Opera Omnia Luigi Einaudi

I progetti di entrate straordinarie di guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1908

I progetti di entrate straordinarie di guerra

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 119-140

 

 

 

32. Dopo lo studio dei tributi ordinari in tempo di pace, l’esame dei mezzi straordinari impiegati a condurre la guerra: ecco il tema del nostro discorso, ora che sappiamo quale fosse l’ordinamento finanziario su cui si reggeva solitamente lo Stato. Sono le due faccie del problema: come si condusse duecento anni fa la guerra in Piemonte contro la prepotenza e la strapotenza straniera?

 

 

Prima si ponga un altro quesito: come intendevano i contemporanei procacciare i mezzi per la guerra? Oggi Parlamento e giornali sono la fucina dei progetti per crescere le entrate nei casi di necessità gravissime: alla tribuna parlamentare e sulla stampa si discutono i metodi e le proposte dei governanti, sottoponendoli ad una critica minuta, partigiana forse, qua indispensabile in un regime di libera discussione allora i giornali non esistevano, ne s’interrogavano i sudditi per chiederne il consenso alle nuove imposizioni, salvo ché nel Ducato d’Aosta; unica volontà era quella del Monarca, consigliato da suoi ministri. Errerebbe, e gravemente, chi da ciò opinasse non esistere in quei tempi opinione pubblica e non nascere mai quistioni intorno al miglior modo di provvedere alle necessità finanziarie dello Stato. Chiunque legga i lunghi, verbosi proemi degli editti tributari, specie dì quelli che facevano appello allo spirito di sacrificio dei popoli, rimane persuaso che Principe e ministri mettevano somma cura nel non urtar troppo l’opinione dei sudditi e si sforzavan di persuaderli in ogni miglior maniera da essi conosciuta. Chi rifletta poi che i mezzi di sostener la guerra poco variavano e che mai si sarebbero i governanti attentati di ricorrere a metodi che allora si considerassero illeciti, conchiuder che la potestà di imporre tributi non era per veruna guisa assoluta, e che limiti non scritti nelle costituzioni, ma saldamente vivaci nelle consuetudini, frapponevano ostacoli insormontabili al disfrenarsi della tassazione, ostacoli forse maggiori che nell’epoca nostra, nella quale vedemmo in piena pace rialzate a più riprese le tariffe dei tributi sui consumi, mentre, pur nei tempi peggiori di guerra, tal pensiero non sarebbe’ certo stato accolto dai ministri piemontesi, malgrado non mancassero a ciò i consiglieri[1].

 

 

Una prova chiarissima della forza dell’opinione pubblica si ha nel numero non piccolo di “consiglieri” richiesti e spontanei della Corona in materia della finanza. Invece che articoli di giornali si scrivean memorie dirette al Sovrano; e se non si pronunciavano discorsi in Parlamento, si richiedevano pareri ai magistrati e funzionari più autorevoli, e questi pareri si sottoponevano ad attenta critica in “congresso” che sarebbero le odierne “commissioni” governative. Di due sorta erano i “consiglieri” finanziaridel tempo: magistrati e funzionari che per ragion d’ufficio esponevano il loro avviso su materie di pubblico interesse e “progettisti” privati. Questi ultimi o eran gente che s’interessava spontaneamente alla prosperità del paese, o eran candidati a qualche impiego, i quali volevano dimostrare la loro perizia nelle faccende di Stato con memorie manoscritte, come or si farebbe con gli esami sostenuti ed i titoli presentati in occasione di pubblico concorso, o eran piùsemplicemente faccendieri che s’industriavano a proporre al Principe qualche nuova maniera di far danari, nella speranza di ottenerne l’appalto, se si trattava di gabella o di avere almeno una parte dei profitti sperabili dal nuovo balzello. Negli archivi pubblici si conserva buon numero di cotali progetti e memorie; ed importa farne cenno perché dimostrano qual giudizio allora si desse dei metodi tributari invalsi, e in quale direzione l’opinione pubblica o, se si vuoi parlare più esattamente – come dovrebbe farsi del resto anche pei nostri giorni, senza lasciarsi intontire dal rumore sollevato da quelli i quali intendono rappresentare l’opinione del pubblico inconsapevole – l’opinione dei pochi interessati alla cosa pubblica spingesse i governanti.

 

 

33.- Ben disgraziati sarebbero stati, tutte le volte che scoppiava una guerra, i popoli se Principe e ministri avessero dato ascolto ai progettisti che d’ogni lato spuntavan a consigliare balzelli mai più veduti o maniere subdole di accattar denari a prestito o fallimenti schiettamente confessati, ovvero accortamente nascosti. Pochissimi, consigliavano di sparagnare in tempo di pace per tenersi pronti alla guerra; fra questi pochissimi un Giovan Francesco Margherio[2] istituiva un paragone fra quattro “ripieghi per trovar denari in simil urgenze”. Il primo ripiego è per via di piatto o sia appuntamento di denaro forestiere”, il che sembra voler significare sussidi di stranieri alleati. Ad adottarlo inducono l’esempio dei principi stranieri, che l’hanno praticato e tuttodì lo praticano e l’utilità di introdur denaro forestiere nel Paese”. Secondo mezzo è di mettere nuove imposizioni sopra il Paese ma lo scrittore umilmente consiglia al Principe di non farne nulla per ora, essendo i popoli già molto caricati”. Terzo sistema sarebbe l’impegnare od alienare i redditi demaniaii, ossia far prestiti garantiti sulle entrate fiscali; ma metodo pericoloso quantunque sia praticabile, come si è stillato in altre urgenze, ne’ quali si è esatta da’ particolari grossa somma di contanti, mediante l’annuo provento di 5%”, perché si deve riflettere all’obbligo indispensabile della restituzione di tal denaro”. Non dovrebbe per ciò il Principe mai “devenire a questo ripiego salvo in difetto di tutti gli altri mezzi”. L’ultimo mezzo “qual è il risparmio possibile da farsi in tempo di pace deve essere a preferenza di tutti gli altri abbracciato”. Risparmiare dovrebbe essere possibile al Duca di Savoia, che ha un’entrata media ogni anno di sette milioni e mezzo di lire, se risparmiamo il Gran Duca di Toscana con non più di 4 milioni ed il Duca di Parma con 3 milioni. Se si risparmiasse anche solo un mezzo milione di lire all’anno, risecando qua e là sopra diversi articoli di spesa”, si potrebbe nel giro di pochi anni metter insieme il contante per qualsivoglia urgenza senza valersi degli altri mezzi e senza scemare il decoro e lustro della Magnificenza di questa Real Casa”.

 

 

Il Margherio esagerava certamente nell’affermare che un risparmio di mezzo milione di lire all’anno avrebbe evitato la necessità di ricorrere a nuovi tributi, a Prestiti od sussidi stranieri. Previdente per indole propria, Vittorio Amedeo II era riuscito bensì a collocare al principio del 1703 nella sua “Cassa ferrata ed indorata nominata il Coffano forte” una somma, grossa per allora, di lire 1.659.111.18.9.2 (EINAUDI, B. e C. T. 1700-713, pag. 25). Ma che valeva questo tesoro di fronte alle decine e decine di milioni che doveva costare la guerra imminente?

 

 

Altri s’industriava a suggerire accorgimenti per togliere le frodi ed i contrabbandi che sminuivano il prodotto de’ tributi e delle gabelle. L’anonimo che scrisse un “Discorso” su parecchi argomenti disparati[3], si occupa anche del contrabbando ed accusa i corridori mantenuti dal fisco per andare a caccia dei contrabbandieri, di essere manutengoli di questi e infesti al commercio ed alle finanze nello stesso tempo. Basta che gli sfrozadori di professo sappiano qual sia il Capitano di una delle squadre [de’ Corridori] per marciar sicuri dall’invasione di quella, perché capparrato il Capo, dovendo passar gli sfrozadori per una strada quello manderà li Corridori più miglia discosti in un altra… Per render necessario il lor mestiere e palliare le solite trappole, e stratagemmi, faran preda di tant’in quando di qualche poveraccio, ma ciò ne seguirà più per inganno, che profession di delitto”. Infestissimi ai sudditi son costoro, perché mentre stanno in agguato… più per osservar se passino negotianti che sfrosadori, se per disgrazia ne adocchiano alcuno mal accompagnate se gl’affaccian altretanti, e gli fanno la perquisition addosso di tutt’altro che di sale e tabacco e se poi s’avvedono dell’importuno arrivo di altri viandanti si spacciano per corridori et obligati a visitar i Passeggeri, ma potendola passar sconosciuti gli piglian ciò che gli piace, et il latrocinio vien addossato a qualche bandito o disertore o pure ad altri che vengono subito suggeriti dall’industria d’essi malviventi o de’ loro compagni”. L’anonimo propone di sostituire a cosiffatta ciurmaglia” mille de’ quali voltando il ventre al sole costano più di 4000 soldati d’ordinanza precisamente questi ultimi, i quali potrebbero molto più efficacemente fare il servizio con un piccolo supplemento di paga. In un subito si vedrebbero cessar moltissimi sfrosi et abusi al presente confidentemente commessi, atteso che li principali Professori di quelli non sapendo con chi intendersi non s’arrischiarebbero a cimentar sé stessi con le loro bestie e bagagli all’improvvise sorprese et arresti”.

 

 

Le norme contabili per il maneggio del pubblico denaro davan luogo talvolta a lungaggini procedurali per la resa dei conti ed a perdite pel fisco. Lo scrittore di una memoria[4] vorrebbe che i contabili dovessero entro tre mesi dalla chiusura dell’esercizio rendere i loro conti, e che in questi si badasse soltanto ai pagamenti effettivi e non agli assegni a favore di creditori pubblici di questo o quel reddito inesatto di corona. Pena dei quadruplo a chi avendo ricevuto il denaro per pagare, non avesse pagato. Non possano gli eredi dei contabili accettare l’erediti con beneficio d’inventario; ma debbano o rinunciarvi od accettarla puramente e semplicemente.

 

 

Il metodo frequentemente seguito di non pagare certi creditori dello Stato con denaro contante, ma con assegni di tasso, era da parecchi criticato. La tesoreria generale usava, ad es., assegnare all’impresario delle caserme ed ai soldati di giustizia i tassi di alcune comunità del Piemonte; e siccome nell’esazione scapitavano, dovea assegnare somme di tasso maggiori dell’ammontar dei loro crediti. Si proponeva che impresario e soldati fossero pagati direttamente dal tesoriere generale, e quei tassi, che di solito erano i più difficili ad esigersi, si assegnassero a pensionati ed impiegati al valor nominale. Il modo accorto di non pagare le pensioni promesse poteva scusarsi solo pensando che le pensioni erano spesso date per liberalità del Principe[5]. Sullo stesso argomento ritornava in una memoria del 9 gennaio 1702 Carlo Antonio Reinaldo[6] lamentando che l’assegnar i tassi ai creditori pubblici (alienatari del tasso, impiegati, fornitori, ecc.), invece di esigerli per conto della tesoreria generale e col ricavato pagare i creditori, facesse perdere alle finanze la ritenuta del 5% solita a farsi sui pagamenti in contanti, invece che in assegni, opprimesse i popoli che si vedevano malmenati da parecchi assignatari invece che dal solo fisco[7], e privasse la tesoreria della disponibilità temporanea del contante. Ma i ministri, a cui le critiche del Reinaldo erano state sottoposte, non vi si acquietavano. Innanzi tutto la ritenuta del 5% non si faceva su tatti i pagamenti della tesoreria generale. Dia su alcuni pochi soltanto, diguisaché il vantaggio delle finanze sarebbe stato lieve. Quanto alle spese di esazione accollate alle comunità per il gran numero di assegnatari, èdubbio se le cose andrebbero meglio se il tasso fosse esatto dal tesoriere generale. Già vi sarebbe concorrenza fra il tesoriere generale e quello di milizia, il quale avea il diritto di esigere una parte del tasso; e le comunità avrebbero dovuto pagare doppia squadra di soldati e di commissari. Inoltre gli assegnatari sovente sono anche registranti nella località medesima dove dovrebbero esigere il tasso, ed allora bastano poche scritturazioni per addebitare alla stessa persona l’assegno ed accreditarlo del tasso, senza bisogno di far girare il contante. Né gli esattori si assumerebbero gratuitamente il rischio di portare il denaro del tasso a Torino, diguisaché le spese di esazione per un altro verso sarebbero cresciute. Il solo argomento valido è il terzo, ossia l’opportunità di far versare tutto il tasso in tesoreria generale affinché le finanze possano giovarsene in caso di urgenza, rinviando il pagamento dei creditori che ora s’usano soddisfare con assegni. E qui si potrebbe adottare il ripiego di spedir gli assegni in due volte, il primo alla fin di luglio ed il secondo in fin d’anno, cosicché sopravvenendo una qualsiasi necessità, la tesoreria generale potesse sempre esigere direttamente il tasso invece che assegnarlo a suoi creditori. I ministri avrebbero potuto aggiungere che, seppure l’alienazione del tasso presentava inconvenienti molteplici, era necessario ricorrere a siffatto spediente, se si voleva ottenere capitali a mutuo in tempo di guerra dai capitalisti fuori di Torino. Costoro non avrebbero fatto mutui alle finanze se fossero stati costretti a venire a Torino quattro volte l’anno ad esigere gli interessi in tesoreria generale; né si sarebbero fidati delle promesse sovrane, se anche la tesoreria si fosse obbligata ad eseguire i pagamenti nelle principali città del Piemonte. Invece volontieri mutuavano denaro allo Stato, perché acquistavano il diritto di farsi pagare una somma annua di tasso dalle comunità dove essi vivevano, e da contribuenti che essi conoscevano[8].

 

 

34. – Più numerosi erano coloro che progettavano aumenti dei tributi esistenti o nuovi balzelli. Un tale che scriveva sui “Moyeus qui peuvent augmenter les Finances de S.A.R. en Savoye du double du revenu présent”[9], trovava spediente non che s’aumentasse il prezzo del sale, ma che si riducesse la libbra del sale da 12 a 10 oncie, conservando immutato il peso d’ogni oncia. Era un consigliare al Principe di dare pesi falsi, e la proposta era coonestata coll’avvertenza che già si vendeva a pesi calanti; ma il lucro era degli spacciatori, mentre dopo sarebbe stato dell’erario.

 

 

Un altro[10] progettista si scandolezzava che gli Stati vicini lucrassero dazi sopra il bestiame piemontese esportato all’estero: Genova, ad esempio, che lo colpiva con 4 scudi d’argento per capo. E voleva che il Piemonte crescesse il diritto di tratta del bestiame per trarre a sé il guadagno degli Stati stranieri, non pensando che chi rischiava d’andarne di mezzo erano i produttori paesani di bestiame. Costui avea altresì escogitato di proibire ai nobili di vestire di seta per costringere i produttori ad esportarla all’estero, per mancanza di sbocco all’interno. Crescere il prodotto della tratta per lo Stato, entrerà in paese denaro forestiere, i sudditi saranno più “locupleti” per le minori spese in vesti di lusso e “li pesi men penosi “. Simile a questo era l’altro progetto di proibire di ammazzare od esportare vitelli ed agnelli per farli crescere in buoi e montoni e far lucrare al fisco maggiori entrate pei dazi sui corami, sulla tratta dei buoi e nella vendita del sale pastorizio (A. S. M. E Finanze, M. 4, n. 14).

 

 

Certi Pinchieroglio e Guinzati soffrivano assai di veder recata “offesa al sommo Iddio” dalla cera cattiva che s’adoperava con poco decoro nelle chiese per gli “illuminari” e per impedire che i sacerdoti fossero frodati avrebbero voluto che i ceraioli dovessero farla bollare col sigillo et armi di S. A. R.”, pagando un soldo per libbra di cera bollata. Era qualche cosa di simile a ciò che già si usava per le candele di cevo o sego; e se ne sperava un utile annuo da 30 a 40 mila lire[11].

 

 

L’ebreo Moise Jona avea un ingegno inventivo in materia di balzelli. Offriva 12 mila lire all’anno per un dodicennio per avere l’appalto di un’imposta, da lui immaginata, di 1 lira per ogni carra di fieno da sessanta rubbi, per tutti gli Stati del Duca. Privilegio di non pagare tasso, di non star nel ghetto, e di godere dei diritti concessi ai membri dell’Università israelitica. Se altri gli rubasse l’idea, chiedeva gli fosse dato il 12% del canone pagato allo Stato. S’offriva anco di pagare 20 mila lire all’anno per un decennio se gli venisse dato l’appalto di un’altra gabella di sua invenzione sui bozzoli e fornelletti da seta. I contadini doveano denunciare gli allevamenti di bozzoli, e non potevano staccarli dal bosco senza pagare 5 soldi per rubbo se li vendevano ai nazionali o 10 se a stranieri. I fornelletti da una filatrice doveano pagare 6 lire, e 12 se da due filatrici. Chi lasciasse inoperosi i suoi fornelletti dovea senz’altro romperli[12].

 

 

E si potrebbe continuare a lungo; in alcuni elenchi di “diversi progetti da attuarsi in tempo di pace e di guerra per ricavar denari”[13] si enumerano alla rinfusa: l’istituzione per il Contado di Nizza dell’imposta sull’olio di noce a soldi 3 per rubbo (reddito presunto L. 12 mila), sulle pecore forestiere a soldi 3 caduna (L. 16 mila), sui muli a soldi 10 (L. 5 mila), d’un soldo per balla di merce introdotta in Nizza per transito (L. 5 mila) e per balla di merce destinata ai mercanti della città (L. 6 mila), della gabella della carta bollata e dei giuochi non ancor applicata al Contado (L. 10 mila); l’istituzione per tutto lo Stato di un nuovo monopolio dello zucchero e del pepe, per il quale si dovrebbe studiare quanta sia stata l’importazione nell’ultimo decennio, quindi il probabile reddito; il ristabilimento della Macina, ovvero l’imposizione di 2 soldi per emina di grano, 1 soldo per emina dei marzaschi raccolti in paese, dedotto il necessario per il vitto dei contadini, 10 soldi per carra di fieno e di legna, ed 1 lira per carra di vino e di carbone.

 

 

Era questa una ferocia tassatrice che ben di rado si innalzava ad una veduta un po’ larga della necessità dell’agricoltura e del commercio di non essere troppo vessati da tributi sui consumi e sulla circolazione delle merci. I tempi di Carlo Emanuele I, quando una gragnuola mai più veduta di imposte nuovissime e stranamente vessatorie si era abbattuta sul Piemonte, erano passati; né, salvo pochissime, queste proposte ebbero favorevole accoglienza. Non l’ebbe neppure un’altra proposta, abilmente congegnata, del capitano Mutio Andrea Violetta, la quale sarebbe pure stata utile a’ popoli ed all’erario, troppi essendo gli interessi contrari. Osservava il proponente che i molteplici pedaggi signorili erano dannosissimi al traffico sia perché obbligavano i commercianti a fare lunghi giri inutili di strada per passare al luogo del pedaggio, sia anche perché i pedaggieri insolentemente “estorquivano li poveri trafficanti con pedaggi rigorosi più del dovuto” o li facevano aspettare tutta la notte sinché a loro non piacesse di lasciare il letto e quando i conducenti, infastiditi, passavano oltre, correvan subito loro dietro confiscando le robe o facendosene pagare il valore. Non dubitava il Violetta che se il patrimoniale regio avesse narrato alla camera dei Conti simili abusi ed altri ancora, ne avrebbe ottenuto il consenso per la pubblicazione d’un decreto, il quale ordinasse a tutti i vassalli di presentare i titoli su cui poggiava il loro diritto d’esigere i pedaggi, insieme colla notizia del reddito medio o del prezzo pagato. Saputo questo, le finanze avrebbero dovuto pagare ai vassalli un capitale di 100 lire per ogni 3 lire di reddito dei Pedaggi aboliti; e per risarcirsene si sarebbe imposto su tutte le comunità un tributo in ragione del reddito fondiario e della possibilità e numero di trafficanti”. Tutti senza dubbio l’avrebbero pagato volontieri pur di liberare il paese dalle angherie dei vassalli e dei loro pedaggieri[14].

 

 

35. – I tributi sulla proprietà fondiaria offrivano ampia materia ai progettisti. In Savoia, dove gli abusi erano molti nell’imposizione delle taglie, e dove era gran quantità di terreni comunali, coltivati ed incolti, di montagne e di praterie, soggette a diritti di uso, che sfuggivano quasi del tutto all’imposta, proponevasi di mettere un cotizzo di una lira all’anno sui buoi e cavalli e di 6 soldi sui montoni, pecore, ecc., allo scopo di colpire indirettamente il reddito che pastori ed agricoltori ricavavan dalla terra (A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 8, Moyens, ecc., sub 5).

 

 

Molti proponevano si colpissero le case, le quali in allora andavano esenti da ogni tributo. Un memorialista già citato (A.S.M.E. Finanze, M. IV, n. 8, Memoria, ecc., sub. 4) voleva far pagare ai proprietari il 2% del valore delle loro case “almeno durante la guerra”. Notevole l’argomentazione addotta a favore di siffatto nuovo tributo: “La Franchiggia delle Case invitando gli accompratori et il poco reddito [dei terreni] li venditori in più luoghi a farne contratti a vil prezzo, tanto più s’abandonano li registri tagliabili, … attendono li ricchi ad accomprar case, si divertisce il contante ad usi per hora di poca o niuna utilità pubblica”. Calcolando il valore delle case in 25 milioni di lire, al 2% si avrebbero, pur deducendo una quota di perdita, almeno L. 400.000, e ciò all’infuori di Torino che potrebbe fruttare altrettanto. Gli inquilini delle case di Torino avrebbero dovuto, secondo un altro proponente[15], pagare un semestre di fitto nelle mani non del proprietario, ma del fisco. Ad impedir collusioni fra padroni di casa ed inquilini, si incarichino i cantonieri segretamente di prender lingua sul fitto degli alloggi e si minacciano ai frodatori pene ad arbitrio dei magistrati. Obbligati i proprietari a presentare libri e scritture relative ai contratti di fitto. Il proponente voleva però che il tributo dovesse essere rimborsato ai proprietari dopo un anno, sicchéè da parlarsi piuttosto di prestito forzato.

 

 

Altra esenzione che stupiva i riformatori era quella della ricchezza immobiliare; e si voleva rinnovare l’imposta della sesta e doppia sesta dei censi dovuti dalle città e comunità, che vedemmo essere stata istituita nella guerra del 1690-96, e l’altra dei soldi per ogni scudo d’ oro di tasso alienato. A queste imposte, che avrebbero colpito gli interessi del debito pubblico, di Stato e comunali, alcuni aggiungevano l’imposta sui censi vitalizi in genere[16]; il che dà a vedere come la forma di ricchezza immobiliare, che sola avesse allora acquistato importanza cosiffatta da attirare l’attenzione del fisco, fosse quella impiegata in mutui ad enti pubblici ed a privati. Di rado si osava andare più in là ed invocare imposte sui commercianti e sugli industriali. Forse l’unica proposta in tal senso è quella di unatallie d’industrie in Savoia. Il proponente fa notare che i proprietari rurali non posseggono i beni i quali diano maggiore agiatezza, poiché i commercianti, i capitalisti che hanno crediti, si godono con maggior profitto e tranquillità i loro beni; commerciando le derrate prodotte dai proprietari rurali, ne traggono per sé tutto l’utile e pur tuttavia non contribuiscono in nulla ai bisogni dello Stato. La nuova tallie d’industrie avrebbe dovuto colpire tutti i possessori di effetti mobiliari a seconda dei loro redditi; e l’ammontare sarebbe stato fissato, per contingente, in un quarto della taglia fondiaria nelle città, un sesto nei borghi e un dodicesimo nei villaggi, ritenendosi forse che questa fosse la proporzione variabile della ricchezza mobiliare a quella fondiaria (Memoria, ecc. loc. cit., n. 8, sub. 5).

 

 

Criticata era anche l’esenzione dei feudatari e degli ecclesiastici. Già vedemmo (sopra, al paragrafo 22) gli sfoghi di un anonimo scrittore contro l’andazzo invalso di non imporre più le cavalcate e le quarte d’annata; ed altri doveano nudrire lo stesso pensiero, se tanto spesso proponevansi le cavalcate, le quarte d’annata, le mezz’annate ed anche le annate intiere[17]. Così pure si volevano colpire i redditi degli ecclesiastici in tempo di guerra, esentando solo quella parte del reddito che è necessaria al vitto, al vestito, alle elemosine ed agli oneri di culto. Un’imposta che avrebbe dovuto colpire tanto i beni feudali, che quelli enfiteutici, liberi ed allodiali, posseduti da ecclesiastici e da luoghi pii, sarebbe stato il dritto di ammortissement, il quale, secondo alcuni, avrebbe dovuto ammontare ad un terzo od un quinto del valore dei beni cadenti in possesso degli ecclesiastici, ovvero ad un’annata di reddito netto ogni 25 anni[18]. Ma non ne fu nulla.

 

 

Quelle che ora si chiamano tasse sugli affari davano ai progettisti maniera di presentare le proposte più diverse. Vera chi in Savoia intendeva sottoporre tutti i contratti, anche quelli conchiusi prima dell’istituzione del tabellonato, alla registrazione nell’ufficio del controllo generale. I contratti non controllati non avrebbero potuto far fede in giudizio; e si sarebbe riusciti così a scoprire i beni di tutte le famiglie, preludio certo ad altre imposte (loc. cit., n. 8). Altri voleva estendere i diritti del tabellione agli estratti dai registri parrocchiali delle nascite, dei matrimoni, delle morti ed alle fedine penali (loc. cit., n. 14). Volevasi dare, in caso di vendita di beni stabili e di censi, il diritto di preferenza ai soci del venditore, ai confinanti, agli agnati, ecc., purché costoro pagassero un dritto del 5% al fisco; e dicevasi che così si usava a Genova (loc. cit., n. 14, sub. 3). Più in là andava chi, per avere un reddito di 150 mila lire in tempo di guerra, voleva, fra l’altro, colpire con un’imposta del 2% sul prezzo tutti i contratti di compravendita di stabili, le costituzioni di censi e di doti, i legati. L’imposta avrebbero dovuto pagarla metà per ciascuno i due contraenti, salvo per le doti e per i legati a cui sarebbe caduta sul marito e sui legatario (loc. cit., n. 23). Per far più presto quattrini proponevasi nel 1702 che, casomai scoppiasse la guerra, si dovesse fare uno spoglio di tutti i contratti di compravendita avvenuti negli ultimi 10 anni, e far pagare ai compratori l’un per cento dei prezzo (loc. cit., n. 15). Progettavasi nell’istesso tempo di obbligare tutti coloro che succedevano nei fidecommessi, primogeniture a maggioraschi a presentarsi alla Camera per ottenere il riconoscimento dei loro diritto in contraddittorio dei presunto successore, pagando nel frattempo un emolumento dei 2 per cento sui frutti (loc. cit., n. 14). Quel tale Carl’Antonio Reinaldo, che già incontrammo, quattr’anni dopo aver presentato, nel 1704, una simile proposta, che non pare fosse stata bene colta, ritornava alla carica, e dimostrando i grandi vantaggi che si sarebbero avuti se tutti i commercianti avessero regolarmente tenuto i loro libri, massime quant’alle prove degli atti e dei contratti, proponeva renderli obbligatori, aggiungendo, si capisce, il consiglio di mettere su quei libri un’imposta, la quale dovea nel primo anno fruttare un milione di lire e in seguito più di 250 mila lire l’anno. Somma certamente esagerata, ove si rifletta allo scarso sviluppo dei traffici in quel torno di tempo (loc. cit., n. 12). Non nuove imposte, ma partecipazione dello Stato a diritti pagati a pubblici ufficiali proponevano coloro che volevano assegnare all’erario un terzo delle sportule, metà delle regalie e delle obvenzioni dovute a magistrati, un terzo dell’emolumento pagato ai notai, i quali troppo guadagnavano, avendo comprato le piazze a vil prezzo, tutta l’obventione dovuta per le sentenze pronunciate dai giudici dei vassalli, quando fossero riformate dal Senato, ecc., ecc. (loc. cit., a. 14, sub. 11. 12, 14, 29).

 

 

L’ebreo Abram Lattes, dopo essersi consultato coll’avvocato Bertola, avea immaginato di proibire a tutti di portar parrucca, salvo a chi si disponesse a pagare un diritto proporzionato alla condizione della persona e cioè: due doppie (la doppia di Spagna valeva 16 lire piemontesi e la doppia di Savoia L. 15.15) all’anno per i marchesi, conti e cavalieri, 1 doppia per gli avvocati, medici, procuratori ed altre persone “literatte”, 1 doppia per i banchieri, mercanti e negoziati, mezza doppia per gli artisti e le altre persone “hordinarij”. Dal dritto sulle parrucche si sperava un prodotto da 5 a 6 mila doppie, cifra non esagerata, affermava il Lattes, perché il Duca di Parma lucra su di esse ben 20 mila scudi all’anno[19].

 

 

Se questo tributo avea natura di mezzo fra i dazi di consumo e l’imposta sulla ricchezza o meglio sui suoi indici esteriori, il diritto sulle acque proposto da altri stava fra le entrate demaniali ed i tributi fondiari. Erano considerate le acque pubbliche come regalie del Principe; ma spesso erano utilizzate da privati a scopo di irrigazione o di industria, senza che il Principe ne ricavasse beneficio. Volevasi fare un catasto delle acque e descrivere tutti i possidenti che godevano acque derivanti da fiumi e torrenti e non nascenti da sorgive poste ne’ fondi privati, facendo poscia pagare ai possidenti un tributo proporzionale al maggior reddito dei terreni (A. S. M. E. Finanze, M. 4; n.15 e 30). Alla proposta non si diede seguito, sia per la difficoltà d’un catasto particolare delle acque, sia per i torbidi dei tempi, sia perché nel nuovo catasto dei terreni si intendeva tener calcolo dei maggior reddito dei terreni irrigati.

 

 

Un tributo di mezzo fra la tassa per le concessioni governative e la capitazione era quello proposto in 2 lire all’anno per il porto del fucile in viaggio ed a caccia. Pare che dovesse essere obbligatorio per tutti l’ottenere questo permesso, se si vogliono incitare le comunità ad abbonarsi in perpetuo pagando ogni anno 2 lire per famiglia (loc. cit., n. 14). Il diritto proposto era diverso dall’altro di 30 lire che già pagavasi come multa pei il porto d’armi illecite.

 

 

38. – In un campo tutto diverso ci trasportano altri progettisti, che ora si chiamerebbero municipalizzatori o fautori dell’esercizio di Stato dei servizi pubblici. Anche allora decoravano costoro il loro discorso con di gran belle frasi; ma più crudo appariva l’intento di tassare i popoli, che ora vuolsi dai più escludere.

 

 

Il capitano Raviolati, manipolatore frequente di progetti fiscali, erasi fisso in capo di sollevare i popoli dai danni degli incendi che devastavano spesso villaggi e città. Perciò voleva si fondasse un banco reale di cambio, il quale dovea assumersi l’assicurazione delle case situate nelle città, nei borghi e nei villaggi dello Stato, purché non situate ad una distanza maggiore di 100 trabucchi (1 trabucco = 3 m. 082) dall’abitato. L’assicurazione doveva essere obbligatoria per tutte le case, eccetto per quelle feudali ed ecclesiastiche, le quali continuavano a godere della solita immunità, a meno che volontariamente si sottomettessero alle regole del banco. Delle case si farà l’estimo, insieme ad una descrizione esatta, dal giudice ordinario di ogni luogo, trasmettendo i verbali all’amministratore del banco che ne terrà un libro mastro. I proprietari di case dovevano essere obbligati a pagare 4 soldi all’anno per ogni 100 lire di valore d’estinto delle case come premio di assicurazione (0.20%), premio non molto più elevato di quelli esatti ora dalle società di assicurazione. In caso d’incendio, ove questo fosse dovuto a vizio o malizia del proprietario o dei suoi domestici, nessuna indennità era dovuta, ed anzi il proprietario era obbligato a pagare i danni dell’incendio ai vicini, iscritti al banco. Se l’incendio era dovuto ad accidente, il banco fare riedificare o riparare la casa rimettendola nel pristino stato, ove non preferisse limitarsi a pagare al proprietario il valore d’estimo. Se gli incendi, invece che al caso, fossero dovuti alle devastazioni dei nemici in guerra, siccome il fondo del banco potrebbe essere insufficiente a ricostruir tutte le case contemporaneamente, sarà l’amministrazione solo obbligata a ripartire, a rata dell’estimo, il fondo dei premi esatti dalla città o comunità messa a fuoco dal nemico e ancora esistenti presso il banco. Disposizioni speciali regolavano il caso di ricostruzione totale o parziale delle case da parte del proprietario e di rovina, ed impedivano al proprietario di vendere, permutare, dividere le case senza licenza scritta del banco.

 

 

Il Raviolati s’aspettava grandi cose dall’attuazione del suo piano. I creditori che ora per dar denaro a censo sulle case pretendono l’interesse del 5 o 6% non potranno percepire più del 3%, essendo cessato il rischio a cui prima il loro capitale andava incontro. Il reddito del banco sarebbe stato di 563.320 lire all’anno[20], di cui parte sarebbe spesa per indennizzare i proprietari in caso d’incendio, a parte avrebbe dovuto impiegarsi in “manifatture non ancora pratticate” negli Stati piemontesi. “In pochi anni”, si azzarda a predire il Raviolati, “si farà il banco più forte di tutta l’Europa”.

 

 

Un anonimo avea invece meditato sui “furti, homicidiy et tanti altri inconvenienti che si ponno commettere nella città di Torino nel tempo di notte, massime né tempi presenti di guerra”; e s’era proposto di porvi riparo con un progetto dello stesso tempo sarebbe stato anche “di un grande ornamento a questa Città, honorata dell’ordinaria residenza di S.A.R. e sua Corte e toglierebbe l’incomodo e la spesa a cittadini di dover portare le torchie, lanterne e lanternini di notte”. Lo Stato dovea dare ad un appaltatore l’impresa di permettere i lanternoni e di mantenere l’illuminazione con candele di sego o ad olio in tutte le vie della città. I proprietari di casa, eccettuati i palazzi reali, quello del governatore, i conventi, gli ospedali e le chiese, avrebbero dovuto pagare ogni mese all’appaltatore 30 soldi per bottega e 10 soldi per ripiano di case. Era, sott’altra forma, un’imposta sulle case coordinata al servizio pubblico dell’illuminazione. Lo Stato avrebbe dovuto ricavarne un profitto, che dovea giungere a 150 mila lire all’anno, insieme con il reddito di altri due progetti dell’anonimo: dritto del 2% sui contratti, di cui disse sopra, e di 10 soldi per rubbo della ferramenta prodotta nello Stato o d’importata dall’estero[21]. Pur di ottenere qualche appalto si passava con indifferenza dai dazi alle tasse sugli affari e da queste alle municipalizzazioni dei pubblici servizi!

 

 

I precursori dell’idea municipalizzatrice, con franchezza maggiore di quella usata talvolta oggidì, ponevano sempre a base delle loro proposte il guadagno pel fisco. Ben 292.900 lire nette intendeva di far guadagnare al fisco il De Lestan, memorialista ostinato con un suo progetto d’istituire un servizio di spazzatura e nettezza pubblica. Il servizio sarebbe stato affidato al fisco che doveva estenderlo a tutte le città dello Stato. Si sarebbe fatto pagare una tassa ai proprietari di scuderie in proporzione delle “porte cociere” graduata da 8 a 30 lire per porta. A Torino v’erano 1000 porte cociere di prima classe, tassabili a L. 30, 1000 di seconda classe a L. 20 e 3000 di terza classe a L. 10; sicché il reddito lordo totale sarebbe stato di 80 mila lire. A Chambery le porte di prima classe erano 30, quelle di seconda 400, e 2000 le porte di terza classe, con un reddito di 34 mila lire. Nizza con 100 porte di I classe, 200 di II e 2000 di III, il reddito sarebbe stato di 27 mila lire. In tutto lo Stato il prodotto lordo dovea essere di 445.400 lire, dalle quali deducendo 152.500 lire di spesa, si riduceva più precisamente il guadagno netto a 292.900 lire[22].

 

 

Per avvantaggiare le finanze e i popoli nel tempo stesso v’era chi voleva costringere ogni anno i produttori a trasportare tutto il grano eccedente i bisogni della famiglia e della semina nelle città e nei forti. Costui partiva da una constatazione di fatto che a noi sembra inverosimile: “Èperché il paese è fertile et abbondante et che in ogni raccolto mediocre si può conforme all’opinione comune ricavar tanto grano che basti per mantener tutto lo Stato forse per 3 o 4 anni” e continuava dicendo che con questi pubblici magazzini si sarebbero evitati i subiti sbalzi fin di 10 soldi per emina nel prezzo del grano, come seguì nella primavera dell’anno passato [1703] per qualche brinata et poscia in ottobre d’esso anno subito che s’intese la nova della guerra”. I magazzini metterebbero finalmente un termine “a tanti abusi circa il prezzo del grano regolato a capriccio e dall’avaritia et ingordigia d’alcune sanguisughe di tanti poveri e miserabili, senza che vi sia bisogno di far alcuna tassa ed anco non ostante l’occupatione di qualche parte deI Paese da’ nemici”[23]. L’idea non cadde su terreno sterile; vedremo poi come sia stata accolta dal Principe non più nell’interesse dei popoli, come sovratutto intendeva il progettista, bensì per garantire gli approvigionamenti dei soldati in tempo di guerra[24].

 

 

37.- Far prestiti era però sempre, allora come oggi, il metodo più semplice e pronto per ottenere denaro in tempo di guerra. Il marchese di Pianezza, a cui pare fosse stato chiesto un parere su tal materia, così esponeva in una memoria consegnata il 25 di maggio del 1704[25] le principali maniere di contrare prestiti volontari: 1) Contrarre un debito fluttuante (adoperiamo le parole moderne) promettendo ai capitalisti il rimborso della somma mutuata mediante assegni sulle accense e sulle gabelle, con l’accettazione e promessa dei direttori di pagare l’assegno. Sono i nostri buoni del tesoro con i quali si anticipa normalmente la disponibilità delle entrate non ancora riscosse, ma che rientreranno fra breve. Il Pianezza ricordava che gli assegni usavansi al tempo del presidente Trucchi anche in tempo di pace, come s’usa anco di presente, e consigliava di pagare fino al d’interesse. Essendo il debito fluttuante rimborsabile a breve scadenza, non v’era gran danno a pagare interessi anco gravi. 2) Fare qualche emissione di cartelle di debito pubblico consolidato. Allora le cartelle chiamavansi “luoghi di monte” od il Pianezza ne consigliava di parecchie sorta: fissi, ossia perpetui al 6% durante la guerra, riducibili al 5% appena fatta la pace; vacabili, ossia vitalizi al 10%; a tontina all’8% per un numero fisso di persone, col diritto nei sopravviventi di succedere ai morti, sicché il numero dei viventi si fosse limitato ad otto, nel qual caso le quote dei defunti sarebbero andate a vantaggio dell’erario. 3) Alienare tassi a capitalisti privati. Era un’altra forma di debito pubblico consolidato, per la quale l’erario si spogliava del tributo il cui provento annuo dovea servire a pagare gli interessi del debito contratto. Il Pianezza proponeva che i tassi si alienassero all’interesse del 6% durante la guerra, da ridursi come quello dei monti al 5% fatta la pace; ovvero che gli acquisitori dei tassi scegliessero essi medesimi l’interesse a pagarsi, colla clausola che il di più d’interesse pagato oltre il 6% durante la guerra ed il 5% dopo la pace andasse a diminuzione del capitale.

 

 

Il marchese di Pianezza non avea accennato alle infeudazioni, ma vi si richiamano tutti gli elenchi dei mezzi possibili per far denari in tempo di guerra che abbiamo più volte ricordato; ed un anonimo si stupiva che per la Contea di Nizza non si fosse pensato mai a questo acconcio metodo, usatissimo in Piemonte. Costui, che pare scrivesse poco dopo il 1700 (A. S. E. Finanze, M. IV, n. 1), voleva dimostrare che la infeudazione dei beni allodiali, la cui misurazione nel Contado era oramai giunta alla fine, avrebbe arrecato il frutto di “somme grossissime di contanti alle finanze essendo nel contempo giovevole e grata al pubblico et a molti particolari”. L’infeudazione dovea farsi a favore di chi pagasse 100 lire di capitale per ogni 3 lire di tasso; e non doveva superare il terzo del registro di ogni comunità, per cansare l’inconveniente che certe comunità venissero ad essere spogliato del diritto di mettere imposte su tutto il loro territorio. Gli infeudanti, oltre l’esenzione perpetua da ogni tributo per i beni infeudati, non avrebbero potuto essere costretti contro loro volontà a coprire le cariche di sindaco, consigliere od esattore. Il fisco avrebbe avuto il vantaggio della maggiore facilità di riscuotere i tributi; e la cosa era evidentissima, secondo il progettista, perché essi s’erano esatti tutti in una volta mercé l’infeudazione. I popoli avrebbero a loro volta profittato per ciò che “i registranti per non perdere i beni infeudati, coltiveranno e non abbandoneranno, come fanno i tagliabili, la patria”, l’unico mezzo “più efficace e più praticabile di ritenere i sudditi” essendo quello “di accertare loro sussistenza e la continuazione della cultura”. Il progettista deve essersi chiesto che cosa sarebbe successo il giorno che fossero sorti nuovi bisogni imprevisti ed il Principe si fosse veduta preclusa dall’infeudazione la via a tassare tanta parte del Contado; ma imperterrito risponde che “occorrendo necessità pubblica di maggior peso” sarà più facile colpire i beni allodiali rimasti al registro per la maggiore ricchezza diffusa nel paese e la più numerosa popolazione trattenuta a coltivare la terra dall’esenzione di parte di essa. Nella quale opinione può nascondersi un granello di vero; non giàperché l’infeudazione ossia l’esenzione perpetua da tutte le imposte ordinarie e straordinarie giovasse veramente ai fini pubblici, ma perché i proprietari col pagamento di 100 lire per ogni tre lire di tributo ordinario si assicuravano contro le gravezze straordinarie e potevano attendere senza timore alle opere di miglioramento delle culture.

 

 

A tutte queste maniere di prestiti pubblici volontari e ad altre ancora, si fece ricorso durante la guerra nostra; sicché dovendoci ritornare sopra, senz’altro passiamo a discorrere degli spedienti escogitati per ottenere a forza quei prestiti che si dubitava di ottenere spontaneamente dai capitalisti. In una memoria già ricordata (A. F. M. E. Finanze, M. IV, n. 8, sub. 3) si sarebbe voluto che dovessero essere obbligatoriamente depositati nelle tesorerie delle città i fondi seguenti: depositi giudiziali, denari di doti, tutto il prezzo dei beni dei pupilli e minori o vincolati da fidecommessi, la metà del prezzo dei beni liberi venduti, quando i venditori non preferissero pagare al fisco il dritto della sesta sul valore del trapasso, la metà dei fitti delle case, che di solito sono possedute da “persone commode”, le somme destinate a riscattar beni venduti con tal patto, conservando ai venditori il diritto dei riscatto, le somme che si sarebbero volute pagare da debitori in estinzione del loro debito, diventando i mutuanti creditori della città, e metà dei guadagni fatti dai giocatori ne’ giochi pubblici. In breve, volevansi obbligare tutti coloro che per una ragione o l’altra aveano obbligo di pagare o di tenere in deposito somme altrui a depositarle forzatamente presso le tesorerie delle città, che venivano surrogate nella qualità di debitrici verso gli aventi diritto. Certo le somme, di cui le città sarebbero venute in possesso e che esse alla loro volta dovevano imprestare alle finanze, sarebbero state ingenti; ma a prezzo di quali frodi e di quali gravissime perturbazioni di legittimi interessi privati, non è nemmeno mestieri dire.

 

 

Condannabile pure era la proposta creazione di un monte, dove obbligatoriamente dovessero essere depositati al 3% il denaro de’ pupilli, delle opere pie e gli altri capitali vincolati. Ai sudditi dovea essere proibito di collocar denaro a censo od a prestito od impiegarlo in altri monti, finché non si fosse ottenuta col monte forzoso la somma desiderata. È vero che si prometteva ai montisti la franchigia da sequestri e confische per qualunque delitto ad imitazione dei monti di S. Giorgio di Genova; ma si cominciava intanto ad operare una confisca dei capitali privati, pagando l’interesse del 3%, quando i mutui liberi che si volevano con siffatto spediente estinguere, importavano l’onere del 5, 6 e più per cento all’anno (loc. cit., n. 14). Similmente, Carlo Antonio Reinaldo[26] voleva che i capitali di tutti i crediti liquidi e dei censi contratti nell’ultimo decennio, e di quelli “liquidi et indubitati benché confusi dalla torbidezza della cicanna” fossero dai debitori depositati nella tesoreria della città di Torino. Questa avrebbe pagato al creditore l’interesse al 5% e dato un indennizzo dell’1% ai debitori che avessero dovuto fare il deposito prima della mora. Spirata questa o finita la lite, la città avrebbe dovuto rimborsare il capitale a chi di ragione.

 

 

Se a questi progetti complicati non si dette seguito, perché lesivi di legittimi interessi e del giure comune, nemmeno si diede ascolto a chi consigliava al Principe di procacciarsi denari con abili falsificazioni di monete. La tentazione fu grande, e vedremo a suo luogo che per poco non si batté moneta ossidionale; ma si resistette con fermezza all’allettamento pericoloso. Non parliamo della semplice monetazione di biglione (argento e rame) e di rame, la quale fu proseguita su vasta scala[27] e che veniva incoraggiata dall’anonimo nemico della feudalità, di cui già citammo i pensieri al paragrafo 22, fin dal 4 dicembre 1700, pel motivo che era meglio preparare la stampa delle monete di rame durante la pace per non trovarsi senza una sufficiente scorta d’esse quando “improvvisamente sopragionga la guerra o altr’impensata occasione di trafficarli”. Fin qui non si sarebbe deteriorato il sistema monetario, quando le monete erose fossero permutabili in monete nobili. Ma andava più in là chi voleva ridurre la lira di Piemonte da 20 a 15 soldi ed il fiorino di Savoia da 12 a 10 soldi, col pretesto di maggiori agevolezze nel traffico con la Francia, ove abbondavano le monete calanti (A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 8). Era un volere ricominciare la corsa al ribasso del valore della lira, che ai tempi di Carlo Emanuele I e dei suoi successori immediati tanto danno all’economia paesana avea recato.

 

 

Temporaneo invece era lo spediente consigliato, forse durante l’assedio del 1706, da una compagnia bancaria[28], la quale proponevasi di costituire un capitale di 360 mila lire distinto in 24 carature da mille doppie l’una. Non si sa bene se il capitale fosse versato in contanti o consistesse in argenti affidati alla compagnia da privati; ma certo è che l’intiera somma dovea essere convertita in argenti da portarsi in zecca per cavarne “una moneta fidentiale a bontà di denari 11 et del peso et impronta come si concerterà, acciò che più difficilmente possa essere imitata”. A mano a mano che la compagnia consegnerà alle finanze le monete coniate, si darà ad essa in pegno e godimento tanto reddito della gabella del sale di Torino, che equivalga al 7% dei capitale impiegato nella coniazione. Le finanze saranno gravate così per le 300 mila lire di capitale da un interesse annuo di L. 25.200. Se sarà possibile alla compagnia procurarsi gli argenti a un tasso minore d’interesse, il vantaggio andrà alle finanze, perché la compagnia non intende “di profittare di cos’alcuna con questo ripiego, ma solo di cautelare quelli che esporranno li denari o argenti, e con tal mezzo servire al Real Padrone nelle angustie presenti”. Fin qui nulla di notevole: era un prestito in argenti fatto da privati all’erario ad un tasso non spregevole d’interesse. Il carattere di prestito forzoso lo vediamo in ciò che la “moneta fidentiale” dovrà essere messa in corso durante l’assedio della città ad un valore nominale doppio dell’intrinseco. Finito l’assedio le tesorerie pubbliche, le ricevitorie delle gabelle e delle accense, ecc., dovranno accettarla al valore nominale; né potrà più essere rimessa in circolazione se non “al solo valore corrispondente all’intrinseca bontà raguagliato alle altre monete d’argento dell’istessa bontà”. Era una specie di corso forzoso limitato al tempo dell’assedio, con questa differenza dal corso forzoso attuale che oggi si stampano biglietti di carta, mentre allora si coniavano monete contenenti metà dell’argento solito. Vedremo dopo qual seguito si sia dato alla proposta di moneta ossidionale ed all’altra di fai portar gli argenti in zecca da privati[29].

 

 

38. – La “creazione di uffici, cariche, piazze, onori, matricole d’arte, ecc. ecc;”, è un altro argomento preferito di discettazioni numerosissime per facitori di progetti finanziari. Era un facile modo di far quattrini quello di creare cariche remunerate o gratuite, onorificenze, distintivi di nobiltà, privilegi, facendone mercato a favor di quelli che pagassero adeguata finanza. Il marchese di Pianezza in quei suoi e “Proggetti per cavar dinari” che abbiamo già citato, e i quali si distinguono per sobrietà di proposte, non ha saputo sottrarsi alle idee del tempo e propone la “concessione di alcune cariche fisse et anco ad honores per quelli che volessero acquistarle in forma convenientemente pratticabile con prerogative honorifiche, essentioni et altri Privilegi, et etiandio con proventi, sì e come sarà più desiderabile dalli Acquisitori tanto ad vitam quanto a perpetuita” (doc. cit. sub 8).

 

 

La magistratura era quella che maggiormente prestavasi, nei suoi diversi rami, a queste manipolazioni finanziarie. Già esisteva la disponibilità delle cariche per cui a taluni magistrati era concesso di nominarsi il successore mediante il pagamento di una finanza; e vigeva in una parte degli Stati piemontesi (Consiglio superiore di Pinerolo) l’altro istituto della “poletta”, con cui la Francia avea rese ereditarie e perpetue la maggior parte delle cariche pubbliche. Non c’è da meravigliarsi che in un progetto del 4 maggio 1704, evidentemente compilato negli uffici del generale di finanza, si fossero studiati i risultati finanziarii di un provvedimento inteso a rendere perpetue quasi tutte le cariche dell’alta magistratura: Consiglio di Stato, Senati di Piemonte e di Nizza, Consolato, Camera e cariche di prefetti, refferendari provinciali, ecc. Nel Senato di Piemonte, ad es., i 4 presidenti avrebbero dovuto avere ciascuno uno stipendio di 2000 lire all’uno, pagando una finanza di 50 mila lire, mentre lo stipendio attuale era di 3000 lire. I presidenti avrebbero comprato, con la perdita di 1000 lire all’anno di stipendio e con 50 mila lire di finanza per soprammercato, il vantaggio di rendere la propria carica perpetua ed ereditaria. Si eccettuavano soltanto il gran cancelliere, il primo presidente del Senato e della Camera, il capitano generale di giustizia, gli avvocati e procuratori generali dei Senati di Piemonte e di Nizza, la cui nomina dovea essere riservata al Sovrano. Si faceva il calcolo di diminuire gli stipendi da L. 159.551.6 a L. 125.900, con un risparmio di L. 33.651.6 all’anno e di cavarne una finanza di L. 3.319.900, capitalizzando le cariche al 3.80 per cento. Al progetto non fu dato seguito per le proteste dell’alta magistratura, i cui stipendi venivano ad essere ridotti, e per i danni gravissimi che giustamente si paventavano pel futuro, quando fossero passati di vita gli attuali magistrati[30].

 

 

Altri s’accontentava di spedienti di minor portata, come aumentare il numero dei magistrati, si che si opponevano quelli in carica perché l’aumento continuo dei presidenti, senatori, consiglieri, mastri auditori, oltre ad inceppare la trattazione degli affari, diminuiva a poco a poco la somma delle regalie e delle sportule da distribuirsi fra i magistrati. Oppure ancora si chiedeva la concessione di nuove disponibilità e più spesso la creazione di magistrature nuove di zecca. Un tale proponeva l’ufficio nuovo di sindacatore dei giudici che fossero giunti al termine della loro carica. Le nuove cariche avrebbero reso una qualche finanza e si sarebbe potuto “render giustitia alli sudditi gravati dalli Eccessi e Baratterie de’ Giudici”. Si voleva altresì che il Principe alienasse le terze cognizioni delle cause già trattate in due istanze dai giudici dei feudi, sempre per poter creare nuove cariche di giudici di terza istanza (A. S. M. E. Finanze, IV, n. 14). Un brusco non l’approva, scritto dal Groppello sotto dettatura di Vittorio Amedeo il 16 novembre 1711, si ebbe il De Lestan, il quale affastellava progetti male digeriti ed avea proposto di nominare “tanti ufficiali quanti saranno spedienti, da fissarsi nelle città e ne’ luoghi più cospicui, per invigilare e provvedere sovra la politica e polizia con autorità indefinita e senza appellatione né raccorso” e di fissare inoltre “un numero di Commissari per compellire li Debitori con uno stipendio da accordarseli”.

 

 

Maggiore successo era riserbato a coloro che proponevano la vendita di cariche della magistratura libera o minore: avvocati , procuratori, notai. Il già ricordato Carl’Antonio Reinaldo era persuaso che a Torino fossero pochi 39 procuratori quante erano le piazze esistenti; ma il suo ragionamento non è troppo chiaro. Egli dice che i procuratori debbono coltivare da quelli che si ritirano o dagli eredi dei morti le piazze fino a 20 mila lire l’una; e quindi gravati, come sono, di 100 doppie all’anno per interessi sul capitale sborsato e per spese del mantenimento proprio, “né contentandosi un avanzo di 50 doppie, ne bramano 100; né riuscendoli possibile di ricavar un annuo provento di doppie 200 da poche e leggere cause, sono necessitati di torchiar… li poveri e miserabili loro clienti”. Egli propone perciò si creino altre 81 piazze da procuratore in Torino con la finanza di 3000 lire l’una, decorando i titolari col nome di Procuratori generali della Città di Torino e Stati di S. A. R.” e dando a sei di essi il diritto di coprire la carica di consigliere della città. Ma non si vede in qual maniera gli 81 nuovi procuratori avrebbero potuto vivere coi proventi professionali, se il Reinaldo stesso riconosco che dieci procuratori accaparravano già allora tutte le cause di rilievo, diguisaché, gli altri 29 o dovevano per vivere consumar le cause in spese o andai “per terra”. La smania del Reinaldo di crear nuove piazze di procuratori era tale che egli avea escogitato di crear 18 piazze di procuratori provinciali, i quali dovessero rappresentare nella capitale gli interessi delle comunità della loro provincia e patrocinarne “i frequenti raccorsi sì in tempo di guerra che di pace”. Il progetto affermavasi utile alle comunità che con poca spesa avrebbero avuto un rappresentante dei loro diritti e desiderii ed al Principe che avrebbe potuto conoscere lo “stato delle comunità” e nel ceto dei procuratori provinciali avrebbe potuto scegliere a sua posta i procuratori ed avvocati patrimoniali. Il bello dell’operazione stava in ciò che le comunità delle 15 provincie (Piemonte, Savoia, Aosta, Nizza) avrebbero dovuto pagare lo stipendio a questi procuratori in L. 29.170 all’anno; e che il fisco avrebbe venduto a suo vantaggio le cariche capitalizzando lo stipendio al 10 ed incassando una finanza di L. 291.700. In fondo era un giro vizioso per imporre alle comunità una nuova imposta di L. 29.170 all’anno e contrarre, sulla garanzia di essa, un prestito usuraio al 10% coll’inconveniente ulteriore di creare nuovi funzionari che sarebbero riusciti infesti alle comunità ed al Principe. Il progetto fu respinto perché non si ritenne possibile di trovare in tutte le provincie avvocati e procuratori abili a coprir la carica o disposti a pagar la finanza. Aggiungasi che i procuratori avrebbero dovuto essere due per provincia, potendo gli interessi di due comunità della stessa provincia trovarsi in conflitto[31]. Se questo progetto farraginoso non fu accolto, il concetto di mettere in vendita le piazze di procuratori, nota, insinuatori, farmacisti, era generalmente diffuso, e fu largamente applicato nei primi anni della guerra (paragrafo 70). V’era anzi chi, rammaricandosi che le piazze da notai e procuratori fossero state vendute in passato a prezzi troppo bassi, voleva obbligare i successori dei primi acquirenti a pagar qualcosa, considerando quelle piazze come feudi e costringendo i successori a prenderne l’investitura. Non furono invece messe in vendita le piazze di avvocati, quantunque vi fosse chi avesse proposto di creare un collegio di 500 avvocati, i quali mediante la finanza di 200 doppie avrebbero acquistato il titolo e i diritti d’avvocato. Non parve forse che dovessero con questo mezzo fiorire le leggi e la perizia ne’ tribunali, come asseriva il proponente, il quale avrebbe voluto far scegliere tra codesti avvocati a 200 doppie tutti i magistrati, eccettuati solo quelli col titolo di eccellenza (A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 14).

 

 

Un campo adatto alla creazione di cariche era di quello delle amministrazioni comunali. Uno dei vantaggi principali della nuova tallie d’industrie, che vedemmo sopra (paragrafo 35) proposta per la Savoja, era quello di poter creare per ogni parrocchia due cariche di esperti o perequatori della taglia, la cui finanza dovea essere stabilita a trattative private. Nel caso non si trovassero acquisitori, doveano a forza le comunità acquistare la non invidiata carica. Così pure doveano essere obbligate le comunità a comprare certe nuove cariche di ricevidori delle taglie che lo stesso scrittore proponeva di istituire in Savoia, rimunerandoli con un soldo per ogni fiorino di taglia esatta e con l’esenzione dalle cariche della tutela, curatela, alloggio della soldatesca ed altri gravami straordinari.

 

 

Le cariche pubbliche delle comunità erano oggetto di cupidigia pel fisco. Per far oro colla pratica acquistare esperienza, volevasi da taluno che i consiglieri fossero nominati a vita. Il fisco, bontà sua, si sarebbe contentato di una finanza di 6 doppie; all’incirca 120 lire nostre, le quali oggi chissà da quanti sarebbero pagate per conseguire l’ambita carica a vita! Allora pare si disperasse trovar compratori (A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 14). Così pure non s’ebbe fiducia nell’altro disegno di ricavar 23.600 lire, vendendo le cariche di segretario delle comunità a 300 lire l’una. Eppure i vantaggi non erano scarsi: il segretario, essendo a vita, non avrebbe più rubato le scritture o i titoli d’interesse pubblico come pare facessero i segretari elettivi, che di anno in anno si succedevano. Inoltre il segretario, traendo la Domina del Principe, non solo avrebbe prestato servizio più fedele e puntuale, ma avrebbe giovato ad impedire o scoprire “le conventicule et altre malversationi di chi amministra il publico”, difficili a scoprirsi dai direttori delle provincie, lontani ed estranei al paese[32].

 

 

Più ascoltati furono coloro che proponevano la vendita della carica di sindaci delle città e comunità. Fra gli altri il marchese di Pianezza era d’opinione che potessero le finanze “cavar un aiuto considerabile nelle presenti urgenze dalla concessione della facoltà temporanea d’esser Sindaci e molto più dalla perpetua, ad imitatione di quanto si è pratticato per le piazze de Notari e de Speciali con le immunità, esentioni et honorarij che si stabiliranno” (loc. cit., sub 9). Il consiglio fu seguito, vedremo a suo luogo con quali risultati (Cfr. paragrafo 71).

 

 

Fastidiosi alla libertà dell’industria e dei commercio erano coloro che per batter moneta avrebbero voluto creare una matricola”, ossia una corporazione per ogni mestiere od arte, e costringere gli artigiani tutti a procacciarsi una patente di “maestria”, fissando magari il numero dei maestri. Il pretesto era sempre lo stesso: “mantenere in perfettione le arti”, “impedire gli abusi e le frodi che si commettono dalli artigiani nell’esercitio delle luoro arti in grave pregiudicio dei commercio”, togliere di mezzo le manifatture imperfettissime”; ma lo scopo vero era uno: far pagare al fisco una finanza (A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 14, 15 e 31 e A. S. F. I a. Gabelle generali, M. II, n. 2, sotto: Dritto dei corami e pellatterie forestiere). Il proposito fu attuato per i soli farmacisti.

 

 

Più innocenti erano in apparenza altre proposte che miravano a far quattrini giovandosi della vanità umana; ma pure talvolta non erano senza inconvenienti. Poco avrebbe nociuto certamente il proposito di dare in Savoia una medaglia ai nobili, diversa secondo il loro titolo, da portare alla bottoniera, un’altra ai magistrati, di creare un registro della nobiltà, con un controllore per provincia, di nominare 100 gentiluomini nuovi. Tutto ciò mediante finanza, la quale dovea essere di 1000 ducatoni per ognuno dei 100 gentiluomini (A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 8, Moyens, ecc.). Ma non altrettanto innocuo era l’altro divisamento doc. cit., n. 14) di costituire un reggimento di 1000 nobili, i quali avrebbero pagato 3000 lire per entrarvi. Passi per il privilegio di fornire gli ufficiali alle truppe, il quale sanciva lo stato di cose esistente in allora in qualche reggimento; ma cosa dire dell’immunità dai carichi reali ordinari promessa ai ricevuti nel reggimento, al loro padre, ai figli e parenti con essi viventi, immunità il cui carico avrebbe dovuto cadere sul resto del registro comunale poteva sembrare pure innocua la proposta presentata da madama Anna Caterina De Lestan, torinese, in unione al signor Filippo Neri, e col parere del Padre Valfrè, “suo protettore”, di creare 100 cariche d’onore, da vendersi mediante la finanza di 1000 luigi d’oro ciascuna, le quali avrebbero dato diritto agli acquisitori di essere ammessi a corte ed in chiesa, di portar le armi di famiglia, di recar spada a piedi ed a cavallo, purché non esercitassero “arti bottegari”. Se i privilegi fossero finiti qui, poco male; ma gli acquisitori doveano andare esenti da tutte le imposte presenti e future sui beni acquistati dopo l’ottenimento delle cariche, dai cotizzi, alloggi e guardie; doveano avere 30 libbre di sale per famiglia al prezzo di favore di 1 soldo per libbra; la facoltà di ammazzare due bestie bovine e due maiali, di introdurre panni, merci e vino per uso proprio, nel modo stesso come i padri di 12 figlioli. Le case di loro abitazione doveano essere privilegiate, come quelle degli ambasciatori di corona; ed in esse avrebbero potuto trovare asilo gli inquisiti per debiti o per crimini, salvo i delitti di lesa maestà. Le suppliche presentate da costoro doveano subito essere decise, senza alcun indugio; e gli acquisitori avrebbero potuto fare una grazia all’anno ai condannati per delitti, salvo quelli di lesa maestà, col diritto di contrattare coi delinquenti il compenso per la salvezza loro offerta. Le cariche erano concesse col diritto della disponibilità, ossia nella nomina del successore, e non erano soggette ad ubena, sequestri, ecc. I privilegi parvero tanto enormi e così esiziali al buon andamento della giustizia che la proposta non fu accolta, malgrado che Madama Anna Caterina si industriasse a dimostrare la convenienza di popolare il paese di delinquenti o debitori insolventi forestieri, attratti dal diritto di asilo, e si contentasse di una percentuale di due soldi e mezzo per lira sulle somme guadagnate dal fisco con la sola invenzione[33]. Nella famiglia De Lestan la smania progettistica dovea essere innata se un altro dello stesso nome, già parecchie volte citato, proponeva nel 1711 di creare una compagnia di 100 donne sotto il nome di “cavagliere della Santissima Annunciata”, le quali doveano nelle funzioni venire subito dopo le principesse del sangue, avere una medaglia alla guisa dei cavalieri dell’ordine, portare un abito distinto, comprare ogni anno 50 libbre di sale ad 1 soldo la libbra, e liberare due criminali all’anno, qualunque fosse il delitto, salvo quello di lesa maesta. Stavolta il De Lestan, marito o figlio o parente, proponeva si facessero pagare 1000 doppie alle “cavagliere”, e si contentava del 2  per cento delle somme percepite dal fisco; ed anzi si offriva ad imprestare alle finanze 10 mila doppie, tanto era sicuro del buon esito della sua idea. Ma il Principe non la volle accettare, onde non fu possibile saggiarne la bontà[34].

 

 

39. – Far debiti e creare piazze e cariche spesso inutili o venderne di quelle esistenti tornava ad un dipresso al medesimo: poiché se volevansi abolire le cariche inutili o tornare al Principe la libera disponibilità di quelle necessarie, era pur d’uopo rimborsare agli investiti le solite pagate per il loro acquisto. A diminuire il carico dei debiti, gravoso sempre, gravosissimo in tempo di guerra, pensavasi da taluno di provvedere con disegni che con parole moderne chiamar si dovrebbero di conversione, libera o forzata, del debito pubblico.

 

 

A conversioni libere, ossia a proposte fatte ai capitalisti di consentire un interesse o provento minore dello stipulato quando non preferissero il rimborso del capitale, non era da pensare in tempi di torbidi politici e di gran ricerca di denaro da parte dello Stato. L’interesse corrente del danaro saliva di giorno in giorno, e non era il momento buono per invitare i creditori vecchi a contentarsi di redditi minori di quelli che offrivansi ai nuovi creditori. Tutt’al più potevasi discorrere di conversioni libere in quei pochi casi, in cui l’interesse fosse anticamente stato fissato in misura così esorbitante, da potere facilmente trovare danaro a prestito a tasso più mite. Così ritenevasi da taluni che essendo le cariche di tesoriere provinciale inutili, si sarebbero potute abolire, restituendo ai titolari la finanza sborsata e calcolata in 100 lire per ogni 10 di stipendio. Siccome poco dopo il 1700 il danaro poteva trovarsi a mutuo al 5%, il fisco avrebbe lucrato la metà degli stipendi pagati ai tesorieri. In fondo, se si passa sopra alla forma della vendita della carica, era sostituire un debito al 5 ad altro conchiuso al 10 per cento[35].

 

 

Era pure un progetto di conversione libera quella che progettavasi nel 1712 a danni del principe di Carignano. Al quale eransi, fra l’altro, assegnati in appannaggio 4060 scudi d’oro sopra l’imbottato, con riserva del riscatto perpetuo al fisco mediante il pagamento di 58 mila scudi, e altri 6000 ducatoni sul sale e sui tassi, colla riserva del riscatto in ducatoni 85.714 2/7. Facendo il ragguaglio dell’interesse annuo al capitale corrispondente, si ha che il fisco pagava in ragione del 7%; sicché, ove si fosse intimato il pagamento dei capitali, facilmente il principe di Carignano avrebbe consentito a ricevere solo il 5%, con un guadagno per le finanze di L. 17.277 all’anno[36].

 

 

Ma eran codesti piccoli lucri e di scarso aiuto nelle contingenze di guerra. Maggiori vantaggi aspettavansi dalle conversioni forzate. Una se n’era proposta, non per i debiti dello Stato, ma per quelli delle città e comunità, i cui creditori aveano bensì diritto di riscuotere il 5 o 6 per cento all’anno d’interesse; ma per le cattive condizioni finanziarie degli enti debitori “disperano l’esattione od almeno esigono poco”. Offransi a questi creditori dei monti a debito dello Stato al 3%; essi saranno più sicuri e le comunità vedranno diminuito il peso dei debiti, e, se ciò non bastasse a permettere il puntual pagamento degli interessi, si potrebbe concedere alle comunità il diritto di mettere qualche nuovo lodabile imposto”. Con questa operazione di credito comunale, lo Stato nulla lucrava, fuor di trovarsi di fronte a comunità più forti e per conseguenza più abili a pagar le imposte reali[37]. Avrebbe invece lucrato assai se avesse dato ascolto a chi gli consigliava di ridurre al 3% l’interesse di tutte le alienazioni di fuogaggi, tassi, gabelle ed altri redditi demaniali[38]. Né pare che l’intenzione di mettere in opera un sì bel divisamento di parziale bancarotta mancasse del tutto fra i governanti, se nelle carte d’archivio si può leggere un dettagliato studio statistico su tutte le alienazioni compiute sino all’1 luglio 1702 dei diverbi redditi demaniali (tasso, fuogaggi, gabelle, gabellette ed altri redditi), insieme col calcolo dell’interesse che allora si pagava e di quello minore che si sarebbe pagato se tutti gli interessi superiori al 3% fossero stati ridotti a quel limite massimo. I risultati dell’attento studio erano certo confortanti da un punto di vista meramente contabile: su un debito di L. 17.411.216.18.7 in capitale si pagavano all’anno L. 1.003.716.18.1 d’interessi, mentre colla riduzione forzata al 3% se ne sarebbero pagate solo L. 708.980.7.2, con un risparmio di L. 204.736.10.11[39].

 

 

Era certo una cospicua somma; ma i nostri governanti seppero sia detto a loro lode – resistere alla tentazione di scemar le spese pubbliche riaprendo la serie dei fallimenti che in altri tempi erano stati consueti da noi, ed erano allora non ignoti a certuni fra i maggiori Stati d’Italia e d’Europa. Si preferì serbar fede ai creditori; ed anzi non si volle neppure adottare l’espediente escogitato nella guerra del 1690-96 del l’imposta straordinaria di guerra sugli interessi del debito pubblico (sesta e doppia sesta de’ censi e 55 soldi per ogni scuto d’oro di tasso). Gli interessi furono sempre integralmente pagati, se bene talvolta con qualche ritardo; né si tardò o saggiare la bontà della via prescelta, quando si vide la prontezza con la quale i privati rispondevano, massime sugli inizi, quando i capitali ancora abbondavano, agli appelli al credito pubblico lanciati dalle finanze.

 

 



[1]Durante la guerra di successione spagnuola si imposero la macina in “Piemonte” e la gabella del tabacco in Nizza ed Oneglia. Ma la macina reputavasi una capitazione ed era usitata da un pezzo in tempi di guerra; e, quant’al tabacco, l’intento principale della sua estenzione ai paesi marittimi era di difender meglio la privativa piemontese dal contrabbando.

[2]A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. %. Riflessi per il Real Servitio. Che sian stati scritti intorno al 1700 appare, oltreché dalla collocazione fra le carte d’archivio, dal riferimento a cifre di bilancio che erano appunto quelle che abbiamo potuto verificare in quel principio di secolo.

[3]A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 2. Lo scrittore si firma “Humil servo ch’in Guerra e nella Pace sempre sensi gli [a S. A. R.] offrì d’amor verace”.

[4]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 8. Memoria in forma di progetto di varii mezzi, che si ponno pratticare massime in tempi d’urgenze per aumentano le Regie Finanze.

[5]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 5. Mezzi con quali si spera di poter andar supplendo alle urgenze del Bilancio.

[6]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 13. Propositione di far esigere dalla Tesoreria generale di Tasse che annualmente s’assegna a Creditori del Bilancio.

[7]Vi sono città e comunità, ed es., Chieti, Saluzzo e Mondovì, che in fine di luglio ricevono “sino a 20, 30 e più ingiontioni (di pagare il tasso assegnato a diversi creditori) in un medemo tempo, quali portano di spesa per caduna Lire 2 che conviene si paghino senza remissione, né ritardo; indi dopo spirato il breve termine portato da esse et non fatto il pagamento dei due primi quartieri, il primo giorno dopo spirata l’ingiontione si porta il Delegato o sij Commissaro di cadun Assignataro con l’instante et alle volte fameglia di Giustitia sopra il luogo ingionto, tutti alle spese di quel provero Luogo, senza ritardo, che non si sia fatto altro raccolto, che quello della seta, che, se le mensate del sussidio maturano per sfugire spese maggiori; onde non havendo più altro denaro in pronto, si sforzano di sodisfare, alla meglio che si può, le spese delli Delegati, Commissari et Instanti, rilevando alle volte più le spese che il terzo del Capitale; e per pratica s’è osservato che hanno scosso più li Delegati et Commissari per loro spese che l’Assignatario”.

[8]Cfr. sotto Capo IV, paragrafo 66.

[9]A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 8.

[10]A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 14. Progetto universale sopra tutti gli affari Economici, con li modi per ricavar finanze in diverse maniere. Il Progetto fu rimesso il 26 novembre 1702.

[11]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 21. Progetto (del 1703) delli Pinchieroglio e Guinzati per fatto della Cera che si fabbrica.

[12]S. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 11. Partito dell’Ebreo Moise Jona per lo stabilimento d’una Gabella sopra li fieni. Altro per Gabella su bigatti e fornelletti da seta.

[13]Ve n’è uno del 28 aprile 1698 in A. S. F. 1 a. Importi straordinari et antichi, M. 1, n. 6; ed un altro del 6 aprile 1702 in A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 15.

[14]A. S. F. 1 a. Dogana, Daciti, Pedatti, Tratta Foranea ed Ancoraggio, M. 1, n. 8. Progetto (del 1704) per l’estinzione dei Pedaggi con far pagare delle Comunità a rata di tasso e da Trafficanti secondo le loro possibilità una finanza. Come inizio di attuazione del concetto esposto dal Violetta può essere considerata la nomina con R. B. dell’8 marzo 1709 della commissione per lo studio della riforma daziaria, di cui si tenne discorso sopra nel Capitolo 1, par. 5.

[15]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 9, Propositione per l’esazione d’un semestre dagl’affittovoli delle Case di Torino negli emergenti presenti di guerra. Senza data; ma probabilmente appartiene al periodo nostro, e forse è dal 1706.

[16]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 15.

[17]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 14 e 15. Laddove nel seguito del presente capitolo si rimanda senz’altro, nel testo, alle fonti colla semplice indicazione loc. cit., si intenda fatto il richiamo ad A. S. M. E. Finanze, M. 4.

[18]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 20 (del 1703).

[19]A. S. F. I a. Operato nei tempi di guerra, M. 1, n. 2, Progetti per cavar dinari in servizio delle R. Finanze nelle urgenze presenti. Il progetto Lattes è del 1704.

[20]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 25. Progetto del Capitano Raviolati per un importo sopra le case. Il Raviolati, che avea già prima presentato altri progetti, deve aveva compilato questo intorno al 1713. Egli calcola 21 città provinciale con 1000 case l’una del valore medio di 4000 lire, onde per 21.000 case un valore capitale di 84 milioni di lire; e 1971 altre città e terre a case 150 l’una del valore di 500 in media, e così per 284.150 case 146.575.750 lire di valor capitale. In tutto il valore capitale delle case degli Stati savoriardi verso il 1713 sarebbe stato di circa 230 milioni di lire piemontesi; sulla qual somma il premio di assicurazione di 4 soldi per lira avrebbe dato appunto il reddito annuo di 563.320 lire. Inutile dire che, a nostro avviso, i calcoli del Raviolati sono parecchio esagerati. Vendemmo sopra calcolarsi le case del Piemonte, senza Torino, a 25 milioni di lire da un anonimo. Il Piemonte era la parte più ricca e più estesa dello Stato, e non è presumubile che le sue case valessero solo un decimo circa di quelle di tutto lo Stato.

[21]A. S. M. E. Finanze, n. 25, Proprositione di tre partiti alle Finanze. Già dicemmo (sopra par. 21) di un contributo istituito dal marchese di Caraglio con ordine dell’11 giugno 1706, per l’olio delle interne pubbliche poste nella città di Torino, che arieggia alla proposta dell’anonimo. Ma il contribuente del 1706 era pagato in natura ed aveva indole straordinaria in occasione dell’assedio di Torino.

[22]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 31. Diverse propositioni del Lestan per avvantaggiare le Finanze. La memoria è del 4 novembre 1699; e non passò inosservata, se in quel cibreo intitolato: Ristretto di diversi progetti da attuarsi in tempo di Pace e di Guerra per ricavar denari, il quale porta la data del 6 aprile 1702, fra le altre proposte è ricordato il progetto di “mantenere la polizia nelle Città in gran vantaggio della Sanità Comune con fissare un numero de’ Carrettoni da pagarsi dalle Finanze per esportar le immondizie”, progetto che dovea rendere appunto L. 292.900 (Cfr. loc. cit., n. 15).

[23]A. S. F. 1 a. Annona, Comporto Grani e Diritto di Macina, M. 1, n. 7, Progetto per mantenere nello Stato il prezzo delle granaglie ragionevole anche in tempo di guerra. È del 1704.

[24]Cfr. Cap. M, par. 18.

[25]A. S. F. 1 a. Operato ne’ tempi di guerra, M. 1, n. 2, Progetto per cavar dinari in servizio delle Reggie Finanze nell’urgenze presenti.

[26]A. S. F. I a. Operato ne’ tempi di Guerra, M. I, n. 2. Il progetto è del 23 giugno 1704.

[27]Cfr. Capitolo IV, paragrafo 73 e 74.

[28]A. S. F. 1 a. Imposti straordinari et antichi, M. 1, n. 8. Progetto di rarij sudditi di S. A. R. per soccorrere in caso d’urgenze il R. Erario. Sul fascicolo è scritta la data del 1700; ma dal conteso la momeria appare certamente scritta durante un assedio sofferto dalla città di Torino, che non può essere altro da quello del 1706.

[29]Cfr. Capitolo IV, par. 74 e 75.

[30]A. S. F. I a. Operato ne’ tempi di Guerra, M. I, n. 1. Progetto e Calcolo per render le cariche di Magistratura et altre di Giustitia perpetue.

[31]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 13. Propositione (del 9 gennaio 1702) del Carl’Antonio Reinaldo per l’amplicazione di uno stabilimento di Piazze da Procuratori. Questo Reinaldo dovea essere uno stravagante. Egli narra che ad escogiatare i suo progetti erato stato mosso dalla notizia di una mancanza di fondo nel bilancio dell’anno di un milione e mezzo. Questa notizia “ha costituito in necessità la mia innata passione in promuovere degli avantaggij della Corona unitamente con quelli del Publico a logorarsi la mente per rinvenirne qualch’adeguato ripiego, come coll’aiuto Divino I(che mai manca a chi sinceramente opera) le riuscì di ritrovarlo col progetto dell’hospetale della Charità”. Era un altro suo strano progetto per ottenere senza fatica due milioni di lire; il quale non pare abbia avuto favorevole accoglienza se mentre egli “se n’attendeva l’ordine per l’attuatione” gli era invece “statta data nottitia dal Generale di Finanze essersene quella differita in altro tempo per degne cause (che si stimano più tosto prettesti d’esaminatori interessati che cause di giustizia e Politica di Stato)”. Deluso, ma non scoraggiato, torna all’assalto col progetto dei procuratori esaminato nel testo.

[32]A. S. M. E. Finanze, M. 4, 3. Memoria per fissare l’officio di segretario d’ogni comunità del Piemonte con pagamento di Finanza. È del 7 luglio 1700.

[33]A. S. F. 1 a. Cariche ed Impieghi Regi, M. 1, n. 10, 1706-708. Progetto per la creazione di 100 Cariche d’onere da vendersi mediante Finanza. Non era certo quel Principe che con l’editto del 28 dicembre 1702 avrà voluto abolire il diritto spettante a diverse persone e corpi di indicare ogni anno uno o più banditi alla grazia sovrana, il quale mediante finanza si sarebbe deciso a ripristinare l’odioso e pernicioso privilegio.

[34]A. S. F. 1 a. Relazioni a S. M. M. 1, n. 3.

[35]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 5. Mezzi con quali si spera di andar supplendo alle urgenze del Bilancio di quest’anno e del venturo.

[36]A. S. F. 1 a. Alienazione Demanio, M. 1, hn. 4. Scrutinio sopra diverse alienationi, assegnationi, pensioni e proventi a carico finanze.

[37]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 14.

[38]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 15.

[39]A. S. M. E. Demanio, Donativi e Sussidij, M. 4, n. 17. Ricavo delle alienazioni seguite sovra li redditi demaniali.

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