dalla legge d’ubena, e l’altra che la città dovesse rinunciare al reddito dei luoghi vacabili scaduti per la morte del possessore entro il trimestre e non solo entro l’anno dalla vacanza, diminuendosi così subito d’altrettanto l’onere gravante per gl’interessi sulle finanze. Il 13 marzo Vittorio Amedeo firma le lettere patenti per la nuova erezione, nelle quali nulla di peculiare si legge, fuori del proemio che trascriviamo ad esempio del tenore degli altri consimili per le successive erezioni: “Crescendo ogn’hor più le gravissime spese, a’ quali ci obbligano le altrettanto premurose che notorie urgenze della corrente guerra, a cui non bastano supplire le forze del nostro Erario, che le sovventioni delle Potenze confederate, imposti già accresciuti et alienationi fatte de’ redditi del nostro Demanio, trovandoci perciò astretti d’haver maggiori soccorsi per continuar la difiesa di questi nostri Stati e della Corona, fra li spedienti propostici, et esaminati da principali Ministri, specialmente sopra questo da Noi deputati, habbiamo col parere de’ medemi stimato il più congruo di devenire a qualche maggior alienatione de’ redditi del medesimo nostro Demanio, come mezzo conosciuto il più proprio, anzi l’unico per produr l’effetto d’un pronto soccorso, indispensabile nelle presenti emergenti, che per altro non sarebbe così attuabile con la pratica di novi imposti, oltre che questi potrebbero esser superiori alle forze de’ nostri sudditi, attesi li molti disagi patiti e che tuttavia nelle presenti contingenze patiscono. Qual alienatione per più facilmente renderla riuscibile, habbiamo etiandio creduto d’appoggiarla al singolar credito sempre mantenuto della nostra fedelissima Metropoli di Torino esperimentato in ogni tempo e principalmente nella scorsa e corrente guerra coll’haver provisto somme considerabili impiegate in servitio e soccorso della nostra Corona con piena et universale sodisfattione e puntualità verso tutti li suoi Creditori”. L’editto è interinato il 17 dal Senato e dalla Camera ed il 19 marzo il consiglio della città di Torino lo accetta e ne ordina la stampa, insieme coi capitoli annessi (che sono sempre quelli del 1681 riprodotti integralmente), gli ordinati del consiglio, ecc. Il 24 si legge in congregazione l’istrumento per cui gli appaltatori generali delle gabelle Oliviero e Gamba si obbligano a pagare l’annua dote della nuova erezione direttamente al tesoriere della città; ed il giorno stesso si delibera di aprire la pubblica sottoscrizione[25].
Sembra che questa si sia chiusa rapidamente e con successo brillante[26],perché non erano ancor passati quattro mesi ed una nuova erezione (VI dei fissi e V dei vacabili) era decisa. “La singolar applicazione e prontezza” – recita l’editto – “con cui segnalando sempre più il suo distinto zelo, la nostra fedelissima Metropoli ci ha in breve tempo somministrato il capitale prezzo dell’ultima creatione de’ Monti di S. Giovanni Battista … che già s’è opportunamente convertita nelle cause in esso Editto (del 13 marzo) espresse, ci invitano, nella continuazione dell’urgenze, che non sono meno premurose delle prime, valerci di que’ stessi mezzi ch’esperimentassimo li più pronti et attuabili d’ogni altro”. Stavolta la procedura rapidissima: il 18 luglio il sindaco comunica il volere regio che la nuova erezione si faccia, il 24è firmato, al campo di Castagneto, l’editto e il 27 la sottoscrizione è aperta. L’erezione si fa per 1333 1/3, luoghi fissi al 6% per un capitale di 400 mila lire e per 333 1/2 vacabili al 10% per un capitale di 100 mila lire. Le garanzie sono le stesse: sul sale e sulla tratta e dogana; e v’è pure l’obbligo negli appaltatori ed economi di pagare direttamente nella tesoreria della città l’annua dote del monte[27]. Se anche questa erezione fu tutta sottoscritta, il tempo impiegato per condurre a termine la sottoscrizione dovette però essere alquanto più lungo delle volte precedenti. Infatti, il 3 dicembre 1705, rimanevano ancora da sottoscrivere 579 125/300, su 1333 1/3, luoghi fissi e 213 1/3 sui 333 1/3 vacabili. Il conte Groppello avea però già preparata[28]la lista delle persone che dovevano sottoscrivere i luoghi disponibili e fornirgli L. 214.785.8.10 che, se non era tutta la somma residua, vi si avvicinava ben dappresso. I membri del Consiglio di Stato erano segnati per L. 13.108.6.8, quelli del Senato per L. 63.874.12.4, quelli della Camera per L. 106.301.0.10, del Consolato per L. 2250, il presidente Castelli per L. 3000, il presidente Salmatoris per L. 6000, il presidente Gubernatis per L. 1600, il presidente Frichignono per L. 6000, il controllore generale Comotto per L. 2750, l’avvocato generale Riccardi per L. 2500, il vassallo e mastro auditore Ballestreri per L. 1500, il cavaliere Morozzo per L. 1050, il patrimoniale Audifredi per L. 375, il misuratore Sevalle per L. 2576.9. Non abbiamo nessun argomento per affermare che codesti sottoscrittori non avessero spontaneamente dato la loro adesione alla compra dei luoghi; ma non ci pare fuor di luogo osservare che essi, quasi tutti alti magistrati, da parecchio tempo privi del loro stipendio, doveano sovratutto avere sottoscritto per stimolare i privati a fare altrettanto, e mossi da quello spirito di devozione alla cosa pubblica, del quale si hanno tanti esempi in quell’epoca. Né a giudicare da quel che sappiamo d’altri casi, erano mancati gli inviti pressanti del Groppello, corroborati da poco liete descrizioni dello stato delle finanze.
Nessuna difficoltà si sperava di incontrare nella emissione dei luoghi fissi della VII e vacabili della VI erezione, che viene deliberata con editto del 25 febbraio 1706. Anche stavolta il Principe esprime la sua soddisfazione per la puntualità, l’applicazione e lo zelo con i quali la fedelissima Metropoli ha condotto a fine le due precedenti emissioni e manifesta la fiducia che lo stesso si possa fare per questa nuova che di 1600 luoghi fissi al 6% per un capitale di 450.000 lire e di 166 2/3, vacabili al 10% per un capitale di 60 mila lire[29].
60. – Invece cominciano le difficoltà, tanto che nel luglio non tutti i luoghi sono stati sottoscritti. Le tristi vicende della guerra, la quasi totale occupazione del territorio dello Stato, ridotto oramai alle piazze di Torino, Cuneo, Asti, Alba, Cherasco, Mondovì, Ceva e loro contado, le minacce di assedio della capitale, massimo centro finanziario del paese, oltrecché fortissima piazza da guerra, che si avveravano a partire dal 13 maggio e piùstrettamente dal 17 giugno 1708, erano tutti avvenimenti tali da scuotere la fiducia dei capitalisti. D’altra parte, le ripetute emissioni di luoghi di monte, le vendite di tassi, le infeudazioni, le vendite delle cariche di sindaci aveano quasi esaurito le riserve monetarie della nazione. Sarebbe stato necessario ai privati di spossessarsi dell’ultimo gruzzolo di denaro contante per venire in soccorso di uno Stato che ogni giorno più pericolava.
Dello scaduto credito pubblico si hanno numerose testimonianze. Il conte Groppello si reca, probabilmente in febbraio del 1706, a fare un giro d’ispezione nel Piemonte, e nel lasciare l’ufficio delle finanze, tra le altre istruzioni che dà all’intendente Fontana, suo sostituto e braccio destro, si legge che in tesoreria generale vi è un fondo di L. 89.078.9 ed un altro di L. 88.145 nella zecca, ben poca cosa di fronte ai bisogni stragrandi di ogni giorno. La zecca conia inoltre 6000 lire al giorno in pezze da soldi 6 e sperasi di incassare qualche “casuale”. Mancando denari, il Fontana cerchi di trovarli a prestito e si valga a tal uopo di una lista di cavalieri esistente in ufficio, nella quale accanto ad ogni nome vi è la somma sperabile in prestito e gli acconti già ricevuti. Rechisi il Fontana da quelli che non hanno ancora versato tutto ciò che si spera di ottenere da essi e li persuada a pagare “se non in tutto almeno in parte con far loro quelle rapresentationi – più efficaci, esprimendole che ricevendo in paga Tassi, Monti, infeudatione o feudi a loro elettione, li resta ciò molto utile, oltreché fanno il loro dovere in soccorrere la Patria in congiontura così premurosa”[30]. Ed il 16 giugno, il giorno prima che Vittorio Amedeo uscisse da Torino, il Groppello invia il Fontana in missione nella provincia per sollecitare la raccolta di mezzi finanziari, e gli dà la seguente istruzione: “S.A.R. per suo biglietto del giorno d’hoggi, che se li rimette, ha ordinato a V.S. Ill.ma di transferirsi nelle Provincie del Piemonte per obbligar le Città e Comunità delle medesime a pagar le loro Debiture Ducali e Militari a debiti tempi, con procurare di portare li Esattori a far qualche antecipate mediante l’aggio che convenirà; insieme di portar l’animo delle persone più apparenti e credute pecuniose a far acquisto di Tassi e Monti … Le dirò che l’intenzione di detta A.R. è che debba dare ogni sua più viva attentione attorno la riscossione di dette debiture et allienationi de’ Tassi e Monti, acciò con tal mezzo possa introdurre in questa Città fra il più breve termine, che sarà compatibile, tutta quella maggior somma, che potrà riuscirle di riscuotere. Sotto li 11 del corrente, ho scritto alli signori Direttori di Pinerolo, Saluzzo, Cuneo, Mondovì, Asti, Alba e Fossano ad effetto, che, fatti li loro riflessi sopra le persone più apparenti e credute pecuniose delle Città e Provincie de’ loro dipartimenti, farne una nota e quella transmettermi. Intanto procurassero di portarle a far acquisti di Tassi o Monti sia rispetto a questi eretti sovra la presente Città, che sovra quella di Cuneo, indi sotto hieri si è scritto a’ medesimi di rendersi in Carmagnola portando seco loro dette note insieme con le notitie, che in tal proposito haveranno prese per farmene relatione e ricevere quei ordini che li avrei dati per parte di S.A.R. in tal proposito. E come non posso trasferirmi in detta città di Carmagnola, V.S. Ill.ma si renderà in essa il giorno di domani, et ivi si tratterrà per abboccarsi con detti sig.ri Direttori, che vi giungeranno dimani o dopo dimani, prendendo da loro quelle notitie che potranno darle e sovra le medesime incaricarli di far quelle parti, che saranno credute proprie per portar detti particolari a devenire alli acquisti sovraccennati, inspirandoli di fare a medesimi quelle rappresentationi più efficaci per portarli a ciò fare e che in caso di renitenza si devenirà contro di loro a quelle risolutioni solite pratticarsi in congionture simili alle presenti, nelle quali ogn’uno deve contribuire il tutto per diffesa della Patria, tanto più che nel servire alla medesima Patria fanno negotio utile per loro, mentre impiegano il Contante con intiera cautela e con un prodotto avvantaggioso, il che deve mover ognuno a farlo. Parlerà pure con detti Direttori per veder di portare li Partitanti delle debiture ducali e militari o siano le Città e Comunità, loro Esattori o altri particolari ad anticipar qualche somma in conte de’ loro respettivi partiti o debiture, accordandoli in questo caso un aggio ragionevole che potrà estendere sino a 10 o 12 per cento l’anno a rata di tempo et a proportione di somma; incaricando li medesimi Direttori d’applicarsi vivamente attorno quanto sopra mentre facendo essi et ognuno di loro efficacemente le loro parti è sperabile di conseguire un pronto soccorso”[31].
Siamo già arrivati dunque a questo: che, non presentandosi nessuno spontaneamente a sottoscrivere luoghi di monte od a comprar tassi, gli ufficiali delle finanze si recano a pregare i capitalisti di volere trarre l’erario pubblico di tra le difficoltà in cui si dibatte; e, non bastando le preghiere, compilano liste di persone apparenti e credute pecuniose a cui si dovrà, occorrendo, minacciare “le risoluzioni solite a praticarsi” nelle occorrenze di guerra. Siamo ai prestiti forzati sui ricchi. Quale uso si sia fatto di questa minaccia, non è noto, né sappiamo se si sia passato dalle minacce agli atti coercitivi. Non è probabile, perché le finanze riuscivano, con mille stenti, è vero, a procacciarsi fondi in altre maniere: prestiti usurai con banchieri, anticipazioni sui sussidi delle potenze alleate, coniazioni degli argenti portati dai privati in zecca ecc.
L’alienazione dei luoghi di monte diventava ogni giorno più difficile, anche per le tristi condizioni dell’erario della cittàdi Torino, la quale, premuta dalla necessità di accumulare, con grave dispendio, fieni, bestiame, vettovaglie e provviste per prepararsi all’imminente assedio avea dato fondo a tutte le sue entrate disponibili. Nella seduta della Congregazione del 26 maggio 1706, il sindaco, conte Nomis, si lagna della difficoltà di trovare 200 mila lire, di cui la città avea bisogno urgentissimo per la compra di fieno e bestiami, a censo, a prestito, a cambio od in qualunque altra maniera al 6% o ad usura ancor maggiore. La scarsità estrema di denaro ed il fatto che la gente danarosa non può imprestare somma alcuna “per le chiamate fattegli per parte di S.A.R. di somministrarli [i denari] alle R. finanze” contribuivano a rendere difficile alla città il credito. Sicché la congregazione delibera “di chiedere nuovamente li Consiglieri di somministrare alla Città tutta la maggior quantità del denaro che sarà loro possibile et altresì di continuare tutte le diligenze e parti per far esporre denari da altri”. La congregazione decide altresì, sebbene a malincuore, di vendere parte dei beni incolti della sua tenuta di Mirafiori; e per ottener denari a prestito promette anche di vendere, cessata la guerra, certi altri suoi beni incolti che facevano gola ad un mercante Giovanni Lanzo, il quale possedeva là vicino un fondo. Che più! avendo un negoziante offerto in prestito alla città 650 luigi d’oro all’interesse del 7%, col patto che non potessero essere restituiti prima di tre anni, la città piega il capo a queste condizioni, le quali in tempi normali sarebbero state considerate usuraie; ed anzi, siccome in queste contingenze si deve dare ogni facilità per puoter avere il denaro stante le molte altre occasioni che vi sono di impieghi e regiri del denaro a maggior provento annuo di 6, 7 od 8 per cento, come notorio per rispetto anche della scarsezza del denaro autorizza la ragioneria a prendere denari a prestito a quell’interesse e con quei patti che migliori si potranno ottenere, anche se più elevati e sfavorevoli del consueto. In luglio, quando era cominciato l’assedio, il comando militare avendo bisogno di una certa quantità di vini e commestibili (erano 497 carra di vino, 13.930 rubbi di carne, 1677 emine di riso, 500 emine di legumi, 1900 rubbi di lardo e carne salata, 2850 rubbi di formaggio, 200 rubbi d’olio d’oliva, 1650 rubbi di acquavite), il generale delle finanze si rivolge alla città e, manifestata la sua fiducia che “ritrovandosi le cose ridotte all’estremo per l’intiera quasi occupatione del Paese, et assedio già da più tempo di questa Città” questa e “non havrebbe rallentato il suo buon cuore in queste indispensabili necessità, ne’ quali si trattava non solo della difesa della Corona, ma della medesima Città e suoi Cittadini”, riconosce però che la città per il momento, coi migliori suoi redditi ridotti al nulla e con le gravissime spese che aveva dovuto sopportare, non era in grado di fare alcuna anticipazione. Proponeva perciò che la città comprasse per 200 mila lire di vini e commestibili dai privati, obbligandosi a pagarne il prezzo un mese dopo terminato l’assedio. Le finanze avrebbero dato alla città una solida garanzia per la restituzione del prestito su qualunque gabella o reddito demaniale si preferisse. La città accettò di far compre per l’importo di 100 mila lire, non potendo acquistarsene per maggiore somma e chiese in compenso per 100 mila lire di luoghi di monte dell’ultima (VII) erezione, che fino allora (6 luglio) erano rimasti invenduti[32]. La città, con questa operazione, chiedeva ai cittadini credito in natura e, per mettersi in grado di pagare i fornitori un mese dopo la fine dell’assedio, comperava dalle finanze, in compenso della cessione delle forniture prese a prestito, per 100 mila lire di luoghi di monte, fiduciosa di poterli vendere, finito l’assedio, e col ricavo pagare i fornitori[33]. Era un rispettare la proprietà privata meglio che non si sarebbe fatto con una requisizione forzata di viveri, requisizioni del resto non ignote in questa come in tutte le guerre; ma quanti rigiri per ottenere uno scarsissimo e mendicato credito!
61. – Esaurita o quasi la potenzialità finanziaria della capitale, il conte Groppello pensa di sfruttare il credito di altre città e fare appello alla fiducia di nuovi strati di capitalisti. In quei tempi di scarsi mezzi di comunicazione gli abitanti di Cuneo, Mondovì, Fossano, Saluzzo, Alba, ecc., anche se danarosi, non s’arrischiavano ad imprestar denari sulla garanzia della città di Torino e preferivano garanzie locali, più note e ritenute più sicure. A sfruttare questo strato di capitalisti fiduciosi soltanto nelle garanzie locali provvedevano, come vedremo, le alienazioni di tassi e le infeudazioni; ma poteva nascere il dubbio che, agli occhi di taluni, i pregi di quelle forme di credito pubblico non sembrassero sufficienti. Di qui il divisamento di erigere un “Monte” a Cuneo, piazza forte principalissima dello Stato, dopo Torino, e centro di quella zona di territorio che quasi sola rimaneva in possesso del Principe sabaudo; ed il 30 maggio 1706, Vittorio Amedeo II scrive un biglietto alla città di Cuneo, del quale è interessante solo il proemio: “Le distinte marche di zelo dateci da cotesta nostra fedelissima Città nell’occorrenze del nostro e pubblico servitio et il buon credito che si è la medesima acquistato, con la savia e prudente condotta, massime nella pontual et incorrotta fede osservata a’ suoi creditori, ci invita a valerci in questa occasione del suo credito, mentre per supplire alle nottorie, gravissime et indispensabili spese di questa Guerra, per cui non sono sufficienti le molte allienationi già fatte dal Demanio, imposti accresciuti a’ sudditi, e li sussidij, che s’esigono dalle Potenze alleate, meno le già praticate Erezioni de’ Monti in questa Metropoli, l’ultima delle quali non rest’ancor di presente evacuata”. L’erezione si fa con lettere patenti del 13 giugno 1706[34]sotto il “titolo et auspicij del Beato Angelo nella Città di Cuneo” per luoghi 833 1/3, fissi al 6% per il capitale di L. 250 mila e per luoghi 166 2/3, vacabili al 10% per L. 50.000. Oltre all’interesse del 6% ai creditori, si assegnavano L. 1500 alla città per le spese di amministrazione. Alla città di Cuneo si vendevano perciò 21.500 lire di reddito annuo sulle gabelle di sale e tratta e dogana esigibili nella città e borghi; con diritto alla città di ritenersi il prezzo di 3200 rubbi di sale che essa era ogni anno obbligata di levare al banco di Borgo S. Dalmazzo[35]per il valore di 16.000 lire all’anno e di ritenersi pure le restanti 5500 lire sull’ammontare del “sussidio” dovuto alle finanze. L’intendente Fontana, nel viaggio in Piemonte, del quale già dicemmo le cause, avea istruzione di recarsi a Cuneo, Mondovì, Possano, Savigliano e Cherasco “per portare li più apparenti a far acquisto di detti Monti”. Alla fine la sottoscrizione fu compiuta, e tutte le 300 mila lire poterono essere incassate[36].
62. – Era piccola somma però cotesta; ed il Duca, il giorno stesso che era costretto ad allontanarsi dalla capitale, persuaso della urgenza somma di procacciare altri soccorsi alle finanze, conferiva con lettere patenti del 17 giugno 1906 al conte Groppello una intiera plenipotenza ed “ogn’autorità necessaria et opportuna a poter devenire in nome nostro a qualsivoglia alienatione di redditi nostri demaniali, siano gabelle che gabellette, tassi, sussidii, comparto de’ grani, feudi, beni, giurisdizioni, et ogn’altro reddito a noi et alla nostra Corona spettante ed appartenente, niuni riservati, con inelusione anche delle mesate decorse e decorrende dovuteci dalle potenze collegate, con accordar quei aggi, interessi e proventi il tutto come stimerà, eziandio ch’eccedessero di gran longa le regole, usi a stili sin qui praticati” (D. XXV. 410). La Camera dei Conti interina le patanti il 30 giugno “per quelle somme però che di tempo in tempo saranno stimate dal Magistrato necessarie alle presenti urgenze e continuazione d’esse, dichiarando sin hora permessa l’alienatione per il capitale di lire 500 mila” (D. XXV. 416). Non essendo sembrate queste prime patenti abbastanza esplicite e comprensive, il Duca firma in Bubiana il 29 luglio altre lettere di plenipotenza al Groppello, nelle quali lo si autorizza esplicitamente ad alienare redditi, entrate ed altri effetti demaniali anche a favore di coloro che sborsassero in tesoreria generale il prezzo solo in parte in contanti e pel resto fornissero merci o provviste militari, e persino a favore di quelli che risultassero creditori per forniture passate, quando il pagarli con la cessione di redditi demaniali potesse indurli a continuare nelle forniture. Qli si dà inoltre espressamente l’autorità di procedere “a nuova apertura d’alienazione de’ redditi … demaniali e similmente ad erezioni di Monti con assignare per la dote d’essi e spese, tanto di quei demanii, che stimerà, con facoltà di quelli erigere fissi o vacabili, etiandio con accrescimento de’ proventi, oltre il solito sin qui pratticato e sotto tutte quelle altre migliori forme, regole e modi che stimerà più atti e praticabili per conseguire il fine d’un pronto e necessario soccorso e con tutti li privileggi, immunità, esenzioni e derogazioni portati dalle precedenti erettioni e sotto quelle altre maggiori cautele e prerogative che stimeranno, mentre le urgenze presenti, che non ponno essere maggiori, così richiedono, trattandosi della difesa della nostra Metropoli e dello Stato”. Le patenti spedite da Babiana per mezzo di qualche emissario, arrivano colla controfirma del solo primo segretario di Stato marchese di San Tommaso, prive però della signatura e sigillo del gran cancelliere De Bellegarde. Il Groppello fa trascrivere le lettere all’ufficio del controllo generale e poi invia l’originale per espresso a Chieri dove si trovava il gran cancelliere; e, tardando l’espresso a ritornare, invia altre copie per mezzo di diversi uomini travestiti. Mané gli uni né gli altri tornano, a causa dello stretto blocco che i gallispani avevano messo attorno alla capitale. In tali frangenti, per non ritardare più a lungo l’interinazione delle nuove lettere di plenipotenza, formalità indispensabile per poter emettere monti e ottenere somme a prestito in altre maniere, il Groppello presenta alla Camera un estratto di esse tratto dal registro del controllo generale; e la Camera, sapendo bene che “non solo continua l’assedio della piazza, ma anche resta notoriamente cinta la medesima dall’inimico”, essendo stata assicurata da parecchi suoi membri d’aver veduto l’originale delle patenti spedite a Chieri, “dichiara il disposto di dette patenti interinato come se esse patenti fossero formalmente spedite ed interinate” con la clausola che il Groppello debba però riportare l’assenso della Camera ogni volta contrarrà un nuovo debito e debba dare redditi demaniali in pagamento di debiti solo quando si tratti di debiti “di Corona o di pubblica difesa”[37].
Badisi che la Camera non avea interinato le patenti, ma il disposto di esse; formalismo questo forse spinto all’eccesso e che fece sorgere qualche difficoltà nella emissione dei nuovi luoghi di monte. Badisi ancora che mentre le lettere di plenipotenza autorizzavano il Groppello a cedere beni o redditi demaniali in pagamento di “debiti in genere” la Camera volle aggiungere che questa cessione potesse farsi solo per i debiti di Corona o di pubblica difesa. Testimonianza questa bellissima della cura gelosa con cui la Camera dei Conti, anche in mezzo al fragore dei cannoni ad al tumulto dell’assedio, vegliava all’integrità del pubblico erario e impediva che sorgesse pure un lontano timore di dilapidazione delle entrate pubbliche e di diminuzione del demanio regio per cause non collegata alle necessità urgentissime della pubblica difesa. Noi non possiamo condannare questo formalismo perché in grazie ad esso che si poteva rifiutare ad un Principe della Casa regnante la alienazione di tassi in pagamento di arretrati del suo appannaggio. Pagar gli appannaggi non era difatti necessario “per la pubblica difesa”! (p. 67).
63. – Ancor prima d’aver ricevuto le nuove lettere di plenipotenza, il Groppello s’era affaccendato a trovar denari. E per discorrer qui soltanto dei monti, diremo che il 15 luglio a casa del marchese di Pianezza si radunano il generale delle finanze, i sindaci della città ed altri magistrati; e quivi il marchese di Pianezza, dopo aver esposto le tristi condizioni dell’erario pubblico, la necessità di provvedere denari “per la paga de soldati et operarii, che non amettono dilatione”, le strettezze in cui si dibatteva la città di Torino, conclusa essere ancora il miglior partito quello di una nuova erezione di monti per 500 mila lire. Ma poiché la fiducia pubblica era quasi del tutto venuta meno, si era cercato di rendere questa nuova emissione di monti ancor meglio garantita delle precedenti e s’era pensato perciò “di unir cento persone di credito risponsali e di buon concetto, quali rispondino per la Città a favore de’ montisti” ciascuno singolarmente per 5000 lire, in guisa che tutti si rendano garanti dell’intiera somma di 500 mila lire, tanto in capitali che in interessi al 6 per cento. Sperava il Pianezza nel buon esito di questa emissione “dovendo in simil congiuntura la Nobiltà, li Ministri delli Eccell.mi Supremi Magistrati, e li signori Consiglieri della Città dar buon esempio del loro zelo e buona intentione per il servitio di S.A.R. et del pubblico in un caso sì singolare che si tratta della difesa della Città Capitale e Metropoli di questi Stati”. Rincalzano le sue parole il presidente conte Garagno ed il conte Groppello, i quali insistono sul concetto dell’urgenza di un pronto aiuto all’erario stremato e sull’obbligo che avrebbe avuto il regio patrimoniale di surrogarsi ai fideiussori, un anno dopo la pace, liberandoli compiutamente da qualsiasi impegno. Il conte Nomis, avvocato della città, risponde esponendo alcune condizioni senza le quali non pareva a lui potesse parlarsi di una nuova erezione di monti, neppure colla garanzia di 100 fideiussori. La prima si riferiva agli interessi arretrati sulle erezioni già fatte:
“Dovendosi effettuare detta propositione” – lasciamo a lui la parola “per accreditare la fede de’ Monti conveniva avanti ogni cosa che il Generale di finanze facesse pagare l’ultimo quartiere di già maturato delle precedenti erezioni ed alienazioni; mentre che (poiché) pareva incompatibile di voler aprire una nuova Erezione de’ Monti, sempre specialmente fondati sopra la buona fede, mentre questa si metteva in dubbio non osservandosi alli altri montisti della precedente Erezione; et che la puntualità del pagamento sarebbe stato l’unico mezzo per incitare persone all’acquisto de’ nuovi luoghi de’ Monti, ove si potesse ritrovare il denaro”. Mantengasi insomma fede ai creditori vecchi se si vogliono trovare denari a prestito, ecco il succo delle sensate parole del Nomis. Quanto alla proposta dei 100 fideiussori, si meravigliava egli altamente che il marchese di Pianezza avesse concepito l’idea che la città di Torino bisognasse di fideiussori verso i montisti. “La città” – esclamava egli – “in tutti li suoi contratti fatti non haveva mai prestata alcuna cautione” cosa che “sarebbe stata di pregiudicio al suo credito!”. Piuttosto i fideiussori doveva prestarli la finanza per garantire l’adempimento del suo obbligo del puntual pagamento degli interessi alla città ed ai montisti. Aderiscono subito alle osservazioni del Nomis i presenti al convegno; ed il generale delle finanze promette che avrebbe pagato il quartiere scaduto degli interessi dei luoghi di monte “con qualche ripiego non ostante le strettezze in quali si ritrovano le R. Finanze in queste contingenze” dando ai montisti, ad es., del grano o pure pagandoli col denaro ricavato dalla nuova erezione dei monti.
Esaminata in congregazione prima e poi in consiglio della città, la proposta della nuova erezione di monti con la garanzia dei 100 fideiussori dovette incontrare non lievi obbiezioni, sovratutto riguardo al modo con cui costoro sarebbero stati, finito l’assedio, liberati dal loro obbligo. La paura maggiore di quelli che dovevano essere compresi nella centuria dei garanti era che i montisti si rivolgessero contro di loro per ottenere il pagamento trimestrale degli interessi, sicchés’era pensato che, in questo caso, i garanti potessero trattenersi altrettanta somma sulle imposte dovute al fisco per i loro beni e, quando non possedessero beni registrati, potessero spedire quitanze per le imposte o le gabelle da altri dovute. Gli esattori, ricevitori, comunità, tesorieri provinciali e generali avrebbero dovuto ricevere le quietanze come denaro contante; cosicché i garanti, che avessero dovuto per caso pagar qualcosa ai montisti, avrebbero potuto per rimborsarsi emettere e negoziare quitanze di tributi regi per altrettanta somma.
Il congegno di questa nuova erezione sembra tuttavia troppo complicato, o forse non si trovarono i 100 garanti, o forse ancora non ci furono capitalisti che avessero fiducia in questa garanzia personale; talché il primo d’agosto il Groppello confessa al sindaco – che era il conte Nomis di Valfenera da non confondere col Nomis di Cossilla, avvocato della città – che il progetto “non riusciva attuabile e riuscendo non si puoteva così prontamente effettuare come richiedeva il bisogno”[38]. S’era invece pensato ad un altro progetto, per cui si sarebbe fatta un’erezione di monti con maggiori garanzie reali del solito e più allettatrice pei capitalisti. Le maggiori garanzie si avevano perché le finanze oltre l’ipoteca generale sulle gabelle del sale e della tratta e dogana, avrebbero ceduto alla città di Torino i tre banchi del sale della città, suoi borghi e finaggio, con diritto di nominare i gabellotti, revocarli, sostituirli, ecc., e di riscuotere direttamente il prezzo del sale venduto e con obbligo nel fisco di conservare presso i banchi medesimi un fondo di sale della miglior qualità bastevole sempre per il consumo d’un intiero semestre. Siccome il reddito netto dei banchi del sale era superiore alla dote annua del nuovo monte, così la città avrebbe dovuto versare il sovrappiù ogni trimestre in tesoreria generale. Quanto agli allettamenti pei capitalisti il progetto era di erigere un monte di mezzo milione di lire, distinto in due parti: la prima composta di 1500 luoghi da 300 lire l’uno pel capitale di lire 450 mila ed all’interesse del 10 per cento durante la vita del primo acquisitore, e del 4 per cento agli eredi ed aventi causa dopo la sua morte, ovvero, a scelta dei montisti, dell’8 e del 6 per cento rispettivamente cogli stessi patti; la seconda parte composta di 100 luoghi da lire 600 ciascuno col capitale complessivo di lire 60 mila ed all’interesse dell’8 per cento. Questi ultimi luoghi avrebbero avuto il nome di luoghi vacabili di tontina; e, se si fossero emessi, sarebbero stati il primo saggio in Piemonte delle famose “Tontine”, che s’erano tanto divulgate in Francia e per cui il reddito vitalizio lasciato libero per la morte d’un montista, non andava a favore del fisco, ma si divideva fra tutti i sopravviventi, in guisa “che l’ultimo d’essi sovraviventi debba sua vita natural durante gioire dell’intiera dote di questo ente e che solo con la morte naturale dell’ultimo de’ montisti s’intenda vacato il Monte e riunita la dote al Regio demanio”.
Il progetto piacque in apparenza più del precedente, perché non implicava la garanzia dei 100 cospicui cittadini, e fu approvato dal consiglio della città. La possibilità di resistere al nemico ancora a lungo doveva sembrare ben scarsa a quei giorni (6 di agosto) e grandi erano i timori che le obbligazioni assunte nei momenti estremi di sua vita dallo Stato sabaudo non avessero ad essere riconosciute dal vincitore, se il consiglio, dando il consenso alla nuova erezione di monti, non adotta la formula solita: “delibera di prestare come presta il suo libero consenso per l’Erezione de’ nuovi Monti sotto la direzione, amministrazione e responsione d’essa città”, ma quest’altra: “delibera, ecc … sotto la direzione et amministrazione …”. L’aver tralasciato la parola responsione, ed il non aver fatto accenno alcuno alla ipoteca solita a concedersi ai montisti sui beni municipali in generale, voleva dire che la città si incaricava bensì di dirigere ed amministrare i nuovi monti, come gli antichi, ma non voleva assumere nessuna responsabilità e dare nessuna garanzia per l’esatto pagamento degli interessi e per la sicurezza del capitale. Era lo stesso come mandare a monte ogni cosa. Chi avrebbe voluto arrischiare i propri denari quando nello Stato non si aveva nessuna fiducia e la città si rifiutava di impegnarsi direttamente?
La deliberazione del consiglio levò gran rumore e diede luogo a molte recriminazioni. Il conte Groppello, forse tratto in inganno da un inesatto resoconto della sedutadel consiglio, immagina che questo abbia addirittura negato il consenso all’erezione dei monti, e manda il patrimoniale generale Fecia di Cossato a muovere aspra lagnanza al presidente della Camera Garagno, imputando il corpo da lui presieduto d’essere stato la causa di tutto il male, avendo, per eccessivo formalismo, interinato il “disposto” delle patenti ultime di plenipotenza e non le patenti medesime. In consiglio della cittàv’era stato taluno il quale aveva detto che quella della Camera non poteva dirsi una vera interinazione, sicché per paura di nullità non s’era voluto dichiarare la “responsione” della città. Adiratissimo alla sua volta, il Garagno convoca d’urgenza la Camera affinché “prendesse quelle risolutioni che le sarebbero parse più convenienti per andar al riparo d’ogni sinistra impressione, che da malevoli potesse essere fatta a pregiudicio del zelo et incessante attentione che questo Magistrato ha havuto et ha acciò venghi con ogni prontezza fatto il servitio di S.A.R.”. La Camera seduta stante chiama alla sbarra i sindici e il segretario della città di Torino e li interroga se fosse vero che il consiglio aveva dubitato della “sufficienza” della interinazione camerale e non avesse perciò prestato il suo assenso. Il fatto, se si toglie la lieve differenza tra “consenso non prestato” e “consenso prestato in maniera equivoca e nulla”, era verissimo; ma e sindici e segretario, impauriti, tergiversano e protestano. “Li detti signori Comparenti” – dice a questo luogo il verbale delle sessioni camerali – ” giustamente alterati d’una imputatione si falsa et sì svantaggiosa hanno unitamente e separatamente risposto haver il Conseglio una somma e particolare veneratione a questo Magistrato, et il loro preciso obbligo essere d’eseguire le sempre riverite determinationi del medemo. Che in quanto al supposto che il Conseglio non havesse prestato il suo consenso n’apariva l’incontrario dall’ordinato del medemo Conseglio, di cui nel tempo sono stati chiamati, stavano distendendone l’atto, che s’oferiscono presentare autentico al Magistrato. Che l’ordinato non fosse creduto suficiente, che si fosse parlato di mutatione di qualche minima (sic) espressione non havendo non che potuto dire, nemeno pensare”. E finirono con un ultimo grido d’innocenza: “Che se S.A.R. fosse stata presente haverebbero voluto essere a suoi piedi per supplicarla di qualche esempio verso chi haveva di troppo offesi con falso supposto la riverenza et il zelo della fedelissima sua Città, massime in circostanze così premurose et che nella lontananza della medema R.A. imploravano l’autorità del Magistrato”. È la volta del Groppello, che la Camera si fa venire d’innanzi e consiglia a non “essere così facile a sentire relationi o mal fondate o del tutto false in disturbo e pregiudicio del servitio di S.A.R. e poco conformi a conservare unite e pronte tutte le disposizioni che si richiedono all’urgenze publiche delle Finanze, massime quando quelle si riflettono in poco decoro del Magistrato e sono in rimprovero al maggior zelo havuto dalla Città e si vedono drizzate al fine di distruger insieme l’autorità di S.A.R. con quella de Magistrati et a turbare le operationi intente al bene d’essa R.A. e del Publico”.
Sfogato così il bisogno di recriminazioni e di facile sfoggio d’eloquenza che pare fosse, allora come oggi, privilegio dei corpi pubblici – e non sappiamo toglierci di mente che c’entrasse un poco il desiderio di poter, finito l’assedio, dar prova al temuto Sovrano, con l’estensione di un bel verbale, di zelo e di amore patrio – si viene al sodo e non si può a meno di riconoscere che il consiglio della città era stato male avvisato a non inserire nell’usata formula la parola “responsione” e l’obbligazione diretta con tutti i propri beni. I sindaci e il segretario, fingendo non darvi importanza, dicono che ora inutile et inefficace dett’obligatione e che non l’era stata ricercata”, quasiché la colpa fosse di chi non avea espressamente chiesto l’inserzione della formula e non di chi artatamente l’aveva ommessa. Ma la Camera e il generale delle finanze dimostrano quanto invece importasse “l’haverla a maggior cautela o almen confidenza de’ futuri Montisti” ed “a non permettere una deformità così esentiale, origine sempre de’ novi e maggiori sospetti” si verificano i fascicoli a stampa delle precedenti erezioni, dove la formula si ritrova infatti sempre inserita integralmente. Il Groppello specialmente, chiusa l’agitata seduta camerale, fa nuove istanze affinché la città dia la sua responsione “per non far meno in questa congiontura di tanta urgenza e in un caso così singolare e dell’absenza di S.A.R. di quello che ha fatto per il passato”. La congregazione si raduna l’8 agosto, e dopo lunga discussione secondo pluralità de’ voti, ossia a semplice maggioranza (cosa insolita) delibera di accettare la responsione con la formula seguente: “Che mediante et attesa l’annua dote sufficiente e continuatione di quella d’assegnarsi sopra il fondo già proposto del sale et anche la remissione effettiva d’esso alla Città e che quello sia efficace et fruttuario in ogni tempo a sufficienza del denaro che s’espone e proventi d’esso, possa la Città passare la sua responsione”. È una formula elastica, piena di dubbi e di condizioni, che non sappiamo quanto avrebbe potuto gradire ai montisti. Per fortuna il giorno stesso arrivano da Chieri le patenti originali di plenipotenza al conte Groppello e il 9 sono interinate dalla Camera e dal Senato, sicché il consiglio della città, radunatosi il 12 agosto, si decide finalmente a dare “il suo libero consenso per l’erezione de’ nuovi Monti sotto la direzione, amministrazione e responsione della Città”. Ma non bastando ancora tutto ciò a tranquillare i futuri creditori, il 17 agosto, il Groppello fa convocare, quando già il contratto era stipulato, un’altra volta il consiglio, affinché “si sottometta verso li futuri Montisti con l’obligatione di tutti li suoi beni presenti e futuri (il consiglio voleva evidentemente obbligarsi il meno possibile) con tutte le sottomissioni e rinunce nella più ampia forma Camerale”. Così si fa e la nuova erezione può finalmente essere lanciata.
Il contratto d’erezione (essendo lontano il Duca non si poterono emettere lettere patenti) fra il plenipotenziario Groppello e i rappresentanti della città di una prolissità opprimente, tante erano le cautele che si credette necessario prendere per garantire i montisti. È interessante riportare i brani nei quali si espone a lungo l’assoluta necessità di ricorrere alla nuova erezione, affinché a nessuno potesse in avvenire cadere in mente di negare che il debito era stato contratto per necessità di Corona e per difesa dello Stato: “Ad ognuno sia manifesto conciosiache ritrovandosi questi Stati da alcuni anni in qua travagliati da una continua e dispendiosa guerra quale con l’occupatione quasi universale d’essi, colla destruttione delle principali fortezze, devastamento delle campagne e contributioni esatte, ha ridotto le cose a strettezze et estremi tali, che ha tolto al Real Sovrano la maggiore e miglior parte de’ redditi e dritti della Corona et a sudditi la sussistenza, anzi crescendo sempre più le angustie e dolorosi effetti di questa guerra, per essersi l’armata nemica portata all’assedio di questa Città, principal Metropoli della Corona, ha obbligato le AA.LL.RR. di partire dalla regia sede e portarsi in diversi luoghi et etiandio una parte fuori de’ medemi Stati. Onde l’A.S.R. sempre intenta a tutto ciò che può servire di mezzo alla difesa della sua Corona, e ritrovandosi le finanze esauste e mancanti per l’occupatione sudetta e per haver da si longo tempo sostenuto una si dispendiosa e grave guerra, in cui è convenuto impiegare tutti li redditi del demanio, il prezzo ricavato dalle multiplicate alienationi, li straordinari soccorsi ricevuti da sudditi e particolarmente da questa Metropoli di Torino, oltre quelli delle Potenze straniere o collegate e per altro prevedendo l’indispensabile necessità d’haver qualche somma in aiuto delle eccessive spese che giornalmente si richiedono, massime per pagamento della soldatesca per sostegno di questa sua capitale di Torino dal continuato assedio sotto cui geme da tre mesi circa in qua e dalla cui difesa dipende la conservatione della Corona, habbi preventivamente ed avanti di partire da questa città per Patenti delli 17 Giugno … (e qui viene il tenore delle patenti di plenipotenza al Groppello del 17 giugno e del 29 luglio) … In conformità di qual plenipotenza dando detto sig. Conte e General di Finanze ogni attentione a ritrovar mezzi per conseguir le somme possibili in soccorso dalle Regie finanze in queste urgentissime contingenze, massime per pagamento della soldatesca presidiata in questa Città et altre provisioni necessarie in simili contingenze di questo assedio, con haver etiandio fatto pratica con li principali e più accreditati negotianti per ritrovare denari a qualunque prestito e cambio, né essendoli riuscito di ritrovare le somme necessarie habbi stimato di praticare il mezzo d’una nuova erettione di Monte, per qual attuare siansi fatti congregare li principali Ministri de’ Magistrati, a quali detto sig. Conte e Generale delle Finanze havendo rappresentato l’estreme angustie in quali si trovavano e la necessità di havere qualche soccorso. Questi, considerate le circostanze dei tempi presenti e massime il stato in cui si ritrova la presente Città ristretta in tutte le sue parti, senza che vi si possano introdur li viveri e continuamente travagliata dal bombardamento e canonamento anche con palle infuocate, che con haver rovinato quantità di case, con uccisione di più habitanti, hanno obbligato buona parte dei cittadini a refuggiarsi dalla città vecchia nelle habitationi della nuova, se ben anche ivi non senza timore de’ pericoli, stante il continuo corso delle palle, ritrovandosi cessato il commercio, impediti li trafichi e corrispondenze, chiuse quasi tutte le botteghe e ridotta la Città, cittadini et habitanti in un’estrema desolatione per li continui timori, d’uni e pericoli, quali li sovrastano, habbino perciò creduto e stimato fra li diversi mezzi proposti, per haver un pronto soccorso, il miglior da praticarsi esser quello dell’apertura (di un) nuovo Monte sotto il titolo di S. Giovanni Battista”.
Siamo all’ultimo mese dell’assedio glorioso; e la descrizione che delle tristi condizioni di Torino è fatta in questo atto solenne di erezione dei nuovi monti, prova l’urgenza di trovar denari sovratutto per la paga delle soldatesche, allo scopo di non aggiungere nuovo incentivo ai tanti che già esistevano alla diserzione e ad una stracca difesa. Ma erano anche giorni nei quali tutte le riserve monetarie doveano essere esaurite e solo in parte ben piccola poterono i luoghi di monte offerti al pubblico essere sottoscritti[39]. Ecco l’elenco dei sottoscrittori che osarono, forse indottivi dalle vivissime preghiere del Groppello, arrischiare i loro capitali prima della liberazione di Torino. Li ricordiamo a titolo d’onore:
Appena 79 luoghi ed un terzo erano a grande stento sottoscritti per un capitale di 23.800 lire! Indice fin troppo eloquente del nessun credito di cui godeva lo Stato e della distrutta prosperità privata in quegli ultimi giorni ansiosi prima della battaglia liberatrice. Quanto siamo distanti dalla ressa che negli ultimi mesi del 1703 facevano i capitalisti alla cassa della tesoreria della città per essere i primi ad offrire pel prestito del mezzo milione di lire garantito sulle due gabelle piccole e della gara frettolosa nel ridurre gli interessi per sopravanzare gli altri!
64. – Liberata Torino dall’assedio, vi è un momento d’incertezza rispetto alla ottava erezione. Nel contratto s’era detto che i 100 luoghi di tontina all’8% dovessero essere sottoscritti entro cinque giorni dalla pubblicazione del manifesto invitatorio ed in caso contrario si dovesse considerare estinta questa particolare iscrizione, aumentandosi di 50 mila lire l’erezione dei luoghi fissi al 10 e 4 o all’8 e 5 per cento. In fatto si era riusciti a mala pena ad iniziare, prima della fine dell’assedio, la sottoscrizione dei luoghi fissi per 450 mila lire, mentre la sottoscrizione delle 60 mila lire della tontina era andata del tutto deserta ed erano in seguito sorti dubbi nelle finanze e nel pubblico che aveano fatto sospendere ogni cosa[40]. Le finanze dubitavano di avere in quei frangenti promesso ai montisti troppo lauti patti, e d’essersi sottomesse a condizioni troppo onerose, come la consegna dei banchi del sale. Il conte Groppello fa comunicare quindi al consiglio del 29 settembre l’intenzione di S.A.R. di restituire ai montisti capitali ed interessi e rimborsare le spese alla città collo scopo di riscattare la impegnata gabella del sale; ed il consiglio annuisce, preoccupandosi soltanto di riportare il consenso dei montisti. Ma la buona intenzione di riscattare i luoghi venduti della ottava erezione non era ancora tradotta in atto, che i bisogni perduranti della guerra aveano fatto sparire il fondo con cui il Groppello si proponeva di provvedervi; sicché, urgendo sempre nuovi dispendii, fu d’uopo piuttosto pensare a vendere i lunghi non sottoscritti. Qui sorsero dubbi tra i capitalisti, i quali leggendo la movimentata descrizione del bombardamento e dei mali dell’assedio che noi abbiamo riportata poc’anzi, pensarono al pericolo di qualche nuova nullità appunto per causa di quelle motivazioni che erano, durante l’assedio, sembrate necessarie per assicurare i montisti. Se l’erezione, pensavano essi, si raccomandò come valida appunto per sostenere le spese dell’assedio, non sarà nulla adesso che l’assedio è finito e non correremo noi il rischio di perdere i nostri capitali? Chi reputasse superflui e cavillosi cotesti dubbi, ragionerebbe su fatti di due secoli fa colle idee d’oggi. A noi parrebbe strano che uno Stato mancasse di parola verso i suoi creditori appigliandosi a cotesti cavilli; ma chi potrebbe dar torto a quei montisti i quali volevano essere assicurati con assoluta certezza contro le interpretazioni sottilmente favorevoli alle finanze, di cui s’aveano ancora esempi un po’ dappertutto? Fu giuocoforza perciò che Vittorio Amedeo scrivesse da Casale un biglietto alla Camera dei Conti, invitandola a pubblicare un nuovo manifesto che togliesse tutti i dubbi “di poca cautela a favore di quelle persone che ponno pensare all’acquisto de restanti Monti”. Il manifesto fu pubblicato dalla Camera il 29 novembre, stabilendo un termine di 15 giorni per la sottoscrizione dei luoghi di tontina[41]. La tontina neppure stavolta riesce, e, passati i 15 giorni, si delibera il 22 dicembre di chiamare i pochi sottoscrittori e di restituire loro il capitale versato, quando non preferissero sottoscrivere ai luoghi fissi. La sottoscrizione procedeva a rilento anche perché, in quel trambusto dell’assedio e della vittoria, non s’erano mai trovati i fondi necessari per pagare ai montisti gli interessi dei quartieri scaduti di giugno e di settembre; né s’avea alcuna speranza che fosse puntualmente pagato il quartiere di dicembre. Un po’ per volta le finanze si rimettono in carreggiata; ma ancora il 6 settembre 1707 rimangono da pagare i quartieri di marzo e di giugno dello stesso anno, il 31 dicembre è in arretrato il quartiere di settembre e soltanto col 1708 sembra che il malanno dei ritardi sia tolto. Si aggiunga l’impoverimento generale di tutto il paese dopo una campagna così disastrosa e si comprenderà come i luoghi di monte dell’ottava erezione si sottoscrivessero a stento[42]. Potendo essere interessante conoscere con precisione come procedesse la sottoscrizione a questa tormentata fra tutte le emissioni di luoghi di monte, riportiamo integralmente l’elenco dei sottoscrittori dopo la liberazione di Torino.
Nella lista dei sottoscrittori figurano molti bei nomi della nobiltà, della magistratura, della burocrazia, mescolati a nomi della borghesia ricca ed agiata di Torino ed a qualche non raro sacerdote. Del resto, sulla composizione sociale dei creditori dello Stato, ritorneremo in seguito con maggiori particolari. Qui notisi come la maggior parte dei sottoscrittori abbia preferito luoghi al 10% durante la vita del sottoscrittore e 4% dopo la morte, e pochi scelsero quelli all’8 e 5 per cento. La scelta non era determinata tanto da una maggiore valutazione dei redditi vicini e personali in confronto ai redditi lontani e fruibili dagli eredi, quanto e forse più dalla previsione, facile a farsi, date le tradizioni dello Stato piemontese, di una prossima conversione ad un tasso minore ed uniforme di interesse a chi non preferisse il rimborso del capitale. La conversione venne presto infatti, nel 1711, e diede ragione a quelli che si erano affrettati a godere nel frattempo l’interesse del 10 per cento.
65. – Alla perfine, colla fiducia rinata nelle sorti dello Stato sabaudo e col prestigio immenso della vittoria di Torino, anche il credito pubblico si rialza; e mai più, tutte le volte che si dovettero erigere nuovi monti, si sperimentarono le difficoltà incontrate nel 1705 e nel 1706. Di erezioni, prima della pace del 1713, se ne fanno ancora due, e tutte due a Torino e di luoghi fissi. La prima (IX) si fa il 26 dicembre 1707 di 1333 1/3 luoghi fissi e per il capitale di 400 mila lire al 6%; e la seconda (X), il 6 giugno 1708, di 1666 2/3, luoghi fissi per il capitale di 500 mila lire al 6 per cento. Le due sottoscrizioni furono rapidamente condotte a termine e su di esse non vi sarebbe nulla da aggiungere, se nel frattempo non fosse sorta una questione rispetto al pagamento della dote stipulata per le erezioni dalla quarta alla settima. Per queste, a differenza dalle altre[43], la città non era in possesso direttamente dei redditi necessari al servizio degli interessi; e si era stipulato solo che gli appaltatori delle gabelle generali dovessero ogni trimestre versare nella cassa del tesoriere della città la somma richiesta per i pagamenti ai montisti. Le cose andarono bene fino a quando le gabelle furono gerite dagli appaltatori Olivero e Gamba; ma, dimessisi costoro ed affidata l’economia delle gabelle ai signori Colomba e Calcino, con scrittura del 7 marzo 1708 (cfr. sopra p. 2), non fu in questa ripetuta l’obbligazione agli economi di versare la dote delle quattro erezioni dei monti (dalla IV alla VII) direttamente in tesoreria della città. Gli economi, quindi, si rifiutarono a versare alcunché, allegando altresì di non avere nessun maneggio di fondi e di spettare questo onninamente al tesoriere generale Aymo Ferrero. La città, impensierita, strepita e per maggiore sicurezza dei montisti, vorrebbe, prendendo argomento dalla X erezione dei luoghi di monte, che le finanze cedessero alla città non solo il prodotto dei tre banchi del sale di Torino, con i quali si poteva provvedere al pagamento dai montisti della VIII, IX e X erezione, ma insieme quello dei banchi della provincia intiera di Torino; cosicché la città avrebbe potuto assumersi direttamente l’onere dal pagamento dagli interessi anche ai montisti dalla quarta alla settima erezione e si sarebbe tolta ogni occasione alle lagnanza di costoro per i ritardi nel pagamento degli interessi. Il Groppello, il 6 maggio 1708, rispose “che non si credeva spediente di trattare per hora di ciò, mentre la Cittàet i Montisti sono abbastanza cautelati con l’alienazione fatta da S.A.R. de’ redditi sovra le Gabelle Generali, con il privilegio d’esigere a drittura da Accensatori et Economi; e che mentre sin qui la Città era stata soddisfatta, benché con qualche piccolo ritardo e transporto di qualche quartiere, non ostanti le angustie in quali si trovava il paese, per la guerra e per l’assedio di quest’istessa Città nell’anni decorsi, non era da dubitare, che in avvenire sii con ogni maggior puntualità compitamente di tutto il dovuto per li conti e censi”. La città, quindi, si contenti dell’amministrazione diretta dei tre banchi del sale di Torino per il servizio degli interessi della ottava, nona e decima erezione; e, quanto alle erezioni intermedie dalla quarta alla settima, di un’ordinanza della Camera dei Conti al tesoriere generale Aymo Ferrero di pagare ogni quartiere la dote stipulata al tesoriere della città e del Monte di S. Giovanni Battista. Alla città di Cuneo che si lamentava per la sua erezione dei Monti del Beato Angelo, si concede d’essere pagata con delegazione del tesoriere generale sul banchiere dei sali di Borgo S. Dalmazzo[44].
Così si chiudevano le emissioni dei luoghi di monte compiute durante la guerra di successione spagnuola. Qui sotto ne presentiamo lo specchio compiuto:
In totale sono 3 milioni e 550 mila lire che si ottennero colla emissione dei luoghi di monte, parte a Torino e parte a Cuneo, con un onere perpetuo di L. 205.757 per interessi e 4500 per spese di amministrazione e con un onere vitalizio di L. 42.500. L’interesse medio, tenendosi conto dell’ottava erezione, era pei luoghi fissi del 6.72 per cento, riducibile a poco a poco fino al 5.70 per cento alla morte di tutti i sottoscrittori di quella erezione. Ma non si aspettò tanto a ottenere una diminuzione dell’onere gravante per cagione degli interessi sulla pubblica finanza. Prima ancora che finisse la guerra parecchie fortunate conversioni avev’ano ridotto gli interessi, col consenso dei montisti, al 5 per cento. Ma di ciò in fine. Adesso importa conchiudere l’argomento dei prestiti pubblici.
[1]M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Napoli, Pierro, 1904, pag. 36-40.
[2]Cfr. L. Einaudi, L’economia pubblica veneziana dal 1736 al 1755 in «La Riforma Sociale» del 1904 ed in tiratura a parte in Saggi, Pag. 179.
[3]A.S.F.Prima Gabella Carne, Corami e Foglietta, M. I, n. 3.
[4]Il mutuo, del quale si discorrerà subito in appresso, era dei soliti. La città avea preso a mutuo da privati alienatari L. 2.056.506, e avea passato la somma alle finanze. Queste aveano dato in cambio alla città la gabella di carne e corami, del cui reddito annuo di L. 80 mila la città si serviva per parare gli interessi agli alienatari, garantiti con ipoteca sulla gabella medesima.
[5]A.S.F. loco citato e A.C.T. Ordinati. Vol. 233, anno 1703, fol. 43. Congregazione del 21 aprile 1703.
[6]Cfr. luoghi cit. sopra e A.C.T. ordinati. Vol. 233 (1703), fol. 43, 65, 133, 153.
[7]A.C.T.Ordinati. Vol. 233. Anno 1703. Congregazioni del 21, 22, 23, 27 o 30 aprile, del 2 e 3 maggio; fol. 43, 45, 48, 51, 53, 55, 56.
[8]A.C.T.Ordinati. Vol. 233. Anno 1703. Congregazioni del 15, 17 e 25 e conseglio del 28 maggio; fol. 55, 61, 62, 65.
[9]Sindaci, congregazione (composta dei due sindaci, del mastro di ragione, dei due ragionatori, dell’avvocato, del procuratore, del segretario, dell’archivista o di altri 14 consiglieri, tutti eletti ogni anno dal Consiglio nel suo seno) e ragioneria aveano funzioni simili a quelle del nostro sindaco e della giunta. Si radunavano spessissimo, mediante inviti personali distribuiti dall’usciere. Il Consiglio (composto, a norma degli stabilimenti del 13 dicembre 1687, di 60 membri, scelti per cooptazione metà fra i cittadini più notabili per nascita o per dignità o per feudi e dotati di giurisdizione ed acquistati dai loro antenati e metà fra altri vassalli, i borghesi chiari ed i più accreditati fra i negozianti) si radunava di rado, in certe solennità determinate ed al suon della campana.
[10]A.C.T.Ordinati. Vol. 233. Anno 1703. Congregazioni dell’11 e 19 ottobre; fol. 133 e 140.
[11]A.C.T. Ordinati. Vol. 233. Anno 1703. Consiglio del 21 ottobre 1703, fol. 143.
[12]A.C.T.Ordinati. Vol. 233. Anno 1703. Congregazioni del 25 e 29 ottobre, 6, 8, 21, 22 e 29 novembre 1703; fol. 151, 153, 155, 157, 159, 161 e 165. Il memoriale definitivo del 19 novembre 1703 si legge in D. XXIV. 1057.
[13]La città avrebbe dovuto ogni anno, col reddito delle due gabelle, pagare gli intoressi ai capitalisti che le aveano mutuato le 600 mila lire, e ammortizzarne una parte, per essere alla fine dei 14 anni libera dal debito contratto per questo motivo. Invece, alla fine del 1708, non si era ancora ammortizzato nulla “stanti le gravissime spese notorie, a quali gl’è convenuto sogiacere per li assedij, provisioni de grani, reparatione de molini, fiche et altre opere, come pure per le reparationi delli ponti di Po e di Dora rovinati per le straordinarie escrescenze de fiumi e altresì per le reparationi delle strade reali e pubbliche del territorio et in altre diverse urgenze e provisioni di comestibili per precautione in occasione di detti assedij”. Il consiglio delibera si tenga un conto delle spese straordinarie sostenuto dalla città per causa della guerra, allo scopo di servirsene, giunta la scadenza dei 14 anni, per ottenere il prolungamento dell’usufrutto delle due gabelle. Ma, sia che l’ammortamento fosse stato in seguito energicamente condotto a termine (nel 1710 risulta che tutta la quota dell’anno era stata ammortizzata), sia che non fossero stati tenuti per buoni i crediti pretesi dalla città, certo è che nel 1718 le due gabelle erano state incamerate dal fisco e il patrimoniale regio davale in appalto per conto delle finanze. Cfr. A.C.T.Ordinati. Vol. 238. Anno 1708. Consiglio del 31 dicembre 1708, fol. 218. Vol. 240, anno 1710. Consiglio del 31 dicembre 1710, fol. 177. Vedi pure D. XXIV. 1066.
[14]A.C.T.Ordinati. Vol. 233, anno 1703. Congregazioni del 3, 8, 13, 17, 21, 23 e 31 e consiglio del 14 dicembre 1703; fol. 168, 169, 171, 173, 174, 176, 179, 185, 188, 189, 196.
[15]Che la alienazione della gabella della carne e corami fosse poco gradita alle finanze si scorge manifesto dai tanti progetti di riscatto che si riscontrano per gli anni dal 1699 al 1703 nelle carte d’archivio. La gabella doveva rendere, bene amministrata, alla Città, più di 80 mila lire; ed alle finanze sarebbe piaciuto godere di questo sovrappiù. Oltre al progetto, di cui narrammo, di cambio della gabella di carne e corami con le due gabelle piccole, vedi altri progetti in A.S.M.E. Gabella Carne, Corami, Foglietta ed Imbottato, M. 1, n. 17. Per gli atti di alienazione cfr. D. XXIV. 1035 e 1043.
[16]Queste tabelle si riferiscono unicamente ai debiti garantiti con alienazioni sulle gabelle generali, od essendo ricavate da altra fonte, e precisamente da A.S.F. seconda, Capo nono, p. 2, n. 1, 4, 5, 6, 21 e 25, contengono dati non in tutto comparabili a quelli che si leggono sopra nel p. 51. La differenza non è però grande, poiché il calcolo dell’ufficio delle finanze, riportate nel p. 51, dà come provento annuo delle alienazioni sulle gabelle generali L. 275.974.0.11, somma che, unita ai censi dovuti alla città di Torino in L. 31.775 all’anno, non supera di molte quella di L. 294.379.15 indicata nelle nostre tabelle per il 1702. La discrepanza può spiegarsi con metodi diversi di contabilità e con l’inclusione, nel calcolo dell’ufficio delle finanze, di qualche partita che nei bilanci generali non mettevasi fra le alienazioni sulle gabelle. Inspiegabile invece è la dimenticanza, nei bilanci generali della spesa dal 1705 in poi, della partita di L. 39.169.9.6 dovuta agli alienatari sopra la gabella dell’imbottato. Come è detto in seguito nel testo, con lettere patenti del 14 marzo 1705, il fisco alienò la gabella dell’imbottato, della foglietta, degli hosti, ecc., alla città di Torino, a condizione che la città si accollasse il pagamento di L. 39.169.9.6 dovute ai vecchi alienatari e pagasse alle finanze un capitale di L. 1.260.000, corrispondenti ad un interesse di L. 63.000 all’anno. Nelle scritturazioni contabili a partire dal bilancio del 1705, sarebbe stato d’uopo iscrivere fra le alienazioni sulle gabelle generali L. 39.169.9.6 dovute sulla gabella dell’imbottato alla città di Torino per farne pagamento ai vecchi alienatari, più L. 63.000 dovute sulla stessa gabella alla città per il nuovo mutuo di L. 1.260.000. Invece i compilatori del bilancio nel 1705 non iscrissero nulla e negli anni seguenti presero nota solo delle L. 63.000, dimenticandosi delle vecchie L. 39.169.9.6. In fondo l’errore di scritturazione non cagionava alcun inconveniente perché l’esazione delle gabelle e il pagamento degli interessi agli alienatari spettava alla città di Torino. Noi però credemmo opportuno di ripristinare l’impostazione delle L. 39.169.9.6, scrivendola in corsivo per indicare che fu da noi aggiunta. Il lettere ricordi quindi che dal 1705 in poi i totali scritti nelle nostre tabelle superano d’altrettanto quelli che si leggono negli originali dei bilanci. Un’altra piccola differenza fra la nostra tabella e gli originali dei bilanci si ha nel totale del 1712 che noi calcolammo in L. 567.036.9.2, mentre i bilanci recano L. 529.866.19.6, le quali, aggiungendovi la partita dimenticata di L. 39.169.9.6, diventano L. 569.036.9.2. Ma l’errore è del compilatore del bilancio del 1712, il quale sbagliò la somma.
[17]Probabilmente si riferisce a queste trattative una noterella dei particolari che si credono più pecuniosi la quale si legge nelle carte d’archivio con la data del 22 febbraio 1704 (A.S.F. I a. Operato ne’ Tempi di Guerra, M. 1, n. 1). La riferiamo qui in nota, sia perché giova a far vedere come si usasse, in occasione dei prestiti pubblici, predisporre notizie statistiche sulla possibilità di riuscire nell’intento, notizie che servivano, quando la riuscita apparisse dubbia, a fare inviti e premure presso i maggiori capitalisti per indurli a sottoscrivere, sia perché ci fornisce l’elenco di quella che era allora considerata l’alta finanza piemontese:
Conte Amoretti | L. 200.000 | Marchese di Pianezza | L. 30.000 |
Intendente Gianatio | 75.000 | Principe della Cisterna | 50.000 |
Conte Gastaldo | 75.000 | Marchese di Brezè | 30.000 |
Conte Fresia | 75.000 | Senatore Balegno | 30.000 |
Spada di Racconigi | 100.000 | Negoziante Ubertalo di Biella | 50.000 |
Vedova Giulia Papona di Racconigi | 50.000 | Banchiere Martini | 30.000 |
Conte della Vezza | 50.000 | Conte Scarampo | 50.000 |
Conte del Castellar | 50.000 | Marchese Barolo | 50.000 |
Quaglia e Barbarossa | 50.000 | Fratelli Bormioli | 30.000 |
Bistort e Gioannetti | 50.000 | Conte Caresana | 30.000 |
F.lli Galleani | 30.000 | Heredi Camera | 30.000 |
Marchese De La Roche | 50.000 | Marchese Giaglione | 50.000 |
Presidente Delescheraine | 30.000 | Baron Perachino | 20.000 |
Presidente Garagno | 30.000 | Conte Strambino di Colleretto | 30.000 |
Sono gli stessi nomi che si incontrano frequentemente negli elenchi degli alienatari e dei montisti; e la omma totale che le finanze ritenevano di poterne ottenere, era di 1.425.000 lire.
[18]Il prezzo era veramente stato stabilito in L. 2.159.643.15, da cui però si dedussoro L. 899.643.15, capitale del debito già ipotecato sull’imbottato e che dalle finanze passò a carico della città.
[19]A.S.F. Ia Gabella Carne, Corami e Foglietta, M. 1, n. 3. Memorie per l’alienazione dell’imbottato e della Gabella della foglietta, che s’acquistarono dalla Città di Torino (2 marzo 1704); A.C.T. Ordinati. Vol. 234, anno 1704. Congregazioni del 26 febbraio, 2 4, 12 e 13 marzo 1704 e consigli del 5 e 16 marzo e 29 settembre 1704; A.S.C.Sessioni Camerali, Vol. 1703 in 1705, sotto li 15 marzo 1704; e D. XXV. 397.
[20]Nel primo dei capitoli costitutivi si legge: “Il Monte sarà chiamato della fede non solo perché quello resta eretto sotto la fede e parola nostra di Principe, qual perciò come data sotto nome e titolo di dignità perpetua in forza di contratto e legge irrevocabile con l’approvazione del nostro Consiglio et interinatione de’ Magistrati, dovrà essere anche perpetua et inviolabile; ma perché nell’amministrazione d’esso speriamo si caminarà con ogni fede e pontualità ad intiera sodisfattione di quelli quali accompraranno de’ luoghi infrascritti”.
[21]Dal primo dei capitoli costitutivi: “Il Monte sarà denominato di S, Giovanni Battista, tanto in riguardo ch’è tutelare della città, quanto che sendo stato il precursore della verità, potrà ogn’uno accertarsi che si tratterà dell’amministratione di quello della stessa Città e suoi ufficiali con ogni sincerità, lealtà e pontualità ad intiera sodisfatione de’ futuri Montisti”.
[22]Cfr. le lettere ai patenti ed i capitoli 3 febbraio 1653 per la erezione del Monte di Fede, in D. XXV. 333 e le lettere patenti ed i capitoli 22 aprile 1681 per l’erezione del Monte di S. Giovanni Battista, pure in D. XXV. 354.
[23]L’eredità di Madama Reale Giovanna Battista era del terzo consuetudinario del Ducato di Aumale, che era feudo del principe Carlo Amedeo. Alla sua morte i creditori ipotecari della Casa di Nemours sequestrarono e misero all’incanto il Ducato; sul prezzo di vendita pagandosi il terzo stabilito dall’art. 404 del coutumier di Normandia a Giovanna Battista. Cfr. in A.S.C.Inv. Gen. art. 689 n. 184, Controllo Finanze, le lettere patenti del 16 marzo 1688, Ivi, n. 185, 1688 in 1689, le lettere patenti del 4 aprile 1689, registrate il 23. Quanto alla conversione operata nel 1688, cfr. A.C.T.Ordinati, anno 1688, vol. n. 217, fol. 170, consiglio del 7 giugno 1688; ed A.S.F. Capo 16, n. 14, Libro amministrazione generale Finanze, sotto monti di S. Gio. Batta presente Città di Torino.
[24]A.C.T. Ordinati. Vol. 235, Anno 1705. Congregazioni del 23 febbraio, 2, 3, 4, 24 marzo e consiglio del 12 e 19 marzo 1705; fol. 38, 44, 48, 57, 64, 67, 75.
[25]Oltre le fonti citate nella nota precedente, cfr. A.S.C.Inventario generale, art. 693, n. 1, Ordini, n. 126, pag. 68. In D. XXV. 402, l’editto appena menzionato.
[26]Che la somma offerta in sottoscrizione sia stata intieramentc coperta, rivede anche dalla nostra tabella inserita a pagina 229, dove tutti i 2083 luoghi fissi della V erezione ed i 750 luoghi vacabili della IV appaiono venduti.
[27]A.S.C.Ordinati, 127, A.C.T. Ordinati, vol. 255, anno 1705. Congregazioni del 18 e 21 luglio e consiglio del 19 e 27 luglio 1705; fol. 123, 125 e 130.
[28]Leggasi in A.S.F. Ia. Cap. 59, n. 2. Registro occorrenze giornaliere in data intermedia fra il 30 novembre ed il 3 dicembre 1705.
[29]A.S.C.Ordini, n. 127 e A.C.T. Ordinati, Vol. 236, anno 1700. Congregazione del 23 e consiglio del 24 e 28 febbraio 1706; fol. 63, 64 e 85.
[30]A.S.F. Ia. Finanze, Intendenze e loro Segreterie, M. 1, n. 7. Memoria istruttiva al Primo Ufficiale di Finanza pel regolamento d’esse pendente l’absenza del Generale.
[31]Cfr. il regio biglietto del 15 giugno e l’istruzione di Groppello del 16 giugno 1706 in A.S.M.E. Finanze, M. 4, n. 28.
[32]A.C.T.Ordinati. Vol. 236, anno 1706. Congregazioni del 26 e 29 maggio e del 6 luglio e consigllo del 5 luglio 1706; fol. 125, 163, 173, 174, 213, 221.
[33]Infatti, terminato l’assedio, la congregazione dava facoltà alla ragioneria di vendere gli ultimi luoghi della VII erezione e col ricavo pagare i fornitori dei commestibiii. A.C.T.Ordinati. Vol. 236, anno 1706. Congregazione del 10 ottobre; fol. 354.
[34]D. XXV. 404 Il R.B. del 30 maggio non è riprodotto in D. e leggesi nell’originale degli ordini e capitoli stampati in Cuneo M.D.CC.VI per Gio. Battista Benedettini, pag. 3.
[35]Cfr. al p. 4 quanto detto sull’obbligo delle città e comunità di levare una certa quantità di sale all’anno al prezzo di gabella. garanzie di queste non si sarebbero potute desiderare; eppure si stentò non poco a far sottoscrivere tutti i luoghi offerti in vendita.
[36]Da Einaudi, B. e C.T. 1700-713, Tabella V (conto di tesoreria generale), appare che L. 244.008 furono addebitate al Ferrero nel 1706 e L. 55.992 nel 1707.
[37]Le lettere di plenipotenza si leggono in D. XXV. 417. Lo notizie relative all’interinazione leggonsi in A.S.C. Ordini, n. 127, pag. 41.
[38]A.C.T.Ordinati, vol. 236, Anno 1706. Congregazione del 15 e 18 luglio e 1 agosto e consiglio del 19 luglio 1706; fol. 227, 233, 236, 251. del consiglio, immagina che questo abbia addirittura negato il consenso all’erezione dei monti, e manda il patrimoniale generale Fecia di Cossato a muovere aspra lagnanza al presidente della Camera Garagno, imputando il corpo da lui presieduto d’essere stato la causa di tutto il male, avendo, per eccessivo formalismo, interinato il “disposto” delle patenti ultime di plenipotenza e non le patenti medesime. In consiglio della città v’era stato taluno il quale aveva detto che quella della Camera non poteva dirsi una vera interinazione, sicché per paura di nullità non s’era voluto dichiarare la “responsione” della città. Adiratissimo alla sua volta, il Garagno convoca d’urgenza la Camera affinché “prendesse quelle risolutioni che le sarebbero parse più convenienti per andar al riparo d’ogni sinistra impressione, che da malevoli potesse essere fatta a pregiudicio del zelo et incessante attentione che questo Magistrato ha havuto et ha acciò venghi con ogni prontezza fatto il servitio di S.A.R.”. La Camera seduta stante chiama alla sbarra i sindaci e il segretario della città di Torino e li interroga se fosse vero che il consiglio aveva dubitato della “sufficienza” della interinazione camerale e non avesse perciò prestato il suo assenso. Il fatto, se si toglie la lieve differenza tra “consenso non prestato” e “consenso prestato in maniera equivoca e nulla”, era verissimo; ma e sindaci e segretario, impauriti, tergiversano e protestano. “Li detti signori Comparenti” – dice a questo luogo il verbale delle sessioni camerali – ” giustamente alterati d’una imputatione si falsa et sì svantaggiosa hanno unitamente e separatamente risposto haver il Conseglio una somma e particolare veneratione a questo Magistrato, et il loro preciso obbligo essere d’eseguire le sempre riverite determinationi del medemo. Che in quanto al supposto che il Conseglio non havesse prestato il suo consenso n’apariva l’incontrario dall’ordinato del medemo Conseglio, di cui nel tempo sono stati chiamati, stavano distendendone l’atto, che s’oferiscono presentare autentico al Magistrato. Che l’ordinato non fosse creduto suficiente, che si fosse parlato di mutatione di qualche minima (sic) espressione non havendo non che potuto dire, nemeno pensare”. E finirono con un ultimo grido d’innocenza: “Che se S.A.R. fosse stata presente haverebbero voluto essere a suoi piedi per supplicarla di qualche esempio verso chi haveva di troppo offesi con falso supposto la riverenza et il zelo della fedelissima sua Città, massime in circostanze così premurose et che nella lontananza della medema R.A. imploravano l’autorità del Magistrato”. È la volta del Groppello, che la Camera si fa venire d’innanzi e consiglia a non “essere così facile a sentire relationi o mal fondate o del tutto false in disturbo e pregiudicio del servitio di S.A.R. e poco conformi a conservare unite e pronte tutte le disposizioni che si richiedono all’urgenze publiche delle Finanze, massime quando quelle si riflettono in poco decoro del Magistrato e sono in rimprovero al maggior zelo havuto dalla Città e si vedono drizzate al fine di distruger insieme l’autorità di S.A.R. con quella de Magistrati et a turbare le operationi intente al bene d’essa R.A. e del Publico”.
[39]Per la narrazione delle vicende di questa emissione di luoghi di monte, certo la più difficile di tutte per i varii incidenti a cui dette luogo, cfr. A.C.T. Ordinati. Vol. 236, anno 1706. Congregazione del 15 e 18 luglio, 1, 7, 8 e 20 agosto e consigli del 19 luglio, 6, 12, 13 e 17 agosto 1706; fol. 227, 233, 236, 251, 261, 271, 275, 280, 288, 293, 199; A.S.C. Sessioni Camerali. Registro del 1705 in 1707, sotto la data del 7 agosto 1706; Id. Ordini, n. 127, pag. 41. Il contratto 13 agosto 1706 per l’erezione VIII dei monti si legge in D. XXV. 410. 19 (in nota).
[40]Dopo la liberazione si hanno appena quattro sottoscrittori: il conte Picone, che sottoscrive luoghi 33 1/3 per L. 10.000 il 20 settembre; D. Colino, che ne sottoscrive 2 (L. 600) il 23; il signor Crosetto 5 (L. 1500) il 24; e la signora Galarata di luogo (L. 200) il 25 settembre. Poi più nulla, sino alla nuova apertura.
[41]Probabilmente questo prefiggere un termine fisso di 5 giorni prima e di 15 poi alla intiera sottoscrizioue dei luoghi di tontina, avea per iscopo di impedire che, rimanendo aperta la sottoscrizione indefinitamente, s’andassero ad arte ricercando ragazzi e giovani per iscriverli alla tontina, con pregiudizio delle finanze, che avrebbero dovuto pagare l’8 per cento fino alla morte dell’ultimo di essi. D’altra parte, il breve termine impediva che si trovasse il numero richiesto di sottoscrittori.
[42]A.S.C.Sessioni Camerali. Registro dal 1705 in 1707, sotto la data del 26 novembre 1706; A.C.T.Ordinati, vol. 236, anno 1706. Congregazione del 10 e 21 ottobre, 16 e 22 dicembre e consiglio del 29 settembre; fol. 326, 354, 358, 433, 447. Vol. 237, anno 1707. Congregazione del 6 settembre e consiglio 31 dicembre; fol. 144 e 194. Cfr. pure D. XXV. 421.
[43]Per Ia, IIa e IIIa erezione la città aveva il possesso della gabella di carne e corami di Torino; e per la VIII e la IX (a cui poi si aggiunse la X), possedeva i tre banchi del sale della città e suo territorio e quindi asigeva direttamente i redditi con cui soddisfare ai suoi obblighi verso i montisti.
[44]Per gli ordini e capitoli della IX e X erezione, cfr. A.S.C.Ordini, vol. 128, pagg. 14 e 28. Le L.P. del 26 dicembre 1707 si leggono, senza gli allegati, in D. XXV. 422. Per i particolari relativi alle emissioni ed alle controversie sul pagamento diretto della dote, cfr. A.C.T. Ordinati, vol. 237, anno 1707, Congregazione del 6 e 19 settembre e consiglio dell’11 settembre e 31 dicembre; fol. 144, 148, 150, 194. Vol. 238, anno 1708. Congregazione del 12 e 24 gennaio, 3 febbraio, 26 marzo, 21, 28 e 30 aprile, 5, 7 e 21 maggio e consiglio del 22 aprile, 5 maggio e 17 giugno; fol. 8, 19, 24, 60, 77, 79, 87, 88, 94, 96, 101, 121; e A.S.C. Sessioni Camerali. Registro dal 1707 al 1708, sotto le date 20 e 31 marzo, 2, 20 e 26 aprile, 5 e 21 giugno 1708.