Opera Omnia Luigi Einaudi

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte VI: La coniazione di moneta erosa ed ossidionale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1908

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte VI: La coniazione di moneta erosa ed ossidionale

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 254-270

 

 

 

72. – Battere moneta erosa era uno spediente comunissimo per procacciar le entrate occorrenti alle spese di guerra e, fatta ragione alla diversità dei tempi, poteva assomigliarsi alle emissioni di biglietti di credito, che presero inizio da noi coll’editto del 26 settembre 1746 e alle moderne emissioni di biglietti a corso forzoso. La moneta erosa di argento abbiglionato con rame era stata strumento finanziario largamente usato dai nostri Principi nella prima metà del secolo XVII, tanto largamente che la lira di argento, la quale sotto Emanuele Filiberto pesava di fino 8 denari, 21 grani e 12 12/29 granotti (1561), nel 1675, agli inizi del regno di Vittorio Amedeo II, pesava solo 4 denari, 9 grani e 14 2/5 granotti, mentre il pezzo da 5 soldi che nel 1632 conteneva ancora di fino 1 denaro, 20 grani e 10 2/3 granotti, nel 1691 erasi ridotta a 23 grani e 24/25 di granotto[1].

 

 

Ai nostri tempi il ribasso del peso in fino delle monete era proceduto però tant’oltre che non si reputò conveniente giovarsi di nuovo di questo mezzo e tutta l’industria dei finanzieri volgevasi unicamente a monetare quanta maggior quantità era possibile delle monete erose a scapito delle monete buone d’oro e d’argento. Per chiarire l’argomento parci opportuno riassumere le varie specie di monete che coniavansi alla zecca di Torino, posta sotto la direzione dell’economo Porta e la sorveglianza della Camera dei Conti.

 

 

1) Doppia d’oro di Savoia, che si coniava al titolo di carati 21.18 (906%), pesava in fino 4 denari, 17 grani e 15 9/49 granotti, ed era ragguagliata nelle tariffe legali a L. 15 e soldi 15. Di questa moneta se ne coniava assai poca, come può vedersi dal conto della zecca (in EINAUDI, B. e C.T. 1700/713. Tabella XVIII):

 

 

Dall’1 dicembre1697 al 16 febbraio 1701

Dal 16 ottobre 1705 al 30 aprile 1706

1707

1710

1711

Oncie d’oro fino impiegate nella lavorazione

412.2.21

247.15.18

201. 7.15

515.4.21

171.17.18

Valore delle doppie coniate

L. 32.823

19.656

12.954.16.

40.934.5

13.639.10

 

 

Anche questa modestissima coniazione non era fatta per conto dello Stato, sibbene esclusivamente per conto di privati, che portavano l’oro alla zecca e pagavano tutte le spese della monetazione, per potersi servire delle doppie in pagamenti per cui era richiesta quella determinata specie. La doppia d’oro, sebbene tassata in L. 15.15, aveva corso variabile a norma del valore dell’oro e del valore della specie d’argento contro cui era cambiata. Sembra che il valore commerciale del fino fosse superiore alla tariffa legale, perché essa valutavasi in commercio a L. 16 ed anche a L. 16.7.3. 1/4[2]; cosicché lo Stato non avrebbe nulla guadagnato da una coniazione per conto suo e forse ci avrebbe rimesso le spese.

 

 

2) Monete d’argento.

 

 

a)    Scuto bianco di Savoia. Se ne cavavano 9 da un marco al titolo di denari 11 (916.66%); ed ogni scuto conteneva di fino 19 denari, 13 grani ed 8 granotti (Promis). Siccome da altre fonti è noto che l’oncia d’argento al titolo di 1000 millesimi (denari 12) valeva IL. 5.6.8, così per conoscere il valore (x) del fino contenuto nello scuto basta stabilire la proporzione:

 

Lire 5.6.8 : 1 oncia = x: oncie 0.19.13.8

 

 

x= oncie 0.19.13.8 · lire 5.6.8 / 1 oncia = lire 4.6.10.11.6

 

 

Le tariffe legali valutavano lo scuto appena a L. 4.6.8; cosicché ne nasceva l’incongruenza che il valore del fino contenuto nello scuto era uguale al 100.28% del valore nominale dello scuto. Al fisco quindi non conveniva coniare una moneta il cui valore nominale era inferiore alle spese di compra dell’argento fino e nulla era lasciato per la compra della lega e le spese di coniazione. Era dunque questa una moneta troppo buona, coniata soltanto a spese e dietro domanda dei privati. Nel nostro periodo se ne coniarono appena L. 45.439.68 nel 1710 per conto dei banchieri Colomba e Calcino, e non supponibile che questi li avessero fatti coniare se non avessero saputo di poterli spacciare ad un tasso superiore a quello legale di L. 4.6.8. Anche gli acuti quindi, come le doppie d’oro di Savoia, erano monete a corso variabile, come tante altre monete estere che circolavano nei nostri paesi.

 

 

b)    Lira di Savoia. Era o dovea essere l’unità monetaria piemontese. Se ne cavavano 40 da un marco al titolo di danari 11 (916.66%); ed ogni lira conteneva quindi di fino 4 denari, 9 grani e 14 2/5, granotti (Promis). Sulla base già detta di un prezzo di L. 5.6.8 per l’oncia d’argento fino a denari 12 (1000%), per conoscere il valore (x) del fino contenuto nella lira stabiliamo la proporzione:

 

 

Lire 5.6.8: 1 oncie = x : oncie 0.4.9. 2/5

 

 

x = oncie 0.4.9.2/5 · lire 5.6.8 / 1 oncia = lire 0.19.6.7.4

 

 

Qui tra la tariffa legale della lira in 20 soldi ed il costo del fino vi era uno scarto a favore della zecca di poco meno di mezzo soldo (L. 0.0.5.4.8); sicché il valore del fino contenuto nella lira era uguale al 97.75% del valore nominale della lira. Pare che il margine, essendo troppo piccolo, per quanto cresciuto dalla tolleranza, bastasse a stento per le spese di coniazione, tantoché di lire si coniava una modestissima quantità[3]:

 

 

Dal 17 febbraio 1701 al 15 ottobre 1705

Dal 16 ottobre 1705 al 30 aprile 1706

1708/1709

1710

1711

Marchi d’argento fino impigati nella coniazione

8.818.1.4

761.6.19

1.357.0.1

201.6.6

1.125. 0.11

Valore delle lire coniate

L. 382.176

33.070

58.872

8.751

48.840.10

 

 

senza contare L. 114.940 coniate per conto dei banchieri Colomba e Calcino nel 1711.Il tenuissimo scarto fra il costo del fino e il corso della lira spiega come il fisco fosse assai poco tenero di una coniazione che a stento copriva le spese[4].

 

 

3) Monete di biglione o monete erose.

 

 

a)    pezza da soldi cinque. Se ne coniavano 50 al marco al titolo di 3 denari (250%), ed ogni pezza conteneva quindi di fino 23 grani e 24/25 di granotto (Promis). Sulla base di un prezzo di L. 5.6.8 per l’oncia di argento fino a denari 12 (1000%), per conoscere il valore (x) del fino contenuto nella pezza erosa da soldi 5 stabiliamo la proporzione:

 

 

L. 5.6.8 : 1 oncia = x : oncie 0.0.23.0 24/25

x = oncie 0.0.23.0 24/25 · lire 5.6.8 / 1 oncia = lire 0.4.3.2.4

 

 

Tra il valore legale della pezza da cinque soldi e il costo del fino d’argento vi era uno scarto a favore della zecca di L. 0.0.8.9.8, sicché il valore del fino contenuto nella pezza era uguale all’85.31% del valore nominale stabilito in 5 soldi. Per conoscere però il guadagno netto che il fisco ricavava dalla coniazione delle pezze da cinque soldi bisogna tener conto in aumento dell’utile del “rimedio” o “scarsiggia”, che vorrebbe dire tolleranza consentita alla zecca (1 1/2 pezza per marco), e in diminuzione delle spese di compra del rame e di coniazione. Allora il conto si modifica così[5]:

 

 

Costo dell’argento a L. 5.6.8 per oncia

L. 0.4.1.787/1000

Costo del rame a soldi 13 per libbra

” 0.0.2. 97/1000

Spese di brassaggio o coniazione

” 0.0.2. 97/1000

Utile di zecca

” 0.0.6. 19/1000

L. 0.5

 

 

Il guadagno netto di zecca era dunque di 6 denari o mezzo soldo su cinque e bastava a rendere la coniazione grandemente desiderata dalle finanze a preferenza di quella delle monete d’oro e d’argento, che appena appena copriva le spese o si faceva in perdita.

 

 

Di qui la forte e continua monetazione di pezze da 5 soldi:

 

 

Dall’1 dic. 1697 al 16 febb.1701

Dal 17 febb. 1701 al 15 ott. 1705

Dal 16 ott. 1705 al 30 apr. 1706

Dal 1 magg. 1706 al 31 dic. 1706

1707

1708-1709

Marchi d’argento fino impiegati nella coniazione

3.499. 7

3.605. 1.9

387. 1.16

9.615. 1.2

550.3.4

3.099.2.3

Valore delle pezze da 5 soldi coniate L.

177.070.10

180.896

19.439.15

485.543.10

27.778

155.710

 

 

Il più forte della monetazione cade durante l’assedio del 1706 e ne vedremo più sotto le ragioni.

 

 

b)    pezza da un soldo. Se ne coniavano 120 al marco al titolo di 1 denaro e 6 grani (104.16/00); ad ogni pezza conteneva quindi di fino 4 grani (Promis). Sulla solita base diL. 5.6.8 per l’oncia di argento fino a denari 12 (1000/00) per conoscere il valore (x) del fino contenuto nella pezza erosa da un soldo stabiliamo la proporzione:

 

 

Lira 5.6.8 : 1 oncia = x : oncia 0.0.4

x = oncie 0.0.4· lire 5.6.8 / 1 oncia = lire 0.0.8.10.8

 

 

Tra il valore legale della pezza da 1 soldo ed il costo del fino d’argento vi era uno scarto a favore della zecca di L. 0.0.3.1.4, sicché il valore del fino contenuto nella pezza era uguale al 74% del valore nominale di un soldo. Però, fatta ragione alla quantità di pezze che si cavavano da un marco, non possiamo supporre un costo di rame minore di 1 denaro, a cui aggiungendo altrettanto per il costo della coniazione, si ha che il costo di una moneta da un soldo era alquanto minore di 11 denari, con un guadagno netto pel fisco del 10.32% del valore nominale della moneta[6]. Il guadagno era suppergiù lo stesso di quello che ottenevasi dalle pezze da 6 soldi; ma la mala accoglienza che il pubblico avrebbe fatto a una troppo grande quantità di queste piccole monete, in cui il fino entrava appena per circa un decimo del peso totale, spiega come di monete da un soldo la coniazione sia stata assai modesta nel nostro periodo:

 

 

1708 e 1709

1710

1711

Marchi d’argento fino impiegati nella coniazione

428.2.18

1.007. 7.1

535. 1.1

Valore delle pezze da un soldo coniate

L. 24.478.6

57.852.10

30.258.14

 

 

4) Monete di rame da danari due. Erano le monete infime divisionarie, che venivano coniate per i bisogni della minuta circolazione; e rispetto al loro valor monetario potrebbero ragguagliarsi alle nostre monete da un centesimo all’incirca. Certo allora la potenza d’acquisto ne era maggiore; ma la emissione non poteva farsi se non in quantità ristrettissime. Se ne coniavano 130 al marco e pesavano 1 denaro, 11 grani e 10 46/65 granotti. Al prezzo di 18 soldi per libbra del rame, la moneta di due denari non poteva costare meno di denari 1 1/10 a cui aggiungendo qualcosa per le spese di coniazione, facilmente si giungeva ad 1 1/2 denaro. Il margine di guadagno per la zecca era di mezzo denaro, od un quarto circa del valore nominale della moneta. Ma di questo lucro, proporzionatamente il più elevato di tutti, scarsamente poteva giovarsi il fisco per la picciolezza della moneta e la difficoltà di spacciarne in copia. Ond’è che le coniazioni di monete da due denari erano così ristrette:

 

 

Dal 17 febbraio 1701 al 15 ottobre 1705

1707

1708 e 1709

Marchi di rame impiegati nella coniazione

14.660. 5.15

18.368.7

9.169.3

Valore delle pezze da denari 2

L. 15.028.18

20.241.5.4

10.156.1

 

 

Riassumendo, la zecca di Torino negli anni dal 10 dicembre 1697 (meglio si direbbe dal 1700, perché negli anni precedenti la coniazione fu scarsissima e quasi tutta limitata alle lire di Savoia) al 1711 coniò le seguenti quantità e specie di monete:

 

 

Monete d’oro – Doppie di Savoia L. 123.007.10

L. 815.096. 6.8

Monete d’arg. – Sconti bianchi di Savoia

” 45.439. 6.8

Lire e doppie lire di Savoia

” 646.649.10.

Monete erose – di biglione da soldi 5

” 1.046.437.15.

” 1.204.453. 9.4

– da un soldo

” 112.589.10.

– di rame da due denari

” 45.426. 4.4

TOTALE

” 2.019.549.16

 

 

73. – Per quanto ci manchino i dati sulla composizione totale del medio circolante in Piemonte, le cose dette bastano a dimostrare come essa fosse assai difettosa. Se si lasciano da parte le doppie e gli scuti bianchi, che per il loro alto valore intrinseco circolavano soltanto nel commercio internazionale ad un valore variabile, come le monete d’oro in un paese a corso forzoso ed aggio, e le monete da un soldo e da due denari, le quali erano accette soltanto per i bisogni della minuta circolazione, si può conchiudere che le due monete che aveano corso per il grosso delle contrattazioni erano la lira di Savoia e la pezza da cinque soldi. Ora si badi al rapporto legale tra di loro corrente ed al rapporto commerciale tra i loro valori in metallo, e si vedrà qual sorte potesse avere la circolazione monetaria in quel tempo. Legalmente quattro pezze da cinque soldi equivalevano ad una lira d’argento di Savoia da venti soldi ed avrebbero dovuto le une barattarsi sul mercato coll’altra affinché le merci potessero valutarsi indifferentemente in lire o in pezze da cinque soldi. Invece il rapporto commerciale tra i valori del metallo argento contenuto nella lira e in quattro pezze da 5 soldi era come tra 97.75 ed 85.31; ossia per comprar l’argento contenuto nelle quattro pezze da 5 soldi si dovea spendere solo l’87,27% di ciò che si sarebbe speso per comprar l’argento della lira. Chiara era dunque la convenienza del fisco a coniare in prevalenza per conto suo pezze da 5 soldi e dei privati a pagare in moneta erosa. Per il noto aforisma economico che la moneta cattiva scaccia la buona, la lira d’argento dovea necessariamente andare a tener compagnia alle doppie ed agli scudi e nascondersi nei forzieri, uscendo fuori solo per i pagamenti internazionali o in compenso di un aggio sulle monete erose da 5 soldi. In medio circolante normale, che dovea essere la lira, scadeva così a segno, che più non vedevansi circolare se non le brutte pezze da cinque soldi od altre monete erose forastiere ancor più vili, ed i prezzi delle merci e delle derrate rialzavano, come oggi fanno nei paesi a corso forzoso, perché si esprimevano in lire deprezzate di moneta erosa. Per togliere lo sconcio gravissimo sarebbe stato necessario che la coniazione delle pezze da 5 soldi fosse tenuta in limiti ristretti, come oggi si fa per le monete divisionarie e per gli scudi d’argento e che le casse pubbliche cambiassero a vista in lire le monete erose. Invece la monetazione erosa cresceva d’anno in anno ed al cambio in moneta fina nessuno provvedeva; unico scampo, e limitato, per possessori di monete erose essendo quello di pagare con esse i pubblici tributi.

 

 

Che le cose stessero precisamente così come la dottrina economica ci fa supporre, siamo fatti certi da parecchie notizie. Leggasi l’inventario (pubblicato in Einaudi, B. e C.T. 1700-713, p. 20, pag. 275) delle monete che si trovarono nella cassa del tesoriere di Nizza, Cotto, al momento della sua morte. Nizza, paese di transito, più vicino a Francia ed a Genova che al Piemonte, vedeva circolare monete di specie diversissime. Su L. 46.893.18.1, ve ne erano L. 4.224.18.9 di luigi nuovi da L. 19.8.6 l’uno, L. 11.115 di scudi nuovi da L. 4.17.6, L. 25.13.4 in filippi da L. 11.13.4, L. 76.10 in testoni da L. 1.10, L. 23.16.8 in scudi vecchi da L. 4.6.8, L. 23 in lire di Bologna, L. 48.5.10 in ducatoni da L. 5.1.8, L. 43.4 in crosassi da L. 6.8, e vi erano altresì uno scudo di fiorenza da L. 4 e un luigi vecchio da L. 16. Tutte queste monete, forastiere e nazionali, circolavano secondo l’apprezzamento di mercato che si faceva in rapporto alle lire piemontesi. Delle quali però nella cassa del Cotto se ne trovarono solo 93, per cui il Cotto non poté essere accreditato che per L. 93, per non contravvenire agli editti, quantunque probabilmente quelle lire valessero qualcosa di più in commercio di venti soldi. Prova ne siano gli scudi nuovi, i quali erano coniati al valore legale di L. 4.6.8 e valutaronsi invece L. 4.17.6, facendo un aggio dell’11.81 per cento. Tutto il resto era moneta erosa, in cui la parte minore era di pezze nuove da 5 soldi di Savoia (appena L. 1.311); ed il più componevasi delle peggiori monete erose forastiere o nazionali parpagliole di Francia per L. 10.751.18.6, pezzette vecchie da 4 soldi e 8 denari per L. 17.864.18.8, ecc.

 

 

La Camera dei Conti di Piemonte (non l’altra di Savoia, dove ragionavasi a fiorini e dove per circostanze speciali vedevansi di mal’occhio le monete buone piemontesi), lagnavasi acerbamente di questa inondazione di monete erose e cercava di porre un freno alla loro coniazione. Ma invano. In un avviso del 25 maggio 1697 a S.A.R. “per fatto della battitura di L. 200.000 di pezze da soldi 5”[7], la Camera si dichiarava “a pluralità di voti … dopo maturo e serio esame” d’opinione che “questa nuova fabrica puossa essere pregiudicante non meno a’ popoli che all’interesse delle finanze”. Sebbene “la quantità delle L. 200.000 massime trasmettendosene parte di là da’ colli puotesse considerarsi non valevole da sé sola ad alterare il valore delle monete fine, però gionta con la gran copia che già v’era prima dell’ordine del 1695 e che dopo s’è fabbricata, può dare gran fondamento di temere che le monete fine, quali attesa la continuazione delle erose benché ribassate non si sono potute contenere dentro i limiti del prezzo edittale, puossi questo nuovo additamento [aggiunta] di pezze da soldi 5 grandemente contribuire a causare un maggiore corso abusivo [aggio]”. E qui la Camera cita il fatto che “l’ultimo quartiere delle gabelle è stato riscosso in maggior parte in monete erose” e invita il Principe a riflettere “alla modicità dell’utile che possono ricavare le finanze dalle dette pezze da soldi 5 per l’ammontare delle lire 200.000, in comparazione del danno che possono risentire nella riscossione degli imposti e tributi consistenti in lire” ed alla necessità in cui erano “le finanze come pure li sudditi per tutto ciò che gli è necessario di provveder da fuori Stato mandare monete d’oro et argento con molta perdita”. Il 22 gennaio 1701 di nuovo la Camera muove vivacissime rimostranze a proposito di una monetazione di L. 100.000 in pezze da 5 soldi fatta a sua insaputa, e dichiara che “questa nuova fabbrica in aggionta della prima veniva a rendere quella e molto più sì stessa gravemente dannosa al servizio della medema R.A. e del pubblico, massime per le gravissime conseguenze che ciò poteva portare al ben regolato stato delle monete, mezzo necessarissimo alla conservazione del commercio”[8]. Nel 1709, essendosi dovuto provvedere al ritiro di una certa quantità di monete erose forastiere portate negli Stati piemontesi dalla soldatesca alemanna e francese, il Sovrano ne aveva ordinato la battitura in pezze da 5 soldi. La Camera, con avviso del 13 maggio, consiglia di sospendere questa nuova coniazione di pezze da soldi 5 “per la gran quantità già monetata nella prima guerra e pendente la corrente … al fine di non alterare con tanta moneta erosa nel commercio il corso già da tant’anni regolato con tanto buon successo delle monete fine”[9].

 

 

Dopo il 1709 non si coniano infatti nuove pezze da 5 soldi e le monete erose coniate si riducono ad alquante pezze da 1 soldo e da 2 denari, forse necessarie per la circolazione minuta; talché, quando nel 1711 i banchieri Colomba e Calcino i quali erano stati incaricati di esigere a Londra i sussidi d’Inghilterra e non aveano potuto introdurre negli Stati le monete d’oro e d’argento portate dalle tratte su Londra – proposero di pagare alle finanze i sussidi in tanti argenti da coniarsi nella zecca di Torino a loro spese, la Camera imbaldanzita voleva che si scartassero addirittura le lire e si coniassero solo scuti. Non corrispondendo infatti la lira “a causa del minor peso al proporzionato valore delle altre monete d’oro e d’argento, potrebbe la gran quantità delle medeme [lire] portare facilmente uno sbalzo et accrescimento di tutte le altre monete con alterazione del prezzo delle merci, accompagnato da tutte quelle altre pregiudiziali conseguenze che sogliono cagionare nel pubblico l’alterazione del valor delle monete, mentre che avuto il giusto ragguaglio al peso e valore della lira, la doppia dovrebbe valere L. 16.7.3%, il crosazzo L. 6.10.10, et le altre monete fine a proporzione. Riflettendo pure che la quantità già grande nel paese dell’altre monete erose o miste et altre che se ben fine non corrispondono al commercio fuori de’ Stati, non può se non essere pregiudiziale quando a questa se le aggionga una nuova quantità di simili monete ad assorbire la maggior parte della solita dote de’ Stati, verranno ad escludersi le monete più fine e massime dell’oro et ad impoverirsi sempre più il commercio e stato di quelle, il che verrebbe ad essere pregiudiciale non solo attualmente al pubblico, ma ancor in avvenire alle regie finanze. Et abenché col monetare detti argenti in scuti siasi fatto riflesso che potrebbonsi essi togliere dal commercio con la frequente fondita che ne fanno gli argentieri, il che non così riuscirebbero se fossero in lire per la perdita che ne farebbero; ciò però non ci è parso sufficiente a consigliarne la monetazione in lire; mentre che dovendosi per l’utilità del pubblico commercio sostenere le arti degli argentieri, non potrebbesi impedire ai medemi di fondere con maggior discapito le altre monete pia fine d’argento”[10]. Qui la Camera dei Conti passava in segno. Le doppie d’oro valevano, invece della parità di L. 15.15, fino a L. 16.7.3 1/4 con un aggio del 3.89%, gli scudi d’argento contenevano un valore in argento fino maggiore (del 02848%) del valore nominale e valutavansi L. 4.17.6 invece di L. 4.6.8, con un aggio dell’11.81%; cosicché il coniarne altri avrebbe voluto dire, come a ragione temevano le finanze, apprestare nuova materia di fondita per gli argentieri o nuova moneta da esportarsi all’estero. La coniazione delle monete da una lira si palesava invece opportuna, perché essendo il fino di pregio inferiore al valore nominale, non conveniva la fondita agli argentieri; e solo rimaneva il pericolo dell’esportazione all’estero, dato che le lire si trovavano in concorrenza con le pezze da 5 soldi. Poteva però darsi che essendo la coniazione delle pezze da 5 soldi stata sospesa nel 1709 ed essendo cresciuto, con l’aggregazione allo Stato di nuove e ricche provincie nel Monferrato e nella Lombardia, il bisogno di moneta erosa, la quantità delle pezze da 5 soldi a poco a poco diventasse ragionevole ed adatta ai bisogni della media circolazione, cosicché le monete da una lira avrebbero potuto da sé rientrare nella circolazione normale, come oggi succede in Italia nei rapporti fra le monete d’oro e la carta a corso forzoso.

 

 

L’opera assidua della Camera dei Conti fu efficace ad impedire che durante la guerra si abbondasse ancor più nella coniazione di moneta erosa e sopratutto ad impedire che il piede monetario venisse un’altra volta ribassato. Se noi abbiamo parlato della moneta nel capitolo dei debiti, si èperché sarebbe stato agevole per il Sovrano – e conforme alle cattive abitudini del secolo precedente e di altri Stati – emettere, ad esempio, della moneta erosa in cui il lucro o regalia fiscale non si limitasse al 10% circa, come accadeva per le pezze da 5 e da 1 soldo, ma fosse di gran lunga maggiore, ad es., del 50 per cento od anche più. Allora sì il battere moneta avrebbe significato procacciare pingui e facili entrate all’erario per il momento; ma grandissimo sarebbe stato lo scompiglio nella circolazione e in tutti i valori delle merci e dei servigi. La triste esperienza che si era fatta nella guerra del 1690/96 dell’emissione di monete erose calanti, che s’erano poi dovute smonetare, aveva persuaso i governanti della inopportunità di manipolar a loro poeta le monete, e Vittorio Amedeo così manifestava tal sua intenzione al Groppello il 10 novembre 1701: “Quanto al punto delle monete concorriamo nel vostro sentimento di non devenire per ora ad alcun augumento delle medeme”. Che se in avvenire si delibererà di aumentarle, si dovrà badare solo “al maggior beneficio dello Stato, senza attenersi all’utile delle finanze néde’ particolari”[11]. Ma non ne fu nulla. L’avversione alle falsificazioni monetarie era oramai generale in Piemonte; il conte di Vernone, ambasciatore a Parigi, avendo sentito il proposito del Principe di non aumentare le monete, in sua lettera del 14 novembre 1701 grandemente ne loda il Groppello ed aggiunge: “Alcuni banchieri che mi hanno ricercato di sapere qual corso havessero costì le monete, non cessano di lodare là risoluzione di mantenerle sul piede, che correvano avanti d’ora, dicendo che niuna cosa tanto pregiudiziale ad un Stato, et al Commercio, quanto l’alterarne il valore; qual massima ho inteso prima d’ora a spacciarsi per irrefragabile e soda in tutte le parti dove ho havuto occasione di viaggiare e di praticare persone di esperienza consommata nei maneggi politici ed economici”[12].

 

 

Dal flagello delle falsificazioni monetarie essendo stato il Piemonte preservato durante la guerra dalla saggezza dei governanti e dal controllo oculato della Camera dei Conti, il paese si trovi alla fine del nostro periodo con L. 16.096.6. di più di moneta fine d’oro e d’argento, in parte nascosta, in parte fuggita all’estero ed in parte circolante ad aggio e con L. 1.204.453.9.4 di più di moneta erosa di biglione o di rame, la quale in realtà costituiva il fondo della circolazione[13]. Era una specie di corso forzoso, in cui le lire facevano aggio sulle pezze da 5 soldi e gli scuti e le doppie sulle lire; ma non era una situazione disperata per modo che in alcuni anni di raccoglimento, di progresso economico e di cautela nelle nuove coniazioni, non ci si potesse per rimedio, riconducendo le pezze da 5 soldi al loro ufficio di complemento indispensabile della circolazione per le piccole e medie contrattazioni all’interno.

 

 

74. – Plauso non piccolo meritano i governanti per avere conservata la circolazione, se non in istato perfetto, in quella condizione mediocre che prima s’aveva, se si pensa che in certi momenti nessun’altra via di salvezza parve potesse aprirsi alle esauste finanze fuori dell’emissione di quella bruttissima maniera di moneta a corso forzoso che dicevasi allora “moneta ossidionale”. Era questa una pura moneta di rame o di altro metallo vile, alla quale attribuivasi durante l’assedio un valore nominale di gran lunga superiore all’intrinseco, facendo obbligo a tutti di accettarla, colla sola promessa del rimborso in moneta vera finito che fosse l’assedio. Prima che Vittorio Amedeo uscisse da Torino s’era tutto predisposto per l’emissione di siffatta moneta ossidionale ed era stato da lui firmato un editto con la data del 17 giugno 1706, al quale non mancavano se non le ultime formalità dell’interinazione per essere posto in atto[14].

 

 

“Per compire” o – così recitava il prologo del progettato editto – “alle continue spese cagionate da questa guerra, li molti mezzi che si sono tenuti nel corso d’essa sono abastanza noti a’ nostri ben amati Popoli. Le cause più premurose per esse, che tuttavia continuano, sono pur anche conosciute da tutti quelli che animati dal naturale zelo e valore concorrono alla diffesa della loro Patria. Noi pere non volendo in occasione sì importante far sospendere li soliti pagamenti in favore di quelli, che ci prestano le loro opere e serviggi; né potendo di presente far entrare in questa Piazza, tanto li sussidij che si ricavano dal restante de nostri Stati, che quelli ci pervengono dalle Potenze collegate in aiuto di questa guerra, ci siamo preffissi di provedere all’urgenza con un mezzo già pratticato in tutti li tempi in simili occasioni, ordinando alla nostra Zecca una battitura di monete … di puro rame, che un mese doppo immediatamente cessate le hostilità de’ nemici contro questa Città faremo rettirare nella Tesoreria nostra generale col cambio e remissione nell’istesso tempo d’altre valute d’oro, argento e moneta al corso che in tal tempo communemente haveranno nel commercio”. Le monete da coniarsi doveano essere del valore nominale di 2 1/2, 5, 10 e 20 soldi l’una e dovevano essere date in pagamento “alle Truppe et altri che in quest’assedio ci prestano loro opere e serviggij … A qual effetto ordiniamo a tutti li sudditi et habitanti in questa nostra metropoli et in particolare alli Mercanti, negotianti et artisti in essa, niuni esclusi né eccettuati, d’accettare senz’alcuna difficultàné ritardo al prezzo … stabilito qualonque delle monete di rame come sovra fabricato ne loro negotij e comercio, di qual si sia sorte e qualità, subito che loro saranno le medeme presentate et eshibite sì in pagamento che in altro modo sotto pena di scuti 50 d’oro per caduna volta a chi contraverà et in difetto di un tratto di corda quanto alli homini e rispetto alle donne della publica fustigatione; a qual effetto sotto detta pena espressamente prohibiamo ad ognuno tenente negotio o bottega aperta in questa Città di chiuder le moderne per causa del corso di dette monete, ma bensì di continuar loro negotij e trafichi con la spendita et uso di esse, che dovranno essere come sovra accettato in ognuno de medemi da farsi in questa Città, senz’alcuna, benché minima, alteratione delle merci o vettovaglie, oltre il prezzo a cui sino al giorno d’hoggi si sono comunemente vendute”. Nessuna era dimenticata delle solite minaccie ai contravventori delle leggi in materia di monete a corso forzoso: dall’ordine di accettarle in pagamento alle multe, tratti di corda e fustigazione ai renitenti, dal massimo dei prezzi all’obbligo di tenere aperte le botteghe. Ma chi oserebbe condannare il Piemonte se anche avesse ricorso all’emissione di moneta falsa durante un assedio asprissimo, quando si ha vivo il ricordo dinnanzi alla mente di emissioni di assegnati e moneta cartacea fatte da governi repubblicani e moderni in tempi forse non sempre altrettanto calamitosi? Il progetto d’editto provvedeva in seguito ad indennizzare coloro che avessero sofferto danni per causa della moneta ossidionale: “Acciò con questo non venga il commercio e particolari a sentirne pregiudicio alcuno, promettiamo in fede e parola di Principe, che un mese doppo cessato come sovra le hostilità del nemico contro questa piazza si faranno retirare nella Tesoreria generale tutte lo monete suddette col rimborso nello stesso tempo in bone valute d’oro, argento o moneta al corso che come sovra in tal tempo haveranno nel commercio; anzi, per maggiormente accertare del sicuro rimborso chiunque in seguito a questo nostro Editto havesse ritirato o ritirasse di dette monete vogliamo che elegendo di prendere pendente quest’assedio tanti capitali Tassi o Monti … debba il Patrimoniale nostro generale fargliene immediatamente la vendita et cessione alla forma di essi per la somma di dette monete, che verranno riportate nella Tesoreria generale, o pur per esse possa retirare dal Tesoriere generale una o più quittanze, per la concorrente delle medeme sovra qualsivoglia delle debiture correnti dovute dalle Comunità de nostri Stati o verso li fermieri nostri generali per quel quartiere o quartieri che elegeranno di prendere, mandando a quest’effetto al nostro Tesoriere generale di così osservare et esseguire”. Dunque rimborso in contanti alla fine dell’assedio, e rimborso immediato in tassi, luoghi di monti, assegni su tributi, ecc. Esempio questo, uno fra i molti, che le assemblee francesi nulla inventarono che non fosse già noto nella pratica finanziaria dell’antico regime quando, non potendo rimborsare gli assegnati in contanti, li fecero rimborsabili in beni nazionali. Ad assicurare ancor più i privati, seguitava l’editto: “Poiché l’uso di questo monete non deve pratticarsi che in casi di somma urgenza, come in presente, né per questo è mente nostra apporti pregiudicio alcuno sia al commercio che a particolari; perciò dichiariamo che tutti li creditori habitanti in questa Città per cause o contratti antecedenti al presente assedio non potranno essere astretti da loro debitori a prendere dette monete in pagamento de’ loro crediti sudetti; né ciò atteso questi pendente il medemo potranno osser constretti da loro creditori al pagamento de’ debiti come sovra precedentemente contratti”.

 

 

Di queste monete ossidionali meditavasi di coniarne per 200 mila lire, quando ne sorgesse il bisogno per l’assoluta impossibilità di far venire denari dal di fuori o di procacciarsene altrimenti a mutuo nella cittàassediata[15]. Per fortuna se ne poté fare a meno, grazie al patriottismo di tutte le classi della popolazione torinese. Siamo giunti ad uno degli episodi più belli della resistenza “finanziaria” opposta da Torino alle armi nemiche.

 

 

75. – Il batter moneta, che non fosse di rame, presentava nei tempi di guerra una difficoltà grande: quella di procurarsi l’oro e l’argento. Colle frontiere in balia dei nemici, col territorio paesano scorrazzato dalle soldatesche nemiche ed alleate, coi predoni che da per tutto pullulavano ad infestare le strade maestre e le vie traverse, talvolta preferite per sfuggire ad agguati, il commercio delle paste preziose rimaneva arenato, meglio si direbbe soppresso. Eppure in un tempo che non si conosceva la carta moneta e non si voleva battere moneta ossidionale di rame, se non quando ci si trovasse ridotti alle ultime estremità, era d’uopo essere provvisti di metalli nobili; e se dal di fuori non si potevano far venire, bisognava che li fornisse il paese e specialmente Torino; e se non li avevano i mercanti e gli argentieri, bisognava li traessero fuori i privati portando alla zecca gli argenti lavorati, gli ornamenti preziosi che avevano in casa, tutto ciò insomma da cui poteva trarsi materiale per la coniazione. In tempi normali, alla compra degli ori e degli argenti si provvedeva con il cambio di zecca, ossia incettando monete vecchie calanti o forastiere che venivano pagate in contanti o con il prodotto della coniazione. Ma durante il periodo dell’assedio dall’1 maggio al 31 dicembre 1706, le monete fine erano rarissime e ben poche si portavano al cambio in zecca (cfr. il conto della zecca in EINAUDI, B. e C.T. 1700/713, tabella XVIII), nulla essendosi ricevuto di oro ed appena marchi 46.2.16.14 d’argento. Poco era parimenti il metallo che s’aveva di scorta al 10 maggio: oncie 26.21.4.21 d’oro e marchi 287.9.8.16 d’argento. Nell’imminenza del rischio di restare senza monete in cassa per fare i pagamenti si divisò un rimedio audace: invitare i privati a portare i loro argenti in zecca. Era un invito che teneva del comando, ma che non poteva essere obbedito senza un concorso spontaneo dei cittadini.

 

 

Ecco le parole dell’editto del 6 maggio 1706[16]: “Siamo intieramente persuasi che, ove al desiderio fossero corrispondenti le forze e facoltà di ciascheduno, molto maggiore sarebbe il concorso di quelli che facendo acquisto di Tassi o Monti … ci portarebbero con loro doppio vantaggio una parte di quel soccorso che nella continuatione di queste gravissime spese della guerra ci resta indispensabilmente necessario; e volendo Noi facilitare il commodo ancora a quelli che non hanno il contante, di conseguirne in altra equivalente maniera l’effetto, habbiamo stimato non puotersi ritrovar mezzo più proprio né più pronto che quello di far accettare in Zecca tutti li argenti tanto lavorati che altri, quali da chi che sia vi saranno portati per monetare, et accordando per essi un prezzo con qualche profitto alli proprietari, farli seguire in pagamento e soddisfazione d’essi l’alienatione e vendita di tanti de’ sudetti Monti o Tassi a loro elezione. E come con quest’apertura di tanta facilità e vantaggio possono tutti universalmente accoppiare al loro particolar interesse e profitto il bene e soccorso del Publico, con solo spropriarsi in tempi di così notoria angustia d’un mobile a tutti infruttuoso et ad alcuni eziandio soverchio, per impiegarlo in stabile, niente soggetto a’ pericoli e con maggior loro utile; perciò vogliamo persuaderci che tutti generalmente li particolari e persone che avranno simili argenti tanto in piccola che grande quantità e fra questi particolarmente le persone medesime, Corpi et Università più privileggiate, come regolarmente le più Savie e Zelanti del servizio commune, vorranno senza perdita di tempo dare a Noi questo giusto attestato di distinzione del loro zelo, a sé stessi questo vantaggio et alla necessità publica e difesa de’ Stati questo necessario aiuto. Quindi è donque che per le presenti, col parere del nostro Conseglio invitiamo tutti li proprietarij e possessori d’argenti lavorati et altri, di quelli portare nella nostra Zecca e nelle mani dell’Economo d’essa Gerolamo Lodovico Porta, cominciando l’indomani della pubblicazione di questo e continuando successivameute fino a novo ordine, al quale comandiamo di dover con ogni buona fede pagare a’ medesimi il prezzo e valore di detti argenti nel modo seguente”. Il prezzo era fissato in L. 5.2.6 per oncia di argento del titolo di denari 11, il che corrispondeva a L. 5.11.9.9 per oncia d’argento puro a 1000 millesimi, prezzo d’alquanto superiore a quello di L. 5.6.8 che solitamente si pagava per l’argento in barre. Si noti però che la differenza di soldi 5.1.9 per oncia doveva compensare il pregio della fattura degli argenti, che poteva anche essere squisita. Il pagamento degli argenti si doveva fare in biglietti tratti sovra il tesoriere generale Aymo Ferrero, il quale dovea cambiarli con tassi o luoghi di monte a scelta dell’acquisitore.

 

 

Le speranze che il Sovrano avea riposto nell’amore dei sudditi al proprio paese non andarono deluse. Da ogni parte, giorno per giorno fino all’ultimo del memorando assedio, nobili, magistrati, borghesi, enti morali, corpi ecclesiastici, corporazioni artigiane, andarono a gara nel disfarsi del vasellame e degli oggetti più cari e preziosi. L’esempio fu dato dal Principe, il quale ordina che la “vassella” della sua casa fosse recata alla zecca. Madama Reale donò 4 torchieri con 4 vasi e brassi d’argento; dalla cappella della Santissima Sindone furono tratti 4 lampadari del peso di marchi 350.18.1.3. In tutto, coi marchi 2391.5.19.15 del Duca e di Madama Reale, furono marchi 2741.7.13.18 d’argento puro per un valore di L. 109.677.17.6 che dai palazzi e cappelle reali furono tratti per batter moneta. Né per questi argenti si pretesero tassi o monti in pagamento. I privati seguirono e taluni precedereno l’esempio che veniva dall’alto. I carmelitani scalzi di Torino, forse immaginando che s’avesse bisogno di coniare anche monete d’oro, portarono un pettine d’oro del peso di oncie 94 d’oro in lega e 82.6 d’oro puro del valore di L. 6168.15. Quanto a coloro che recarono argenti sembra a noi prezzo dell’opera scriverne qui il nome[17], perché si veda chi fossero e da quali classi della popolazione tratti colore che si spogliavano in simili frangenti di oggetti indubbiamente preziosi, per il valore intrinseco e per ricordi famigliari. Vero è che quegli argenti erano investiti all’interesse del 6 per cento; ma noi sappiamo quanta fatica si durasse in quel torno a vendere tassi o luoghi di monte e come fosse diventate caro il denaro.

 

 

 

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tab 3 p 12 ss

 

 

 

Così i cittadini torinesi, dal Sovrano all’alta nobiltà, dalla magistratura al clero, dai mercanti allo corporazioni d’argentieri portarono in zecca: marchi 9.228.5.1.19, corrispondenti a chilogrammi 2269 e grammi 284 d’argento per un valore di lire piemontesi 400.833.14.11, corrispondenti a lire italiane 501.926,65[18]. Magnifico sforzo per quei tempi, il quale durò dall’11 maggio al 7 settembre, dalla prima apparizione dei Gallispani sotto le mura della città fino al giorno della liberazione. Grazie allo slancio dei torinesi è stato così possibile di risparmiare al Piemonte i danni inevitabili della moneta ossidionale. Con gli argenti portati in zecca, con il poco argento che rimaneva in fondo al 1 maggio e con 15.669 marchi di rame levato da armi e cannoni vecchi che giacevano all’arsenale fu possibile coniare 435.43 lire e 10 soldi in pezze da 5 soldi e pagare in quella maniera fino all’ultimo la soldatesca.


[1]Pei ragguagli monetari ci siamo attenuti all’opera di Domenico Promis, Monte dei Reali di Savoia, vol. I. Documenti. Serie II. Variazioni subite da differenti specie di monete. I calcoli che saranno fatti in seguito si basano su questa fonte reputatissima e, per quanto a noi costa, diligentissima. Non ci nascondiamo però che la storia della monetazione in Piemonte, specie in rapporto alle variazioni di valore della moneta, sarebbero da rifare tutta e richiederebbe da sola l’opera assidua di anni di ricercatori pazienti. Ricordisi che il marco si divide in 8 oncie, l’oncia in 24 denari, il denaro in 24 grani e il grano in 24 granotti.

[2]Cfr. sotto p. 73.

[3]Talvolta lo Stato, ad incoraggiare i privati a far coniare monete buone d’argento, concorreva nelle spese, e per risarcirsi della perdita coniava monete da 5 soldi; espediente che non Poteva non aggravare il male della eccessiva abbondanza della moneta erosa. Cfr. D. XX. 1247 e 1251.

[4]Siccome la lira era la unità monetaria e poteva essere per parecchie ragioni importante conoscere il rapporto in peso d’argento tra la lira piemontese d’allora e la lira italiana di adesso, così riproduciamo qui sotto i calcoli necessari per ottenere questo rapporto:

 

 

Peso dell’argento fino contenuto in una lira piemontese = Marchi 0.0.4.9.14 2/5
Marco = chilogrammi 0.245896;
Peso dell’argento fino contenuto in una lira Piemontese = grammi 5.6351;
Peso dell’argento fino contenuto in una lira italiana attuale (assumendo come lira non la moneta divisionaria coniata con tal nome, ma la quinta parte dello scudo d’argento al titolo di 900% = Grammi 4.5.

 

 

Di qui la proporzione:1 lira italiana attuale:grammi 4.5 = x : grammi 5.6351

 

 

dove x è l’equivalente in argento fino della lira italiana attuale alla lira Piemontese.E quindi la lira piemontese risulta uguale a lire italiane 1.252244. Il soldo (non il soldo realmente coniato dalla zecca piemontese, ma la ventesima parte ideale della lira) era perciò uguale a L. 0.0626122 e il denaro (dodicesima parte ideale del soldo di lira) a L. 0.00521768. Le cose che son dette nel testo dimostrano perché qui si dia l’equivalente del soldo e del denaro come parti ideali della lira e non come monete reali coniate. E sono in sostanza le stesse per cui ora si dice che il soldo attuale vale 5 centesimi, non perché questo sia il valore intrinseco del rame, ma perché il soldo coniato si cambia in quella proporzione con le monete d’argento e d’oro di cui esso è parte ideale.

[5]I calcoli sono istituiti sul “Conto demonstrativo alle Regie finanze rifferto hoggi all’Eccellentissimo Magistrato lì 15 aprile 1709 che si legge in D. XX. 1258.

[6]La proporzione citata nel testo risulta da un conto presentato alla Camera nel 1711 dal patrimoniale generale Fecia di Cossato. A.S.F. seconda a., Capo 48. Registro Pareri e Decreti, 1. 5, pag. 148.

[7]A.S.C. Inv. Gen. Art. 672, p. 2. Pareri camerali, n. 45, pag. 5.

[8]A.S.C. Sessioni camerali. Registro 1700 in 1702, sotto lì 22 gennaio 1701 e D. XX. 1246.

[9]A.S.C. Inv. Gen. Art. 672, p. 2. Pareri camerali, n. 48, pag. 2.

[10]A.S.C. Pareri camerali, n. 45, pag. 35, sulla quistione Colomba e Calcino. Cfr. pure D. XX. 729 e segg. Si finì di coniare L. 114.940 in lire e doppie lire, e L. 45.439.6.8 in scuti.

[11]A.S.F., seconda a., Capo 68. R. Viglietti, n. 168, R.B. dal campo di Urago del 10 novembre 1711.

[12]A.S.F. seconda a., Capo 67. Lettere diverse, n. 663.

[13]La preferenza data alla coniazione delle monete erose dipende da ciò che con esse il fisco lucrava circa il 10% di differenza fra il costo ed il valore nominale della moneta. Siccome però la zecca doveva provvedere a coniazioni passive di monete fine – come le doppie, gli scudi ed anche le lire – così in parte il lucro era assorbito dalla zecca stessa ed alla tesoreria generale andavano a titolo di signoraggio nel nostro periodo soltanto le somme seguenti:

 

 

Dall’1 dicembre 1697 al 16 febbraio 1701

L. 13.427

Dall’1 maggio 1706 al 31 dicembre 1706

” 28.912

1710

” 10.000

Lire 62.339

 

 

Per somma così meschina non valeva davvero la pena di inondare il paese di monete cattive, come le pezze da 6 soldi; ed è probabile che vi si sarebbe rinunciato se oramai la circolazione non fosse stata già pervertita in modo da richiedere per risanarla il ritiro di una ingentissima quantità di moneta erosa. A tanto non era preparato l’erario in quegli anni di guerra, né ragionevolmente si può pretendere che nel 1701/713 si iniziasse una grande riforma monetaria, che provvedesse a stabilire anche rapporti legali migliori fra le diverse specie di moneta. La riforma venne di poi; ma non entra nel quadro cronologico del nostro studio discorrerne.

[14]Cfr. A.S.F. seconda a. Capo 58, n. 3, Registro Generale Finanze di Discarichi, Ordini, Patenti, ecc., dal 31 gennaio 1701 all’8 marzo 1709, sotto lì 17 giugno 1706; ed A.S.F. seconda a., Capo 58. R. Viglietti, n. 155, pag. 430. Questa seconda è la copia originale, munita della firma di Vittorio Amedeo, del visto del gran cancelliere De Bellegarde, del generale delle finanze Groppello, del Comoto, figlio e sostituto del controllore generale, e del primo segretario di Stato De S. Thomas. Il documento, importante rer la storia delle monete piemontesi, fu pubblicato per la prima volta in Relazione e documenti dell’assedio di Torino del 1706, raccolti, pubblicati, annotati da Antonio Manno. Appendice XI. Provvedimenti finanziari, pag. 566/65. (Miscellanea di storia italiana edita per cura della R. Deputazione di Storia Patria. Tomo XVII, Torino 1878).

[15]Rilevasi dalla memoria istruttiva già citata (A.S.F. prima a. Finanze, Intendenze e loro Segreterie M. 1, n. 7), lasciata dal Groppello durante la sua assenza al suo sostituto intendento Fontana, cho tutto era pronto per la battitura, l’editto da spedire ed interinare, le divise ed i motti da stamparsi sulle monete, ecc.

[16]A.S.C. Ordini, n. 127, anno 1705/1706, pag. 23.

[17]Riportandolo da A.S.C. Inv. gen. Art. 858, Catalogo speciale n. 17. Zecca e monete. Categoria quarta. D. Libri mastri della zecca di Torino, M. 4, 11, 1701 in 1706.

[18]Il ragguaglio sempre fatto tra i pesi d’argento fino della lira piemontese ed italiana. Il chilogrammo d’argento al titolo di 1000 millesimi si pagava quindi lire italiane 221,18.

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