Opera Omnia Luigi Einaudi

I punti essenziali della riforma tributaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 30/12/1923

I punti essenziali della riforma tributaria

«Corriere della Sera», 30 dicembre 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 522-526

 

 

 

La riforma dei tributi diretti deliberata dall’ultimo consiglio dei ministri ha per i contribuenti un significato che io vorrei riassumere in questa maniera: invece di ricevere dal 10 gennaio 1925 in poi una filza di avvisi di pagamenti per imposte svariate, addizionali, centesimi di guerra, complementari, dirigenti ed amministratori, con aliquote incomprensibili ed inverosimili, dell’80, del 100, del 150%, il contribuente tornerà a rivedere l’antico avviso tripartito: terreni, fabbricati, ricchezza mobile, con aliquote ragionevoli ed uniformi per tutti i redditi; e, al disopra di queste tre fondamentali, una sola imposta progressiva sul reddito totale, con aliquote dall’1 al 10%.

 

 

Questa la visione in blocco. particolari sono molti e fa d’uopo in questo articolo riassuntivo farne una scelta. Le difficoltà che si erano parate dinanzi ai valentuomini, Meda, Tedesco, Soleri, che avevano anch’essi recentemente apparecchiato o decretato la riforma dei tributi diretti, erano due: la prima era la mancanza di accertamenti adeguati dei redditi, la seconda lo spirito demagogico che spingeva le aliquote verso l’alto.

 

 

Come tassare in primo luogo equamente il reddito complessivo del contribuente, quando erano ignoti i redditi singoli di cui quel totale si componeva De Stefani ha avuto ragione di cominciare a costruire dalle basi. Per i terreni, ha ordinato la revisione dei redditi catastali dominicali e la tassazione dei redditi agrari degli esercenti l’industria agricola; per la ricchezza mobile sta spingendo alacremente le revisioni dei redditi singoli ed i nuovi accertamenti. L’opera iniziata prosegue, non giova nasconderlo, tra il terrore dei contribuenti. Quelli fondiari temono che il reddito imponibile dominicale venga raddoppiato in cifre auree e il prodotto moltiplicato poi per quattro, per tradurlo in lire-carta; sicché aggiungendovi i redditi «agrari» essi finiranno per pagare nel 1925 imposta su cifre decuple dell’ante-guerra. Se a ciò si arriverà, sarà un evidente errore, perché i redditi complessivi, fondiari ed agrari, si sono in media moltiplicati per quattro, non mai per dieci. I contribuenti mobiliari allibiscono dinanzi ai funzionari, che, dopo aver chiesto l’imposta su 100.000 lire invece che su 3.000, li invitano, se non possono altrimenti pagarla, ad aumentare i prezzi ai clienti. Ma io sono persuaso che il terrore è più forte del necessario, perché certamente ministro e direttore generale interverranno con energia ed a tempo sia per fissare aliquote temperate, sia per ordinare moderazione negli accertamenti e ritorno all’antica massima che i redditi non sono quali li desidera il contribuente, ma quali possono essere in relazione ai costi ed ai prezzi che il mercato fissa e non la volontà delle parti. Che così sarà, è arra il sistema che il ministro ha seguito per i fabbricati. Riconosciuta impossibile, come qui si era dimostrato, la revisione definitiva dei redditi, in un momento di libertà arbitrata e di prezzi incerti, si è preferito aumentare automaticamente i redditi del 300% per i fabbricati il cui reddito era stato valutato in più antica epoca (1891-1910) e via via del 250, del 150 e del 50%, per i redditi valutati in seguito. Poiché le sovrimposte rimarranno «bloccate», aumenterà soltanto la imposta di stato, la cui aliquota viene però ridotta per tutti a circa il 16%. È un espediente imperfetto; ma, essendo corretto dalla facoltà di ricorso del contribuente, ove il reddito così calcolato risulti superiore all’effettivo, è forse il meglio che si poteva fare oggi.

 

 

La novità più grossa è la istituzione della imposta complementare progressiva sul reddito. Nelle grandi linee segue il progetto Meda; ma ne differisce in importanti particolari. Dico subito che la differenza maggiore sta nella moderazione delle aliquote che andavano, secondo Meda, dall’1% per il reddito imponibile di 600 lire al 25% per il reddito da 500.000 lire in su; e vanno, secondo De Stefani, dall’1% per il reddito di lire 3.000 al 10% per i redditi da 1 milione di lire in su. Sono esenti i redditi netti fino a 600 lire; e dal reddito netto si detrae un ventesimo per ogni componente a carico, con un massimo di lire tremila.

 

 

L’imposta è strettamente personale e quindi le società e gli enti morali sono liberati dal pagamento di quella pseudo – imposta che oggi correva sotto il nome di imposta complementare sui redditi superiori a 10.000 lire. Solo le persone fisiche pagheranno la complementare sul complesso dei loro redditi, sia quelli risultanti dai ruoli delle tre imposte dirette, sia gli altri che essi possedessero e che fossero esenti dalle imposte medesime. Non è conservata la tassazione delle plusvalenze patrimoniali, che era una invenzione terroristica con cui si voleva considerare reddito ciò che in realtà oggi sarebbe un semplice spostamento del nome monetario del patrimonio posseduto.

 

 

L’imposta nuova colpisce, come è ragionevole, i redditi annui, i frutti del capitale e del lavoro, non l’albero da cui deriva il frutto. Anzi, per non sovraccaricare troppo i contribuenti col pagamento contemporaneo di due imposte aventi la stessa natura, e nel tempo stesso per incoraggiare i contribuenti al riscatto della patrimoniale, è concessa una speciale detrazione dal reddito imponibile a coloro che hanno riscattato o riscatteranno entro un dato termine l’imposta patrimoniale. Ciò vuol dire che chi ha riscattato o riscatta l’imposta patrimoniale su un patrimonio di 100.000 lire avrà diritto di detrarre per tre anni dal proprio reddito, ai fini della patrimoniale, parte del reddito delle 100.000 lire. Il che mi pare assai equo provvedimento.

 

 

La moderazione delle aliquote ha consentito all’on. De Stefani di non porsi in tutta la sua angosciosità il problema capitale delle imposte personali progressive: la tassazione dei titoli al portatore. È noto che le imposte a base costante, sempre 10, o 20, o 30%, non hanno bisogno di preoccuparsi se il titolo sia al nome o al portatore. Il titolo paga sempre il 10 o il 20 o il 30% all’origine, per ritenuta o presso l’ente (comune o società) che lo ha emesso e paga interessi o dividendi. Nessun titolo al portatore, che il legislatore per sue mire speciali non abbia esentato, sfugge all’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Non così per le imposte personali e progressive. Bisogna conoscere il reddito totale di Tizio per sapere se egli deve essere tassato coll’1 o col 5 o col 10%. Se i redditi risultano dai ruoli, o se nascono da titoli nominativi, Tizio li denuncerà, perché, se anche non li denunciasse, la bugia avrebbe le gambe corte ed egli sarebbe subito colpito da multa. Come indurlo però a denunciare il reddito dei titoli al portatore? Ad uno ad uno, i sistemi escogitati furono lasciati cadere: da quello ingegnoso del progetto Meda alla nominatività dei titoli: tutti furono ritenuti troppo complicati o dannosi alla economia nazionale.

 

 

L’on. De Stefani ha risoluto in parte il problema, giovandosi di un istituto esistente, il quale sinora non aveva potuto dare i suoi frutti: voglio accennare alla imposta del 15% sui dividendi ed interessi dei titoli al portatore non emessi dallo stato. L’imposta non era stata operativa fin qui, perché essa doveva servire a troppi padroni: imposta successoria, patrimoniale e complementare sui redditi, ognuna applicata o progettata con aliquote pazzesche. Si capisce che il contribuente non di rado preferisse pagare il 15%, e tenersi il titolo al portatore, piuttostoché essere assassinato dalle altre imposte. Adesso invece, la successoria è stata abolita nel gruppo familiare e la patrimoniale, col riscatto facilitato, si avvia verso la scomparsa. Resta solo la nuova complementare sui redditi, la quale andrà dall’1 al 10%. È chiaro che la trattenuta del 15% sui titoli al portatore funzionerà in pieno. Non ci sarà più nessuno il quale abbia interesse a conservare il titolo al portatore: pagherà il 15%, ossia di più del massimo (10%) che pagherebbe se lo mettesse al nome ed egli avesse un milione di reddito all’anno e più.

 

 

Perché il problema possa ritenersi perfettamente risoluto manca in primo luogo una dichiarazione che esenti senz’altro i possessori di titoli al portatore dall’obbligo di farne dichiarazione. Altrimenti essi saranno battuti col 15% e bastonati in aggiunta, se denunciano, colla complementare. È vero che la denuncia sarebbe necessaria per calcolare il reddito totale ed applicare l’aliquota giusta; ma tra il provocare dichiarazioni false ed il contentarsi di una dichiarazione parziale compensata dall’aliquota più che massima sulla parte esclusa preferisco la seconda alternativa, che non reca ingiusto danno ai galantuomini.

 

 

Manca alla perfezione un secondo fattore: come includere nella tassazione i titoli al portatore di stato? Questi non sono soggetti al 15% e possono non essere denunciati per la complementare. Il problema è spinoso e forse insolubile. Lo stato ha interesse a guardare non alla perfezione tributaria, ma al proprio vantaggio. Può darsi che oggi convenga allo stato rassegnarsi a dichiarazioni di reddito parziali, pur di vedere accreditarsi i suoi titoli; e convertirli a poco a poco, prima, alla scadenza, i buoni del tesoro, e poi, a suo tempo, i consolidati, ad un saggio minore di interesse. In fondo, la conversione libera, col consenso dei portatori, dal 5 al 4,50% è più fruttuosa e gloriosa di un’imposta. C’era, in verità, un metodo il quale avrebbe consentito di fare a meno di nominatività, di 15% e di denunce parziali; ed era la tassazione del reddito consumato.

 

 

Sono dodici anni oramai che scrivo in difesa del nome e della cosa; ed oggi ho la soddisfazione di vedere concretati in una legge il nome e la cosa. Trattandosi di uno sperimento, l’on. De Stefani ha voluto tuttavia introdurre l’imposta sul reddito consumato come istituto facoltativo riservato ai grandi comuni. Un’altra volta, quando avrò potuto studiarne meglio il congegno, ne tratterò di proposito.

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