Opera Omnia Luigi Einaudi

I problemi tecnici dei nuovi provvedimenti tributari

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/09/1915

I problemi tecnici dei nuovi provvedimenti tributari

«Corriere della Sera», 22 settembre 1915[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 248-253

 

 

I provvedimenti finanziari sanciti col decreto del 15 settembre sono inspirati, come osservò già su queste colonne Luigi Luzzatti, al lodevole concetto che occorra, mentre dura la guerra, aumentare le imposte almeno per quella somma annua, la quale equivalga all’interesse sui debiti pubblici nuovamente creati per la condotta della guerra. Compensare il cresciuto onere degli interessi per i debiti di guerra: ecco il minimo sacrificio che si deve oggi chiedere ai contribuenti. In Inghilterra ed in Russia, due paesi i quali, sotto certi rispetti, danno il più bell’esempio di condotta finanziaria della guerra, si chiede all’imposta assai di più: anche una parte delle spese correnti. In Germania, in Austria ed in Francia non si chiede nulla. Contentiamoci, noi italiani, di stare in mezzo a questi due estremi: chiedere all’imposta almeno il necessario per coprire l’onere degli interessi cresciuti è atto onesto, coraggioso, patriottico.

 

 

I mezzi a cui, per ora, il governo ricorre si possono dividere in temporanei, permanenti e riparatori.

 

 

È un mezzo «temporaneo» la istituzione di una tassa sulle concessioni di esportazione. In tempi normali, una simile tassa non avrebbe ragione di esistere, perché l’esportazione è libera, ed un dazio sulla esportazione non è ammissibile, perché dannoso alle industrie del paese e fiscalmente improduttivo; e come tale fu abbandonato in tutti i paesi moderni.

 

 

Finché dura la guerra però, le esportazioni sono spesso proibite per ragione di stato; e le licenze di esportare sono una eccezione al divieto generale stabilito per talune merci. Si deve perciò presumere che coloro, a cui viene data una licenza particolare di esportazione, conseguano un guadagno eccezionale, ottenuto grazie al favore governativo; e si può ammettere che, con una tassa speciale, lo stato partecipi al lucro del privato esportatore. Spero che, praticamente, dalla istituzione di questa tassa consegua un effetto contrario a quello derivante dai dazi di esportazione in tempi di pace. Questi, limitando le quantità esportate, danneggiano le industrie paesane ed il paese. Le tasse di licenza è presumibile incoraggeranno il governo a concedere più facili licenze di esportare, allo scopo di non privare l’erario del relativo introito. E poiché la tassa di licenza è lieve e per se stessa incapace di frenare, in un momento di lucri superiori al normale per gli esportatori, le esportazioni, così è augurabile che essa abbia la virtù di togliere spesso l’ostacolo dei divieti alle esportazioni. Ho già dimostrato come l’Italia abbia interesse, ogni qualvolta non vi ostino ragioni di difesa e di offesa nazionale, a crescere le esportazioni verso paesi amici e persino verso paesi nemici. È chiaro però che l’istituto della tassa di licenza è temporaneo. Finita la guerra, saranno aboliti i divieti di esportazione e cadranno le licenze e le relative tasse.

 

 

«Permanenti» sono invece parecchi altri inasprimenti tributari:

 

 

  • l’aumento del prezzo di vendita di parecchie qualità di tabacchi, sigari e sigarette. L’imposta sui tabacchi è la meravigliosa, l’ottima fra le imposte italiane. Fa pagare a quelli che vogliono spendere; colpisce chi volentieri manda in fumo la propria ricchezza; si connette con uno stato di mente soddisfatto e vaporoso del contribuente. I legislatori non si sono stancati mai di chiedere al balzello sui tabacchi; e questo non si è mai stancato di dare. Ancor dopo gli ultimi inasprimenti, l’esercizio 1914-15 dava 376,3 milioni di gettito contro 348,7 nel 1913-14 e 331,9 nel 1912-13. Il mese di luglio 1915 dava 37,4 milioni contro 29 nel luglio 1914; e l’agosto 1915 ben 74,8 milioni contro 62,2 nell’agosto 1914. Questa sui tabacchi è davvero una mirabile imposta! Più si aumenta il prezzo dei tabacchi e più il consumo sale. Sia lode perciò al ministro delle finanze, on. Daneo, di averla prediletta ancora in questa occasione. Egli forse ha seminato più per gli anni venturi che per il presente, in cui l’aumento di prezzo provocherà una diminuzione temporanea di consumo. Ma gli interessi dei debiti è necessario siano coperti anche negli anni venturi; ed in questo primo anno l’aumento di prezzo può giovare alla campagna per l’economia, che è una necessità privata e pubblica nel tempo stesso;

 

  • poiché l’imposta di lire 8 sugli oli minerali esteri e nazionali non colpisce il petrolio per uso di illuminazione, non si può elevare contro di essa l’obiezione di colpire un consumo di prima necessità. Essa ha invece per oggetto un combustibile industriale e sovratutto le benzine usate dai proprietari di automobili. Non è davvero il caso di impietosirsi oltre misura sul rincaro di uno degli elementi del costo di un consumo di lusso, che in tempi di guerra è utile frenare;

 

  • al medesimo concetto di reprimere consumi ritenuti superflui o persino dannosi si inspira l’inasprimento delle imposte sulla birra e sugli spiriti. Rispetto ai quali ultimi, il decreto vuole altresì raggiungere un fine utilissimo: limitare e gradualmente far scomparire quei premi di esportazione e di denaturazione, e quegli abbuoni per calo che furono sempre il flagello del tributo e ne scemarono in passato grandemente il reddito. L’ideale a cui si dovrebbe tendere sarebbe l’imposta uniforme nella misura di 350 lire per tutte le qualità di spirito, comunque e con qualsiasi materia prima prodotte, senza alcun abbuono e premio di alcuna specie. Solo allora il tributo sugli spiriti, che gareggia in bontà con quello sui tabacchi, potrà dare un soddisfacente gettito al fisco. Il presente decreto è un avviamento all’ideale; e perciò merita di rimanere. Specialmente è lodevole la soppressione del diritto speciale di favore concesso agli spiriti della Sardegna. In origine i favori avevano per effetto di incoraggiare la viticoltura sarda; col tempo essi trasformarono, purtroppo, la Sardegna in un laboratorio di ricettazione di vini siciliani, meridionali e persino forestieri, i quali, reimportati sul continente, frodavano il fisco, con grave danno dell’erario. La Sardegna in sostanza non sarà danneggiata dall’estensione del regime normale al suo territorio e trarrà vantaggio notevole dalla concessione di un milione di lire alle sue casse ademprivili ed al suo miglioramento agrario.

 

 

«Riparatore» si può infine chiamare l’aumento di 5 lire alla tassa interna sulla fabbricazione dello zucchero. L’attuale regime fiscale dello zucchero è il seguente (in lire per quintale):

 

 

Dazio doganale sullo zucchero estero

Imposta di fabbricazione sullo zucchero interno

Dal primo luglio 1915

Dal primo luglio 1916

Zucchero di prima classe

99

75,15

76,15

Zucchero di seconda classe

88

72,20

73,20

 

 

Con la modificazione ora apportata, si avranno le seguenti variazioni:

 

 

Dazio doganale sullo zucchero estero

Imposta e sovratassa di fabbricazione sullo zucchero interno

Dal primo luglio 1915

Dal primo luglio 1916

Zucchero di prima classe

99

80,15

81,15

Zucchero di seconda classe

88

77,20

78,20

 

 

È chiaro che la protezione concessa ai fabbricanti interni – uguale alla differenza fra il dazio doganale sullo zucchero estero e l’imposta sullo zucchero interno – viene dal decreto diminuita di 5 lire e precisamente (in lire per quintale):

 

 

Esercizio 1915-16 In seguito
Per lo zucchero di prima classe da 23,85 a 18,85 da 22,85 a 17,85
Per lo zucchero di seconda classe da 15,80 a 10,80 da 14,80 a 9,80

 

 

Per chi ha desiderato da anni il provvedimento riparatore di una diminuzione nella eccessiva ed ingiusta protezione doganale concessa all’industria dello zucchero, deve essere argomento di soddisfazione che si sia colto il momento della guerra per ridurre di 5 lire quella protezione. Sarebbe stato desiderabile che la riduzione avesse avuto luogo all’ingiù, ossia grazie ad un ribasso del dazio doganale, invece che all’insù, con un aumento dell’imposta interna di fabbricazione. Ma, anche così congegnato, il provvedimento è giustamente riparatore perché fa fluire nelle casse dell’erario ciò che costituiva un ingiusto profitto dei fabbricanti.

 

 

Appunto perciò, la sovratassa di 5 lire non deve essere un pretesto per aumentare il prezzo dello zucchero. Questo deve rimanere invariato, poiché l’imposta nuova non ha per iscopo di colpire i consumatori, bensì di ridurre la protezione concessa ai fabbricanti. Se il prezzo dello zucchero aumentasse, il governo avrebbe ragione e dovere di usare dei legittimi mezzi di difesa che gli appartengono, come il rifiuto assoluto della licenza di esportare o la riduzione ulteriore della protezione sino a quel massimo di lire 6 e 5,50 che un tempo era stato fissato dalla convenzione di Bruxelles. Lo zucchero è una delle poche merci che dopo lo scoppio della guerra europea non siano cresciute di prezzo. Il merito di ciò spetta al governo, il quale fece, del mantenimento del prezzo antico, la condizione per concedere licenza di esportare. Altrettanto dovrebbe farsi di nuovo oggi. Ove non basti si può ricorrere ad un ribasso del dazio doganale; e dovrebbe il ribasso avere carattere permanente. Le protezioni doganali, da coloro che le chiedono, sono giustificate colla necessità di provvedere al fabbisogno interno appunto in tempi di guerra, di crisi di rincaro all’estero. Se, quando giungono i tempi cattivi, i prezzi all’interno rialzano, a che cosa ha giovato la protezione? Se il governo userà di questa duplice minaccia – diniego delle licenze di esportare e ribasso, con carattere permanente, del dazio di frontiera – il prezzo dello zucchero, che già è rialzato al semplice annuncio del decreto, dovrà ritornare al suo livello primitivo.

 

 

E con ciò l’esame dei provvedimenti finanziari è concluso. Ma è chiaro che ai provvedimenti medesimi è desiderato, anzi necessario un seguito. Con questi e coi precedenti inasprimenti, il governo ha percorso tutta la gamma delle imposte vigenti: decimi sulle imposte dirette e sulle tasse sugli affari; aumenti e correzioni delle migliori imposte sui consumi meno necessari. Ciò che si è fatto è molto; ma non si è fatto tutto. Altre imposte e non lievi saranno necessarie in un prossimo avvenire per equilibrare il bilancio. Non è escluso che qualcosa possa ancora essere richiesto a ritocchi dei tributi vigenti. Ma questi sono oramai così rappezzati che ben poco più di qualche cinquantina di milioni potranno dare.

 

 

Oramai s’impone il coronamento dell’opera di cinquant’anni di elaborazione tributaria. Noi abbiamo un sistema tributario che, tutto sommato, non è peggiore di parecchi stranieri ed è migliore, ad esempio, di quello francese. Ma è incoerente, lontano dalle sue chiare e belle origini, ridotto in frantumi dalle incrostazioni di 50 anni di ritocchi. Occorre ricondurlo alle origini sue: e, con i tempi mutati, la riforma non può essere operata se non sotto la pressione di una imposta complementare sul reddito. Dico «complementare» perché i redditi, a differenza di quanto tuttora accade in Francia, sono da noi direttamente accertati e tassati con le tre imposte sui redditi dei terreni, dei fabbricati e della ricchezza mobiliare. L’istituzione di una imposta complementare sul reddito complessivo – finora tassato nelle sue parti separate – del contribuente è augurabile non tanto per se stessa quanto sovratutto per raggiungere un accertamento migliore dei redditi soggetti alle tre imposte dirette. Se fosse fine a se stessa, l’imposta sul reddito equivarrebbe suppergiù all’istituzione di qualche decimo nuovo. Essa deve invece essere il lievito che rinnoverà l’assetto delle imposte esistenti. Attraverso ad essa, si esprimerà la rinnovata coscienza italiana, che è anche una coscienza più alta del dovere tributario. Perciò io saluto l’avvento prossimo della imposta complementare sul reddito.

 

 



[1] Con il titolo I problemi tecnici dei nuovi provvedimenti tributari. La necessità dei nuovi tributi. [ndr]

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